TOMMASO DI SASSO
Nulla si conosce della vita di questo rimatore, se non la sua origine messinese, come riportano entrambi i testimoni manoscritti delle sue due canzoni, il Vaticano Latino 3793 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana) e il Laurenziano Rediano 9 (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana). Difficile anche metterlo in relazione con gli altri messinesi (Guido delle Colonne, Odo delle Colonne, Mazzeo di Ricco, Stefano Protonotaro) a costituire una Scuola messinese all'interno della più ampia Scuola poetica siciliana (v.). Difficile per non dire impossibile, data l'assenza quasi totale di dati 'interni' nella poesia federiciana, ogni tentativo di datazione relativa. Se tuttavia la disposizione dei poeti nel canzoniere Vaticano rispecchia, come è stato varie volte ipotizzato, un'anche approssimativa cronologia, T. andrebbe annoverato tra i più antichi della Scuola siciliana. Un'impressione di 'arcaicità' è data in effetti dalle due canzoni che i manoscritti gli attribuiscono, D'amoroso paese e L'amoroso vedere.
D'amoroso paese è una canzone di cinque stanze singulars di dodici versi, a schema irregolare, sirma variabile (nelle stanze I e V una rima della fronte è ripetuta nella sirma) e rima irrelata finale. Vari interpreti hanno messo in rilievo la relazione tra "struttura metrica 'irregolare' e tema della canzone" (Antonelli, 1978, pp. 179-180, e prima G. Contini in Poeti del Duecento, 1960, p. 91). Ancora più decisamente Furio Brugnolo parla di "voluti squilibri della forma metrica" e sottolinea come "non a caso le citazioni dal Notaro rinviano principalmente al discordo Dal core mi vene" (1995, p. 297). In realtà non c'è dubbio che la canzone si presenti in maniera metricamente atipica, a cominciare, come già rilevato da Contini, dalla mancata distinzione grafica tra fronte e sirma nei manoscritti. Le 'irregolarità' metriche trovano corrispondenza nel tema della "folle natura" d'Amore e dei suoi effetti sull'innamorato, che è quello che prelude al disordine metrico del descort occitanico e del di-scordo siciliano; la prima stanza della canzone insiste infatti sulla natura ossessiva del pensiero amoroso ("ch'io non saccio altro fare, / se nom penzare", vv. 7-8) e sull'angoscioso interrogarsi intorno alla natura d'amore, forse anche nei termini medici della 'malattia d'amore' ("e son divenuto paccio troppo amando / e moro considerando / che sia l'Amore, che tanto m'allaccia: / non trovo chi lo saccia, ond'io mi schianto, / ch'è vicino di mortte, / crudel e fortte mal che nonn-à nommo, / che mai no lo pote ommo ben guerire", vv. 15-21), sino alla potente conclusione ("Bene ameragio, ma ben saver voria / che fera sengnoria mi facie amare, / che gran follia mi pare omo inorare a ssì folle sengnore / c'a lo suo servidore non si mostra", vv. 56-60) che ritorna sul tormentoso interrogarsi intorno alla misteriosa natura di Amore; si riprende qui a distanza il problema della nominazione di amore-malattia dei vv. 16-18 e lo si ribadisce, inserendolo probabilmente in un dibattito interno alla rimeria federiciana circa la natura d'Amore, 'sostanza' o 'accidente', come quello che intercorse tra Giacomo da Lentini e l'Abate di Tivoli, e ancora Giacomo, Jacopo Mostacci e Pier della Vigna. Il signore che non degna di mostrarsi è certamente Amore, ma T. usa nella fattispecie una metafora che proviene dalla trattatistica sul comportamento curiale, e in concreto circa il modo di comportarsi nei confronti di un signore che non si concede troppo ai suoi uomini di corte.
L'incipit di D'amoroso paese parrebbe instaurare un rapporto intertestuale con Troppo son dimorato di Giacomo da Lentini: "Troppo son dimorato / in lontano paese" (vv. 1-2; Giacomo da Lentini, Poesie, a cura di R. Antonelli, I, Roma 1979), ma l'eventuale rete di rimandi non pare procedere oltre, né T. dà segno di conoscere Trop ai estat di Perdigon (Les chansons de Perdigon, a cura di H.J. Chaytor, Paris 1926, pp. 8-11), con cui Troppo son dimorato è in stretto rapporto intertestuale (Fratta, 1996, pp. 47-48). L'influenza del Notaro appare comunque fortissima ma, più che di dialogo con un singolo componimento, la canzone di T. parrebbe costruita su una sorta di centonatura allusiva a vari luoghi lentiniani (Rapisarda, Tommaso di Sasso, in preparazione).
Alquanto problematica è l'interpretazione dell'altra canzone, L'amoroso vedere, di quattro stanze singulars di quattordici versi, a collegamento capcaudat le stanze I-II, sirma variabile in tutte le stanze e varie 'deroghe' a una presunta regolarità metrica. Il senso è nel complesso sufficientemente perspicuo, ma parecchi passaggi risultano di difficile comprensione. Parrebbe di intendere che l'amoroso vedere, cioè 'lo sguardo amoroso' che la donna rivolge al poeta, segni un riavvicinamento tra i due dopo un presumibile periodo di separazione o di raffreddamento del sentimento amoroso. L'amante prova dapprincipio un moto di entusiasmo (vv. 9-14) con conseguente invocazione di merzede, ma subito dopo, nella II stanza, è colto dal dubbio che quell'inconfondibile segnale di disponibilità (l'amoroso vedere appunto) nasconda in realtà la nostalgia per una condizione di asservimento mortificante e di prostrazione angosciosa che aveva contraddistinto il suo servizio amoroso. Seguono nella III e IV stanza invocazioni alla donna affinché ponga fine alla condizione di disperanza. Tuttavia parecchi versi della canzone risultano amfibologici o di ardua interpretazione, come 15-16, 23-25, 39-40 e 47-48, ed è difficile dire se ciò dipenda da guasti materiali del testo o dalla scelta di una obscuritas di tipo allusivo. Particolarmente tormentato il senso della strofe II: non si capisce bene chi sia il locutore, se l'uomo o la donna, e in che senso vada inteso null'altro mi potete fare, se nel senso di 'nulla di peggio' o di 'null'altro potete fare in mio favore'. Tra le lezioni di dubbia interpretazione un mi sperate al v. 38, da intendersi forse nel senso di 'mi fate sperare', dato che nella letteratura medica sul 'mal d'amore' è considerato assai nocivo sollecitare inutilmente la speranza dell'amante (come in Arnaldo da Villanova, Tractatus de amore heroico, IV, 8-11: "Cum igitur hec furia suique causa formalis sit intensa cogitatio super delectabile, hoc cum confidentia obtinendi, erit illi directe correctivum oppositum, non in hoc delectabili cogitare nec sperare nullo modo eius obtentum"), o da interpretare forse in 'mi guardate, mi irradiate', cioè 'mi uccidete se soltanto i vostri occhi mi guardano', come lo spera del sonetto di Giacomo da Lentini, Si come il sol: "così l'Amore fere la ove spera" (v. 5).
Lo stile di T. parrebbe contrassegnato dal gusto per un dettato aspro e difficile e per le metafore di tipo medico e 'scientifico': si noti ad esempio come il problema del rapporto tra guarigione e corretta diagnosi della malattia del 'malato d'amore' sia posto in letteratura medica e specialmente nella letteratura medica sull'amor hereos (cf. Arnaldo da Villanova, Tractatus de amore heroico, II, 9-23, ove amor è accidens e non morbus, ma amor hereos è nominato morbus e per essere guarito va nominato "convenienti nomine"). Lo stesso vale per le metafore 'scientifiche' del cristallo e del sale ai vv. 39-45 della stessa canzone: "quanto più son dolglioso, alegro paro, / e nom posso eser varo: / da poi che cristallo avene la neve, / isqualgliare mai non deve per rasgione. / Così eo che no rifino, / son poco mino divenuto, Amore [forse da emendarsi in amaro]: / agua per gran dimoro torna sale". 'Dopo che la neve diventa cristallo non può più squagliare per legge naturale. Così io che non smetto mai di amare, sono divenuto amaro: l'acqua di mare per lungo ristagno diventa sale'. È una metafora certamente non inedita (cf. Peire Vidal, Anc non mori [Peire Vidal, Poesie, a cura di d'A.S. Avalle, Milano-Napoli 1960]: "[…] quar de la freja nieu / nais lo cristals […]" [vv. 30-31], che ricorrerà più tardi nell'altro messinese Mazzeo di Ricco, Lo gran valore: "ché lo cristallo, poi ch'è ben gelato, / non pòi avere speranza / ch'ello potesse neve ritornare" [vv. 44-46] in cui la metafora ritorna), ma comunque abbastanza rara e allusiva alla teoria medievale dell'origine del cristallo dal ghiaccio (cf. per esempio il cosiddetto Lapidario Estense: "Cristallo è una petra clara e bianca. Et è aqua zellata in tropo fredo logo [...] "; Tomasoni, 1976, p. 152, nel cui prologo si richiama esplicitamente l'interesse di Federico II e dei suoi baroni per le virtù delle pietre). Quanto alla fenomenologia amorosa si alluderebbe in tal caso a quella che nella letteratura medica sul mal d'amore era definita congelatio, stato d'animo degli innamorati che "non sunt habiles ad recipiendum aliquid in se ipsis", e opposto al primo grado d'amore che è la liquefactio (cf. Il Canzoniere Vaticano Barberino latino 3953 [già Barb. XLV. 47], a cura di G. Lega, Bologna 1905). Nell'ambito del gusto per il poetare 'difficile' va ascritto anche il gusto di T. per le amfibologie, particolarmente numerose ne L'amoroso vedere: oltre al sopracitato mi sperate, si veda la stessa ambiguità contenuta nell'amoroso vedere del v. 1, ove non è chiaro se il poeta si riferisca allo sguardo della donna amata o alla visione di lei, se cioè il poeta sia oggetto o soggetto del vedere, o la bona spera dei vv. 54-56 ("che l'omo poi dispera / de la sua buona spera / e di amare veneli temenza"), ove buona spera ricalca l'occitanico bon esper ('buona speranza'), potrebbe anche intendersi nel senso astrale di 'buona stella' o 'buon pianeta', in entrambi i casi riprendendo lo sperate del v. 38.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793, L'amoroso vedere, cc. 4v-5r; D'amoroso paese, c. 5rv; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Laurenziano Rediano 9, L'amoroso vedere, c. 101c; D'amoroso paese, cc. 101d-102a. Per le edizioni di L'amoroso vedere: Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, pubblicate per cura di A. D'Ancona e D. Comparetti, I, Bologna 1875, p. 48; B. Panvini, La scuola poetica siciliana. Le canzoni dei rimatori nativi di Sicilia, Firenze 1955, pp. 91, 333; Id., Le rime della scuola siciliana, I, Introduzione, testo critico, note, ivi 1962, p. 67; Concordanze della lingua poetica italiana delle Origini (CLPIO), a cura di d'A.S. Avalle, Milano-Napoli 1992, pp. 175, 307; B. Panvini, Poeti siciliani della corte di Federico II, Napoli 1994, p. 113; S. Rapisarda, Tommaso di Sasso, in Corpus poetico siciliano, a cura di R. Coluccia-C. Di Girolamo, in preparazione. Le edizioni di D'amoroso paese: Le antiche rime volgari, p. 51; G. Lazzeri, Antologia dei primi secoli della letteratura italiana, Milano 1942, p. 682; C. Guerrieri Crocetti, La Magna Curia (La Scuola poetica siciliana), ivi 1947, p. 289; B. Panvini, La scuola poetica siciliana, pp. 95, 335; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, p. 91; B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, p. 69; Concordanze della lingua poetica, pp. 176, 308; B. Panvini, Poeti siciliani, p. 116; S. Rapisarda, Tommaso di Sasso. P. Tomasoni, Il 'Lapidario Estense'. Edizione e glossario, "Studi di Filologia Italiana", 34, 1976, pp. 131-186; Arnaldo da Villanova, Opera Medica Omnia, III, Deamoreheroico-Epistoladedosityriacaliummedicinarum, a cura di M.R. Mc Vaugh, Granada-Barcelona 1985. F. Scandone, Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana, Napoli 1904; B. Nardi, L'amore e i medici medievali, in Studi in onore di Angelo Monteverdi, II, Modena 1959, pp. 517-542; R. Antonelli, Ripetizione di rime, 'neutralizzazione' di rimemi?, "Medioevo Romanzo", 5, 1978, pp. 169-206; F. Brugnolo, La Scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, I, Dalle Origini a Dante, Roma 1995, pp. 265-337; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della scuola poetica siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996.