DIPLOVATAZIO (Diplovataccio), Tommaso
Nacque a Corfù il 25 marzo 1468, ultimo dei sette figli di Giorgio e Maria Lascaris, nobili greci ritenuti entrambi di discendenza imperiale. Il D. stesso prestò fede con convinzione alla leggenda di una propria discendenza dai Vatazi, imperatori di Bisanzio, che del resto non fu mai posta in dubbio dai contemporanei e resistette anche nelle memorie più tarde della famigha.
Alla caduta di Costantinopoli, mentre il cugino Costantino veniva ucciso nella difesa della città, Giorgio riuscì a scampare dapprima in un convento, poi nel feudo di Castro, sito nell'isola di Lenino. Occupata anche Lenino dai Turchi, nel 1457 cedette i propri diritti al legato papale dell'armata veneto-pontificia e riparò a Napoli, dove sposò Maria Lascaris, parente del celebre Costantino, il quale vi giunse nel 1465 al seguito di Ippolita Sforza, andata sposa ad Alfonso d'Aragona, figlio di Ferdinando I, duca di Calabria. Di qui, proseguendo nei dolorosi itinerari dell'emigrazione attraverso i centri della diaspora bizantina, si trasferì a Brindisi nel 1475. Due anni dopo i due figli maggiori, mentre si accingevano a raggiungerlo da Corfù, vennero catturati nell'Adriatico e tradotti a Costantinopoli. Per raccogliere l'ingente somma del riscatto richiesto, egli si recò con la famiglia a Messina, da Costantino Lascaris; quindi a Napoli, dove contava sull'appoggio della corte aragonese e dove lasciò la moglie con i figli sopravvissuti. Prosegui infatti per Roma nello stesso 1477, per impetrare l'aiuto di Sisto IV. Le sue tracce si perdono poi in Spagna, dove al servizio di Ferdinando II cadde durante l'assedio di Granada.
Il D. ricevette a Napoli la prinia educazione dal grammatico Carlo Sorrentino. Le fonti accennano pure a un insegnamento impartitogli dal Pontano, ma la notizia appare più verosimile se riferita allo sfondo di relazioni intrattenute dalla famiglia, anziché a uno specifico discepolato. Un tentativo di Costantino Lascaris di prenderlo presso di sé rimase senza esito, con la conseguenza che proprio la conoscenza del greco doveva poi fargli difetto. Intorno al 1480 si portò a Salerno, frequentando i corsi di diritto di Antonio da Croce, Nicola Capograsso e Carlo de Ruggine, e guadagnandosi la protezione del principe Antonello Sanseverino, che gli donò un manoscritto delle Istituzioni. In seguito al divieto sovrano di tenere scuole giuridiche al di fuori di Napoli, rinnovato nell'ottobre 1483, egli rientrò nella capitale, dove ascoltò le lezioni di Antonio Battimo e Francesco Bultini. Lo scarso frutto che poteva trarre dagli insegnanti dell'università fridericiana e, nel 1485, il trasferimento a Venezia della madre su invito degli Spandolini, suoi affini, stabilitisi con notevole fortuna nella città lagunare, lo indussero a iscriversi all'università di Padova, dove risulta dal 1486 al 1488.
Furono anni di intenso studio, sotto la guida di rinomati maestri del tardo commento, tra i quali diovanni Campeggi, Giason del Maino, Anton Francesco de' Dottori, Giambattista Sambiagi ed Antonio Corsetti, che più tardi, in viaggio per Roma, gli fece visita a Pesaro nel 1500 e gli donò il proprio scritto De potestate et excellentia regia. Nel 1488, non ancora laureato, tenne egli stesso, con vivo apprezzamento dei professori, un corso sulle Istituzioni.Dai successi accademici, cui sembrava avviato, il D. fu distolto nel 1489 dall'invito alla corte sforzesca di Pesaro, rivolto alla madre da Camilla d'Aragona, reggente del Ducato, e dalla nomina a vicario delle Appellazioni. La vantaggiosa sistemazione, che poneva fine alle difficoltà e alle peregrinazioni della famiglia, fu propiziata dai rapporti già stretti a Napoli con gli Aragona e dalla presenza a Pesaro di una nutrita comunità greca, nella quale primeggiava uno Spandolini, Sebastiano, poi incaricato come fiduciario del duca Giovanni delle trattative per il suo matrimonio con Ginevra Tiepolo.
Il D., tuttavia, non ricoprì subito l'ufficio assegnatogli. Proseguì per un anno gli studi nell'università di Perugia, alla scuola di Pietro degli Ubaldi iuniore, Pier Filippo Corneo e Baldo Novello. Di quel breve periodo sono ricordate anche sue pubbliche disputationes e repetitiones. Nel 1490 fece ritorno a Pesaro, dove si stabilì accrescendo via via i propri successi nella vita pubblica e le stesse fortune economiche. Ottenuto il dottorato il 13 agosto presso l'università di Ferrara, promotori Gian Maria Riminaldi e Niccolò Cagnaccini, affiancò all'attività di magistrato quella di consulente, di rilievo non di rado politico, tanto da suggerire più tardi il suo impiego in affari di governo e missioni diplomatiche. Nel 1492 ebbe la carica di fiscale di Camera, poi ricoperta fino al 1507; nel 1494 sposò Caterina della Corte, orfana di un ricco mercante e adottata da Francesco Becci, un patrizio di origine fiorentina, divenuto a Pesaro maggiordomo ed amico del principe. La cospicua dote di 4.000 ducati e Peredità della moglie, morta senza figli probabilmente nel 1510, seguita subito dopo da quella del Becci, per il quale aveva scritto anche alcuni consilia, gli conferirono un'agiatezza che gli consentì l'acquisto di case e di ville.
Frattanto venivano definendosi i suoi orientamenti intellettuali e scientifici, nutriti dagli studi giuridici compiuti alle scuole del tardo commento, ma anche dalle suggestioni della nuova cultura umanistica, che quelle stesse scuole già aveva preso ad attraversare e che trovava a Pesaro appoggi e incoraggiamenti, imprimendo un timbro caratteristico all'atmosfera di quella corte. E difatti cortigiana, nel senso rinascimentale di un sostanziale radicamento in un ambiente elitario e nel rapporto privilegiato col principe, fu non soltanto la sua carriera di funzionario e di "gentiluomo" del duca, ma anche la sua prospettiva di studioso e di giureconsulto. La stessa opera cui è legata la sua fama trasse occasione dalla vita di corte. L'impulso ad affrontare il tema della dignitas dei dottori gli venne infatti da un decreto ducale del Natale 1493, regolante l'ordine delle precedenze nelle circostanze ufficiali.
L'epoca di composizione del Tractatusde praestantia doctorum, i suoi temi essenziali e la loro successione in dodici libri (i primi otto non pervenutici; il nono, incompiuto, elaborato tra il 1500 ed il 1511, ma forse anche prima, e certo postillato poi a lungo; gli ultimi tre soltanto progettati) sono stati ricostruiti persuasivamente dal Kantorowicz, che ne ha posto in luce la relazione non solo con l'enciclopedismo tardoscolastico, ma anche con la contemporanea fortuna della "disputa delle arti" e delle scritture "de viris illustribus". Il libro nono infatti, intitolato De claris iurisconsultis (I, a cura di H. Kantorowicz e F. Schulz, Berlin-Leipzig 1919; Pars posterior, a cura di F. Schulz-H. Kantorowicz-G. Rabotti, in Studia Gratiana, X [1968]), disponeva in ordine cronologico brevi profili dei giureconsulti "gentili" (da Foroneo a Teodosio) e "cristiani" (da Giustiniano a Giorgio Natta; ma il manoscritto pervenutoci, Pesaro, Bibl. Oliveriana, Cod. Oliv. 203, termina con la Vita di Francesco Bultini).
Pur legato per molti versi alla cultura delle scuole medievali, esso rappresenta un documento significativo degli inizi dell'umanesimo giuridico, per la ricchezza d'informazioni erudite e le preoccupazioni d'ordine filologico dispiegate nell'esaminare le fonti. Il dato nuovo e caratteristico era costituito dall'impiego di metodi critici nei confronti della giurisprudenza dell'età intermedia, fino allora affidata a una tradizione confusa, dominata dalle ragioni dell'uso pratico e dalle circostanze del sovrapporsi disordinato di una produzione vastissima di scritti di natura assai varia, di dottrine e di interpretazioni aventi diversa origine e diversi scopi. Perciò proprio la parte medievalistica dell'opera ricevé l'attenzione di storici ed eruditi, a cominciare dalle prime notizie che ne circolarono tra i contemporanei, attraverso i recuperi settecenteschi, i riconoscimenti autorevoli di F. K. v. Savigny e J. F. v. Schulte, sino alle fatiche della moderna storiografia per fornirne l'edizione, per verificarne le indicazioni o per rintracciarne le fonti. Non senza ragione, dunque, la filologia storico-giuridica continua ancor oggi ad analizzare il testo del D. e più in generale la sua attività di editore, l'una e l'altra fondati su personali riscontri e su una biblioteca selezionatissima, che egli venne raccogliendo via via e che andò poi perduta, nonostante le preoccupazioni espresse nel suo testamento per sottrarla alla disgregazione. Oggetto al tempo stesso della sua passione collezionistica e strumento indispensabile del suo lavoro, essa riuniva testimonianze attendibili, spesso autografe od olografe, della produzione dei commentatori italiani.
Le ricerche che il D. andava compiendo e l'opera che aveva iniziato lo posero ben presto in contatto con i circoli dotti del tempo. A Pesaro si legò negli anni successivi con Alessandro Gaboardo e con Pandolfo Collenuccio, cui lo univano affinità di carriera e comuni interessi intellettuali. Forse da quest'ultimo ricevé la notizia del ritrovamento, a Roma nel 1494, del Breviarium Alaricianum; lo difese in giudizio e patrocinò poi i suoi figli dopo la sua uccisione. A differenza dello sfortunato amico, infatti, la posizione del D. non fu intaccata dai repentini mutamenti dinastici susseguitisi nel Ducato, il che ha posto non pochi interrogativi circa i suoi atteggiamenti politici. Vero è che essi furono ispirati, oltre che da una indubbia prudenza ed un sapiente calcolo delle opportunità, da una inclinazione cortigiana a orientare il proprio sapere verso il servizio dei principi e da una considerazione, giuridica e politica insieme, della sovranità della Chiesa sulle signorie marchigiane.
All'avvento di Cesare Borgia, che entrò in Pesaro nell'ottobre 1500 ed ebbe l'investitura del feudo nel luglio 1501, il D. fu nominato fiscale di Romagna. In tale veste stabilì rapporti assai stretti con il legato pontificio, Antonio Ciocchi (Del Monte) di Monte San Savino, e celebrò dei processi anche al di fuori della città, del cui Consiglio fu consulente. Il ritorno di Giovanni Sforza nel settembre 1503, due settimane dopo la morte di Alessandro VI, nonostante la vendetta del duca si abbattesse con durezza sui partigiani del Valentino, tra i quali il Collenuccio, non ne abbassò la fortuna. Egli infatti appare in diversi incarichi ufficiali, in particolare come ambasciatore a Mantova nel 1506 e l'anno dopo a Bologna, presso Giulio II. In tale occasione incontrò Ludovico Bolognini, con il quale conversò "in studio et libraria sancti Dominici et de pandectis et de aliis in iure nostro", tra cui delle origini dello Studio (Ascheri, p. 40).
Fin dal 1504, probabilmente, dopo l'investitura di Giovanni Sforza nel Ducato di Pesaro come vicario della Chiesa, il D. aveva scritto un perduto trattato De vicariis in temporalibus, id est Sacrosanctae Romanae Ecclesiae et Sancti Imperii. Nello stesso periodo, tra il 1504 e il 1508, pose mano ad un Chronicon Pisauri, conservatoci in una redazione autografa interrotta al 1357 (Pesaro, Bibl. Oliveriana, Cod. Oliv. 1422). L'opera, che intendeva tracciare le vicende della città dalla fondazione all'epoca contemporanea, collegava l'impianto cronachistico con un vetusto schema di storia universale, ma si avvaleva anche di indagini dirette su documenti e fonti archivistiche, alcune delle quali oggi perdute.
Nell'estate del 1507 si dimise dalla carica di fiscale, ed è dubbio se ciò dipendesse da una riorganizzazione amministrativa del Ducato o dal declino del suo favore a corte. Proseguì invece l'attività di consulente, in affari sia pubblici sia privati: egli stesso ricordò di essere stato consultato da Giulio II nel 1511, durante il viaggio del papa da Bologna a Roma attraverso Pesaro e Ancona, a proposito del concilio scismatico di Pisa, sul quale si era accesa una battaglia di scritture giuridiche tra i sostenitori degli opposti schieramenti. Lo stesso anno - il 17 luglio - sposò in seconde nozze Apollonia degli Angeli, anch'essa di nobile origine greca, figlia del medico di corte Agostino, il quale visse a lungo a Venezia circondato da grande considerazione, mentre due suoi figli s'illustrarono come professori di diritto nell'università di Padova.
Ma la situazione politica del Ducato si faceva incerta. Il 27 luglio 1510 moriva Giovanni Sforza e nell'agosto di due anni dopo anche il piccolo Costanzo II, per il quale aveva tenuto la reggenza lo zio Galeazzo. Per la sua condizione d'illegittimo, questi non riuscì ad ottenere l'investitura del feudo dal papa, che disegnava di unirlo ad Urbino sotto il nipote Francesco Maria Della Rovere. Nei difficili negoziati tentati allora dallo Sforza, s'inserì anche un'ambasceria del D. a Mantova, presso i Gonzaga. Nell'ottobre Pesaro fu riassorbita nel dominio diretto della Chiesa. Durante il solenne ingresso del luogotenente pontificio, Michele Claudio, prestarono il giuramento di fedeltà Camillo Sampierolo, dottore in legge, dal D. difeso in giudizio ai tempi del Valentino e poi ripetutamente vicino a lui nei convulsi frangenti di questi anni, e lo stesso D., che dal 25 agosto era entrato a far parte, in luogo di Francesco Becci, del Consiglio di credenza, il maggior organo di governo della città. Alle sue riunioni intervenne assiduamente sino al gennaio 1513, acquistandovi un ruolo di crescente spicco.
Il favore di Giulio II gli aveva infatti assicurato la carica di governatore di Gubbio, che rivestì per un anno, continuando a coltivare i suoi interessi scientifici, le sue relazioni intellettuali, e a raccogliere manoscritti giuridici rari, dei quali si sarebbe servito per le edizioni che meditava.
V'è notizia, ad esempio, di una visita fattagli da E. Ferretti, che gli donò un consilium di Bartolo, di manoscritti allora reperiti di Paolo di Castro e di Tindaro Alfani, mentre si conserva tuttora una sua preziosa raccolta di consilia concernenti Gubbio, in buona parte di Baldo (Pesaro, Bibl. Oliveriana, Cod. Oliv. 58).
Nel 1514 il D. rientrò a Pesaro. Come membro autorevole del Consiglio ristretto e rappresentante nel Consiglio largo per il quartiere di S.Niccolò (cui era stato eletto fin dal novembre 1503), partecipò intensamente al governo cittadino: tra i suoi primi atti fu il tentativo di guadagnare il Gaboardo per la cattedra pubblica di grammatica. Grazie alla buona intesa col nuovo signore, Francesco Maria Della Rovere, che mantenne con accortezza anche in anni più tardi e più incerti, fu designato ripetutamente a rappresentargli le esigenze della città. Presso di lui soggiornò a lungo ad Urbino, consultandovi la biblioteca e stringendo rapporti con i dotti di corte, tra i quali il Castiglione.
Tuttavia la stella del Della Rovere si andava offuscando. Non appena asceso al soglio, Leone X destinò la signoria marchigiana al nipote Lorenzo de' Medici. Il 31 maggio 1516 Francesco Maria abbandonò il Ducato, riparando a Mantova, donde cominciò a preparare un'azione militare. Pochi giorni dopo, prendendo la parola in Consiglio a proposito della redazione degli statuti, il D. argomentò, con sottigliezza giuridica, in favore della necessità di predisporre, oltre a un testo per il caso che Pesaro avesse un nuovo principe, un secondo per l'eventualità che ricadesse nel dominio diretto della Chiesa. A tale soluzione egli doveva di fatto inclinare, come si può dedurre anche da altri interventi, sebbene celasse con cura la sua tiepidezza verso Lorenzo. Del resto, egli mantenne salde relazioni col Della Rovere e lo assisté con un consiglio al momento del recupero di Pesaro.
Si addensavano intanto le minacce di guerra per il possesso della città. Perciò, preceduta da un soggiorno nell'estate del 1516, nel corso del quale incontrò l'umanista Gian Battista Cipelli, detto l'Egnazio, che poi ne scrisse una biografia (individuata e ripubblicata dal Feenstra), nel 1517 il D. maturò la decisione di trasferirsi a Venezia. Qui poté appoggiarsi a una rete influente di parentele - gli Spandolini, i Degli Angeli - e di amicizie, stabilite in precedenza o annodate via via in virtù di un'intensa operosità scientifica. Accanto all'esercizio dell'avvocatura, in cui risulta anche in collaborazione con Gerolarno Gigante. prese parte attivamente al lavoro critico e filologico degli umanisti e degli eruditi che si raccoglievano intorno alle fiorenti tipografie veneziane. Consigliere o dedicatario di significative edizioni, in alcune delle quali apparvero delle Vite di giuristi medievali scritte da lui, si dedicò egli stesso alla cura editoriale di opere giuridiche, realizzata attraverso pazienti ricerche, controlli severi, preziosi acquisti per la sua biblioteca. Nel 1518 pubblicò presso F. Pincio il De regulis iuris di Dino da Mugello, con una dedica al vescovo di Pola Altobello Averoldi. Sempre all'Averoldi dedicò la sua maggiore impresa in tale campo: l'edizione annotata di Bartolo, i cui Commentaria al Digesto e al Codice furono impressi da Battista de Tortis nel 1520; i Consilia, quaestiones et tractatus, con una epistola dedicatoria a Iacopo Pesaro, dallo stesso de Tortis nel 1530, al quale aveva affidato frattanto, nel 1521, l'edizione annotata dei Commentaria al Digesto e al Codice di Alessandro Tartagni, introdotti da una dedica ad Antonio Contarini e da una Vita dell'autore. È dubbio invece che il D. abbia mai curato l'opera di Giason del Maino.
Tali edizioni rivestono grande importanza sia per la tradizione dei testi, sia per la storia letteraria della giurisprudenza medievale. Le numerose additiones fornivano infatti elementi di attribuzione e notizie criticamente vagliate sulla produzione dei commentatori, spesso più precise e sicure che nel Liber de claris iurisconsultis. Considerate a lungo per buona parte perdute, solo la storiografia recente ha potuto rintracciarne gli esemplari rarissimi ed avviarne lo studio diretto, senza più accontentarsi di scoprirne le parti mancanti nelle appropriazioni e nei rimaneggiamenti di cui furono oggetto già nel corso del Cinquecento.
Nella assidua frequentazione degli ambienti intellettuali, ecclesiastici e patrizi della Repubblica, il D. venne altresì maturando l'idea di affrontare, con un lavoro di solida erudizione, il problema della "libertà" di Venezia, delle sue origini e dei suoi fondamenti, dei suoi diritti sulle terre soggette.
Con ciò si inseriva in una vicenda culturale e politica di rilievo nella storia dell'umanesimo veneziano. Infatti proprio in quegli anni, segnati dal lento ristabilimento della vita civile dopo l'esperienza traumatica di Agnadello, la questione di una "pubblica storiografia", destinata a tessere l'elogio della Serenissima secondo esigenze propagandistiche in armonia con la nuova cultura, risultava irrisolta e suscitava le preoccupazioni dei gruppi dominanti. Ne era stato incaricato inutilmente Gregorio Amaseo, compagno di studi a Padova del D.; vi aveva pensato l'amico Egnazio; vi attendeva dal 1516, senza risultato, Andrea Navagero.
Perciò, cogliendo con tempestività l'occasione di porsi in luce con la propria dottrina storica e giuridica, il D. diede avvio, sin dagli inizi del suo soggiorno sulla laguna, ad un'opera sulla sovranità dello Stato veneziano - la città, il dominio di Levante e di Terraferma, il "golfo" Adriatico-, basandosi su un esame, di ampiezza fino allora intentata, di antiche fonti e documenti giuridici e diplomatici. Ne derivarono due distinte scritture: una redazione della prima, il Tractatus de Venetate urbis libertate et eiusdem Imperii dignitate et privilegiis (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Cod. Lat. XIV, 77 [= 2991]), preparata a partire dal 1521 e dedicata al doge Andrea Gritti, fu sottoposta ai primi di settembre del 1522 al Consiglio dei dieci per ottenerne un compenso, che fu poi accordato nel luglio 1524, dopo un esame dell'opera condotto l'anno prima da quattro commissari. L'esecuzione di una copia per conto dei Dieci (ibid., Cod. Lat. XIV, 74 [= 4056]) si protrasse fino al 1528. Nella parte conclusiva, questa conteneva un'intera sezione dell'altra scrittura, inc. De potentissima Venetiarum urbe deque etiam civitatibus insulis et locis illustrissimo dominio subiectis (ibid., Cod. Lat. XIV, 75 [= 4529]), Cui l'autore lavorò certamente dal 1524 al 1527, tuttavia senza completarla.
In realtà, entrambi i testi devono considerarsi sostanzialmente incompiuti. Postille, aggiunte e rimandi reciproci testimoniano di un'elaborazione intrecciata e in parte provvisoria, che i manoscritti conservati, con altri documenti, consentono di ricostruire con precisione. Tuttavia, mentre il secondo rimase allo stato poco più che di abbozzo, il primo raggiunse comunque una sistemazione che ne consentì la consegna e la conservazione "presso il Cancellier grando". Il progetto che ispirava l'opera - di offrire un repertorio di documenti "autentici", e perciò affidato agli organi di governo; uno strumento per l'uso, di facile e rapida consultazione, e perciò fornito di tabulae che ne agevolassero l'utilizzazione ai fini specifici dell'azione politico-diplomatica in occasione di eventuali controversie - la collocava da un lato sotto il segno di una matrice giuridica, dall'altro nell'alveo della tradizione cronachistica veneziana. Ma il ricorso agli originali, purgati dalle favole del Medioevo, l'allargamento deciso delle fonti utilizzate, della stessa nozione di "fonte", ed il modo di porsi il problema della loro attendibilità, appartenevano già alle ricerche, in cui la giurisprudenza umanistica ebbe un ruolo centrale, che in tutta Europa stavano costruendo le basi per una moderna storiografia e per una nuova erudizione giuridico-diplomatica. Tuttavia non era più tempo di affidare alla evidenza di prove giuridiche il prestigio e la forza della Repubblica, l'argomentazione della sua sovranità e la difesa del suo dominio. Nel quadro politico e culturale del Cinquecento inoltrato, il lavoro del D. parve a molti privo di quella "elegantia et eloquentia" necessaria per celebrare lo Stato veneziano, per contribuire alla sua "reputatione" e rappresentare convenientemente la sua "potentia". Critici sottili osservarono anche come le "conclusione de la scientia legale" fossero di per sé troppo "disputabele"; troppo proclive a seminar dubbi, "disputar il pro et contra", giacché gli argomenti giuridici "aliquando prosunt et aliquando nocent", e possono facilmente ritorcersi a danno nelle mani di "maligni" (Mazzacane, pp. 637 s.). Nei limiti intrinseci all'impostazione erudita e nei caratteri prevalentemente "legali" dell'opera, lontani dalle esigenze immediate della politica veneziana e dal gusto umanistico per una storiografia narrativamente elegante, oltre che filologicamente sorvegliata, è dunque da ricercarsi la causa del suo limitato successo, della prudenza - della diffidenza, persino - con cui venne accolta.
Probabilmente deluso nelle attese riposte nel proprio lavoro, nel 1530 - l'anno stesso in cui la Serenissima affidava a Pietro Bembo l'incarico di storiografo "pubblico" - il D. abbandonò la città e fece ritorno a Pesaro, restituita fin dal 1521 alla signoria di Francesco Maria Della Rovere. Sotto la sua protezione, e poi sotto quella del figlio Guidobaldo II, succedutogli nel 1538, trascorse gli ultimi anni come membro autorevole del Consiglio - fu anche console e gonfaloniere - curando gli interessi economici della famiglia e concludendo per il figlio Alessandro e le figlie prestigiosi matrimoni con il patriziato cittadino più in vista. Il 20 apr. 1538 fece testamento, preoccupandosi per i molti suoi beni e soprattutto per la sua biblioteca.
Morì a Pesaro il 29 maggio 1541 e fu sepolto nella cappella di S.Nicola in S. Agostino.
Tra i suoi scritti perduti, sembra se ne debbano annoverare uno sulla storia del Montefeltro, uno sui Salmi ed un altro sulle litanie per la Vergine.
Fonti e Bibl.: Le notizie autobiografiche, le fonti letterarie e archivistiche, le opere del D. e la loro tradizione, infine la storiografia disponibile, sono analizzate criticamente e utilizzate in modo esauriente da H. Kantorowicz, Das Leben des Th. D. Einleitung, in T. Diplovatazio De claris iuris consultis, I, a cura di H. Kantorowicz e F. Schulz, Berlin-Leipzig 1919, pp. 1-142; del Kantorowicz cfr. anche Praestantia doctorum (1931), ora nelle sue Rechtshistorische Schrifiten, a cura di H. Coing e G. Immel, Karlsruhe 1970, pp. 377-96. La Lebensgeschichtliche Einleitung è riprodotta, in traduzione italiana, nell'ediz. critica, condotta a termine da G. Rabotti, del Liber de claris iuris consultis. Pars posterior, a cura di F. Schulz-H. Kantorowicz-G. Rabotti, in Studia Gratiana, X (1968), pp. i-140. Per il periodo veneziano, nell'impossibilità di una ricerca diretta, il Kantorowicz si servì, rilevandone severamente, ma non ingiustificatamente, la trascuratezza filologica, della documentazione fornita da E. Besta, T. D. e l'opera sua, in Nuovo Arch. veneto, n. s., III (1903), 4, pp. 261-361, il quale vi ritornò con correzioni in Una parola ancora sulla raccolta e la trascrizione di antichi documenti veneziani per opera di T. D. ibid., XIV (1914), 27, pp. 425-44. Della storiografia successiva, che ha precisato e integrato in alcuni punti la ricostruzione del Kantorowicz, cfr. in partic.: G. Rossi, La "Bartoli vita" di T. D. secondo il codice Oliveriano 203, in Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario, Milano 1962, II, pp. 441-502; R. Feenstra, Bartole dans les Pays-Bas (anciens et modernes), ibid., pp. 258 s.; Id., La "Vita Thomae Diplovatatii" de Baptiste Egnatius (1520), in Studi in on. di E. Volterra, IV, Milano 1971, pp. 775-85; D. Maffei, La "Lectura super Digesto Veteri" di Cino da Pistoia, Milano 1963, pp. 2 s., 10, 38 s.; V. Valentini, Il "Tractatus de tabellionibus" di Baldo degli Ubaldi, in Studi urbinati, XXXIV (1965-66), pp. 38-43, 47, 52; I. Zicari, Sulla edizione del "De claris iurisconsultis" di T. D. dal cod. Oliv. 203, in Studia Oliveriana, XVIII (1970), pp. 3-45; M. Ascheri, Saggi sul D., Milano 1971; A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio nei giuristi veveti durante il "secolo della Terraferma", in Storia della cultura veneta, III, 1, Vicenza 1980, pp. 622-50.