FAZELLO, Tommaso
Nacque nel 1498 a Sciacca (Agrigento) da padre vasaio originario di Reggio.
Dopo aver compiuto i suoi primi studi nella città natia, ancora adolescente (forse nel 1513), entrò nel convento di S. Domenico di Palermo, in cui fece la sua professione nel 1514 e ricevette successivamente l'ordinazione. Non è certo che abbia compiuto studi universitari a Padova, ' dove invece si recò sicuramente il fratello Girolamo, anch'egli frate domenicano. Oratore e predicatore assai reputato, il F. insegnò ai giovani confratelli dello Studio palermitano di S. Domenico la teologia ufficiale dell'aristotelismo cristiano, come è attestato dalle sue Lectiones Philosophiae (1526-51) e dalla Lectura super libros Posteriorum Aristotelis (iniziata nel 1537).
Investito di incarichi assai delicati (quello di primo consultore del tribunale dell'Inquisizione della fede), il F. visse quasi sempre in Sicilia, tranne brevi soggiorni a Roma (come nel 1535 quando vi conobbe Paolo Giovio e nel 1558 allorché partecipò al capitolo generale dell'Ordffle). Ma la sua vita, pur priva di significative vicissitudini private, fu operosissima per impegno di studio e movimentata da un'instancabile periegesi, che lo spinse a visitare tutti i principali siti artistici dell'isola e a compiere disagevoli escursioni (come la scalata dell'Etna nel 1541) in vista di un'esaustiva ricognizione topografica. Agevolato infatti dai suoi uffici pastorali - fu due volte provinciale di Sicilia (1546-48; 1556-58) - e quindi dall'ospitalità offertagli dai numerosi monasteri dell'Ordine, il F. poté percorrere in un incessante andirivieni città e contrade siciliane, alternando gli impegni di insegnante e quaresimalista con la ricerca e la scoperta archeologica. A questa improba fatica, durata più di quattro lustri, si deve aggiungere la limitatezza delle disponibilità bibliografiche isolane, che egli cercò di compensare investigando assiduamente in conventi o altri luoghi di studio, oppure istituendo contatti con ricercatori locali o umanisti del continente, come A. Minturno, - al quale si rivolse con la mediazione del viceré Giovanni de Vega. Si può dire perciò che tutta la vita del F. sia stata finalizzata alla preparazione dei materiali e alla stesura della sua ponderosa opera De rebus Siculis decades duae, la cui prima edizione, risalente al 1558, venne poi ampliata e ritoccata nelle edizioni del 1560 e 1568.
Sotto questo titolo di impronta liviana il F. distribuì la materia della sua imponente trattazione, che nella prima deca comprende la descrizione topografica della Sicilia, nella seconda, assai più ampia, un profilo globale della sua storia, dalle più remote origini fino agli eventi contemporanei. Intrapresa su sollecitazione di Paolo Giovio ("Paulus Iovius... multis a me precibus efflagitavit, ut priscam Siciliae quasi formam illustrarem", Praef. ad Carolum), l'opera oltrepassa per cura e sicurezza di metodo i più recenti prodotti della storiografia locale, ora caratterizzati da ambizioni enciclopediche (gli Annales di P. Ranzano), ora da regionalismo, se non da municipalismo (gli studi di C. M. Arezzo, di B. Riccio, di G. G. Adria). Dedicato a Carlo V, che nel 1535 era passato in Sicilia dopo l'impresa di Tunisi, il De rebus Siculis vuole essere in sintonia con i fausti presagi di pace politica e religiosa suscitati dalla monarchia asburgica - di cui nell'edizione del '60 si loda anche Filippo II -, anche se in realtà durante la sua composizione a quei favorevoli segnali fecero seguito sul fronte africano rovesci e delusioni.
Il F. rivendica a sé il merito di avere per primo tentato un'accurata ricognizione archeologica e storica della Sicilia e di aver cercato di ristabilire la verità su una materia in gran parte ignorata o falsificata, mediante riscontri diretti e soprattutto attraverso l'autorità delle fonti: "Ea peragrata a me quater aut saepius et curiosissime indagata tota Sicilia tamdiu cum authorum sententiis contuli" (Praef. ad Carolum). In questo senso la sua opera si ricollega alla tradizione umanistica (specificamente agli interessi antiquari di Biondo Flavio e storiografici di P. Collenuccio), da cui trae lo scrupolo nell'accertamento filologico e nella collazione di fonti contrastanti. Grazie a questa più avvertita acribia e, quindi, alla capacità di accordare le testimonianze degli antichi con il riscontro autoptico, il F. poté confutare certe errate credenze, identificando, per esempio, in perfetto accordo tra la sua diretta osservazione e un passo di Diodoro, il sito delle rovine di Selinunte fino ad allora localizzate nell'area di Mazara con il conforto di G. G. Adria; analogamente, in sede storiografica, egli poteva dissolvere le leggende che si erano addensate sull'arrivo degli Arabi in Sicilia e sulle iniziative di Giorgio Maniace, mostrando attraverso l'esame di un codice (l'Historiarum Compendium di Giovanni Scylitzes detto Curopalata), l'infondatezza di questa tradizione (dec. II, libro VI, cap. I). La fiducia nel documento scritto sorregge tutta l'opera, anche se talora essa viene accordata a fonti inattendibili (lo pseudo-Beroso) o invocata per convalidare (nel fantasioso libro I, cap. I della prima deca) le fandonie antropologiche riferite dagli antichi.
Una testimonianza esatta e credibile offre invece la prima deca, dove F. poté mostrare tutta la sua competenza di ricercatore, che coniugava magistralmente l'ansia della ricognizione scientifica con l'ardore dell'immaginazione umanistica, la quale gli suggeriva di dare un nome e un'identità a tante illustri città ora penosamente rovinate, affrancandole da un triste oblio. Certamente influenzato dal nuovo interesse per l'archeologia che egli aveva potuto cogliere nella cultura romana, il De rebus Siculis vuole innanzitutto essere la descrizione dello stato presente di una grande provincia della classicità, le cui memorie sono ormai labili e confuse. Disegnando tuttavia questo copioso, documentatissimo prospetto topografico della Sicilia, il F. non si limita a descrivere i siti delle rovine classiche (entusiasticamente e quasi sempre esattamente identificati), ma illustra anche gli aspetti urbanistici delle località moderne; né manca di assegnare un certo rilievo al vario aspetto della natura, che egli legge (sulla scorta dei mirabilia pliniani) come un campo di prodigi e di fenomeni inconsueti, di cui la morfologia dell'Etna rappresenta il più vistoso paradigma. Meno spazio è invece dedicato alle manifestazioni sociali e antropologiche, anche se il F. non manca di assemblare giudizi (libro I, cap. VII) de moribus Siculorum, individuando dei clichés comportamentali (invidia, individualismo, inclinazione all'ozio, senso dell'ospitalità), che successivi osservatori confermeranno.
Non si possono tuttavia trascurare, come segno di una vocazione non pienamente realizzata, le pagine vivacissime (libro X, cap. II) dedicate alla descrizione delle indemoniate del santuario di S. Filippo di Agira, in cui la forte sensibilità al fatto etnico è però ostacolata dalle preoccupazioni del credente, ansioso di smentire le interpretazioni naturalistiche del fenomeno. La presenza solo incidentale del vissuto contemporaneo deriva dall'intento di innalzare la materia ai paradigmi di una superiore umanità. Il pubblico ideale del De rebus Siculis sono infatti gli studiosi del mondo antico, a cui egli rammemora vicende e personaggi celebri del passato in excursus e ritratti, apposti alla trattazione topografica.
Proprio da questa fungibilità civile del momento erudito nasce la seconda deca, che rappresenta un utile completamento del quadro orizzontale tracciato con l'esame dei monumenta sopravvissuti alla decadenza. Il F. si accinge a questa seconda fatica quasi per un doveroso impiego dello sterminato materiale documentario in suo possesso, mostrando quasi l'inevitabilità del suo ampio disegno storiografico, che compatta diacronicamente gli sparsi episodi menzionati nella parte archeologica e corografica e tantissimi altri ne aggiunge e indaga. Quest'ambizione di una ricostruzione totale della storia siciliana non poté tuttavia essere pienamente soddisfatta, perché il F., che pure aveva larga conoscenza della storiografia classica e attingeva con un'erudita consapevolezza, per i tempi precorritrice, alle cronache bizantine e medievali, possedeva un'informazione lacunosa su alcuni periodi, tanto da essere costretto a delle brusche cesure narrative, che riducono, per esempio, a pochi cenni sulla guerra greco-gotica il quadro storico dei primi secoli dell'era volgare antecedenti la venuta degli Arabi. La sudditanza alle fonti spinge il F., nonostante il suo proposito di sfrondare il racconto delle più ridicole mitografie, a dare credibilità (nel lungo cap. I del libro I) a tutto il materiale leggendario attinto da logografi, favolisti, poeti epici, un materiale vagliato e comparato con inutile cura filologica e raramente rigettato per la sua inverosimiglianza. Le notizie attestate derivano perciò la loro attendibilità dallo scrupolo degli auctores consultati; il F. fornisce una "documentazione il più possibile differenziata" (Scopelliti, Le fonti..., p. 457), su cui poi adotta criteri esegetici dettati dal buonsenso. Non un disegno originale governa del resto il De rebus Siculis, che, ben lontano dalle recenti acquisizioni metodologiche di un Machiavelli e di un Guicciardini e dalla loro ricerca delle "cause", aspira solo ad illustrare fatti senza un vero spirito di sistema, in forza di un programma umanistico, che attribuiva alla storia la funzione di testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae.
Mosso tuttavia da ritornanti intendimenti patriottico-civilì, il F. individua due grandi fasi creative della civiltà siciliana: la prima rappresentata dalla colonizzazione greca (con il suo vertice nella Siracusa di Gelone); la seconda dalla "riconquista" cristiana, di cui erano stati artefici i re normanni. Questa linea di tendenza di tipo nazionalistico non produce alterazioni agiografiche; se mai essa asseconda la concezione classica della storia come palcoscenico di individui-eroi, in questo caso rappresentati da figure positive di sovrani (Gelone e Timoleonte, Ruggero re di Sicilia e Carlo V), rispettosi dell'ordine e restauratori di valori etici e religiosi. Entro coordinate moralistiche, che vanno da una considerazione dispregiativa del dominio degli infedeli saraceni all'assunzione di una linea antitirannica mediata dagli autori repubblicani, si può dire trattenuta la narrazione, la quale mira all'eloquente decoro dell'erudizione umanistica e rifugge in eguale misura dalle idee generali e dalla considerazione di agenti storici non immediatamente percepibili (per esempio quelli economici). In assenza di una "filosofia della storia", la trattazione del F. indulge alla diegesi del quotidiano e si espande - nei modi di Erodoto - con aneddoti ed episodi memorabili (i due fratelli siracusani, la leggenda di Cola Pesce o di Ibico e delle gru), che rivelano la volontà di non separare il reale dal meraviglioso. Il F. fu soprattutto uno scrupoloso ricercatore di fonti e documenti pressoché introvabili (come la cosiddetta Guiscarda - cioè la cronaca di Ugo Falcando - utilizzata per le vicende dei due Guglielmi), ma non riuscì ad imprimere alla sua trattazione una forza giudicante, capace di innalzarla dal piano di dignitosa compilazione cronachistica a quello della storia ragionata e criticamente commentata. Proprio per questi limiti i moderni hanno preferito all'abbondanza narrativa della seconda deca la sicura erudizione della prima, che "rimane monumento insuperabile per serietà di indagine" (B. Pace, Arte e civiltà..., p. 11) e per esattezza di intuizioni; in questa direzione il F. indica una via alla metodologia della ricerca, archeologica, unendo il rigore analitico alla commossa partecipazione rievocativa, in un fervido intreccio di sistematicità trattatistica e di suggestione memoriale.
Di natura schiva e aliena dai pubblici onori, fino a rifiutare nel capitolo del 1558 la carica di maestro dell'Ordine, il F. fu personaggio così autorevole ed eminente da essere pubblicamente consultato riguardo a dieci questioni relative alla legazia apostolica e, in generale, sui rapporti giurisdizionali tra Monarchia e clero siciliano. Il suo parere (espresso nella lettera a Giovanni de Vega del 15 ott. 1563) rappresenta un "punto di unione fra il vicere e l'Inquisizione" (Savagnone, Contributo alla storia, p. 19), risolvendosi in un invito a sottoporre al concilio la vertenza sulle "abusioni" delle varie chiese locali, poiché "questa materia, non era materia pertinenti a doctori in iure civili, ma a Theologi e canonisti" (ibid., p. 49).
Il F. trascorse gli ultimi anni di vita nel convento di S. Domenico di Palermo, dove era stato nominato nel 1555 lettore di filosofia e logica. Qui morì l'8 apr.1570.
Oltre al De rebus Siculis decades duae (Panormi 1558, 1560, 1568), volgarizzato da R. Nannini (Venezia 1574), restano del F. i manoscritti delle Lectiones philosophiae (Bibl. com. di Palermo, 3 Qq A 91) e della Lectura super libros Posteriorum Aristotelis (Ibid., 3 Qq A 92); non ci sono invece pervenuti i versi di cui parla F. Paruta (Elogia Siculorum poetarum, Bibl. com. di Palermo, 2 Qq C 21 n. 3).
Fonti e Bibl.: F. Maurolico, Sicanicarum rerum compendium, Messanae 1562, Praef.; F. Paruta, Elogia Siculorum poetarum suo tempore defunctorum (ora in G. Abbadessa, Gli elogi dei poeti siciliani, in Arch. stor. sicil., n. s., XXXI [1906], pp. 154 s.); F. Cluver, Sicilia antiqua, Lugduni Batavorum 1619, Praef.; A. Piccolo, De antiquo iure Ecclesiae Siculae, Messanae 1623, p. 149; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi 174, II, pp. 259 s.; J. Quétif-J. Echard, Scriptores Ordinis praedicatorum, Lutetiae Parisiorum 1719-1721, II, pp. 212 s.; R. Gregorio, Introd. allo studio del diritto pubblico siciliano, Palermo 1794, pp. 26-32; G. E. Ortolani, Fra' T. F., in Biografia degli uomini illustri della Sicilia, Napoli 1838, II, s. i. p.; A. Narbone, Istoria della letteratura siciliana, Palermo 1852-59, passim; V. Farina, Biografie di uomini illustri nati in Sciacca, Sciacca 1867, pp. 150-163; L. Boglino, I mss. della Bibl. com. di Palermo, Palermo 1889, II, p. 143; F. Guardione, T. F., in Atti e rend. dell'Acc. di scienze lettere e arti dei Zelanti, VI (1894), pp. 57-85; G. Cavarretta, Saggio critico sulla storia di Sicilia di T. F., Catania 1904; F. Marletta, Fazelliana, in Arch. stor. per la Sicilia Orient., II (1905), pp. 370-75; M. Catalano-Tirrito, L'istruzione pubblica in Sicilia nel Rinascimento, ibid., VIII (1911), p. 424; IX (1912), pp. 3-44 passim; E. Fueter, Storia della storiografia moderna [1911], Napoli 1942, I, p. 162; F. G. Savagnone, Contributo alla storia dell'apostolica legazia in Sicilia, Palermo 1919, pp. 18 s. (con il testo della lettera al viceré de Vega del 15 ott. 1563 alle pp. 47-53); B. Pace, T. F., in Enciclopedia italiana, XIV, Roma 1932, p. 919; Id., Arte e civiltà nella Sicilia antica, Milano-Genova-Roma-Napoli 1935, I, pp. 11 ss.; M. A. Coniglione, La provincia domenicana di Sicilia, Catania 1937, pp. 230-33 e passim; F. Natale, Il patriarca della storia della Sicilia, in Il Mulino, II (1953), pp. 619-639; Id., Avviamento allo studio del Medio Evo siciliano, Firenze 1959, pp. 63-66 e passim; S. Tramontana, Una fonte trecentesca del "De rebus siculis" di T. F. e la battaglia di Lipari del 1339, in Bull. d. Ist. stor. ital. per il Medio Evo e Arch. Muratoriano, 1962, n. 74, pp. 227-255; M. Vitale, T. F. La sua vita, il suo tempo, la sua opera, Palermo 1971; S. Correnti, Cultura e storiografia nella Sicilia del Cinquecento, Catania 1972, ad Indicem; G. Sanfilippo, T. F. e i suoi tempi. La vita e l'opera, Sciacca 1973; S. Scopelliti, Le fonti del 'De rebus Siculis' di T. F. per l'età normanna, in Scritti in mem. di P. Morabito, a cura di P. Santoro, Messina 1983, pp. 457-92.