FINIGUERRA, Tommaso (Maso)
Nacque a Firenze nel marzo 1426 da Antonio e da una Antonia di cui non si conosce il casato. Il padre, immatricolato come orafo nel 1421., esercitava l'arte in compagnia dapprima con Antonio di Veneri Cini e Giovanni Taglioncini, quindi con Rinieri di Giovanni Manni. Per quanto il modesto risultato economico di queste imprese faccia pensare ad un'attività di limitato respiro, è probabile che il F. abbia compiuto il suo apprendistato nella bottega paterna. Il suo nome compare autonomamente dal 23 luglio 1449, quando il pittore Alesso Baldovinetti annota nei suoi Ricordi "uno zolfo di mano di Tommaso Finiguerra", evidentemente un calco in zolfo simile a quelli adottati dagli orefici soprattutto in rapporto alla tecnica del niello; non è certo privo di significato che la prima opera del F. della quale ci sia giunta notizia abbia comportato l'uso di tale tecnica. Dallo spoglio che Carlo Strozzi fece nella seconda metà del Seicento da documenti poi perduti risulta infatti che nel 1452 l'arte dei mercatanti pagava all'artista "una pace d'argento dorata, smaltata e niellata", destinata al battistero di Firenze.
Il F. si immatricolò come orafo nel 1456, si sposò con Piera di Domenico di Giovanni "prestaronzini" nel 1458 e s'emancipò dalla tutela paterna nel 1459. Tra il 1456 ed il 1457 entrò in compagnia con Piero di Bartolomeo di Sali, con il quale eseguì entro il 1462 una coppia di candelieri d'argento dorato e smaltato per l'Opera di S. lacopo a Pistoia e un'altra coppia di candelieri per il duomo di Firenze. Mentre la commissione fiorentina era stata assegnata al solo Piero di Bartolomeo di Sali nel febbraio 1456, quella pistoiese venne ottenuta dal solo F. che, rifugiatosi a Pistoia per sfuggire la pestilenza del 1457. s'impegnava a portarla a termine "secondo il disegno per lui facto". I numerosi pagamenti provano che entrambe le opere vennero condotte da Piero di Bartolomeo di Sali e dal F. insieme con altri "compagni". Tra questi è menzionato esplicitamente solo Antonio del Pollaiolo. I documenti ricordano pure un'attività autonoma, o per lo meno chiaramente distinta, del Finiguerra.
Questa attività rivestirebbe per noi un significato ben scarso se fosse limitata alle fibbie ed alle posate che tra il 1461 ed il 1464 l'artista fornì a Bernardo di Stoldo Rinieri e Cino di Filippo Rinuccini. Di fatto però essa ebbe a riguardare anche il disegno, databile ante 21 febbr. 1464, delle figure di un'Annunciazione e di un S. Zanobi tra due diaconi per due grandi tarsie, ancora in essere, della sacrestia delle Messe nel duomo di Firenze. L'importante notizia è conservata nel gia citati Ricordi del Baldovinetti dai quali risulta che il F. disegnò le cinque figure, il Baldovinetti stesso ne colori le teste e Giuliano da Maiano, cognato del F., le tradusse in tarsia. Ancora un'opera di collaborazione, dunque, ma con un ruolo progettuale che ben giustifica la menzione del F. come "orafo, maestro di disegno" da parte di un contemporaneo attento come Giovanni Rucellai.
Prima che un'ormai più che secolare ricerca d'archivio portasse alla luce i documenti cui s'è fino ad ora fatto ricorso, il F. era noto soprattutto per gli accenni a lui dedicati, tra il 1550 ed il 1568, nelle due edizioni delle Vite di Giorgio Vasari e nei trattati manoscritti e a stampa di Benvenuto Cellini. Mentre secondo il Vasari il F. era un artista completo ed autonomo a tutti gli effetti, secondo il Cellini egli "fece l'arte solamente dello intagliare di niello ... e sempre operò servendosi dei disegni del detto Antonio (del Pollaiolo)". Questo giudizio sostanzialmente limitativo ha prevalso negli studi otto-novecenteschi e solo nell'ultimo quarto di secolo è stato corretto da un vigoroso ritomo alla posizione vasariana.
In una lettera non datata di Baccio Bandinelli al maggiordomo di Cosimo I de' Medici il F. è ricordato tra gli artisti che collaborarono con Lorenzo Ghiberti alla porta del Paradiso. Per quanto probabilmente errata dal punto di vista della mera cronaca., questa notizia serve bene a cogliere il sapore di longhiano "rinascimento umbratile" che caratterizza un niello con la Crocifissione, oggi nel Museo nazionale del Bargello a Firenze, che venne attribuito al F. sin dal suo riapparire agli studi agli inizi dell'Ottocento.
L'opera presenta numerose consonanze con un gruppo di calchi in zolfo da nielli con Storie della Passione e Storie della Genesi, oggi divisi tra il British Museum di Londra e la collezione Rothschild al Louvre, che per certi aspetti puntano già verso il niello con l'Incoronazione della Vergine, oggi nel Museo nazionale dei Bargello a Firenze, nel quale, dopo tante incertezze, si riconosce ormai concordemente quanto resta della pace pagata al F. nel 1452 per il battistero di Firenze. Chiaramente aggiornato sul più moderno stile di Filippo Lippi, questo niello si lega strettamente a numerosi altri nielli, in seno ai quali la consueta tematica sacra comincia a fare spazio a soggetti tratti dalla mitologia ed a scene di vita quotidiana. A titolo di esempio si possono ricordare qui una Madonna in trono con angeli e santi del British Museum, un Amorino della Biblioteca Marucelliana di Firenze, una Vestizione di Ettore della collezione Rothschild al Louvre ed un Maestro di scuola circondato dagli allievi della medesima raccolta. La dipendenza da Filippo Lippi, visibile in tutti questi nielli, tipica della fase centrale del breve svolgimento artistico del F., si attenuò solo quando egli entrò in rapporto diretto con Antonio del Pollaiolo. La sua produzione cadde allora sotto l'influsso di quella del più giovane e più dotato collega. Lo testimonia tutta una serie di nielli, che comprende un Battesimo di Cristo già nella collezione Figdor di Vienna, un Giudizio di Salomone dei Musei civici di Brescia ed una Crocifissione con sfondo di città della National Gallery of Art di Washington. Il nesso tra queste composizioni e le figure disegnate prima del 21 febbr. 1464 per la sacrestia delle Messe nel duomo di Firenze è evidente, e costituisce il contesto entro cui si giustifica il riferimento all'orafo del disegno di un'Annunciazione che compare sui battenti di una porta intarsiata, proveniente dalla badia fiesolana ed oggi al Kunstgewerbe Museum di Berlino.
Il percorso dal Ghiberti al Lippi al Pollaiolo, quale è dato di leggere nella produzione più tipica del F., si ritrova anche in un consistente numero di disegni che, già attribuiti all'artista e poi a lungo negatigli, gli sono oggi restituiti con fondati argomenti. Eseguiti con una tecnica che ricorda da presso quella del niello, cioè tracciando i contorni con la penna ed ombreggiando delicatamente col pennello, tali disegni si trovano dispersi tra il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi ed altre collezioni italiane e straniere, ma provengono probabilmente tutti da quelli lasciati in eredità dal Finiguerra.
Tra essi si contano sia semplici studi di figure singole e piccoli gruppi, originariamente legati in forma di libro, sia più complesse ed ambiziose composizioni narrative, svolte su ampi fogli sciolti. Per quanto non manchino, soprattutto nelle raffigurazioni di animali, derivazioni palmari da precedenti opere d'arte e dai cosiddetti libri di modelli della tradizione medievale, molti disegni dei primo gruppo possono essere definiti come veri e propri "studi dal naturale", che non meraviglia trovar utilizzati in alcuni dei nielli del F. nonché nella cosiddetta Cronaca Colvin del British Museum, già attribuita allo stesso F. ed oggi collegata piuttosto con Baccio Baldini e con le più antiche incisioni di "maniera fine". Anche due disegni del secondo gruppo, il Diluvio universale della Kunsthalle di Amburgo ed il Mosè sul monte Sinai del British Museum, funsero da modelli, ma per grandi incisioni di "maniera larga" questa volta, contribuendo così a diffondere su più ampia scala le invenzioni del loro autore.
Il Vasari collega al nome del F. la scoperta della calcografia o stampa da incisioni in lastra di metallo. La notizia in sé è stata dimostrata falsa sin dai tempi del Rumohr (1814), ma non per questo meno prezioso risulta il resoconto dello storico aretino circa l'abitudine del F. di ricavare dai propri nielli, attraverso un complesso procedimento, calchi in zolfo e stampe in carta. Sorto per i motivi puramente pratici di controllare le fasi del lavoro e conservare alla fine un ricordo preciso dell'opera eseguita, questo particolarissimo sistema di calchi e stampe si avvicina di fatto alla tecnica calcografica e come questa rientra nel più vasto interesse quattrocentesco per la riproducibilità meccanica dell'opera d'arte. E grazie ad esso che i nielli del F. sono stati conosciuti più di qualsiasi precedente capolavoro dell'oreficeria italiana. Se già le giovanili Storie della Passione risultano copiate in una serie di disegni oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, opere più tarde come l'Incoronazione della Vergine o la Crocifissione con sfondo di città, per entrambe le quali si conservano a tutt'oggi, oltre ai nielli originali, anche calchi in zolfo e stampe in carta, appaiono aver esercitato un influsso veramente notevole.
Lo studio di questa vicenda è oggi solo agli inizi, ma i pochi saggi che se ne hanno permettono di constatare come essa coinvolga non solo ignoti orafi e intagliatori, ma anche artisti di una certa statura come Giovanni di Paolo, Agnolo e Bartolomeo degli Erri e l'anonimo Maestro degli affreschi di palazzo Orsini a Tagliacozzo. Basta questa piccola rosa di nomi per intuire l'estensione geografica della fortuna visiva del F. e la necessità di tener conto del misconosciuto maestro fiorentino per una più approfondita conoscenza dell'arte italiana del Quattrocento.
Il F. morì proprio quando la sua carriera sembrava essere più promettente, probabilmente vittima di un'ennesima pestilenza. Fu sepolto nella chiesa d'Ognissanti a Firenze il 24 ag. 1464.
Lasciava un figlio di un anno o poco più, Pierantonio, che fu poi calzolaio, e una cospicua eredità, comprendente quattordici volumi di disegni tra grandi e piccoli, alcuni disegni sciolti, il progetto di una croce e alcuni calchi in zolfo. Tale eredità toccò ad un fratello più giovane, Francesco, che non poté tuttavia disporne liberamente. Nel 1480 si stabiliva che, alla morte di Francesco, i quattordici libri di disegni dovessero passare ad un altro membro della famiglia esercitante l'arte dell'orafo o del pittore, e ancora nel 1507 Pierantonio otteneva di poterli avere in prestito, secondo complicate modalità, che segnalano l'irnportanza attribuita agli oggetti in questione.
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