GIGLI, Tommaso
Nacque a Bologna nei primi anni del XVI secolo (le fonti lo qualificano "quasi coetaneo" di Gregorio XIII) da famiglia illustre. Sulla sua educazione e vocazione al sacerdozio, così come su quella di altri membri della sua famiglia, dovettero influire i primi gesuiti e lo stesso Ignazio di Loyola, con il quale la sorella Margherita intrattenne rapporti epistolari. Grazie all'appoggio dei Farnese, invece, il G. riuscì a guadagnarsi una certa influenza nell'ambiente curiale romano, anche se per molti anni il suo ruolo fu solo quello di segretario del cardinale Alessandro, addetto all'emissione dei mandati di pagamento.
È certo, comunque, che il vicario generale dei gesuiti Giovanni Alfonso Polanco attribuì all'opera in Curia del G. e del cardinale Francesco Sfondrati, la firma nel 1549, da parte di un ormai malato Paolo III, della bolla Licet debitum, favorevole alla Compagnia.
Il G., inoltre, nel 1555 e 1556 offrì denaro e case di sua proprietà per le necessità del collegio gesuitico di Bologna, e dal 1557 fino al 1562 fu sempre pronto a sottoporre al cardinal Farnese i bisogni degli altri collegi della Compagnia. Il 24 ott. 1561 il Farnese gli cedette il proprio vescovato di Sora. Anche se vi risiedette solo per periodi limitati, il G. governò la diocesi secondo le direttive del concilio di Trento: celebrò quattro sinodi, nel 1572, 1574, 1575 e 1576, eresse e finanziò, sacrificando parte del palazzo vescovile, uno dei primi seminari d'Italia, restaurò la cattedrale e altri luoghi di culto e si recò a Trento dal 14 ott. 1562 fino alla fine del concilio, intervenendo nelle discussioni sul sacramento dell'ordinazione, il decreto di residenza, il matrimonio e l'insieme dei ventuno canoni di riforma generale. Avrebbe voluto portare a Sora Cesare Baronio, probabilmente per affidargli la direzione del seminario, ma, nonostante ripetuti tentativi, non riuscì né a dissuaderlo dallo studio della storia della Chiesa per indirizzarlo a quello della teologia né a fargli accettare un lucroso canonicato. Ottenne da lui solamente l'invio di un valido catechista nel 1563.
Sotto Pio V, nel 1567, il G. sostenne vittoriosamente le ragioni dei monaci di Casamari, che negavano all'abate commendatario il diritto di appropriarsi degli averi dei confratelli defunti spettanti all'abbazia. Questa e altre benemerenze amministrative, ma soprattutto l'amicizia contratta in gioventù con Ugo Boncompagni, gli procurarono, il 25 maggio 1572, pochi giorni dopo l'ascesa dell'amico al pontificato con il nome di Gregorio XIII, la carica di tesoriere generale.
Stabilitosi a Roma, senza rinunciare al vescovato, il G., sostenuto da un valido collaboratore, qual era il commissario di Camera Rodolfo Bonfiglioli, colse alcuni successi nella riduzione del peso del debito pubblico. Sotto il suo tesorierato, infatti, furono estinti il Monte vacabile dei cavalierati lauretani e il Monte Pio non vacabile, e furono recuperate alcune terre della Chiesa che erano state impegnate in cambio di prestiti. Però, pur condividendo la moderata politica economica antifeudale di Gregorio XIII e la riduzione di alcune imposte sui consumi, il G. non fu in grado di fermare la pratica della riduzione del peso in oro delle monete, con la conseguente perdita del loro valore di cambio, o di promuovere riforme che potessero portare a una razionalizzazione delle spese e a un sostegno della produzione, intaccando alcuni privilegi. I funzionari che le tentarono, come per esempio il governatore dell'Umbria Monte Valenti, trovarono più facilmente l'appoggio del papa che il suo.
Assolutamente improduttiva fu l'assunzione dell'amministrazione di Terracina, conferitagli da Gregorio XIII il 25 maggio 1574, per risollevare le sorti della città, spopolata dall'epidemia del 1571-72. Il progetto concepito dal papa e dal G. di edificare una nuova città in un luogo più salubre, sul monte Sant'Angelo, dovette fare i conti con le misere entrate locali e restò perciò sulla carta. Nel 1576 il G. assunse anche la guida - ma per breve tempo, giacché la materia gli era del tutto estranea - della commissione per la riforma del calendario. Il 12 novembre dello stesso anno lasciò il tesorierato e il vescovato di Sora per assumere quello di Piacenza. Fu un incarico di rilievo, trattandosi di succedere a un riformatore quale Paolo Burali. Ma se ottenne subito il gradimento di Ottavio Farnese (che egli aiutò a impossessarsi del feudo Landi di Borgo Val di Taro, scrivendo al governatore di Milano che la cosa era avvenuta per conto della S. Sede, senza ledere i diritti imperiali), non ebbe quello dei Piacentini. Questi, infatti, restarono offesi dalla sua soppressione "tota civitate contradicente" di una festa popolare in onore della Madonna e lo bollarono come avaro, "cupidissimus auri et argenti". Sicché quando morì, a Piacenza, il 16 sett. 1578, fu inumato nella cattedrale con grandi onori, ma in un sepolcro così povero, che se ne perse presto ogni traccia.
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