CASELLI, Tommaso Giovanni
Nacque nel 1511 a Rossano (Cosenza) ed entrò giovanissimo nel locale convento domenicano, nel quale pare abbia compiuto gli studi ed emessa la professione religiosa. L'11 dic. 1542 fu eletto vescovo di San Leone in Calabria, donde fu trasferito prima a Bertinoro (Forlì) il 27 apr. 1544, poi a Oppido (Reggio Calabria) il 7 maggio 1548 e, infine, a Cava dei Tirreni (Salemo) il 3 ott. 1550.
Partecipò ininterrottamente e con solerte dedizione alle tre fasi del concilio di Trento, caratterizzandosi come "amorevole" e "amichevole" alle direttive romane e, perciò stesso. segnalato dai legati tra coloro "che si diportano meglio de gli altri... et s'industriano et si fanno capo di parte" (gusta, II, p. 129).
Le successive mutazioni delle sedi vescovili furono il risultato delle pertinaci rimostranze mosse per ottenere vescovati più consistenti e più remunerativi; affinché si avesse "grata memoria" dei suo buon servizio, non soddisfatto delle continue liberalità e neppure dell'assegno fisso di venticinque scudi mensili, protestava "... mala satisfatione... per essere postposto a molti altri, i quali al suo giuditio sono d'assai a lui inferiori et di dottrina et di nobiltà della quale fa professione... et persuadendosi ben di essere soggetto di molta portata in questo Concilio" (Morone al papa, 25 ott. 1547, in Concilium Tridentinum).
Il C. fu il primo dei vescovi domenicani arrivati a Trento. Dal 4 apr. 1545 fu ospite del convento di S. Lorenzo "extra muros" e, in seguito, di una casa privata nella quale ebbe un vivace alterco con la padrona. Rivelò presto il suo stile battagliero quando si stabilirono le modalità procedurali per lo svolgimento dei lavori, reclamando che fosse esteso il diritto di voto consultivo e deliberativo ai priori generali degli Ordini religiosi.
Poiché godeva "non poca estimatione per la dottrina et qualità sue", come informava il Morone (in Conc. Trident., XI, p. 290n. 3), fu nominato membro di diverse commissioni di studio. Nel marzo del 1546, durante la discussione sulle vigenti metodologie ermeneutiche della S. Scrittura, denunciò le ambiguità create dal sistema di critica testuale adottato da docenti universitari e altri maestri, condannando, con i criteri euristici "personali", l'allegorismo applicato ai Vangeli e alle lettere di s. Paolo a scapito del magistero esegetico tradizionale, e propugnò, invece, il metodo esegetico letterale.
Non ebbe alcun riguardo per l'autorità e il prestigio del Soto, difendendo, contro l'opinione di lui, la priorità degli studi scritturistici sulla teologia speculativa scolastica; rintuzzò poi aspramente i vescovi di Astorga e di Chioggia poco inclini al valore delle tradizioni apostpliche. Alle argomentazioni del vescovo di Fiesole, che capeggiava il gruppo dei padri ostili alla predicazione "esente" dei regolari, il C. contrappose una veemente difesa del diritto dei religiosi, con una perorazione tanto ardita da surriscaldare il clima per tanti versi già drammatico dell'assemblea. Nella discussione del decreto sul peccato originale illustrò il suo voto e riniise alla Segreteria un elenco delle "Auctoritates super conceptione [in peccato originali] Beatae Mariae Virginis", redatto sulla traccia dell'insegnamento comune alla scuola teologica del suo Ordine; non può trovar credito, pertanto, la notizia secondo cui avrebbe scritto, in questa occasione, un trattato in favore dell'Immacolata.
Fu molto attivo nella formulazione dei canoni sulla giustificazione, sui sacramenti in genere e sul battesimo, cresima ed eucaristia in particolare. Patrocinata la traslazione del concilio a Bologna, vi si trasferì il 22 marzo 1547 e nella nuova sede intervenne con molto calore nelle dispute sul sacramento del matrimonio argomento che lo impegnò ulteriormente nell'ultima fase conciliare sui matrimoni clandestini.
Fin dagli esordi del concilio aveva manifestato le gravi manchevolezze del suo carattere altezzoso e aggressivo. Dopo il trasferimento alla diocesi di Oppido, nel maggio del 1548 giungevano a Roma ripetute lamentele e doglianze.
La sua intolleranza inurbana trasmodò, durante l'ultima fase conciliare, con tali eccessi da suscitare apprensioni sia nei legati, che ne riferivano puntualmente, sia nel cardinale Borromeo, come nel papa medesimo. Le "impertinenze" e i "modi strepitosi" usati nelle discussioni "caricando" gli interlocutori finivano per essere da lui giustificati con pretestuose spiegazioni, come quella "che gli spagnuoli non ne dovevano dar cagione col dir delle heresie come facevano", trasformando il suo fanatismo teologico in discriminante apodittica di ortodossia. Il Borromeo, che da Roma cercava con abilità la linea sottile del difficile equilibrio nelle delicate tensioni psicologiche che si determinavano, scriveva ai legati di controllare gli impulsi collerici e le arroganze del focoso prelato, sapendolo peraltro fervido, attivo è utile alla linea romana. Tra il luglio e l'agosto del '62 il cardinale si affidò ancora alla "destrezza et piacevolezza" dei medesimi legati affinché reprimessero le astiose intemperanze del C., che aveva fatto esplodere "gagliardamente" il suo malanimo contro l'arcivescovo di Granada e il vescovo di Zara durante la discussione sulla procedura da adottare per una dichiarazione di voto. Non minore "strepito" suscitò alla fine dello stesso mese di agosto, quando si disse "molto contrario alla dimanda dell'uso del calice [ai laici], dicendo che non si deve concedere in nessuna maniera, se ben ne dovesse seguitare la perdita di molte anime". Subordinando l'efficacia e l'essenza stessa della redenzione ad un criterio di opportunità, al di là di inesistenti pericoli di utraquismo, fra la costernazione dei padri aveva affermato: "Pereant potius omnes animae quam fiat effusio sanguinis Domini. Nostri lesu Christi"; "Il che è molto dispiaciuto a tutti, perché Nostro Signore lo sparse in terra per la salute delle anime e non volle la morte di quelle" commentarono i cronisti presenti, per assicurare che non si era trattato di una iperbole oratoria.
Nella congregazione sulla dottrina dell'ordine sacro, preso dal sospetto di un diffuso conciliarismo tra i padri, il C. incentrò il suo intervento sull'analisi dell'articolo: "quo iure episcopi sint instituti" e, in radicale antitesi con la punta avanzata dell'assemblea attestata su esplicite riserve per una formula implicante la definizione di un indiscriminato primato papale, concluse che i vescovi sono istituiti "mediate, a Christo, per papam" (Concilium Tridentinum, IX, p. 125).
Sul dibattutissimo tema della residenza dei vescovi, connesso coi precedente, espresse il parere di sanzionare come esauriente il decreto approvato il 25 febbr. 1547 sotto Paolo III e perciò stesso di ritenere inopportuno un riesame della questione sulla natura dell'obbligo che divideva i padri. Ma, in seguito, per confutare i sostenitori dell'obbligo "de iure divino", si schierò per la derivazione "ex iure canonico" suffragandola con la presunta autorità dell'abate Aimone (ibid., IX, p. 259).
Le sue smodate "impertinenze", che infastidirono tutti, avevano contribuito ad acuire l'occasionale dissidio fra i legati Gonzaga e Simonetta e da Roma si era decisi a esonerarlo dall'ufficio di commissario. Il 19 dic. 1562 il Borromeo fu costretto a intervenire di nuovo presso i legati, questa volta esplicitamente a nome del papa, affinché "con la solita destrezza et piacevolezza ammonischino la Cava et altri simili, che non vogliano exasperar... il predetto Signor Cardinale [di Lorena] con l'opporsi con poco rispetto a le sue opinioni" (gusta, III, p. 133). Nonostante i reiterati appelli alla tolleranza, le continue sovvenzionì straordinarie, come quella di duecento scudi nel gennaio 1563, per indurlo a "dar i suoi voti senza offendere o irritar persona" (gusta, III, p. 141), il C. non fu capace di equilibrio e moderazione.
Membro della commissione dei diciotto padri incaricati per la revisione dell'Indice, fu deputato assieme al vescovo di Senigallia ad ascoltare le rimostranze del conte di Luna sul verdetto assolutorio emesso dall'apposita giunta sull'incriminato catechismo in volgare dell'arcivescovo Carranza.
Fu tra quei vescovi che chiesero, prima della chiusura del concilio, una sovvenzione per le spese di viaggio al ritorno e l'esonero dal gravame delle pensioni sulle rendite della mensa vescovile, ricevendo assicurazione "della bona mente di Sua Beatitudine" disposta a "riconoscere le fatiche" sostenute.
In diocesi tenne il sinodo durante il 1565 nella locale chiesa di S. Francesco dopo aver partecipato ai lavori preparatori e alla celebrazione di quello napoletano indetto dal cardinale Alfonso Carafa, che aveva conosciuto alla corte di Paolo IV nel periodo del massimo rigore carafesco. L'anno seguente accolse in diocesi i cappuccini e nel 1567 i suoi confratelli domenicani a Dragonea. Nel 1569 eresse la confraternita del Corpo di Cava, com'è chiamata, mentre già nel 1554. per sua iniziativa, si era costituita l'altra del SS. Rosario nella cattedrale. Si prodigò per un'adeguata assistenza religiosa ai piccoli centri abitati, senza pregiudizio per la giurisdizione delle parrocchie. Tra il 1565 e il 1567 mantenne qualche contatto epistolare col cardinale Sirleto. Nell'ultimo quinquennio del suo episcopato furono ultimati i lavori per la costruzione della cattedrale a spese dell'Università cavense.
Affrontò clamorosamente anche i pubblici poteri: in esecuzione della bolla In coena Domnini di Pio V, impedì l'esazione delle gabelle imposte alla città, fulminando le solite scomuniche contro coloro che avessero osato violare le sue disposizioni. Ma il 6 febbr. 1569 ricevette dal viceré Perafan de Ribera, che perseguiva una politica severa nella difesa dei diritti della monarchia, una "lettera ortatoria" tanto grave e impellente da rimanere esemplare ed emblematica.
Ammalatosi a Roma, dove si era recato per il giubileo del 1570, il C. morì il 19 marzo 1571 e fu seppellito in S. Maria sopra Minerva.
Fonti e Bibl.: Il testo autografo della corrispondenza col Sirleto, in Bibl. Ap. Vat., Vat. lat. 6182, 1, ff. 261, 268v; Vat. lat. 6182, II, ff. 388, 407; Vat. lat. 6946, f. 20v. Le decis. per la cura d'anime a Cava, in Arch. Segr. Vat., Congr. del Concilio, Liber litterarum et decretorum, I, ff. 17, 24; anche in Bibl. Ap. Vat., Vat. lat. 13098, ff. 25, 98V. Indicazioni precise e sostanziali sull'intervento circa la Immacolata, in G. B. Poza, Elucidarium Deiparae, Lugduni 1627, p. 1226. La ricostruzione del pensiero sulle diverse questioni conciliarì e dei modi usati, in Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Epistolarum, Tractatuum nova collectio, a cura della Görres-Gesellschaft, I-XIII, Freiburg 1901-1962, ad voces Brittinoriensis, Cavensis; J. Susta, Die römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV., I-IV, Wien 1904-14, ad Indices. Su particolari: S. Pallavicini, Istoria del Concilio di Trento, II, Faenza 1793, p. 157; IV, ibid. 1795, p. 359; H. Jedin, Il concilio di Trento, II, Brescia 1962, pp. 83, 86, gi, 113, 124, 126 s., 139, 141, 175 s., 182, 221, 338 s., 341, 408, 439, 480, 496, 502, 550, 561 s., :585, 594; III, ibid. 1973, pp. 94, 97, 102. Sull'attività conciliare: A. Walz, Gli inizi-domenic. al Concilio, in Il Concilio di Trento, II (1943), 2, pp. 210-224 passim; I Domenicani alla VI sessione, ibid., III (1944), 1, pp. 47-57 passim. Brevissimi accenni in L. von Pastor, Storia dei papi, VII, Roma 1950, pp. 213, 283; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli, Città del Vaticano 1961, p. 184. Sulla presenza alla corte di Paolo IV, P. Paschini, Note per la biogr. del cardinale Guglielino Sirleto, in Arch. stor. della Calabria, V (1917), p. 41 dell'estr. Sulle lettere ortatorie del viceré, B. Chioccarelli, Archivio della reggia giurisdiz. del Regno di Napoli ristretto in indice compendioso, Venezia 1721, p. 63, da cui deriva P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, IV, Napoli 1723, pp. 190 s., e F. Scaduto, Stato e Chiesa nelle due Sicilie, I, Palermo 1969, p. 54. Notizie biogr. in P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, II, Roma 1958, p. 65; V. M. Fontana, Theatrum Dominicanum, Romae 1666, p. 140; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 295; G. M. Cavalieri, Galleria de' sommi pontefici… e vescovi dell'Ordine de' predicatori, I, Benevento 1696, p. 426; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, I, Venezia 1717, col. 618; II, ibid. 1717, col. 615; IX, ibid. 1721, col. 420; J. Quetif-J. Echard, Script. Ordinis Praedicat. recensiti, II, Lutetiae Parisiorum 1721, pp. 216 s.; G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, 2, Napoli 1752, pp. 370-373, che gli attribuisce anche un trattato De Sacramentis;A. Zavarrone, Bibliothera Calabra, Napoli 1753, p. 84; G. v. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, pp. 139, 161, 223, 263; I. Taurisano, IDomenicani, in Il contributo degli Ordini relig. al Concilio di Trento, Firenze 1946, pp. 48, 53; L. Aliquò Lenzi-F. Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi, I, Reggio Calabria 1955, p. 166; A. Della Porta, Cava sacra, profilo stor. della diocesi, Cava dei Tirreni 1965, p. ss. Dati sulla morte e trascrizione dell'epitaffio in V. Forcella, Iscrizioni delle Chiese e d'altri edifici di Roma, XIII, Roma 1879, p. 381.