LANDOLFI, Tommaso
Nacque il 9 ag. 1908 a Pico (allora in provincia di Caserta) da Pasquale e Maria Gemma Nigro (chiamata comunemente Ida).
La famiglia paterna era tra le più antiche della zona, per molto tempo fedele ai Borbone (e il L. amò definirsi un "rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale", Opere, I, p. 667). Le proprietà familiari, pur ridottesi nel tempo, rimanevano ingenti, e comprendevano una porzione del paese, cui il L. rimase sempre legato; egli stigmatizzò poi il passaggio di Pico alla provincia di Frosinone, avvenuto nel 1927 per la soppressione della provincia di Caserta e sentito come uno snaturamento imposto dai "capricci d'un regime tirannico" (ibid., II, p. 13).
Il 24 maggio del 1910 morì la madre, che era incinta di un secondo figlio; il trauma per tale evento accompagnò il L. per tutta la vita. Più che dal padre - molto frequentemente in viaggio - fu cresciuto da una serie di figure femminili, tra cui particolarmente importanti una zia paterna e le sue due figlie.
La prima infanzia del L. fu caratterizzata da frequenti spostamenti tra Pico e Roma, ciò che inaugurò una tendenza costante nella sua vita, nel corso della quale non si contarono i cambiamenti di alloggio; unico punto fermo il palazzo di famiglia a Pico.
Frequentò le scuole elementari a Roma, in istituti privati; successivamente, negli anni 1917-19, fu iscritto in un ginnasio di Montepulciano, dove insegnava una delle cugine. Appartengono a questo periodo, probabilmente, i primi tentativi letterari (soprattutto poetici). Passò l'anno scolastico 1919-20 nel collegio Cicognini di Prato, mentre dall'ottobre 1920 frequentò per tre anni il ginnasio-liceo Mamiani di Roma, alloggiando intanto presso il convitto nazionale Vittorio Emanuele II. La vita di collegio gli riusciva insopportabile, e ciò ebbe forti ripercussioni sul suo profitto scolastico.
Nel 1926, presa la licenza liceale, si iscrisse alla facoltà di lettere a Roma; nel novembre 1928 si trasferì a Firenze, dove continuò gli studi, fino alla laurea, conseguita il novembre del 1932, in letteratura russa, con una tesi su Anna Achmatova.
Nonostante l'impegno negli studi universitari fosse molto incostante, quegli anni si rivelarono fondamentali per la sua formazione culturale, tanto per le frequentazioni di intellettuali e letterati (tra i quali L. Traverso e C. Bo, che poi fu uno dei più attenti critici della sua opera), quanto perché praticò intensamente lo studio delle lingue tedesca e russa, di cui divenne in breve tempo un eccellente conoscitore, e avviò quell'attività di scrittura creativa che diverrà col tempo straordinariamente prolifica (anche se dei testi composti in quel periodo solo un racconto, Maria Giuseppa, arrivò alla pubblicazione).
Alla fine del 1933, dopo un periodo passato in Germania, andò a Palermo per iniziarvi il servizio militare, presto interrotto, grazie all'intervento del padre, che sfruttò conoscenze nell'esercito per farlo esonerare. A partire dal 1934 cominciò a collaborare a numerosi periodici letterari, tra cui L'Italia letteraria e Letteratura, in cui andò pubblicando recensioni, saggi critici e soprattutto testi narrativi.
La quasi totalità dei suoi libri fu poi formata raccogliendo scritti già editi; gli stessi romanzi, prima della pubblicazione in volume, vennero fatti uscire in rivista.
Gli anni Trenta videro anche l'inizio dell'attività di traduttore del L., che ebbe un'importanza non secondaria nella sua vicenda letteraria.
Fino all'inizio degli anni Sessanta visse tra Roma, Firenze e Pico, dove si ritirava ciclicamente per scrivere, non senza frequenti soggiorni all'estero. Nel capoluogo toscano frequentò l'ambiente letterario che si raccoglieva alle Giubbe rosse; proprio nel noto caffè avrebbe intrattenuto conversazioni antifasciste, che furono forse la causa di una detenzione al carcere delle Murate, durata dal 23 giugno al 20 luglio del 1943. Il L. ebbe poi a ricordare la breve prigionia come uno dei pochi momenti felici della sua vita: il carcere, infatti, togliendogli la necessità di scegliere e di agire, paradossalmente gli donò la sensazione di vivere una situazione di libertà, anzi l'unica libertà possibile; gli capitò di provare ciò anche nell'autunno dello stesso anno, quando, trovandosi a Pico nel mezzo dei rastrellamenti che vi effettuava l'esercito tedesco, fu costretto a rifugiarsi spesso nei boschi, insieme con il padre. A creargli un vero e proprio trauma fu invece la distruzione di parte del palazzo di famiglia, avvenuta nel maggio 1944 a causa di bombardamenti, vissuta come profanazione dell'unico luogo cui sentiva d'appartenere.
Alla fine del 1946 il L. vinse al gioco una fortissima somma di denaro, che gli permise di riassestare almeno momentaneamente le sue finanze, ormai tutt'altro che floride.
Il gioco d'azzardo costituì una passione per il L., che nelle sue opere ne parlò assai spesso, interpretandolo come un'attività dalle forti implicazioni intellettuali e finanche spirituali, e addirittura come una metafora dell'intera esistenza.
Nel 1955 vinse il premio Marzotto (per tre volumi editi - o riediti - l'anno precedente), che fu il primo di una serie molto nutrita di riconoscimenti (tra gli altri vanno ricordati il Campiello, il Bagutta e lo Strega). Il 3 novembre dello stesso anno si sposò; dal matrimonio nacquero due figli: nel 1958 Maria (chiamata sempre Idolina) e nel 1961 Landolfo (per la famiglia Tommaso). Alla paternità e alle emozioni che i due bambini gli davano dedicò non poche pagine diaristiche. Dal 1962 si trasferì ad Arma di Taggia, in Liguria, nella Riviera di Ponente; negli anni Settanta abitò spesso (oltre che nella sempre amata Pico) a San Remo. Nel 1963 ebbe inizio un'assidua collaborazione col Corriere della sera, che durò, con qualche interruzione, fino alla morte.
Alla fine del 1971 venne colpito da una crisi cardiaca; di lì in poi la sua salute fu sempre poco buona e in lui, come testimoniano numerosi scritti, venne progressivamente meno qualsiasi voglia di reagire. Nel gennaio 1974 subì un intervento chirurgico per cancro; nel maggio dell'anno seguente un enfisema polmonare gli causò una lunga degenza in una clinica sanremese; nel marzo 1978 fu costretto a un nuovo ricovero per un attacco di cuore.
Il L. morì a Ronciglione, presso il lago di Vico, l'8 luglio 1979.
Il suo primo libro, la raccolta di racconti Dialogo dei massimi sistemi (Firenze 1937), mostrava già pressoché per intero il repertorio di temi e la cifra stilistica cui il L. sarebbe sempre rimasto fedele, pur nelle molte sfaccettature della sua vastissima produzione.
Il protagonista-narratore di Maria Giuseppa, il testo che apre il libro, è il primo di una lunga serie di personaggi solitari e annoiati, preda di allucinate fantasie spesso a sfondo sadico (qui il racconto si conclude con lo stupro di un'anziana governante). In Mani si celebra la morte violenta e l'assurdo funerale di un topo, inaugurando quel gusto per il ripugnante che avrebbe dato luogo negli anni alla costituzione di un vero e proprio bestiario, fatto di ragni e scarafaggi, piattole e gechi. Di fondamentale importanza è il racconto che dà il titolo alla raccolta, in cui viene messo in scena il dialogo tra un poeta che scrive testi in una lingua inesistente, da lui creduta persiano, e un critico. La rappresentazione di tale paradossale situazione nasconde l'insorgere di riflessioni che impegnarono l'autore per tutta la vita. Le sue idee sulla lingua mostrano sempre una forte ambivalenza. Da un lato, egli sembra dimostrare una sfiducia totale nelle capacità comunicative della lingua e considerare qualsiasi enunciato come un tentativo di significare irrimediabilmente votato al fallimento (sintomatico è in tal senso quanto afferma il narratore di La muta, in Tre racconti: "Niente di tutto quello che ho detto è vero. Non perché non sia vero, ma perché l'ho detto", Opere, II, p. 449). Dall'altro, è forte nel L. (che ostenta frequentemente la più completa indifferenza, quando non ostilità, per il reale) la sensazione che niente esista al di fuori della lingua, che l'unica esperienza possibile sia l'esperienza verbale. Sin da ragazzo, egli avverte "una sorta di religioso, e superstizioso, amore e terrore delle parole" (ibid., I, p. 744); queste ultime, in definitiva, appaiono in molte zone della sua opera come i soli dati di realtà che si offrono alla percezione. Coerentemente con questi assunti - che pur apparentemente opposti rivelano una matrice comune nell'assolutizzazione del problema della lingua - i suoi racconti sono molto spesso caratterizzati dal moltiplicarsi dei piani narrativi, con effetti fortemente destabilizzanti: all'adozione di diverse ottiche, infatti, sembra corrispondere il prendere vita di diverse realtà. Va peraltro notato che tutto ciò passa per uno stile letterariamente molto impostato, in cui vengono sfruttate a fondo le risorse della tradizione linguistica italiana, con scelte lessicali spesso lievemente arcaizzanti; ed è evidente il gusto per la parola desueta (magari ripescata dai dizionari, come avveniva in G. D'Annunzio), che tuttavia solo in qualche caso sembra rispondere a intenti ironici.
Le due raccolte successive (Il mar delle blatte e altre storie, Roma 1939, e La spada, Firenze 1942) confermarono in pieno le caratteristiche del Dialogo: il L. appariva con sempre maggiore nettezza come un autore atipico nel panorama letterario italiano, erede del romanticismo nero di E.T.A. Hoffmann ed E.A. Poe, ma nutrito anche dalla grande lezione del romanzo russo dell'Ottocento; mentre molto meno importanti apparivano le influenze novecentesche (a eccezione forse di quella di F. Kafka).
Molti critici vollero vedere in lui una sorta di rappresentate italiano del surrealismo; ma tale accostamento appare in realtà un po' forzato. Certo, egli andava accentuando gli aspetti fantastici e onirici della sua narrativa, con esiti spesso assai felici; basti pensare alla memorabile immagine da incubo del mare completamente nero per le blatte (in cui alcuni critici hanno voluto ravvisare un'allusione al fascismo).
Atmosfere simili si ritrovano anche nel primo romanzo, La pietra lunare (ibid. 1939), il cui inizio costituisce l'esempio forse più riuscito di un modulo narrativo ricorrente nel L., l'insorgere in una situazione apparentemente comune di elementi propri di una realtà altra.
Nella fattispecie, una banale conversazione di una benpensante famiglia paesana viene interrotta dall'arrivo di una donna che al posto delle gambe ha zampe caprine (ma tale particolarità viene percepita solo dal protagonista, il che rende più complesso l'incontro tra ordinario e straordinario). Dalle Scene della vita di provincia (così recita il sottotitolo del libro) si passa rapidamente alla rappresentazione di un mondo notturno e stregonesco lontanissimo dalle tranquille certezze della vita borghese e perciò stesso degno di essere vissuto, anche se solo per un momento.
La notte è lo sfondo prevalente anche nei due romanzi successivi, Le due zittelle (Milano 1946) e Racconto d'autunno (Firenze 1947), peraltro assai diversi tra loro.
Nel primo viene narrata la vicenda grottesca delle pratiche blasfeme di una scimmia, contro le quali si scatenano le ansie bigotte delle due padrone, che dopo una sorta di processo, in cui trova luogo una comica disputa teologica tra due sacerdoti, decidono di sopprimere l'animale. Il secondo muove da uno scenario di guerra per approdare presto alla rappresentazione di situazioni misteriose, in una personalissima rivisitazione del romanzo gotico inglese - con tanto di castello e fantasma - che sembra avere soprattutto la funzione di esorcizzare i più violenti traumi dell'autore (la morte prematura della madre e la "profanazione" del palazzo di famiglia).
In Cancroregina (ibid. 1950) il L. tentò la via del romanzo di fantascienza, ma interpretando il genere - non stupisce - con totale libertà.
Nella disperata condizione del protagonista (che, dopo essersi fatto convincere a partecipare a un viaggio verso la luna, si ritrova a orbitare solitario intorno alla terra, senza poter far nulla per cambiare il proprio destino) si può probabilmente leggere un'autorappresentazione dell'autore. La seconda parte del libro è costituita dalle annotazioni del protagonista; si passa quindi dal registro narrativo a quello diaristico, facendo intravedere quella che di lì a poco si sarebbe rivelata una svolta nella letteratura dell'autore.
Con LA BIERE DU PECHEUR (ibid. 1953), il L. diede vita a una "specie di diario" (così lo definì lui stesso: Opere, I, p. 573), genere testuale evidentemente sentito come più congeniale da uno scrittore il cui rapporto con la scrittura appariva ormai improntato a stanchezza e sfiducia.
Pur con molte ambiguità (alle quali peraltro allude il titolo, traducibile, se scritto a caratteri maiuscoli e senza accenti, sia come "la birra del pescatore", sia come "la bara del peccatore"), il L. dà luogo, in pagine di grande tensione, a una confessione impietosa. L'analisi che egli fa di se stesso è infatti priva di qualsiasi indulgenza, e anzi vi si può molto spesso notare un certo compiacimento autodenigratorio; nessuna traccia vi è invece di autoironia, che d'altronde lo stesso autore definì altrove una "scappatoia da ipocriti" e un "alibi da quattro soldi" (ibid., II, p. 341).
Al diario il L. tornò poi con Rien va (ibid. 1963) e Des mois (ibid. 1967), testi in cui alle riflessioni sul senso - o meglio sulla mancanza di senso - della vita e della scrittura si affiancano pagine dedicate a registrare le nuove sensazioni provocate nell'autore dalla paternità, tema affrontato tenendo ben presente il modello dichiarato di F.M. Dostoevskij.
Parallelamente ai libri diaristici (considerati da tutti i critici i più importanti del secondo periodo), il L. continuò a coltivare la scrittura narrativa nelle raccolte novellistiche Ombre (ibid. 1954), Tre racconti (ibid. 1964), Racconti impossibili (ibid. 1966), Le labrene (Milano 1974), A caso (ibid. 1975); mentre a metà tra narrativa, autobiografia e riflessione di costume stanno i numerosissimi testi di taglio giornalistico riuniti in Mezzacoda (Venezia 1958), Se non la realtà (Firenze 1960), In società (ibid. 1962), Un paniere di chiocciole (ibid. 1968), Del meno (Milano 1978), e il postumo Il gioco della torre (ibid. 1987). Nonostante gli esiti assai felici di singoli racconti, si ha l'impressione che tutti questi libri non facciano che ripetere un po' stancamente gli schemi già ampiamente sperimentati nella prima produzione del Landolfi. Stesso discorso va fatto per i romanzi Ottavio di Saint-Vincent (Firenze 1958) e Un amore del nostro tempo (ibid. 1965), il più dannunziano dei suoi testi.
L'esistenza di una cesura tra due momenti diversi dell'opera del L. è evidente, ma le differenze tra le due fasi non devono essere enfatizzate: se non si può negare che nell'autore sono rintracciabili due atteggiamenti apparentemente lontanissimi, quello della finzione più mistificatoria e quello della confessione autobiografica, è però anche vero che spesso tali atteggiamenti tendono paradossalmente a sovrapporsi e confondersi. Infatti, sono molti gli elementi autobiografici che è possibile rinvenire già nei testi narrativi del primo periodo, anche in quelli maggiormente inclini al fantastico (basti pensare all'ambiente che fa da sfondo alla Pietra lunare, ritratto dal vivo, o al fatto che spesso il narratore si compiace di creare i protagonisti dei suoi racconti come travestimenti di se stesso). D'altro canto, il genere diaristico viene interpretato dal L. in modo atipico, lasciando parecchio spazio a inserti narrativi di pura invenzione, esibiti come tali dallo stesso autore; egli sembra costantemente rifiutarsi di andare incontro alle attese del lettore, e voler munire invece le sue pagine di una forte carica straniante. In ogni testo del L., insomma, il confine tra realtà e finzione rimane volutamente labile, i due piani si inseguono all'infinito come in un gioco di specchi.
Nella produzione narrativa e diaristica non si esaurì peraltro la vicenda letteraria del L., il quale viceversa si cimentò, soprattutto negli ultimi vent'anni della sua vita, con numerosi altri generi, dando corpo a un rilevante numero di opere. Pur essendo meno conosciute dal pubblico e meno studiate dalla critica, tali opere non possono essere considerate semplicemente come delle prove minori: di là dal loro valore artistico, effettivamente non sempre all'altezza delle pagine migliori, esse vanno comunque tenute ben presenti nel ricostruire la figura del L., che vi profuse non poche delle sue energie e vi si riconosceva non meno che nei racconti e nei diari. Particolare importanza hanno soprattutto i testi teatrali e lirici.
L'esordio teatrale avvenne con Landolfo VI di Benevento (Firenze 1959), una tragedia in endecasillabi sciolti, ambientata in un Medioevo ricreato secondo lo "stile delle tragedie gotico-romantiche" (Macrì, p. 151). Ma dietro al travestimento antico non è difficile scorgere che il protagonista altro non è se non una proiezione dell'autore; la tragedia, allora, sembra riallacciarsi direttamente ai diari (egli stesso, d'altronde, autorizzò implicitamente una lettura in questo senso). Al teatro tornò in seguito con Scene dalla vita di Cagliostro (Firenze 1963) e Faust '67 (ibid. 1967).
Dopo l'esperimento di Breve canzoniere (ibid. 1971), singolare libro in cui, a dispetto del titolo, i testi lirici (quindici sonetti) sono inseriti in una sorta di romanzo in forma di dialogo, pubblicò due raccolte di poesie, Viola di morte (ibid. 1972) e Il tradimento (Milano 1977). I due libri - uniti da uno stile "alto" che deve molto alla lingua poetica della tradizione, anche per quel che riguarda le scelte metriche - mettono in scena una contemplazione della morte, vista in un primo momento come approdo ultimo, unica certezza che si può attingere nell'esistenza e garanzia della possibilità di fare poesia; ma in seguito affiora l'idea terribile che anche l'"ultimità" della morte sia un'illusione, il che viene vissuto dall'autore come un supremo "tradimento".
Il L. si confrontò anche con la letteratura per l'infanzia, dando vita a due libri - Il principe infelice (Firenze 1943) e La raganella d'oro (ibid. 1954) - la cui pubblicazione, che in entrambi i casi seguì di parecchi anni la stesura, fu da lui voluta tenacemente, di contro alle incertezze dell'editore Vallecchi.
Pur accettando sostanzialmente le convenzioni del genere favolistico, il L. vi inserisce elementi del tutto inconsueti, come la forte caratterizzazione psicologica dei personaggi.
Da ricordare infine il volume Gogol´ a Roma (ibid. 1971), che raccoglie buona parte degli articoli di critica letteraria.
Il libro fa luce sulle passioni del L. lettore (oltre ai numerosissimi testi dedicati a scrittori russi va segnalato un omaggio a D'Annunzio), ma anche sui suoi rifiuti (giudizi assai negativi vengono espressi ad esempio nei riguardi di P. Claudel, P. Éluard, A. Camus, S. Beckett, A. Robbe-Grillet).
Gli amori letterari del L. emergono bene anche dalla sua corposa attività di traduttore, esercitata tra gli altri su testi di Novalis (Enrico di Ofterdingen, Firenze 1962), Ch. Nodier (Inès de las Sierras, in venti puntate nel Nuovo Corriere, a partire dal 4 genn. 1951), A.S. Puškin (Poemi e liriche, Torino 1960; Teatro e favole, ibid. 1961), M.J. Lermontov (Liriche e poemi, ibid. 1963), N.V. Gogol´ (Racconti di Pietroburgo, Milano 1941), Dostoevskij (Ricordi dal sottosuolo, in Narratori russi, ibid. 1948), L.N. Tolstoj (La morte di Ivan Il´ič, ibid. 1948), F.I. Tjutčev (Poesie, Torino 1965), P. Merimée (I falsi Demetrii, Firenze 1944), N.S. Leskov (Il viaggiatore incantato, Torino 1967), H. von Hofmannsthal (Il cavaliere della rosa, Firenze 1959).
Il panorama di riferimento del L. critico e traduttore è tutto ottocentesco; ciò, unitamente alle influenze letterarie percepibili nei suoi testi creativi, a certe peculiarità tematiche ma anche stilistiche delle sue pagine, e all'aura di dandy di cui amava contornarsi, giustifica la definizione, autorevolmente proposta, di "ottocentista eccentrico in ritardo" (G. Contini, Letteratura dell'Italia unita, ibid. 1994, p. 931). Proprio nella completa alterità rispetto a tutte le correnti letterarie e le istanze intellettuali dei suoi tempi sembra risiedere il nucleo forte dell'opera del L., in cui, per quell'ambiguità che sembra la sua principale caratteristica, una forte vena sperimentale, probabilmente non priva di influenze su scrittori successivi, prende vita all'interno di un atteggiamento culturale di fatto sostanzialmente tradizionale.
La critica effettivamente ha sempre messo in rilievo, interpretandola peraltro come tratto positivo, l'"inattualità" dell'esperienza letteraria del L., i cui fondamenti tematici e stilistici rispondono sempre a un'intima necessità di scavo negli interrogativi eterni sull'esistenza, lontano da ogni contingenza. L'approdo verso cui inevitabilmente conduce la riflessione di colui che è stato indicato come "il più metafisico dei narratori del nostro Novecento" è la constatazione dell'"irruenza del male, che è l'unico fenomeno che ci può far dubitare della perfetta riducibilità del mondo nei termini del nulla" (Baldacci, p. 359). Tale irriducibile pessimismo trova efficaci stimoli nel pensiero leopardiano; molti spunti, soprattutto dalle Operette morali, vengono proficuamente messi a frutto dal L. un po' in tutte le zone della sua opera.
Un senso di non appartenenza domina il rapporto del L. con la cultura dei suoi tempi; ciò emerge nettamente nei vari aspetti della sua scrittura, ma appare evidente anche nel deciso rifiuto di essere parte organica degli ambienti letterari alla moda (con le convenzioni da rispettare, gli obblighi pubblicitari cui assolvere). Una distanza incolmabile sembra separarlo dagli scrittori suoi contemporanei, d'altronde da lui avvertiti come "incomprensibili, estranei, remoti"; essi infatti prendono "sul serio, […] a cuore le idee o teorie del tale saggista, le amabili fantasie del tale narratore, le severe sentenze ritmiche del tale poeta", tutte cose verso le quali egli non può non esercitare "la sua inesplicabile miscredenza" (Del meno, p. 121). La stessa "miscredenza", del resto, caratterizza l'atteggiamento del L. verso la propria opera: egli, infatti, cura con un'attenzione estrema tutti gli aspetti sia di contenuto, sia di stile, ma contemporaneamente "avverte l'esaurimento di ogni gioco letterario, fino a dare ai lettori le pure forme di quel gioco e insieme la propria indifferenza a ogni significato" (Baldacci, p. 352).
Autore prolifico e complesso, il L. non si lascia inquadrare facilmente, sfugge a qualsiasi formula critica semplificante. Le sue opere chiedono una lettura in grado di adottare contemporaneamente ottiche diverse, nessuna delle quali appare in grado da sola di fornire risposte soddisfacenti agli interrogativi posti da una pagina fortemente sfaccettata (basti pensare alla banalizzazione evidente in certe interpretazioni che si avvalgono troppo rigidamente di categorie psicanalitiche, le quali peraltro possono essere impiegate molto efficacemente, come dimostra il lavoro di alcuni critici). Si tratta di una letteratura che si svolge sotto il segno della complessità, della stratificazione dei temi e delle forme; proprio il fecondo intreccio di aspetti diversi appare alla base del valore, pressoché universalmente riconosciuto dalla critica, dell'opera del Landolfi.
Per quanto riguarda la produzione del L., dopo i due voll. Rizzoli delle Opere, a cura di I. Landolfi, con una prefazione di C. Bo (Milano 1991-92), in cui si arriva fino al 1971, e un terzo volume Opere (1972-1979) anch'esso edito da Rizzoli nel 2000, il corpus landolfiano è ora in corso di pubblicazione, in singoli libri, presso Adelphi. Sono peraltro numerosi i testi mai raccolti in volume, dispersi in quotidiani e periodici (una bibliografia completa è annunciata da I. Landolfi). Da ricordare è una fortunata antologia tematica di racconti allestita da I. Calvino (Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, ibid. 1982). Le imprese editoriali di Rizzoli e Adelphi testimoniano di una volontà di inserire la figura del L. nel pantheon degli scrittori maggiori del Novecento, volontà che emerge parallelamente nel lavoro esegetico sempre più intenso dedicato all'autore anche da molti critici dell'ultima generazione. L'interesse per l'opera del L., già elevato, sembra insomma destinato a crescere ulteriormente.
Fonti e Bibl.: Per le vicende biografiche dell'autore è imprescindibile la Cronologia di I. Landolfi, nel vol. I delle Opere, pp. XXI-LXV. Manca a tutt'oggi una esauriente bibliografia della critica. Per gli studi apparsi fino al 1975 si può ricorrere a G. Pandini, L., Firenze 1975, pp. 121-128; di qualche utilità è il sintetico profilo di G. Montesano, Rassegna degli studi critici su T. L. (1937-1978), in Critica letteraria, 1982, n. 4, pp. 593-599. Tra gli studi successivi - prescindendo dai capitoli landolfiani presenti in opere generali - si possono ricordare: G. Ghetti Abruzzi, L'enigma L., Roma 1979; Una giornata per L., a cura di S. Romagnoli, Firenze 1981; R. Capek-Habekovic, T. L.'s grotesque images, New York 1986; L. libro per libro, a cura di T. Tarquini, Alatri 1987; B. Villiger Heilig, Leidenschaft des Spiels: Untersuchung zum Werk T. L., Tübingen 1989; O. Macrì, T. L. narratore, poeta, critico, artefice della lingua, Firenze 1990; A. Pezzotta, T. L., in Belfagor, 1993, n. 5, pp. 543-558; A. Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano 1994, pp. 321-343; Le lunazioni del cuore. Saggi su T. L., a cura di I. Landolfi, Firenze 1996; M. Verdenelli, Prove di voce: T. L., Alessandria 1997; M. Carlino, L. e il fantastico, Roma 1998; L. Baldacci, Novecento passato remoto, Milano 1999, pp. 351-361; La liquida vertigine, a cura di I. Landolfi, Firenze 2002. Da segnalare anche fascicoli di riviste in parte o in tutto dedicati al L.: Rapporti, 1981, nn. 22-23; Gradiva, 1983, n. 3; Michelangelo, 1993, n. 1; Le scritture, 1996, n. 2. Dal 1996 il Centro studi landolfiani pubblica un bollettino (Diario perpetuo) in cui trovano luogo aggiornamenti bibliografici.