CERBONI, Tommaso Maria
Nacque a Lucca il 25 marzo 1723 da Bernardino e da Maria Lucrezia Cerboni e fu battezzato con il nome di Carlo. Dopo aver compiuto i primi studi nella città natale, nel 1739 vestì l'abito dell'Ordine dei predicatori nel convento di S. Domenico a Perugia. Continuò i corsi di studio nei conventi domenicani di Viterbo, di Roma e di S.Romano di Lucca, ove ebbe come maestro F. V. Di Poggio, approfondendo in particolare la conoscenza del greco e dell'ebraico e delle discipline filosofiche e teologiche. Fu quindi destinato all'insegnamento, che cominciò nel convento di S. Maria Novella a Firenze e proseguì poi a Todi. Nel 1758 venne chiamato a Roma per ricoprire la cattedra di filosofia nel Collegio Urbano de Propaganda Fide; dopo cinque anni, nel 1763, fu trasferito alla cattedra di teologia che resse fino al 1785.
La sua attività di scrittore, che è strettamente legata con l'insegnamento, iniziò con i due volumi Theologiae naturalis libri tres (Romae 1767-68).
In un momento in cui l'apologetica cattolica abbandona i consueti bersagli rappresentati dagli autori eterodossi seguaci della Riforma per rivolgersi contro la minacciosa diffusione degli scritti dei philosophes, l'opera del C. ha un intento spiccatamente antilluministico: la sua polemica è diretta in specie contro Spinoza, Montesquieu, Hobbes, Collins, Bayle, Voltaire, Helvétius. Ma la confutazione della dottrina dei "lumi", pur condotta secondo il metodo tomistico, rammodernato attraverso il ricorso ai più recenti apologisti della scuola domenicana come Antonino Valsecchi, finisce proprio per utilizzare strumentalmente alcuni motivi caratteristici del pensiero settecentesco d'Oltralpe, sia nel provare razionalmente l'esistenza di Dio, sia nel sostenere che ogni morale deve fondarsi necessariamente sulla religione e l'impossibilità della sopravvivenza di uno Stato ateo.
Di carattere polemico ed apologetico sono anche i due volumi De theologia revelata libri tres (Romae 1768), che rappresentano il completamento dell'opera precedente. Anzi, se nel trattare della teologia naturale lo sforzo era diretto a differenziate l'uso "cristiano" della ragione da quello proprio dell'illuminismo, ma in sostanza alla stessa ragione era attribuito un notevole valore, in quest'ultima opera vi è una più arcigna chiusura non solo contro gli anticattolici ma anche nei confronti di ogni tentativo di rendere meno severa la concezione tradizionale intorno alla dottrina della salvezza (tentativo che i gesuiti perseguivano con lungimirante coerenza).
Ad esempio, viene decisamente respinta ogni idea di tolleranza: partendo dall'idea che la vera religione non può accogliere i principî dogmatici di altre religioni ("Vera religio omnem consociationem cum diversis dogmatibus aliarum quarumcumque Religionum a se diversarum excludere debet": p. 368) e che la tolleranza comporta una qualche forma di unione ("tollerantia enim quandam consociationem secum affert"), il C. conclude che la vera religione non solo non può tollerare le religioni diverse, ma che l'intolleranza è il carattere distintivo di essa ("Vera itaque Religio nullam aliam a se diversam tollerare potest; atque intollerantia verae Religionis proprius character esse debet": p. 370). Altrettanto antirazionalistica, quantunque fosse in linea con la più rigorosa e tradizionale ortodossia cattolica, era la tesi che negava ogni possibilità di salvezza eterna a quanti, seguendo la retta ragione naturale, avessero venerato il vero Dio senza la conoscenza della rivelazione. Ma tutta l'opera muoveva da una ristretta prospettiva clericale, di riservare all'istituzione ecclesiastica gerarchicamente intesa il pieno dominio sul fenomeno religioso, senza porsi alcun problema circa i rapporti tra religione e storia in un'epoca in cui la società civile andava incontro a profondi rivolgimenti politici e culturali.
A questa medesima ottica è improntata anche l'opera maggiore del C., De iure, et legum disciplina (Romae 1776-78, 4 volumi in 4º), che costituisce un organico trattato di "scienza" giuridica secondo il metodo tomistico, partendo dalla lex aeterna ("divina sapientia") per giungere attraverso la lex naturalis ("participatio quaedam legis aeternae in rationali creatura") e la lex divina (lex vetus e lex evangelica) alla lex humana nelle sue branche del gius ecclesiastico e gius civile. È in effetti il diritto ecclesiastico a polarizzare l'attenzione del C. e, all'interno di questo, soprattutto la questione del potere del pontefice nella Chiesa. Erano questi gli anni in cui a Roma si guardava con preoccupazione al diffondersi delle tesi febroniane avverse all'autorità giurisdizionale del papa e favorevoli al governo collegiale dei vescovi sulla Chiesa. Dopo le opere pubblicate dal gesuita F. A. Zaccaria. vedeva la luce, contemporaneamente all'opera del C., quella del suo autorevole confratello T. M. Mamachi Epistolarum ad Iustinum Febronium iurisconsultum De ratione regendae christianae Reipublicae deque legitima Romani pontificis potestate (Romae 1776-78); ma le argomentazioni del C., che dal 1770 era stato elevato al grado di maestro di teologia dell'Ordine domenicano, sono le più intransigentemente filocuriali nel sostenere la supremazia assoluta del pontefice su tutta la Chiesa universale.
A lui spetta la suprema potestà legislativa conferita da Cristo a Pietro: la sua potestas, che contiene anche la vis cogendi, èsuperiore in grado a quella dei vescovi; questi, infatti, in quanto successori degli apostoli, sono forniti anch'essi della potestà legislativa ma subordinatamente al pontefice, come gli apostoli erano subordinati a Cristo (II, p. 418). Secondo il C., che parte dalle formulazioni politiche del Bodin, il regime della Chiesa è "perfecte Monarchicum": esclude cioè non solo ogni partecipazione del popolo cristiano ma anche qualsiasi forma di potere dei vescovi (singolarmente o collegialmente considerati) nel governo della Chiesa universale. Egli pertanto respinge e polemizza con le tesi (prevalenti a Roma e sostenute da Zaccaria e Mamachi) secondo cui la Chiesa sarebbe una monarchia temperata di aristocrazia, ("Repugnat Christum suam Ecclesiam regendam constituisse Monarchico regimine Aristocratia temperato": II, p. 522); ne consegue che i vescovi, pur radunati in concilio, sono sempre soggetti all'autorità papale. A questo tema, dell'autorità del papa sul concilio ecumenico, alle appellazioni e, soprattutto, all'autorità personale del pontefice (che il C. sostiene nella forma più ampia possibile fino alle materie di fatto), è dedicato tutto il terzo volume. Il quarto ed ultimo volume è occupato in parte dal tema della suprema potestà di giudizio del papa (pp. 1-184) e dell'unità della Chiesa (pp. 185-202) e nella parte finale da un esame delle diverse forme di governo civile. Il C. esalta la netta superiorità del regime monarchico assoluto sulle altre forme di governo e l'inferiorità del regime democratico, ritenuto incapace di garantire l'ordine dello Stato. In questa parte dell'opera i bersagli del C. sono l'Esprit des lois del Montesquieu (cfr. specialmente le pp. 274 ss.), il Contrat social e il Discours sur l'origine de l'inégalité parmi les hommes di J.-J. Rousseau (pp. 206 ss., 220 ss., 269). Infine, il C. sostiene l'indipendenza del clero e della gerarchia ecclesiastica dall'autorità civile, la quale anzi dev'essere subordinata a quella.
Lasciata nel 1785 la cattedra di teologia a Propaganda Fide, il C. nel 1787 divenne teologo casanatense e nel 1788 fu eletto procuratore generale dell'Ordine dei predicatori. Negli ultimi anni fu stretto consigliere di monsignor Giulio Maria della Somaglia.
Il C. morì a Roma il 12 marzo 1795 e fu sepolto nel coro della chiesa di S. Maria sopra Minerva, nel cui convento alloggiava.
Postumi videro la luce i sei volumi delle Institutiones theologicae...(Romae 1797), la cui edizione fu curata da Tommaso Angelico Fanelli. L'ampio trattato, che era diretto agli alunni delle scuole di teologia e che più delle altre opere rivela questo carattere didattico, intendeva non solo ribadire le tradizionali tesi tomistiche, intorno alla grazia, al libero arbitrio, al peccato originale, ma confutare altresì le affermazioni dell'Eybel sulla gerarchia ecclesiastica e le conclusioni del sinodo di Pistoia del 1786, in particolare quelle riguardanti il culto delle reliquie, le indulgenze, la messa, il matrimonio, tenendo anche conto della solenne condanna fattane da Pio VI con la bolla Auctorem fidei del 28 ag. 1794. Si nota ancora nel C. la nuova preoccupazione - nata dalla necessità di contrastare la notevole diffusione delle idee richeriste in Italia - di precisare e sottolineare i contorni del potere vescovile, di cui si rimarca la superiorità su quello dei pastori del secondo ordine.
Fonti e Bibl.: Novelle letterarie di Firenze, n. s., VIII (1777), col. 373; IX (1778), col. 785; F. M. Renazzi, Storia dell'Univers. degli studi di Roma…,IV,Roma 1806, p. 417; C. Lucchesini, Storia letter. del ducato lucchese, in Memorie e documenti per servire alla storia del ducato di Lucca, Lucca 1831, p. 329; A. Guglielmotti, Catalogo dei bibliotecari, cattedratici, e teologi del collegio Casanatense nel convento della Minerva dell'Ordine de' Predicatori in Roma, Roma 1860, p. 52; I. Taurisano, I domenicani in Lucca, Lucca 1914, pp. 49, 136, 138 ss.; Id., Hierarchia Ordinis praedicatorum, Roma 1916, p. 106; N. Spano, L'Università di Roma, Roma 1935, pp. 55, 344; A. Walz, Compendium historiae Ordinis praedicatorum, Romae 1948, pp. 435, 449 s., 459; H. Hurter, Nomenclator literarius theologiae catholicae, V,col. 7; Enc. catt., III,coll. 1312 s.