Moro, Tommaso
Forma italianizz. del nome dell’uomo politico e umanista inglese Thomas More (Londra 1477 o 1478 - ivi 1535). Compiuti gli studi letterari e giuridici a Oxford, M. percorse – sotto Enrico VIII – una brillante carriera politica, sino a divenire nel 1532 cancelliere del Regno. Ma quando il parlamento, nel 1534, varò l’Atto di supremazia (con il quale la Chiesa d’Inghilterra si staccava da quella di Roma, per consentire a Enrico VIII di divorziare da Caterina d’Aragona e sposare Anna Bolena), M. si rifiutò di giurarlo e per tale motivo venne giustiziato. Non è tuttavia a questa drammatica vicenda (per la quale la Chiesa cattolica lo avrebbe proclamato santo nel 1935) che M. deve la sua fama, bensì a una piccola opera che non solo conteneva l’invenzione del termine utopia (➔) – destinato a entrare stabilmente nel lessico filosofico-politico e in quello comune – ma che avrebbe anche inaugurato un nuovo e fortunato genere, quello del romanzo politico o utopistico.
Il titolo completo dell’opera di M. era Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae Statu deque nova Insula Utopia (1516; trad. it. Utopia), ma sin da subito l’attenzione si appuntò sul neologismo utopia e sul suo significato. Per alcuni umanisti la ‘u’ derivava dalla contrazione del greco οὐ («non») e quindi utopia significava «luogo (τόπος) inesistente»; ma per altri (che sottolineavano come il negativo dei sostantivi, in greco, si faccia ricorrendo all’alfa privativa) la ‘u’ era una contrazione di εὖ («bene»), ragion per cui utopia significava «luogo felice» (ed è proprio «Eutopia» il termine che comparirà nel frontespizio della prima traduzione italiana, pubblicata nel 1548 da A. F. Doni). Probabilmente M., da raffinato umanista qual era, giocò su questa ambiguità semantica: sta di fatto che da allora il termine utopia ha conservato il duplice significato di luogo inesistente e al tempo stesso felice. Se la parola era nuova, l’idea – quella di una società perfettamente giusta – era tuttavia molto antica: non a caso nell’opera di M. troviamo un aperto elogio di Platone, nonché molte idee simili a quelle del filosofo greco (in primo luogo, l’individuazione della proprietà privata come origine dei mali sociali). Per una singolare coincidenza soltanto tre anni prima di Utopia era apparso Il principe (➔), nel quale Machiavelli aveva criticato tutti coloro i quali, a partire da Platone, si erano «imaginati repubbliche» inesistenti. Contro questo atteggiamento il Fiorentino sosteneva che in politica conta soltanto la realtà effettuale, ossia le cose come sono e non come dovrebbero essere secondo i nostri desideri o i nostri ideali. M. scelse la prospettiva opposta: alla società del suo tempo – che, così com’era, gli appariva profondamente ingiusta – egli contrappose una società ideale, il cui scopo, come avrebbe scritto Cassirer, era quello di «creare spazio al possibile, contro ogni passiva acquiescenza allo stato presente». Così all’inizio dell’età moderna apparvero quasi contemporaneamente due opere che sarebbero in seguito divenute l’archetipo di due modi opposti di rapportarsi alla politica – il realismo e l’utopismo – ma che condividevano la concezione della società come realtà artificiale che ha in sé stessa il proprio fondamento.
Nella prima parte del suo romanzo M. traccia un quadro drammatico delle condizioni socio-economiche dell’Inghilterra del suo tempo, attribuendolo alle enclosures, ossia alle recinzioni con le quali i proprietari terrieri avevano trasformato i terreni destinati alla coltivazione comune in più redditizi pascoli privati: di qui l’ironica affermazione secondo cui le pecore, un tempo mansuete, erano divenute in Inghilterra «così voraci e insaziabili da mangiarsi persino gli uomini e da devastare i campi, le case, le città seminandovi la rovina». Molti contadini, infatti, avevano perso, in seguito alle enclosures, il lavoro e la casa ed erano stati costretti a vagare qua e là, finendo per commettere furti o per darsi al vagabondaggio. Tutto ciò dipendeva, secondo M., da un difetto di fondo dell’assetto sociale: là dove esiste la proprietà privata e «tutto si misura col denaro non è possibile che la vita dello Stato si svolga giusta e prospera». La controprova stava in ciò che il navigatore Raffaele Itlodeo aveva visto in uno dei suoi viaggi oceanici, quando era finito sull’isola di Utopia, regno della perfetta felicità. Ad Utopia – la cui descrizione occupa la seconda parte del romanzo – non esiste proprietà privata né denaro: in tutte le città vi è un magazzino comune dove ogni famiglia viene a depositare ciò che ha prodotto e a prendere ciò di cui ha bisogno. Tutti lavorano, il che permette di ridurre l’orario di lavoro a sole 6 ore e di dedicare il resto della giornata ad attività intellettuali (lettura, musica, conferenze, ecc.). Ad Utopia si vive, si abita e si consuma «in comune»; lo stile di vita è sobrio (niente beni superflui, vestiti uguali per tutti) e le leggi, poche e semplici, non sono che un coronamento dei buoni costumi e della tradizione. Gli Utopiensi conducono in tal modo un’esistenza armoniosa, nella quale non esiste coercizione (l’unico divieto è quello di oziare); le cariche politiche sono elettive, ma l’azione di governo è leggera e rivolta in gran parte alla regolazione dell’attività produttiva. Gli Utopiensi diffidano profondamente degli stranieri, ma se si tratta di scienziati li accolgono cordialmente; essi, infine, detestano la guerra e praticano la tolleranza religiosa. Le differenti religioni hanno alcune credenze in comune: la fede in un Dio buono e provvidente, nell’immortalità dell’anima e in un’aldilà in cui si verrà giudicati. Gli atei non vengono perseguitati, ma non possono ricoprire cariche pubbliche e sono circondati dal generale discredito.
Biografia