MORRONI, Tommaso (Tommaso da Rieti)
– Nacque a Rieti intorno al 1408 da Francesco degli Scioni o dei Morroni e da Onorata di Giovanni Antonio Petroni.
La famiglia, di rilevanza sociale modesta nel Trecento, stava allora emergendo nella vita politica cittadina a capo della fazione che si contrapponeva agli Alfani, il casato più titolato della città. Nel 1429, dopo un principio di guerra civile, i Morroni furono costretti all’esilio. Nel 1431 Tommaso, insieme al padre e allo zio, cercò di rientrare in patria e poi si diede alla milizia partecipando a Roma nel 1434 a un’azione militare che espulse dalla città Eugenio IV. Nel 1435 tornò a Rieti in seguito a una pacificazione tra le fazioni.
Per questi primi anni della sua vita è inevitabile fare riferimento alle notizie contenute nell’Invectiva in Thomam Reatinum spurcissimum ganeonem che, probabilmente dopo il 1438, Poggio Bracciolini gli scagliò contro per impedirgli di diventare scrittore apostolico grazie all’appoggio dei parenti che ricoprivano cariche nella corte papale, trasferitasi dal 1436 a Bologna. Bracciolini, che si vantò addirittura di aver fatto incarcerare Morroni, era anche autore di una lettera altrettanto infamante, firmata dall’umanista milanese Pier Candido Decembrio. Entrambi gli scritti sono esercizi di brillante e violenta retorica denigratoria, che negano a Morroni ogni qualità sociale e gli attribuiscono i più nefandi delitti e la fama di impostore, corrotto, disonesto e mentitore. Si può invece ritenere vero che Morroni, dopo aver tentato senza successo la carriera militare, intraprese gli studi umanistici presso illustri maestri e insegnò privatamente la retorica a giovani di buona famiglia (che secondo i suoi detrattori avrebbe regolarmente corrotto e traviato), peregrinando poi tra varie corti, fra cui la Ferrara estense, Mantova e Milano.
L’invettiva di Bracciolini accenna anche a un matrimonio reatino, a viaggi e incontri, alla reputazione acquistata presso principi e signori abbagliati dalla sua cultura e dalle sue doti letterarie. Doti che secondo il fiorentino erano posticce, dovute alla sua memoria proverbiale, che gli permetteva di mettersi in mostra sfoderando una sapienza fuori dell’ordinario, ma superficiale e ripetitiva; e amplificate dalle menzogne con cui Morroni mascherava la condizione modesta e le lacune culturali. In conclusione, un personaggio ripugnante per i costumi dissipati e corrotti (dalle truffe alla corruzione di ragazzini innocenti, dalla smodata gola alla maldicenza), per le qualità simulate (un «asinaccio» indegno di entrare in curia), per le azioni disoneste con cui cercava di rimediare alla costante penuria di denaro.
Tommaso Morroni si difese con un sermone recitato davanti al collegio dei cardinali, ma come già altri che erano stati presi di mira dalla feroce penna del fiorentino non si risollevò dai colpi ricevuti e dovette rinunciare alle sue aspirazioni. Bracciolini negava che Morroni avesse svolto missioni diplomatiche a Firenze, a Siena e a Siviglia nel 1439, viaggi che, tuttavia, svolse effettivamente, come risulta da una lettera di Francesco Filelfo. È da escludere l’attività diplomatica presso il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, per il quale però Morroni scrisse versi e una canzone che profetizzava alti destini al suo ducato. In ogni modo, tra successi effettivi e attacchi violenti, in questi anni Morroni diventò definitivamente il Thoma Reatinus famoso in tutta Italia, figura eclettica e poco impegnata di intellettuale quattrocentesco, peregrinante tra diverse corti con ruoli e professioni disparate. Il successo dei suoi scritti, depositati in numerose miscellanee umanistiche, smentisce la malevolenza dei detrattori. Ebbe amici Filelfo e Flavio Biondo, che lo ricordò nell’Italia illustrata come il più illustre letterato di Rieti, anche in virtù della prodigiosa capacità mnemonica. Dal 1442 circa collaborò con Francesco Sforza, che era diventato signore della Marca, e svolse varie missioni presso l’antipapa Felice V. Nel 1445 era a Venezia, nel marzo 1448 a Grosseto dove si svolgevano negoziati tra la signoria veneta e Alfonso d’Aragona, che dal 1447 aveva portato l’esercito in Toscana. Restò al servizio sforzesco anche dopo la conquista del ducato di Milano e nel 1452, mentre riprendeva la guerra con Venezia, fu inviato a Roma per prendere contatti con vari emissari della corte napoletana. Nel 1454 era a Tours presso il re Carlo VII, poi a Vienne presso Luigi Delfino, ad Aix presso Renato d’Angiò e a Bruxelles presso il duca di Borgogna Filippo III, svolgendo missioni anche delicate. Negli ultimi giorni del 1455 fu nominato revisore generale delle entrate ducali, incarico che dimostra sia la fiducia del duca sia una solida situazione patrimoniale: in quest’epoca, infatti, godeva di una certa disponibilità di denaro e aveva fatto dipingere nel suo palazzo milanese presso Santo Stefano alcuni ritratti molto ammirati di Francesco Sforza. Scrisse altre opere fra cui, per il conte Galeazzo Maria Sforza, un trattatello in volgare su varie materie tra mitologia, cosmologia e scienza e fu costantemente utilizzato come oratore nelle occasioni solenni oltre che ascoltato come consigliere autorevole.
In seguito si occupò sia del suo incarico finanziario, sia di missioni diplomatiche importanti. Alla fine del 1458 era a Napoli per condolersi della morte di Alfonso d’Aragona, poi a Sulmona dove incontrò il nuovo re Ferrante, al quale diede avvisi circa le preoccupanti iniziative del conte Iacopo Piccinino. Fu poi a Roma per conto di Ferrante, presso Pio II, e visitò la città natale, dove fu accolto trionfalmente. Nel gennaio 1459 era ancora a Roma, impegnato in vari colloqui, e poi a Firenze, quindi a Napoli per un’udienza riservata con il re, al quale Francesco Sforza suggeriva, senza essere ascoltato, di prendere le distanze da Piccinino. Nel marzo 1461 fu inviato a Genova, dove il partito popolare aveva posto l’assedio al governatore francese chiuso nel Castelletto, per tentare di pacificare le fazioni cittadine e permettere l’intervento dello Sforza. In settembre, con Pietro Pusterla e Lorenzo da Pesaro, fu ambasciatore presso il nuovo re, Luigi XI, e poi proseguì da solo per incontrare a Bruxelles il duca di Borgogna, ricongiungendosi con gli altri nel febbraio 1462.
L’invio di Morroni era stato duramente contestato da Pusterla, che lo giudicava indegno dell’incarico, episodio paradigmatico delle chiusure dell’aristocrazia milanese verso gli uomini nuovi imposti da Francesco Sforza. Da parte sua Morroni voleva farsi onore e impiegò somme considerevoli per far vestire di stoffe preziose il suo seguito.
Il 21 ottobre 1461 Francesco Sforza lo nobilitò d’autorità, dandogli il titolo comitale per le località della montagna piacentina che gli aveva concesso in feudo l’anno precedente. Pusterla non mancò di denigrarlo, accusandolo di trame con Renato d’Angiò. La concessione feudale lo aveva creato conte di Casaldonato, Cerreto, Centenaro e della minuscola località mineraria di Ferriere da lui fondata, e rinominata Rieti con il nome della città natia. Erano terre periferiche, dove Morroni sperava che le potenzialità minerarie si potessero sfruttare per avviare una grande impresa metallurgica, anche se le sue finanze non erano più così prospere come in passato. Nell’estate del 1462 fu nominato commissario ducale per affrontare la rivolta fiscale scoppiata nelle campagne piacentine; nel 1464 ricevette l’incarico di curare l’esecuzione del testamento del giurista reatino Angelo Cappellari, auditore ducale dal 1450, e fu designato per affrontare la difficile situazione di Genova, dove si recò l’anno dopo.
Poiché nei documenti milanesi Morroni è sempre e solo citato come Tommaso da Rieti (forse per distinguerlo dai Moroni milanesi), Ferdinando Gabotto (1888) ritenne che fosse un Cappellari, fratello di Angelo. Pietro Ghinzoni (1890) ne chiarì l’identità e diede ampi ragguagli sulle ultime vicende milanesi. Gabotto ebbe però il merito di stabilire, contro l’opinione di Alfonso Bertoldi (1888), che non era esistito un altro Tommaso da Rieti, poeta e letterato, nel XIV secolo.
Nel 1466 Morroni ebbe l’incarico dal nuovo duca Galeazzo Maria di prelevare il sussidio imposto al clero lombardo: compito che svolse con modi spicci, inimicandosi il cardinale di Pavia, Giacomo Ammannati Piccolomini, che cercò di metterlo in cattiva luce a Roma. Designato nel 1467 per incontrare l’imperatore in viaggio in Italia e trattare la questione spinosa del titolo ducale, si vide negata l’ambasciata per l’opposizione dei nobili milanesi. Nel 1467 fu al comando di una spedizione in Lunigiana contro i Fregoso e i Fieschi, scelto, probabilmente, per la conoscenza della montagna piacentina dove i suoi piccoli feudi confinavano con quelli dei Fieschi. Partecipò poi all’impresa di Sarzana nel febbraio del 1468 e curò il presidio delle fortezze strappate ai nobili Dal Verme. Fece parte di una commissione che doveva ripartire parte degli alloggiamenti militari nelle pievi del ducato di Milano; sempre molto attivo come consigliere e ambasciatore, alla fine del 1468 era a Roma, dove nel settembre 1469, ammalatosi gravemente, gli fu negata l’assoluzione: forse per lo stile di vita disordinato e sfrenato, più probabilmente a causa dei provvedimenti esecutivi che gli avevano inimicato il clero lombardo.
I suoi debiti sempre più pesanti e la fama di uomo senza scrupoli (attestata per esempio dalle querele dei figli di Angelo da Rieti, che lamentavano ruberie nella gestione dei loro beni) non diminuirono la fiducia dei duchi: ancora nel 1470 fu inviato a Firenze insieme ad Alessandro Spinola per una missione di grande rilievo e nel 1473-74 compì un impegnativo tour diplomatico che lo portò a Ravenna, Venezia e di nuovo a Firenze per trattare la complicata vertenza per Città di Castello, questione che coinvolgeva il papa, i Medici, gli Aragonesi di Napoli e il complesso dei delicati equilibri italici.
Nel 1470 gli furono confermati i feudi piacentini, con l’aggiunta di altre località. L’impresa delle miniere si stava rivelando fallimentare per gli investimenti infruttuosi, il malcontento delle comunità per le prestazioni coatte, l’abbandono degli impianti, il ritiro dei vari affittuari che si erano alternati nell’impresa. Tuttavia, le rendite che il Morroni percepiva suscitarono l’interesse del duca, scatenando una battaglia che lo vide perseguitato, negli ultimi anni della sua esistenza, e custodito prima a Piacenza poi nella cittadella di Alessandria, nonostante il tentativo di vendere le miniere a un parente reatino, Lorenzo di Montegambaro e di lasciare in eredità parte dei beni all’unica figlia Brigida, da lui legittimata, e al genero Alessandro da Rudiano, cortigiano dei Gonzaga (vicende ricostruite puntualmente da Ghinzoni, 1890). Nel luglio 1475 era sotto custodia ad Alessandria e nei primi mesi del 1476, dopo una grave malattia dovuta anche agli stravizi, morì, in data imprecisata tra la primavera e l’estate di quell’anno. Le miniere furono incamerate dal duca.
La fama letteraria di Morroni è controversa: gli apprezzamenti che Bertoldi (1888) riserva ai suoi numerosi componimenti in versi e in prosa si devono in larga misura alla convinzione che fossero opera di un omonimo vissuto nel Trecento. Il trattatello Cosmografo scritto in volgare attorno al 1461, tra mitologia e scienze naturali, metteva a frutto la dote che l’autore aveva al massimo grado: la capacità di assimilare e di ripetere nozioni che circolavano nella cultura del suo tempo. Compose numerosi sermoni e orazioni, fu autore di rime e canzoni, in gran parte inedite. Nemmeno il trattatello De fortuna, dedicato al patriarca Biagio Molino, fu pubblicato, e Francesco Novati e Georges Lafaye (1891), studiando il codice lionese che lo contiene, osservarono che Morroni avrebbe trattato meglio il tema della fortuna se invece di riprendere i soliti stereotipi avesse ripercorso le vicende della sua vita avventurosa e inquieta. La sua produzione letteraria e poetica rimane depositata nelle parziali trascrizioni dei suoi biografi e in vari codici, censiti nei repertori sotto nomi diversi: Morroni/Moroni, da Rieti, Reatinus o anche, erroneamente, Aretinus.
Fonti e Bibl.: L. Osio, Documenti diplomaticitratti dagli archivi milanesi, III, Milano 1877, pp. 279, 283 s., 502; P.C. Decembrio, Opuscula historica, a cura di A. Butti et al., in Rer. Ital. Script., XX/1, Città di Castello 1925-1958, pp. 360-362; A. Bertoldi, Un poeta umbro del secolo XIV, in Archivio storico per l’Umbria e le Marche, IV (1888), pp. 49-72; F. Gabotto, Tommaso Cappellari da Rieti letterato del secolo XV, ibid. pp. 628-662; P. Ghinzoni, Ultime vicende di Tomaso M. da Rieti, in Archivio storico lombardo, XVII (1890), pp. 41-73; G. Lafaye - F. Novati, Le manuscrit de Lyon n.° C, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, XI (1891), pp. 375-378; R. Sabbadini, Briciole umanistiche, in Giornale storico della letteratura italiana, XLVII (1906), pp. 25-29; A. Sacchetti Sassetti, La famiglia di Tomasso M. e le fazioni in Rieti nel secolo XV, in Bollettino di storia patria per l’Umbria, XII (1906), pp. 81-126; E. Walser, Poggius Florentinus. Leben und Werke, Leipzig-Berlin 1914, pp. 191-194; C.M. Cipolla, Una impresa mineraria del Quattrocento, in Bollettino della società pavese di storia patria, n.s., I (1946), pp. 70-76; P.O. Kristeller, Iter italicum, I-VI, Leiden-London 1963-92, ad indices; F. Leverotti, Diplomazia e governo dello stato. I “famigli cavalcanti” di F. Sforza, Pisa 1992, pp. 210-213; D. Andreozzi, Nascita di un disordine. Una famiglia signorile e una valle piacentina tra XV e XVI secolo, Milano 1993, pp. 119-12.