Uchida, Tomu
Regista cinematografico giapponese, nato a Okayama il 26 aprile 1898 e morto a Tokyo il 7 agosto 1970. L'opera di U. è nettamente divisa in due fasi a causa del lungo soggiorno in Cina dal 1940 al 1954, prima come soldato dell'esercito giapponese e poi come prigioniero di guerra. Negli anni Trenta il regista si affermò soprattutto nell'ambito del cinema realista e del keikō eiga (film di tendenza) con opere dalle tematiche sociali, in contrasto con l'ideologia di destra che in quegli anni si andava rapidamente diffondendo nel Paese; nel dopoguerra, invece, il suo nome si sarebbe legato soprattutto alla realizzazione di jidaigeki (film storici) dal carattere cupo, ambiguo e nichilista. Fa eccezione, in questo secondo periodo, il gendaigeki (film d'ambientazione contemporanea) Kiga kaikyō (1964, Lo stretto della fame) che la critica giapponese considera uno dei capolavori della storia del cinema nipponico.
Dopo aver mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo come attore, entrò nel 1925 negli studi della Nikkatsu come assistente alla regia di diversi cineasti, fra cui Mizoguchi Kenji. Nel 1927 diresse il suo primo film, Kyōsō mikkakan (Tre giorni di competizione), una commedia così come i successivi lavori. Presto, tuttavia, optò per un registro più impegnato, con opere di gusto realista e dagli evidenti intenti sociali: nacquero così Ikeru ningyō (1929, La bambola vivente), storia della sconfitta di un uomo che cerca senza scrupolo di farsi strada nella società; Jinsei gekijō ‒ Seishun hen (1936, Il teatro della vita ‒ Giovinezza), che narra le vicissitudini di un giovane studente arrivato nella capitale dalla campagna; Kagiri naki zenshin (1937, Il progresso infinito), da un soggetto di Ozu Yasujirō, che affronta il tema della vecchiaia narrando la triste sorte di un impiegato che va in pensione; e Tsuchi (1939, Terra), dedicato alla difficile vita, scandita dall'inesorabile scorrere delle stagioni, di una famiglia di contadini.
Rientrato in patria dopo la dura esperienza cinese, U. ritornò nel cinema alle dipendenze, questa volta, della casa di produzione Tōei, per la quale realizzò alcuni jidaigeki di grande respiro e intensità drammatica. Tra questi vanno citati almeno Daibosatsu tōge (1957-1959, Il valico del grande Buddha) e Miyamoto Musashi (1961-1965), due film, il primo girato in tre parti e il secondo in cinque, che riprendono figure leggendarie della letteratura e del cinema di samurai, raccontate secondo una prospettiva che nega valori e speranze. Ma il titolo più importante degli anni Sessanta è, in tutt'altro genere, Kiga kaikyō, storia di un uomo che, per nascondere un crimine commesso molti anni prima e salvare così il proprio status sociale, è costretto ancora a uccidere. Il film è un attento studio della psicologia di un criminale che sembra uscito da un romanzo di F.M. Dostoevskij, un'opera pervasa da cupe atmosfere, toni espressionisti e ambigue relazioni umane.
G. Barrett, Archetypes in Japanese film, London 1989, pp. 51-56, 213-17.