toponimi
Si intende con toponimo il nome proprio geografico (o nome locale, o nome di luogo). Si adoperano anche altri termini a seconda del tipo di toponimo: per es., agiotoponimo è quello che trae origine dal nome di un santo (➔ agiotoponimi), microtoponimo (opposto al macrotoponimo) è il nome proprio di un luogo minore (un prato, un appezzamento di terreno, un bosco, ecc.).
La documentazione e lo studio dei toponimi è oggetto della toponomastica, parola che nell’uso comune alterna con il meno frequente toponimia; tuttavia, seguendo l’orientamento degli studi specialistici si dovrebbe distinguere tra toponimia (la documentazione) e toponomastica (lo studio) (➔ onomastica).
Anche se la curiosità e il tentativo di trovare l’origine di un toponimo sono assai antichi, lo studio scientifico dei toponi-mi nasce nella seconda metà del XIX secolo ad opera di Giuseppe Flechia, linguista piemontese, che avviò un filone di ricerca di notevole interesse per la storia linguistica e culturale d’Italia. Ad adoperare per primo il termine toponomastica fu lo stesso Flechia il quale, in una lettera indirizzata a ➔ Graziadio Isaia Ascoli nel 1871, parlava di «toponomastica italiana» (Marcato 1994).
Secondo Flechia lo studio toponomastico deve seguire il metodo della linguistica ed è importante la forma dialettale del toponimo per la ricostruzione della forma originaria, cioè per l’individuazione dell’➔etimologia. Altrettanto rilevanti per un corretto studio toponomastico sono anche tutte le documentazioni storiche disponibili attraverso le fonti in grado di rendere conto delle variazioni nel tempo e nello spazio. I dati linguistici vanno inseriti in un ampio quadro di relazioni interdisciplinari. È necessario conoscere il sito geografico e la storia della località, le caratteristiche e la storia linguistica del territorio (cfr. Skok 1937).
La ricerca toponomastica ha due principali articolazioni: la stratificazione linguistica e l’individuazione di tipologie toponomastiche referenziali (anche dette categorie toponomastiche) e formali (Pellegrini 1990; Zamboni 1994).
Il nome proprio geografico si caratterizza per essere spesso di antica formazione, risalente a epoche passate, a lingue diverse da quella attualmente parlata in un dato territorio, trasmesso nel tempo e raramente sostituito. Di conseguenza i toponimi si configurano per lo più come segni linguistici ‘opachi’, non si intravvede quel significato che solitamente avevano quando si sono formati. Il toponimo infatti è un segno linguistico che coincide con l’oggetto designato, con il referente: un nome come Roma fa pensare alla città così chiamata. Per dire quale possa essere il significato di questo nome è necessario ricorrere alla ricerca etimologica, che può formulare ipotesi sull’origine del nome.
La curiosità sull’origine dei toponimi, e in special modo di quelli opachi, ha attirato da sempre l’interesse degli studiosi, in particolare di storici dilettanti che, senza informazioni di tipo linguistico, si sono occupati dell’etimologia, spesso con il desiderio di dimostrare l’antichità e nobilitare le origini di un paese. Ma la ricerca etimologica richiede un metodo di indagine e l’interpretazione che viene data sulla base di assonanze con parole della propria o di altre lingue produce spesso come risultato interpretazioni paretimologiche. Così un nome di luogo come Gallo (in Campania), che può sembrare connesso con il nome gallo, è invece l’esito della forma più antica Gualdo, come testimoniato da documenti risalenti al XII secolo, non più riconoscibile a causa del cambiamento fonetico (i suoni -ld- si sono assimilati in -ll-). Il toponimo Gualdo a sua volta deriva dalla parola longobarda wald «bosco» (come Gualdo Tadino in provincia di Perugia e altri).
Attraverso procedimenti di ➔ paretimologia (o etimologia popolare) si sono formati nuovi nomi. Si può ricordare San Genito (in Campania) che, pur sembrando derivare dal nome di un santo, è una nuova forma rispetto a quella originaria, risultato di un’interpretazione paretimologica di un precedente Sangineto, derivato dal nome di una pianta (si parla allora di fitotoponimo), il corniolo (in latino sanguine, con il suffisso -etum con funzione collettiva). Un nome nuovo può dipendere anche dal fraintendimento del nome della tradizione dialettale. Ne è un esempio il Gulfu di li ranci (in Sardegna), letteralmente «golfo dei granchi», che i cartografi italianizzano con Golfo Aranci: fatto il nome s’è trovata la storia (evidentemente infondata) di un naufragio, in quelle acque, di una nave carica di arance, da cui il toponimo.
Solitamente un nome di luogo si mantiene – come si è detto – attraverso il tempo e talvolta la sua forma si conserva immutata come per Roma, Verona e altri, ma spesso subisce modificazioni attraverso la trasmissione orale, di generazione in generazione, così come evolve una lingua parlata. Rispetto agli altri elementi che formano il vocabolario di una lingua, i nomi propri tendono però a cambiare con maggiore lentezza e per tale ragione possono essere testimoni di forme antiche della lingua, utili per la grammatica storica. Ciò accade specialmente per i nomi meno importanti e meno soggetti a influssi colti: per es. il toponimo Fossò (nel Veneto) corrisponde a «fossato», ed è infatti attestato come Fossato nel 1073; deriva dal lat. fossatum, con l’uscita -ò come esito del lat. -atum (in italiano -ato) che caratterizza il dialetto veneto del territorio in epoca medievale (nel dialetto più moderno -ò è sostituito da -à). In questa casistica rientrano i nomi di luogo che riflettono arcaismi lessicali, parole un tempo in uso e ora scomparse, di cui resta traccia nelle formazioni toponomastiche: per es., fanum «tempio» da cui derivano Fano nelle Marche e anche Fiano (Roma) dal diminutivo fanulum (attraverso *flanum).
La documentazione scritta, pervenuta sin da tempi lontani, permette di recuperare almeno parte dell’evoluzione subita nel tempo da un nome e contribuisce alla ricostruzione della sua etimologia: per es., la documentazione Laurelia risalente al 1152 conferma che Loreggia (nel Veneto) deriva dal nome dell’antica via Aurelia.
Non mancano sostituzioni di nomi: già in epoca antica il toponimo Felsina (di origine etrusca) viene cambiato in Bononia (dovuto alla presenza dei Galli Boi che invadono il territorio nel IV sec. a.C.) che corrisponde all’odierna Bologna, attraverso l’esito Bolonia per dissimilazione.
Diverse sono le sostituzioni in epoca recente, specie dall’Unità d’Italia, dovute a ragioni diverse. Talvolta il nome viene cambiato perché considerato sconveniente: così Canemorto (in provincia di Rieti) diventa Orvinio nel 1863, riprendendo l’antico toponimo Orvinium, centro italico di localizzazione non accertata; Melma (in provincia di Treviso) nel 1935 diventa Silèa, un nome creato a livello amministrativo a partire da quello del fiume Sile che scorre nel territorio.
In altri casi il cambiamento è motivato dall’intento di nobilitare le origini del paese o di celebrare qualche personalità nativa del luogo o altro. Così Corridonia (in provincia di Macerata) era Mont’Olmo fino al 1851, quando assunse il nome di Pausula (dall’antica città romana di Pausulae ricordata nelle fonti classiche); nel 1931 il centro prese il nome attuale in onore del sindacalista Filippo Corridoni, nativo del luogo, caduto eroicamente sul Carso nel 1915. La denominazione popolare del luogo è ancora mundùrmu o mundillùrmu, che corrisponde al vecchio toponimo. Alla città di Latina, fondata nel 1932, era stato assegnato il nome di Littoria, celebrativo del governo fascista, mentre il nome attuale risale al 1945.
Diverse tradizioni linguistiche determinano una polimorfia toponomastica: nomi differenti per lo stesso oggetto geografico, in altre lingue e dialetti, per via colta o popolare. Un toponimo può avere una forma dialettale e una forma ufficiale, talvolta derivati da una diversa base, o più forme, anche ufficiali, come accade per i territori delle ➔ minoranze linguistiche, qual è l’Alto Adige / Südtirol, dove i toponimi sono ufficialmente designati in forma bilingue (Bolzano / Bozen, ecc.) se non trilingue come nelle valli ladine: La Villa / Stern / La Ila (in Val Badia). Ma la toponomastica bilingue ora è indicata ufficialmente anche negli altri territori interessati (come prevede la legge 482 del 1999; ➔ legislazione linguistica): così Bova (Reggio Calabria) e, nella forma greca locale, Chora tu vua.
È opportuno un cenno anche ai nomi stranieri italianizzati come Londra rispetto a London, Vienna e Wien, Parigi e Paris, Nuova York e New York. Si tratta di un processo frequente in passato e ora affievolito; a parte le forme ormai stabili nella lingua, ora i nomi stranieri mantengono la veste originaria per quanto la pronuncia sia spesso adattata. Al contrario, per effetto della insufficiente preparazione glotto-geografica dei redattori, diversi nomi stranieri sono menzionati sui giornali italiani con la loro traduzione (o calco) inglese: Mexico City è spesso usato per indicare Ciudad de México, in italiano Città di (del) Messico.
La ricerca toponomastica in prospettiva storica studia le vicende linguistiche dell’Italia attraverso i secoli e i diversi strati linguistici. La sedimentazione di questi è ben riflessa dal patrimonio toponomastico, per il fatto che i toponimi si conservano (come sopra ricordato) se vi è continuità nella trasmissione, pur nel cambiare di genti e lingue. I nomi di luogo si possono distinguere in due grandi gruppi: il primo comprende i nomi ereditati da una lingua precedente e il secondo quelli creati in varie epoche dal popolo che tuttora occupa il territorio e che sono quindi spiegabili con le varie fasi della lingua di questo (cfr. Skok 1937).
Antichi toponimi, testimoniati anche dalle fonti classiche, spesso rinviano alle lingue di popolazioni antiche, prelatine, talvolta note in modo frammentario. Il nome Bari, ricordato in epoca classica come Barium dagli scrittori latini, Bárion e Báris dai greci, risale al messapico, lingua prelatina indoeuropea che si parlava in parte dell’odierna Puglia, quindi a un’epoca anteriore alla latinizzazione dell’Italia. Attraverso glosse (in particolare da Esichio) è ricostruibile il significato del nome corrispondente a «casa», «luogo munito, porticato». Nome assai antico è anche Caralis, ora Cagliari, già testimoniato dagli autori classici e rinviante a uno strato linguistico prelatino, non facilmente individuabile. Secondo un’ipotesi, si può confrontare con un eponimo fenicio Qaral; l’odierno Cagliari dipende da una forma medievale Callari letta e trascritta al modo spagnolo, sul modello di Castilla → Castiglia. Agli Etruschi, come già detto, pare risalire l’antico nome di Bologna, Felsina; si ritiene che il toponimo corrisponda a una forma antroponimica, il gentilizio felznal attestato nelle epigrafi, a sua volta in relazione col nome di luogo Velzna, l’odierno Bolsena.
Nel complesso sono numerose le testimonianze toponomastiche del ➔ sostrato prelatino, dal celtico dell’Italia settentrionale al greco della colonizzazione dell’Italia meridionale, della Sicilia e di parte della Sardegna. Con lo studio dei nomi di luogo è possibile delineare con maggiore precisione gli antichi insediamenti di queste popolazioni e altrettanto si può fare riguardo alla latinizzazione del territorio e ai siti interessati da popolazioni giunte nell’alto medioevo. Per l’epoca della romanizzazione sono notevoli i nomi che rinviano a fondazioni: Forum Livii «mercato di Livio» da cui deriva Forlì; da Julia Taurinorum, poi Julia Augusta Taurinorum in onore di Ottaviano, deriva Torino; da Augusta Praetoria proviene Aosta. Vari toponimi traggono origine da indicazioni stradali (toponomastica stradale); numerosi sono quelli che alludono al lapis milliarius posto a una data distanza da un centro: di qui i vari Terzo, Quarto, Quinto, ecc., in una formazione del tipo ad tertium lapidem o lapis milliarius tertius. Appartengono a questo gruppo nomi di luogo di etimo meno trasparente, come Tricesimo (Udine) che corrisponde al latino tricesimum, propriamente «(al) trentesimo (miglio da Aquileia)»; Diemoz, a circa diciotto chilometri da Aosta, riflette duodecimum; Vèsime (Asti) allude alla distanza di venti miglia romane sia da Acqui che da Asti: (ad) vigesimum (lapidem). All’organizzazione del territorio e alla distribuzione fondiaria si rifanno invece toponimi come Dicomano (Firenze), dal latino decumanus «limite divisorio dell’agro da levante a ponente».
Una categoria di nomi rappresentata in tutta l’Italia è quella dei toponimi detti prediali o fondiari, che derivano da un nome personale latino (in genere corrispondente al gentilizio) con vari suffissi, specialmente -anus. Così un nome di luogo come Mariano o Marano (a seconda dell’evoluzione fonetica) ha all’origine Marius attraverso un praedium Marianum che designa la proprietà fondiaria assegnata a Marius. Formazioni di questo tipo sono già documentate dal I secolo a.C., e poi sempre meglio in età imperiale e permettono di ricostruire la romanizzazione del territorio.
I nomi di luogo documentano poi le diverse popolazioni giunte in Italia, principalmente Goti e Longobardi. Alcuni alludono a etnie e stanziamenti nel territorio. Altri possono essersi formati in un periodo successivo attraverso appellativi o nomi che dalle lingue, cosiddette di superstrato germanico, sono entrati nelle parlate neolatine dell’Italia. Rientrano nel primo caso toponimi come (Castello di) Gòdego (Treviso), Gòdega di Sant’Urbano (Treviso), Gòito (Mantova), Montegodi (Verona), che testimoniano l’etnico Goti (➔ etnici); così Monghidoro (Bologna) che presuppone una formazione mons Gothorum. Da Longobardi dipende Longobardia, da cui Lombardia e Lombardore (Torino), che riflette un genitivo latino Langobardorum: infatti, in un documento del 1014 è ricordato come (Castellum) Langobardorum. Ad altre etnie giunte in Italia, anche al seguito dei Longobardi, si rifanno nomi locali come Sassinoro, in Romagna e in provincia di Benevento, che deriva dall’etnico Sassoni e che conserva nell’uscita -oro un’antica desinenza di genitivo -orum. Dai Sarmati dipendono toponimi come Sarmede nel Trevigiano, Sermide nel Mantovano; dai Gepidi il toponimo Zevio (Verona) e altri sparsi dal Veneto al Piemonte. L’etnico Suavi, o Svevi, è riflesso nel toponimo Soave (Verona), già attestato nell’874; un uguale toponimo è frazione di Porta nel Mantovano. Nel nome di luogo Tivoli presso San Giovanni in Persiceto (Bologna) si rintraccia un’interessante testimonianza dei Taifali che, secondo gli storici, furono deportati dalla Dacia in Emilia all’epoca di Graziano (IV sec.) e insediati nell’area di Reggio, Parma e Modena, oltre che in Gallia, in particolare nel Poitou; il toponimo è attestato come Taivalum nell’VIII secolo (Pellegrini 1990: 280).
Nel gruppo dei toponimi che hanno alla base un appellativo di origine germanica bisognerebbe poter distinguere tra quelli continuati o meno nelle parlate neolatine per poter datare il toponimo. Frequente è il tipo Fara dal longobardo fâra, il cui significato di «comunità di tribù che viaggia» finisce per equivalere a «insediamento di una comunità di viaggio longobarda» (Sabatini 1963). Si tratta di un appellativo non vitale nei ➔ dialetti, ad eccezione, pare, del solo dialetto friulano di Barcis, in cui fara sopravvive nel senso di «famiglia immigrata, piccolo podere, villaggio»: ciò depone a favore dell’antichità della formazione toponomastica, ovvero di uno stanziamento longobardo. Ne dipendono toponimi vari: Fara Filiorum Petri e Fara San Martino (Chieti), Fara Gera d’Adda (Bergamo), Fara in Sabina (Rieti), Fara Novarese (Novara) e altri, e con -rr- per ipercorrettismo: Farra d’Isonzo (Gorizia), Farra d’Alpago (Belluno), Farra di Soligo (Treviso).
Un altro appellativo di origine longobarda è braida «campagna, podere», molto comune nei nomi di luogo, appellativo tuttora usato, quindi meno significativo di fara come toponimo da insediamento. Tra i più noti nomi di luogo che si collegano a questo termine vi sono Brera presso Milano, Bra in provincia di Cuneo, Breda in quella di Treviso. Tra le voci di origine longobarda, non continuate come appellativi nei dialetti, vi è ad es. haribann «bando militare», da cui Erbanno (in qualche documentazione anche Derbanno con agglutinazione della preposizione de-) in provincia di Brescia.
Ben rappresentata è anche la categoria dei toponimi derivati da nomi di persona: tipico è il composto settimanico, formazione ibrida con un appellativo neolatino seguito da nome di persona germanico. Ne fanno parte, per es., Campaldani (Arezzo), formato con il nome gotico Alda, -anis; Poggibonsi (Siena) da Poggio Bonizzi, da un personale germanico Bonizo; Camaldoli (frazione di Poppi nell’Aretino) da Ca(mpo) e il personale Maldo; Curtatone (in provincia di Mantova) da curtis «corte» e il personale Attone, forma obliqua di Atto.
In talune regioni italiane si rinvengono toponimi relativi a strati linguistici che hanno interessato specificamente un territorio, ad es. l’arabo in Sicilia, lo sloveno in Friuli, il croato in area abruzzese, molisana e pugliese. Si tratta di nomi locali di interesse anche documentario, perché consentono di individuare insediamenti nel passato, dei quali resta non di rado pressoché unica testimonianza nei nomi di luogo.
I nomi di luogo si possono analizzare e classificare sulla base della motivazione, ovvero sul significato, che ne è all’origine. Un toponimo può dipendere da un elemento del paesaggio (piante, morfologia del terreno, cambiamenti del corso di fiumi, ecc.), un elemento connesso con fatti di antropizzazione e di colonizzazione (interventi sul territorio, proprietà), ecc. Anche riguardo a questi aspetti il toponimo può essere un importante documento di una tipologia di insediamento, oppure della presenza di una certa pianta, o animale, o di variazioni intervenute nel tempo in un dato ambiente.
Si può procedere poi all’individuazione di categorie formali sulla base di elementi morfologici o suffissi, di forme toponomastiche semplici o composte. Vi sono suffissi produttivi «che intervengono, con una funzionalità semantica spesso precisa ma a volte generica o anche assente, nella formazione o derivazione dei toponimi» (De Felice 1987: 171). Alcuni rinviano a formazioni prelatine, altri all’epoca latina e postlatina. Tra i più ricorrenti sono: -ano, di origine latina (molto diffuso ovunque, in specie nelle formazioni prediali sopra menzionate); -eto (-etto), dal latino -etum, tipico dei toponimi da fitonimi collettivi; -ac(c)o, -ago, dal celto-latino -acum, diffuso in area settentrionale; -asco di origine ligure-celtica, nell’Italia nordoccidentale (ad es., Bogliasco in provincia di Genova); -ena (o -enna, -eno), di origine etrusca, frequente in Toscana e aree limitrofe (in nomi come Bolsena in provincia di Viterbo); -ense (→ -ese, -ise e -isi), di origine latina e di area meridionale (Marcianise nel Casertano); -ace e -aci, di origine greca, hanno valore diminutivo e sono diffusi nell’estremo Sud (come in Riace, corrispondente a «ruscello»); -ai, -ei, -oi, tipici della Sardegna (cfr. Urzulei in provincia di Nuoro), di origine prelatina e con probabile funzione collettiva.
Il secondo tipo fondamentale riguarda il fatto che il toponimo può essere costituito da una o più unità. Alcuni nomi di luogo constano di più unità: ad es., Pino sulla Sponda del Lago Maggiore (Varese), che si è chiamato Pino fino al 1863; Isola del Gran Sasso d’Italia (Teramo), Isola fino al 1863; Sant’Angelo di Piove di Sacco (Padova), Sant’Angelo fino al 1867; le diverse specificazioni sono state aggiunte per evitare omonimie. Toponimi composti da più elementi sono soggetti ad accorciamenti: Colle Val d’Elsa (Siena) localmente è solo Colle, Portogruaro (Venezia) è Porto, Casalincontrada (Chieti) è Casale.
In alcuni toponimi le unità non si distinguono più: per es. Orvieto, dal latino Urbs vetus «città vecchia», Urbisaglia (Macerata) in latino Urbs Salvia. In vari nomi di luogo si sono agglutinate preposizioni, come in Daiano (Trento) che deriva da de Aiano. Non mancano esempi di sintagmi più complessi, come Trambicolli (in Garfagnana) da intra ambos colles, Tramberìgori (nel Piacentino) da intra ambos rivulos, Introdacqua (L’Aquila) probabilmente da inter duas aquas, Nimolcampo (presso Clusone, Bergamo) da in imo campo, Nimotorre (presso Torre Boldone, Bergamo) da in imo turre (Manzelli 1993: 31-32).
De Felice, Emidio (1987), Onomastica, in Linguistica storica, a cura di R. Lazzeroni, Roma, La Nuova Italia Scientifica, pp. 147-179.
Manzelli, Gianguido (1993), Lessicalizzazione di sintagmi preposizionali: nomi di luogo, «Archivio glottologico italiano» 78, pp. 26-52.
Marcato, Carla (1994), Giovanni Flechia e la ricerca toponomastica, in Per Giovanni Flechia nel centenario della morte (1892-1992). Atti del Convegno (Ivrea - Torino, 5-7 dicembre 1992), a cura di U. Cardinale, M.L. Porzio Gernia & D. Santamaria, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 265-271.
Pellegrini, Giovanni Battista (1990), Toponomastica italiana. 10.000 nomi di città, paesi, frazioni, regioni, contrade, fiumi, monti, spiegati nella loro origine e storia, Milano, Hoepli.
Sabatini, Francesco (1963), Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale, Firenze, Olschki.
Skok, Petar (1937), Toponomastica, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere, ed arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1929-1937, 35 voll., vol. 34º, ad vocem.
Zamboni, Alberto (1994), I nomi di luogo, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 2º (Scritto e parlato), pp. 859-878.