CONTI, Torquato
Primogenito di Lotario duca di Poli e di Clarice Orsini, nacque nel 1591. Il padre, risposatosi dopo la morte di Clarice, lo affidò adolescente al proprio fratello cardinal Carlo affinché ne curasse l'educazione in vista di una brillante carriera ecclesiastica. Sin dall'inizio il C. non manifestò alcuna particolare predisposizione per gli studi religiosi: viceversa, egli espresse più volte il desiderio d'intraprendere la carriera militare e, per soddisfare a questa aspirazione, rinunciò completamente al proprio diritto di primogenitura in favore del fratellastro Appio, principe di San Gregorio. Ottenuta la piena libertà d'azione, principiò il mestiere di soldato arruolandosi nelle armate imperiali. Quindi, come "venturiere" combatté nell'esercito spagnolo impegnato contro il duca di Savoia Carlo Emanuele I che tentava di occupare il Monferrato dopo la morte (dicembre 1612) di Francesco Gonzaga; il C. ebbe modo di distinguersi per il suo valore: infatti dal marchese dell'Inojosa, governatore di Milano, ottenne il comando di una compagnia di fanti, e dallo stesso re di Spagna Filippo III di una compagnia di lance spagnole. Con questi contingenti militò poi agli ordini di don Pedro di Toledo, e non appena la pace di Madrid del 1617 pose fine al conflitto ispano-sabaudo, il C. si recò in Germania. Con le armate asburgiche combatté nel ducato di Stiria e in Boemia contro i ribelli boemi guidati da Enrico Mattia di Thurn.
Dopo essersi distinto nella battaglia di Graz, il 10 giugno 1619 contribuì a sbaragliare l'esercito di Peter Emst von Mansfeld presso il villaggio di Sablat. Per conto dell'imperatore si recò nel dicembre dello stesso anno nei Paesi Bassi, per compiere con successo una "levata" di 700 cavalieri; ne ripartì nell'aprile del 1620 per prendere parte alla fase conclusiva dello scontro tra i Boemopalatini e le truppe imperiali di Massimiliano di Baviera, di Tilly e del Bucquoi; le sue capacità vennero apprezzate nell'assedio di Pilsen e nella decisiva battaglia della Montagna Bianca.
In seguito ad una proposta di Albrecht Wallenstein, all'epoca ancora colonnello, accettò la tenenza di un reggimento che mantenne sino al 1626. Dopo aver contribuito all'atroce, sistematica repressione dei ribelli di Boemia, si trovò a dover fronteggiare l'imprevedibile principe di Transilvania Bethlen Gábor che, profittando dei disordini originati dalla secessione boema, aveva sferrato un duro attacco all'imperatore ed invaso l'Ungheria.
Nel 1621 fu catturato dallo stesso Bethlen Gábor durante un'azione militare che lo vide cavallerescamente impegnato a difendere il cadavere di Charles Bonaventure de Longuevai conte di Bucquoi. Di nuovo in libertà, dietro pagamento di una notevole somma, fu preposto dall'imperatore al governo della cittadella di Olmütz (Olomouc) in Moravia, un avamposto che era soggetto a violenti attacchi, difendendola da "un ostinatissimo assedio postogli dagl'Ungari" (Dionigi, p. 160); quindi aggiunse ai suoi meriti militari alcuni successi nella zona confinaria della Boemia come nel caso dell'assedio di Clouz, da lui condotto per due mesi e mezzo al comando di 4.000 fanti ed altrettanti cavalieri.
Nel 1626 l'imperatore Ferdinando lo nominò colonnello e consigliere di guerra, concedendogli l'onorificenza di cameriere della Chiave d'oro di Sua Maestà cesarea, segno evidente che nel volgere di dieci anni aveva conquistato un notevole prestigio nella corte di Vienna. Non fu casuale, infatti, se Antonio Barberini, per le persistenti difficoltà di ordine politico e militare nella Valtellina, pregò il nunzio Giovan Francesco Guidi di Bagno d'intercedere presso l'imperatore per favorire il rientro del C., stimato come l'uomo d'armi più adatto per guidare la spedizione pontificia. Giunto a Roma, il C. venne affettuosamente accolto da Urbano VIII che gli conferì all'istante il generalato di S. Chiesa ed il titolo di duca di Guadagnolo.
Il papa, a seguito dell'azione di forza francese concretizzatasi nella spedizione del marchese di Coeuvres che ormai si fronteggiava minacciosamente, con le armate spagnole, era fermamente deciso a far valere l'autorità pontificia in Valtellifia. Per attuare questo progetto di normalizzazione venne formato un corpo di spedizione che, sotto gli ordini del C., si concentrò in un primo momento nel Ferrarese; il C. stesso nel maggio del 1626 diede ordine alle sue truppe (6.300 fanti e 600 cavalieri) di marciare alla volta del Milanese.
In questo compito, ebbe non poche difficoltà nel far osservare la disciplina a forze raccogliticce ed insofferenti della vita militare: agì con estrema severità, impiccando i soldati responsabili dei reati più gravi e facendo sfilare le truppe davanti ai giustiziati per scoraggiare altri tentativi d'insubordinazione. A Monza, dove si fermò a lungo pressato da una grave penuria negli approvvigionamenti, fu avvicinato da alcuni generali spagnoli che lo invitarono ad unire il suo esercito alle armate spagnole per dirigersi insieme contro i Francesi; l'offerta venne decisamente ricusata, informando in tutta fretta il papa del tentativo spagnolo. Giustamente, poiché di Il a poco venne da Roma l'ordine per il C. di recarsi in Valtellina per far applicare concretamente gli accordi raggiunti a Monzone tra le diplomazie interessate alla questione valtellinese. Giuntovi, dopo lunghe trattative diplomatiche, venne conclusa una convenzione tra il papa, gli Spagnoli ed i Francesi per cui questi ultimi s'impegnarono a riconsegnare alle truppe pontificie tutti i forti valtellinesi che si trovavano in loro possesso entro il 5 febbr. 1627; tali forti sarebbero poi stati demoliti, secondo quanto stabilito, e definitivamente sgomberati entro il 20 febbraio anche dalle truppe pontificie, uniche garanti dell'effettiva demolizione. Così avvenne: i mastri di campo del C., il Ginetti ed il Sacchetti in particolare, occuparono in tempo utile le piazzeforti e tutti i punti chiave della valle da Chiavenna a Bormio, tenendo sotto controllo tutta la Valtellina: infine, assolti i compiti di smantellamento, il corpo di spedizione fece riterno a Roma.
Urbano VIII manifestò ripetutamente la sua soddisfazione per l'operato del generale che venne, del resto, profumatamente ricompensato per i servigi prestati; non mancarono nemmeno, negli ambienti curiali, coloro che sostenevano che l'impresa aveva fruttato spropositati guadagni al C. e ai suoi luogotenenti: l'accusa principale fu di non aver sempre osservato alla lettera gli ordini della Curia e di aver commesso degli atti illeciti. Tuttavia, tali accuse non ebbero una significativa influenza nel rapporti tra il C. ed il Papa, che continuarono ad essere caratterizzati da un tono cordiale e dal reciproco rispetto.
E C. fece ritorno per l'ennesima volta in Germania per riprendere la sua attività nelle armate imperiali impegnate contro Cristiano IV, re di Danimarca.
In questo periodo danese della guerra dei Trent'anni, nominato generale di artiglieria dallo stesso imperatore, prese parte attiva a diverse operazioni militari nell'Alta Slesia. Più tardi con il Wallenstein partecipò all'invasione del regno di Danimarca, occupando posti di notevole responsabilità, in particolare nelle zone di guerra dello Holstein, Schlewig e Jütland. Si distinse nell'assedio di Krempe e, in Slesia, nella conquista di Kosel con azioni militari e strategiche indubbiamente brillanti. In assenza del Wallenstein, impegnato nei territori della Germania settentrionale e nell'assedio di Stralsunda, il C. ricoprì a carica di sovrintendente imperiale delle truppe di occupazione nella Danimarca, mantenendo quest'incarico sino alla firma della pace di Lubecca (maggio 1629).
Dopo una forzata sosta ad Amburgo per un'infermità che lo costrinse a letto per tre mesi, ebbe inizio, in coincidenza con lo scoppio della crisi mantovana e con l'imminente invasione continentale di Gustavo Adolfo, il periodo più significativo della sua carriera militare.
Il Wallenstein, superando le molte'incertezze circa l'atteggiamento da seguire nelle vicende della crisi gonzaghesca, aveva deciso d'intervenire in Italia con le sue armate: contrariamente a quanto sostenuto da R. Quazza, il C. non partecipò direttamente alla spedizione nel Mantovano ma, dopo una serie di ordini contraddittori, giunse solo ai confinì italo-svizzeri: infatti, ad ulteriore conferma della stima che il duca di Friedland nutriva nei suoi confronti, si vide affidare il generalato delle armate di stanza nella Pomerania in un momento in cui sempre più insistenti si facevano le voci di un prossimo sbarco del re svedese in Germania.
Quando Gustavo Adolfo con il suo temibile esercito approdò nell'isola di Rügen, inaugurando così la, sua travolgente campagna in territorio tedesco, l'unica forza avversaria che tentò di contrastare l'avanzata fu appunto quella che il C. era riuscito ad organizzare.
Egli si trovò ad affrontare diversi problemi sul piano strettamente strategico l'intenzione di Gustavo Adolfo era sostanzialmente quella di espellere al più presto gli eserciti imperiali dalle coste baltiche, operando una manovra rapida e incisiva; in secondo luogo, sul terreno diplomatico, il re di Svezia intendeva allargare il fronte delle alleanze filosvedesi, guadagnandosi la simpatia e l'appoggio delle città tedesche più insofferenti al dominio imperiale. Appena giunto in Pomerania il C. si acquartierò temporaneamente a Kolberg allo scopo di meglio osservare i primi movimenti del nemico; in verità, lo stato generale delle armate imperiali non era affatto confortante: i contingenti dei soldati. a lungo inattivi e psicologicamente scoraggiati, erano dislocati nella Pomerania, nella Sassonia e nella Vestfalia in modo tale da non poter garantire, quando si fosse dimostrato logisticamente necessario, la costituzione tempestiva di un efficace fronte di difesa. Inoltre, le truppe, mal pagate ed attanagliate dalla fame, si abbandonavano frequentemente ad atti d'insubordinazione e di violenza ed assai difficilmente avrebbero potuto costituire un solido e sicuro baluardo all'offensiva svedese. Queste premesse fecero sì che nella Pomerania egli non fu in condizione, in un contesto obiettivamente difficile, di razionalizzare le operazioni di difesa per le quali aveva a disposizione circa 30.000 uomini. Tuttavia non rimase del tutto inattivo: avvicinò invano il duca di Pomerania Bogislao, precedentemente contattato e adulato dalla diplomazia svedese, e minacciò gravi rappresaglie nel caso avesse avuto intenzione di accondiscendere alle offerte di Gustavo Adolfo, cercando di ostacolare i disegni diplomatici svedesi con un rozzo metodo di terrore. Nel frattempo, Gustavo Adolfo si era impadronito in pochi giorni di Peenemúnde, Wolgast, Wollin e dell'opulenta città di Stettino, nonché di numerose piazzeforti senza colpo ferire, talmente debole ed inconsistente fu la reazione delle armate imperiali. Dunque il C., che inutilmente si era battuto per far presente alla corte imperiale ed al Wallenstein - con cui era in continua corrispondenza - il miserevole stato delle sue truppe e l'importanza di ottenere urgentemente l'aiuto dei Tilly, non riuscì a costruire una rete difensiva capace di respingere o almeno ritardare l'avanzata svedese; anzi, commise un grave errore strategico: la fortificazione di Anklam e soprattutto di Gartz sul fiume Oder, effettuata con l'intenzione di impedire agli Svedesi l'utilizzo di una via fluviale in direzione del Brandeburgo, frazionò inevitabilmente le sue forze. Quindi si dedicò ad una terribile punizione delle popolazioni soggette al duca Bogislao, sospettato di aver agevolato le vittorie di Gustavo Adolfo: questa condotta repressiva non fece che alienare ulteriormente le già scarse simpatie che godevano le milizie imperiali.
Dopo una relativa stasi delle ostilità, a tutto favore degli Svedesi che ebbero più tempo per meglio organizzarsi, il C., ancora in attesa dei sospirati rinforzi, tentò una prima volta di cogliere di sorpresa la città di Stettino allo scopo di sfatare il mito d'invincibilità degli avversari; l'impresa non ebbe successo anche se a un manipolo di mercenari napoletani riuscì quasi di catturare vivo lo stesso re di Svezia, uscito dalla cinta delle mura della città senza un'adeguata scorta. A quest'azione, gli Svedesi reagirono con un furioso attacco a Kolberg alla cui difesa i contingenti imperiali arrivarono in ritardo; in seguito, Gustavo Adolfa inviò il generale Báner nel Meclemburgo dove un luogotenente del C., il duca Federico Savelli, appositamente inviato, venne duramente sconfitto in campo aperto presso Rostock.
Di fronte all'incontenibile dilagare delle armate svedesi, il C. ritenne opportuno di ritentare nuovamente un assedio in grande stile di Stettino che effettivamente costituiva il punto chiave dello scontro.
Nel settembre del 1630 uscì in forze da Gartz alla volta della città fortificata, dopo aver corrotto alcuni cittadini che si erano impegnati ad aprire, ad un segnale convenuto, una delle porte d'ingresso per permettere di penetrare all'interno e sconfiggere le milizie svedesi; il colpo di mano fallì miseramente poiché le spie nemiche vennero tempestivamente a conoscenza dei piani imperiali e le truppe del C. si dimostrarong troppo lente nel compiere le operazioni di avvicinamento alla città. Egli venne letteralmente sbaragliato dal generale svedese Hom che, operata un'improvvisa sortita da Stettino dove aveva cautelativamente lasciato una guarnigione per reprimere eventuali rivolte filoimperiali, lo affrontò nelle campagne circostanti, costringendolo ad una precipitosa ritirata.
All'inizio dell'ottobre dello stesso anno, il C. era rientrato nei suoi alloggiamenti di Gartz e meditava ormai di ritirarsi dall'incarico affidatogli mentre gli Svedesi continuavano a consolidare le posizioni: si trovava, infatti, nell'assoluta impossibilità di controllare le proprie forze ed assisteva impotente ad un vertiginoso aumento delle diserzioni e alle crescenti manifestazioni di scontento delle popolazioni tedesche. In una condizione di netta inferiorità prese una risoluzioiie di carattere diplomatico come estremo tentativo di arrestare in qualche modo l'avversario: propose una tregua per il periodo invernale che venne sdegnosamente rifiutata da Gustavo Adolfo che, in effetti, non aveva alcun interesse reale ad accettarla. Finalmente, nel novembre, infastidito da un malanno ad un piede e soprattutto a corto di risorse per aver tutto spogliato e depredato, lasciò ad altri il comando dell'esercito e ottenne di essere richiamato dall'imperatore che aveva ceduto alle pressioni del papa.
Urbano VIII, infatti, desiderava poter disporre di un generale capace di rendere efficiente la milizia pontificia nella difesa dei suoi territori, dal momento che, dopo la crisi mantovana, riteneva l'Italia teoricamente più esposta alla furia della guerra europea. Per questo motivo sin dal giugno 1629, tramite il nunzio Pallotto, il papa aveva chiesto all'imperatore di liberare dall'ingaggio militare uno dei suoi comandanti, manifestando una predilezione per il C., che venne preferito a uomini d'arme come il Pappenheim e il Collalto.
A Roma il C. si trovò immediatamente impegnato nelle prestazioni richieste usufruendo di una larga disponibilità di denaro: il papa, dopo la morte di Gustavo Adolfa a Lútzen, pensò utile di premunirsi contro eventuali manovre spagnole in Italia e perciò, nel novembre 1632, lo inviò ai confini del Regno di Napoli con il precipuo compito di erigere fortificazioni e di allestire adeguate difese. In un secondo tempo, occupandosi della sorveglianza dei forti dello Stato pontificio, il C. fissò la suaresidenza nel Ferrarese soprattutto per seguire i movimenti dei Veneziani e rintuzzare le azioni della Serenissima miranti ad impadronirsi del porto di Goro.
Sposò la duchessa Sassatelli, una delle prime nobildonne di Ferrara, e alla morte di costei (1634) poté ereditare, dopo una lunga lite con i gesuiti in cui fu sostenuto dalle sue influenti amicizie romane, un'ingente somma di denaro e vasti possedimenti. Egli continuò ad esercitare le sue funzioni godendo dell'assoluta fiducia di Urbano VIII intorno alle questioni inerenti all'ordine pubblico e all'organizzazione del sistema difensivo nei territori della S. Sede. In queste incombenze fu coadiuvato dai fratellastri Carlo ed Innocenzo, ottenendo così il risultato di consolidare i legarni tra la sua famiglia e gli ambienti curiali.
Morì a Ferrara nel giugno del 1636 in seguito all'aggravarsi del processo canceroso ad una gamba, che aveva contratto durante gli anni di guerra trascorsi in Germania. Secondo sue precise disposizioni, il cadavere venne trasportato in Poli e seppellito accanto agli antenati nella chiesa di S. Stefano.
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