Torquato Tasso, Prose - Premessa
Una capacità di alta prosa, anche strettamente speculativa, è da dire ovvia nei grandi poeti, ed è talora non so che garanzia della loro poesia, specie nella tradizione italiana, cominciando da Dante, dal Petrarca, dal Boccaccio. E il Tasso fu certamente un grande prosatore non soltanto nell'eloquenza affettiva e morale, ma anche in quella ch'è più rigidamente teorica e concettuale.
Pure la posizione della sua prosa nell'intera opera e anzi nella vita del Tasso esige si chiarisca il rapporto che una tal prosa ha verso la sua poesia, come coscienza riflessa di una purezza che altrimenti sarebbe inerme, o come avviamento e preparazione alla poesia che è l'esercizio vitale e supremo dell'esistenza medesima di Torquato Tasso.
La consuetudine al fare poetico, che è il sostegno implicito anche del pensare filosofico, pur quando sia tanto sbiadito da parere estinto, nel Tasso prosatore è più palese di quanto solitamente non avvenga di ravvisare nella prosa d'altri scrittori. Senza quel fare poetico che è l'iniziale linguaggio, sintesi primeva che nominando un oggetto (di natura esterna o interiore) lo trasferisce nella parola umana, anche il filosofo più rarefatto negli universali, più refrattario alla metafora inevitabile del parlare, il pensatore più impoetico e più inartistico che sia possibile concepire, non avrebbe possibilità di pensare i puri concetti, mancandogli la materia verbale in cui anche i concetti sono tessuti, ed è la forma originaria dei nomi, grammatica nativa che precede tutte le regole e fonda essa ogni voce del lessico.
Ma se alcuni filosofi, e, poniamo, Aristotele o Kant, per via di quell'astrazione scientifica che vuol sommergere ogni particolare nella nudità unica di un concetto universale, riescono quasi a far dimenticare quella presenza poetica che è il linguaggio stesso e che non possono abolire, è certo che altri pensatori, quali ad esempio un Platone o un Vico, fanno pur sempre trasparire nei concetti le favole e i miti che la parola primamente compone dando nome e cioè forma alle cose: svelano poi moti poetici più diretti nel vivo del discorso. Vi son poi scrittori, e tra costoro è il Tasso, che anche la logica delle idee subordinano a un prevalente esercizio di poesia.
Perché la verità terrestre a cui Torquato Tasso mira e alla quale sottomette ogni disciplina della mente è innanzi tutto la verità della poesia.
Così ci avvenne già di asserire che il Tasso, partecipe a tutti i sentimenti dell'età sua, doveva piuttosto soffrirli che elaborarli in un pensiero logico: e la sola mediazione che a lui fosse consentita fu quella della metafora poetica. Vorremmo togliere ogni rigidità a questo giudizio, nel punto di confermare che il Tasso non fu inventore di problemi speculativi: che è il proprio ufficio dei grandi filosofi, i grandi prosatori per eccellenza, se la prosa, pur dovendo valersi di rappresentazioni, tende ad annullarle nel logos che tutte vuole abbracciarle e pareggiarle nell'unità.
Ma se il Tasso non fu filosofo inventore, proprio perché come creatore lirico ed epico adunò ogni forma del vivere nel culto della poesia, non s'intende negare la dottrina e l'erudizione vastissime di lui, e la duttilità dialettica del suo ingegno, capace delle più curve e sinuose esplorazioni, pronto all'uso di tutti gli argani e le macchine per la più assottigliata disputa.
Pensate, per fermarci a un solo esempio, come per successive riduzioni ben modulate, dopo aver detto che la poesia è imitazione delle cose umane divine naturali, e mostrato che le naturali sono anch'esse divine, passa a dichiarare che la poesia non può imitare le cose divine in se stesse, perché tra le divine e le umane sta la differenza medesima che è tra le idee e le immagini, e l'uomo non può imitare se non in termini umani: così infine la poesia non è altro che imitazione di azioni umane.
E oggi riconosceremmo anche più positivamente il contributo che il Tasso portò ai problemi delle poetiche del Cinquecento. Infatti la poetica che si cava dai Discorsi, dalle lezioni varie, dalle lettere intorno al poema, da parecchi tra i Dialoghi, è come la sintesi, la summa, delle conoscenze del suo tempo, rielaborazione geniale del pensiero «estetico» del Rinascimento. La sua dimestichezza con gli scritti di coloro che avevano ravvivato gli studi di poetica, da Pietro Vettori e Francesco Robortello a Vincenzo Maggi, al Piccolomini, al Castelvetro, al Mazzoni, al Fracastoro, allo Speroni ecc., è palese: ed egli la attesta. Ma rifonde ogni cosa. Soltanto al Fracastoro, per una parte, egli resta alquanto indietro, pur senza ignorarlo, anzi discutendolo, dove il Fracastoro nel cercare il proprio della poesia - ciò che è solamente suo - lo vede come bellezza nell'eccellenza del discorso, ispirato da un'estasi in cui si attua un'armonia quasi divina: e perciò gli pare che i poeti meritano d'essere chiamati divini perché scoprirono il valore divino del linguaggio, il medesimo di cui si valsero gli dei per parlare agli uomini mediante gli oracoli.
Ma la vera vitalità della poetica del Tasso è nell'essere il sostegno di una vocazione alla poesia, come lettura dei testi epici lirici drammatici, e come lettura poetica anche dei testi della grande speculazione filosofica, specie quando con un Platone o un Agostino è corsa da non so che furore lirico. E basta leggere un suo periodo a paragone di quelli d'ogni altro autore di poetiche per sentire la presenza dell'artista che alla rappresentazione delle idee infonde una vivezza nuova ed esperta: il senso di una sempre vigile fantasia e il costante esercizio di preparazione alla poesia, con la padronanza assoluta di un superiore mestiere.
Questo è il criterio per intendere nel suo vero significato la poetica del Tasso, riconoscendo che su tutte le altre del suo tempo essa ha il rilievo di una esperienza di poesia, vissuta giorno per giorno ed ora per ora. E si vide già come i Discorsi dell'arte poetica, composti prima che la Gerusalemme prendesse la forma in cui circa cinque anni dopo fu compiuta, e i Discorsi del poema eroico, che apparvero addirittura dopo la Conquistata, furono in certo modo autobiografici, i primi come annunzio del futuro poema, i secondi come una indiretta apologia della Gerusalemme. Ma anche i Dialoghi più vari di argomento sono nella maggior parte dei casi una maniera di autobiografia.
Oggi attenueremmo il detto che il Tasso, dopo i tempestosi dubbi giovanili, amò piuttosto adeguarsi ai princìpi dotti ricevuti dalle scuole che stimolare il proprio pensiero. A parte la frenesia dalla quale un tempo fu invaso, e quello sbigottimento del vivere che lo portò a rifugiarsi nella fede più ortodossa, accusandosi perfino al Santo Ufficio, occorre considerare che anche l'interesse al carattere scientifico dell'universo si alimentava in lui per i moti poetici, quelli che la realtà del mondo creato e l'aspra tragedia della storia umana venivano in lui svegliando.
La composizione stessa della sua dottrina, saldamente padrona delle più alte conoscenze speculative del tempo, sorretta da una sicura filologia delle cose essenziali (e talvolta anche delle marginali e minime, dalle quali tuttavia non si faceva sviare), rivela una curiosità fondamentalmente artistica che lo porta a ricercare, accanto ai poeti che sempre frequenta, le opere di un Pico della Mirandola o magari di un Olao Magno.
E ripeteremmo senza esitare che le doti di sottilità, acume, eleganza, varietà di concetti, ornamento di parole, arte, che il Tasso lodava in Senofonte Luciano Cicerone ma principalmente in Platone, per significarne di là dalla stessa sostanza speculativa la virtù di rappresentazione, si addicono pienamente a lui, nella mistura verbale che egli usò, dicendo che il loro parlare non è né in tutto simile alla poesia né in tutto simile alla prosa: e dello scrittore di dialogo disse che egli è «quasi mezzo tra il poeta e il dialettico».
Il più delle volte l'erudizione stessa è un fatto che gli nutre la fantasia e la popola di miti. Si osservi come la disputa col Messaggiero che dà nome al famoso dialogo sia un'occasione di godere poeticamente antiche e recenti immaginazioni, di Platone e di Petrarca, dei prodigi di Mosè e dei maghi egizi o di Apollonio Tianeo, gustando la vaghezza non pur di questo o quel sogno, ma della germinazione stessa del sognare.
Anche il suo atteggiamento verso aristotelismo e platonismo è significativo. Il puro aristotelismo divenuto unica autorità del sapere, sostenuto anche dal braccio secolare di principi nel secondo Cinquecento e poi nel Seicento, fu uno di quei paradossali arbìtri che nella coerenza del pensiero non possono esser difesi nemmeno con la formula (in quel caso più impropria che mai) di una autorità rivelata, né la loro irragionevolezza ha altra ragione se non quella che constata ch'esso si è pure prodotto. Ma il Tasso, che anch'esso sfoggiò gli endemici aristotelismi, volle conciliare Platone e Aristotele, affermando che, sebbene il più delle volte sembrino contrari, ciò avviene più nel suono della parola che nella verità della sentenza: così egli riportava Aristotele a Platone, temperando certa asciuttezza del primo con certa liricità dell'altro.
La prosa del Tasso è dunque ricca di presenze ragionative e speculative; ma la dottrina è presto sormontata dalla rappresentazione che l'idea gli desta, e insomma egli prevalentemente ha frequentato anche le discipline più dotte per alimentare di linfe artistiche la propria vita e sostentarla con la virtù dei miti. Egli intende come pochi altri il valore e il significato delle idee, ma le fa valere a un esercizio di poesia, come preparazione alla grazia poetica, come premessa d'ispirazione poetica.
E si osservi ancora come nel Messaggiero, mediante richiami di erudizione, egli renda mitica finanche la «maninconia» che era il suo specifico male, secondo la terminologia medica, e come la rechi a servizio del suo ufficio e destino di poeta. Si piace di ricordare i suoi grandi vicini: come Aristotele dicesse che i maninconici furono di chiaro ingegno nella filosofia, nel governo dei popoli, nella poesia: come Empedocle Socrate Platone furono maninconici: come Marato poeta siciliano allora era più eccellente quando era fuori di sé, «anzi quasi lontano da se stesso»: e per maninconia si uccise Lucrezio. È un crescendo che soltanto un poeta poteva disporre in simile guisa. Ed eccolo ad asserire, forse con un lieve sorriso: « e Democrito caccia di Parnaso i poeti che sian savi ». Ora afferma che, comunque sia, i maninconici non per infermità ma per natura sono d'ingegno singolare: e può trarre a suo vantaggio una conclusione implicitamente orgogliosa: «e io sono [maninconico] per l'una e per l'altra cagione : laonde in parte vo consolando me stesso».
Pur vivendo spesso in una esaltazione immaginativa, tranne i momenti in cui è sopraffatto dal male e in parte è abbandonato dalla consapevolezza della mente, il mondo gli si ordina lucidamente come nel canto orfico a fondare una città poetica. E anche se stesso egli vede come l'incarnazione della poesia, personaggio tragico ed eroico, che in qualche istante si considera perseguitato dalla sorte, dagli uomini, dalle cose, da Dio, ma pur crede alla sua missione di poeta sempre, e sa che nessuna forza potrà cancellare la gloria che il suo secolo avrà dalla sua poesia.
V'è, accanto alla prosa teorica del Tasso, quella in cui egli narra o descrive le sue vicende, i suoi moti, i suoi desideri. E qui il respiro che in lui tende alla volontà lirica prevale nella virtù della rappresentazione, nella disposizione ritmica del periodo.
Si pensi la lettera assai nota che in uno dei più acuti stadi della sua frenesia, il 18 ottobre del 1581 egli scrisse a Maurizio Cataneo dalla prigione di Sant'Anna, ove parla dei disturbi umani e diabolici dai quali è tormentato. E vi sono passi che riuscirebbero più evidenti se li trascrivessimo secondo il ritmo, che, come sempre nel Tasso, è sorvegliatissimo.
«Gli umani sono grida di uomini e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni, e varie voci d'animali che da gli uomini per inquietudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che da le mani de gli uomini sono mosse. »
E giova notare la progressione: dapprima l'annunzio ancora indistinto delle grida di uomini: poi le grida si chiariscono come di donne e fanciulli, e anche più si chiariscono come risa piene di scherni: poi voci di animali, poi strepiti di cose inanimate, voci e strepiti pur sempre agitati dagli uomini. Così persone, bestie e cose terrestri, per istigazione degli uomini, tutte lavorano all'inquietudine del poeta.
Seguono ora i disturbi diabolici, che sono incanti e malie. Non è sicuro degli incanti: con un filo appena ironico dice che i topi dei quali la camera è piena e che a lui paiono indemoniati potrebbero far lo strepito che fanno anche senz'arte diabolica, per via naturale: «ed alcuni altri suoni ch'io odo, potrebbono ad umano artificio, com'a sua cagione, esser recati ». È certo invece di essere stato ammaliato, come provano i disturbi che gli son fatti non appena egli si accosti al libro e alla penna: «l'operazioni della malia sono potentissime, conciosia che quando io prendo il libro per istudiare, o la penna, odo suonarmi gli orecchi d'alcune voci ne le quali quasi distinguo i nomi di Pavolo, di Giacomo, di Girolamo, di Francesco, di Fulvio, e d'altri, che sono forse maligni e de la mia quiete invidiosi».
Quella successione di nomi che risuonano nello spazio vocale tra indistinte voci crea col più semplice dei mezzi l'aria d'incubo in cui il poeta si move: e tutto con estrema lucidità esprime una inquietudine che è tra il possibile e l'allucinazione sonora (« quasi distinguo»): l'attenzione stilistica fa che narrando un episodio della propria frenesia il Tasso superi il suo stesso male: tanto il vigore della fantasia s'apprende alle cose per rappresentarle: l'elemento poetico è tale da superare la sconnessione di un ragionamento fallace.
Altra volta, sempre scrivendo al Cataneo, parlerà dei propri spaventi notturni: « perché, essendo io desto, mi è parato di veder alcune fiammette ne l'aria: ed alcuna volta gli occhi mi sono scintillati in modo ch'io ho temuto di perder la vista; e me ne sono uscite faville visibilmente. Ho veduto ancora nel mezzo de lo sparviero ombre de' topi, che per ragione naturale non potevano farsi in quel luogo». Che cosa se non la perenne volontà di rappresentare in parole nette e adorne la realtà del mondo e del proprio animo poteva dettare una così trasparente descrizione e tanta virtù di ritmo?
« Ho udito strepiti spaventosi, e spesso ne gli orecchi ho sentito fischi, tintinni, campanelle, e romore quasi d'orologi da corda; e spesso è battuta un'ora; e dormendo m'è paruto che mi si butti un cavallo addosso; e mi son poi sentito alquanto dirotto» ecc. Notate la disposizione sintattica: i due verbi in prima persona («ho udito», «ho sentito»), con l'oggetto degli strepiti spaventosi, ancora indistinti, poi negli orecchi suoni esatti ai quali si può dare un nome («fischi, tintinni, campanelle»), fin quando la memoria si fa ancora oscillante a evocare un rumore quasi d'orologi da corda, e dalla disposizione intima delle parole si genera uno spazio interrogativo la cui risposta sarà un suono preciso, come a confermare l'orologio che il «quasi» dubitativo preannunziava: «e spesso è battuta un'ora»: un suono preciso che pure serba qualcosa di arcano in quella specie di vuoto silenzio che lo ha preceduto. E qui il passaggio dal verbo narrativo della prima persona («ho udito», «ho sentito») alla terza («spesso è battuta un'ora») isola quel suono con uno spontaneo rilievo e gli dà lo spicco e la giusta misura. Anche quel congiuntivo presente a proposito del cavallo, «mi si butti», ove altri, con meno efficacia ed eleganza e felice sprezzatura, avrebbe usato l'imperfetto «mi si buttasse», crea una prospettiva psicologica che porta l'immagine principale in primo piano. E si noti anche il rilievo che per i legamenti del periodo hanno le diverse maniere delle congiunzioni, secondo che uniscano verbi o nomi. Queste non vogliono essere osservazioni grammaticali ma di stile concreto.
E pensate ora la più famosa lettera del Tasso: quella che egli scrisse ad Antonio Costantini per annunziargli la propria non lontana morte. L'alta mestizia dell'annunzio move da una interrogazione in cui è adombrata una risposta di affettuoso e dolente stupore: «Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso?» Parla di se stesso e dell'amico non usando i pronomi «io», «voi», ma i nomi: «il mio signor Antonio», «il suo Tasso»: ed è un ritegno che ben si addice al distacco del poeta dalla vita, e rende più serena la memoria di un'amicizia terrestre che ormai non potrà continuarsi che nella vita degli spiriti. Ora chiarisce l'annunzio di quella sua morte: «E per mio aviso non tarderà molto la novella; perch'io mi sento al fine de la mia vita, non essendosi potuto trovar mai rimedio a questa mia fastidiosa indisposizione, sopravenuta a le molte altre mie solite; quasi rapido torrente, dal quale, senza poter avere alcun ritegno, vedo chiaramente esser rapito». Così egli si sente morire per una forza che ormai somiglia all'impeto di un torrente. E anche il paragone vuol esser notato: non è la forza lenta del fiume alla quale si è preparati, è quella improvvisa del torrente: neppure il Tasso, fra tante occasioni di morte, s'era addomesticato a quell'idea di dover morire, che ora gli appare precipitosa e irreparabile. Ma ormai sollevato sulla sua stessa esistenza si adegua alla volontà di chi è padrone della vita e della morte. Da questa altezza che cosa può contare la varia vicenda della fortuna, anzi l'avversità della fortuna, nell'aiuola che ci fa tanto feroci? Ma l'uomo che compì la sua missione di poeta in quell'aiuola, ora, spoglio d'ogni vanità, sul punto di morire, momento di suprema sincerità e verità, ha la pura coscienza dell'opera che donò al suo tempo e alla posterità: staccato da ciò che è mortale, sente l'immortalità del suo canto: e se per poco cede a questo richiamo, somiglia le anime che nel secondo del Purgatorio dantesco, pur nel desiderio di salire al cielo, s'arrestano smagate alla dolcezza del canto di Casella: « Non è più tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine del mondo, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi a la sepoltura mendico; quando io pensava che quella gloria che, mal grado di chi non vuole, avrà questo secolo da i miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guidardone». Non una parola di rancore gli sfugge: non è più tempo: la rassegnazione che ha purificato anche l'orgoglio vince ogni caduca passione. Non che egli non ami ancora la dolce vita, il respiro di una pura aria: s'è fatto condurre al monastero di Sant'Onofrio, anche perché l'aria ne è lodata dai medici; ma è salito fino a quel luogo «quasi per cominciare da questo luogo eminente, e con la conversazione di questi devoti padri, la mia conversazione in cielo». La più vera vita è quella celeste: in quella il poeta morituro che amò e onorò in terra l'amico, lo amerà e onorerà con la «verace carità». L'ultimo periodo è il cenno della preghiera che raccomanda il poeta e l'amico alla divina grazia: né occorre svelare i motivi impliciti nella serena espressione, e molto meno caricarli di intenzioni teologiche sulla salvezza per le opere o per la grazia. Senza alcuna presunzione e senza alcuna empietà il poeta s'immagina nel cielo, come a sua giusta patria innanzi a Dio.
Queste fuggitive analisi che potrebbero essere condotte per pagine e pagine, e noi abbiamo ristrette ad alcuni dei passi più noti del Tasso a maniera d'esempio, confermano il carattere dominante della sua prosa.
In qual senso intenderemo il giudizio del Giordani e del Leopardi che le lettere del Tasso sono le più eloquenti del Cinquecento? Certo essi intesero non l'astratta e magari sofìstica capacità di insinuarsi nell'animo e persuadere e richiamare gli affetti, che è dote attiva dell'oratoria, ma l'eloquenza come dono di verità comunicativa per grazia e forza di stile nella virtù del ritmo: e intesero la parola intimamente melodiosa e nativamente adorna, già avviata al primo grado del canto che è pronto ad elevarsi, secondo la sostanza, dal parlato lieve dell' Aminta a quello grave ed eroico della Gerusalemme. Questa l'eloquenza positiva del Tasso, che sormonta su quella cerimoniale del costume e del rito delle corti. La pronunzia che egli impone, nelle pagine più sue, è sempre musicalmente sorvegliata e non consente avvallamenti di tono o peggio stonature. E non si tratta di esterna forma, più o meno declamatoria, ma della liricità stessa che accompagna con i più vari affetti la parola dello scrittore. Uno scrittore che anche le idee e ogni aspetto della vita sentì essenzialmente - speriamo di averlo mostrato - come esercizio e professione di poesia.