Tasso, Torquato
Torquato Tasso (Sorrento 1544 - Roma 1595) affrontò nella sua opera il più ampio ventaglio di generi testuali, sia in prosa che in versi. Sono in prosa i ventisei Dialoghi di vario argomento (la nobiltà, il gioco, la poesia, la famiglia, ecc.), scritti a partire dall’inverno 1578-1579 e continuati fino alla morte. Di essi, la critica recente (in particolare Baldassarri 1970; Pignatti 1991; Bozzola 1999) ha evidenziato i caratteri di novità e rottura rispetto alla prosa illustre codificata sul modello di ➔ Giovanni Boccaccio e del ➔ Pietro Bembo degli Asolani. Il che comporta, da una parte, la drastica riduzione dell’apparato narrativo e scenografico del dialogo a tutto vantaggio dell’elemento ragionativo e filosofico-dottrinale; dall’altra, la scelta conseguente di una lingua e di uno stile concentrati meno sull’«ornamento» che sulla «purità» o perspicuità della comunicazione. Da qui un netto distacco dalle logiche artificiose e latineggianti che avevano appunto caratterizzato il periodare boccacciano-bembiano, già peraltro semplificato dal Cortegiano di ➔ Baldassare Castiglione e da altri tentativi cinquecenteschi di approssimazione al «parlare naturale» (cfr. Bozzola 1999: 145-147). Ecco allora una minore densità ipotattica, una maggiore linearità e brevità dei segmenti di frase e una sostanziale riduzione, per quantità e qualità, dell’ornatus retorico, in particolare del modulo del verbo alla fine della frase.
Molto più ampio è il catalogo delle opere in versi, composto tra l’altro da una tragedia (Il Re Torrismondo), da un poema didascalico in endecasillabi sciolti (Il mondo creato), e dall’Aminta, dramma pastorale o favola boschereccia in endecasillabi e settenari, rappresentato per la prima volta nel 1573, senza il quale «non si spiegherebbe lo sviluppo del teatro pastorale europeo tra Cinque e Seicento» (Residori 2009: 15). La produzione lirica conta oltre 1700 testi, nei quali la sostanziale obbedienza al grande codice del petrarchismo cinquecentesco non impedisce l’apertura a nuovi e originali sviluppi. Si pensi tra gli altri, e da circoscriversi fondamentalmente entro la fase giovanile, alla linea grave e magnifica cercata e riprodotta per influsso diretto della lirica di Giovanni Della Casa, oggetto di una speciale riflessione critica nella Lezione sopra il sonetto “Questa vita mortal” letta nell’Accademia Ferrarese presumibilmente nel 1568 (cfr. Colussi 1999). O si pensi ai tanti e notevolissimi madrigali, metricamente più liberi e meno banalmente petrarcheschi della forma sonetto, dove il Tasso «è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale» (De Sanc-tis 1996: 567), i quali furono prontamente musicati dai migliori compositori dell’epoca come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa, e risultarono decisivi per la formazione e sistematizzazione del linguaggio del melodramma (➔ melodramma, lingua del) e della poesia melica settecentesca.
La prassi lirica si intrecciò strettamente, anticipandone o incrociandone fondamentali problemi linguistico-stilistici, al progetto, tormentatissimo, di un poema sulla prima crociata, la cui stesura effettiva, dopo il frammento giovanile del Gierusalemme (1559-1560) e la relativa digressione de Il Rinaldo (1562), occupò il Tasso per circa un decennio, dal 1566 al 1575, anno in cui terminò il ventesimo e ultimo canto.
Per iniziativa dello stesso autore, il poema, intitolato originariamente Gottifredo o Goffredo (dal nome del protagonista Goffredo di Buglione), venne sottoposto all’esame di una commissione composta, tra gli altri, da Sperone Speroni (maestro del giovane Tasso nei suoi anni padovani), dall’amico e protettore Scipione Gonzaga, da Silvio Antoniano e dal futuro fondatore dell’Accademia della Crusca, ➔ Lionardo Salviati. Le critiche furono durissime e provocarono in Tasso «una spirale nevrotica di correzioni, tagli, ripensamenti» (Residori 2009: 57), drammaticamente testimoniata dalle cosiddette lettere poetiche del biennio 1575-1576. Seguì la decisione di non pubblicare il poema, che tuttavia cominciò a uscire a partire dal 1581 a Parma e a Casalmaggiore con il titolo di Gerusalemme liberata – titolo imposto dal curatore Angelo Ingegneri ed esemplato sul modello dell’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino.
Il successo fu clamoroso: nuove edizioni si moltiplicarono a getto continuo ma, nel contempo, ricominciarono le polemiche, rinfocolate da un intervento di Camillo Pellegrino (Il Carrafa, o vero della epica poesia, 1584) a sostegno del poema tassiano, e dalla risposta dell’Accademia della Crusca (la Difesa dell’Orlando furioso del 1585), la grande accusatrice della Liberata. Tasso rispose da par suo con l’Apologia della Gerusalemme liberata (1585), ma di fatto cedendo progressivamente alle istanze degli avversari, e avviando a partire dal 1588 una sostanziale azione riformatrice che si concluse nel 1593 con la pubblicazione di un poema non poco diverso, la Gerusalemme conquistata. Significativo anche il giudizio del De Sanctis: «Le correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano, fatte a freddo. Non ci è più il poeta, ci è il grammatico e il linguista […]. Corresse anche l’elocuzione, rifiutò i lenocini, cercò una forma più grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida […]. Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituì una fastidiosa rassegna militare» (De Sanctis 1996: 557; ma per una visione obiettiva e scientifica è fondamentale Residori 2004).
In sintesi, e relativamente alla lingua della Liberata, i capi di imputazione mossi dai cruscanti costituiscono pure i motivi del fascino e della novità del poema tassiano. Li riassunse Orazio Lombardelli nel Discorso intorno ai contrasti che si fanno sopra la Gerusalemme liberata (1586; cfr. Marazzini 1993: 121), dove si legge che il poema appare «oscuro oltr’a modo» per il suo «stil laconico, distorto, sforzato, inusitato e aspro, onde non può esser’inteso dall’universale», e che i suoi versi sono «aspri», e la «favella troppo culta» è una «mistura di voci e guise latine, pedantesche, straniere, lombarde, nuove composte, impropie, appiastricciate e rendenti i suoni da far ridere».
Come è evidente, in questione non fu tanto l’aspetto prettamente fono-morfologico del poema, le cui striature padano-settentrionali – peraltro istituzionali del genere eroico-cavalleresco, da ➔ Matteo Maria Boiardo a ➔ Ludovico Ariosto – non mettevano minimamente in discussione la solidità e la pervasività del sistema tosco-fiorentino, cosicché a ragione si è potuto parlare di un Tasso ormai compiutamente al di là dei problemi della ➔ questione della lingua cinquecentesca (Devoto 1957; ma per un’ampia descrizione e discussione degli aspetti fono-morfologici è indispensabile Vitale 2007: 2° vol.).
Sotto accusa furono invece i domini dell’elocutio e della dispositio, ovvero il lessico e i fatti di stile. La Crusca infatti, che nel fiorentino trecentesco naturale e schietto, autarchico, aveva fondato il proprio integralismo ideologico (➔ accademie nella storia della lingua), non poteva consentire con il classicismo inquieto e ad altissimo spessore diacronico della Liberata, come non poteva tollerare un’estetica che promuoveva a «giudice» della «bellezza delle parole» non il «popolo fiorentino» ma «i migliori scrittori» (così nell’Apologia; Tasso 1959: 461) e che nei Discorsi dell’arte poetica (Tasso 1959: 396) individuava il «sublime» nelle parole «non comuni […] peregrine e da l’uso popolare lontane».
Da qui la sostanza del vocabolario della Liberata: mobile, a elevato grado di variazione (dall’epico al lirico, dall’aspro al languido, ecc.), ma sempre ‘alto’ e ricercato, aperto ai grandi auctores della cultura classica (Virgilio, Ovidio, Lucano, ecc.) e volgare (➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca, ➔ Giovanni Boccaccio, ➔ Angelo Poliziano, ➔ Ludovico Ariosto, Giovanni Della Casa). Va dunque da sé che tra i tratti estremi ma emblematici del lessico del poema, e bersaglio principale dell’opposizione cruscante, spicchi il settore dei ➔ latinismi (cfr. Vitale 2007: 200-236): da quelli già acclimatati nella più nobile poesia italiana (margo in alternanza con margine, dumi per «pruni», torpe «ristagna», ecc.), a quelli del genere di formidabile «terribile», concitare «eccitare», esclusa «chiusa fuori», reperibili soltanto in zone marginali e iperculte come l’Hypnerotomachia di Francesco Colonna o l’Eneide di Annibal Caro (Vitale 2007: 233), per finire a individui di conio prettamente tassiano (confige «sconfigge», risoluto «fiaccato», esprimere «spremere» e così via).
Come anche si evince dalla parallela riflessione teorica, consegnata soprattutto ai giovanili Discorsi dell’arte poetica e successivamente ai Discorsi sul poema eroico (1594), insieme al lessico – e ad esso strettamente intrecciato – l’altro vettore decisivo dello stile «magnifico» è il sistema di scelte relative al dominio sintattico e retorico. Questo si realizza attraverso un uso intenso di ciò che Tasso avrebbe deliberatamente negato ai Dialoghi ai fini di una prosa ‘naturale’ e pragmatica e di ciò che costituì la pietra dello scandalo per l’ottica cruscante, ovvero di tutte quelle tecniche che di nuovo «s’allontanano da l’uso commune» (così nei Discorsi sul poema eroico; Tasso 1959: 680) per artificiosità e complessità, per la loro capacità di perturbare l’ordine diretto e naturale del discorso e di catalizzare o determinare, nel loro scarto linguistico, un principio di scarto emozionale, dal tragico al patetico. Nel concreto, di tale sistema fa parte innanzitutto una impaginazione sintattica segnata alla base da un periodare lungo, ipotatticamente marcato («la composizione […] avrà del magnifico se saranno lunghi i periodi e lunghi i membri de’ quali il periodo è composto»: Discorsi dell’arte poetica; Tasso 1959: 399), non di rado complicato da incisi parentetici, da improvvisi accostamenti a individui sintattici più brevi e laconici, da concatenazioni tra una frase e l’altra più regolate dal senso e implicitamente che da precise congiunzioni logico-grammaticali (è il cosiddetto parlar disgiunto: Tasso 1995: 224), o ancora da figure come l’enjambement (il «rompimento de’ versi»: Discorsi dell’arte poetica; Tasso 1959: 399), in grado di determinare una dissimmetria tra il continuo della linea sintattica e i confini della norma metrica, quelli dell’ottava e delle sue partizioni interne (per questo aspetto cfr. Fubini 1946; Fortini 1994: 62; Soldani 1999: 267-300; Afribo 2001: 167-200). In tale scrittura conflittuale, «tendente all’insieme simultaneo, e spesso contraddittorio, di effetti» (Fortini 1994: 61), l’impianto retorico intreccia dialetticamente sia figure di composta simmetria e parallelismo (anafore, dittologie, ecc.) sia modalità tipiche dello stile «obliquo o distorto» (Discorsi sul poema eroico; Tasso 1959: 669) come i moltissimi e vari casi di mutazione dell’ordine consueto dei costituenti del discorso – anastrofi, iperbati o epifrasi tra cui «per sette il Nilo sue famose porte» (Ger. Lib. XV, 16, 3); «tal va di sua bontate intorno il grido» (ivi, IV, 36, 8); «e i lievi imperi il rapido cavallo / segue del freno, e non pone orma in fallo» (ivi, VII, 89, 7-8); «Tornano allora i saracini, e stanchi / restan nel vallo e sbigottiti i Franchi» (ivi, VII, 121, 7-8). Sono questi gli artifici o gli ornamenti – il cui eccesso «si deve anco condonare», e molti dei quali «appresi della continua lettion di Virgilio» (Tasso 1995: 224) – che fecero torcere il grifo ai revisori della Liberata, ma che Tasso strenuamente difese: perché necessari a riscattare e compensare la naturale penuria di magnificenza e di epicità del volgare italiano.
La fortuna del Tasso fu immediata (ancora vivente fu tradotto in latino, in vari dialetti e nelle maggiori lingue europee), ma, come si è visto, accompagnata da polemiche. La querelle tra tassisti e ariostisti – cioè tra i sostenitori dello stile rotto e inquieto del Tasso e i difensori della classicità percepita come armonica ed equilibrata dell’Orlando furioso – durò a lungo, fino a diventare materia di commedia (cfr., per es., L’ariostista e il tassista, 1748, del veronese Giulio Cesare Becelli).
Tasso subì l’ostracismo dell’Accademia della Crusca, che non lo inserì tra gli autori spogliati per le prime due edizioni del Vocabolario (1612 e 1621), e non piacque a ➔ Galileo Galilei, che nelle Considerazioni al Tasso arrivò a definire il poema un «ciarpame di parole ammassate». Ma dal Settecento Tasso fu indiscutibilmente incluso nel canone dei massimi poeti italiani assieme a Dante, Petrarca e Ariosto. Nella storia della lingua poetica italiana fu un cruciale punto di snodo: il collettore delle esperienze retorico-stilistiche rinascimentali e insieme l’anticipatore degli sviluppi moderni, «a principiare dal Marino» (Vitale 2007: 863), dunque dal Barocco e dal Manierismo. Per ➔ Giacomo Leopardi costituì un esempio e un serbatoio imprescindibile di lingua e stile peregrini e arditi, e negli episodi di manierismo della poesia novecentesca non è raro intercettare la presenza tassiana, per es. nell’Ungaretti da Sentimento del tempo in poi, o in Franco Fortini.
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