Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’avventura poetica di Torquato Tasso attraversa l’intero universo letterario rinascimentale, dalla lirica alla tragedia, dalla favola pastorale al poema epico, sino alla prosa filosofica e alla poesia dottrinale: ma la sensibilità manieristica tassiana, patetica e drammatica, trasforma dall’interno il codice classicistico, rinnovando in profondità il sistema dei generi istituzionali della tradizione.
La vita e l’epistolario
Il mito romantico di Torquato Tasso, vittima della sorte avversa e del conflitto lacerante tra il suo genio altissimo e la meschinità della società di corte, trae origine dalle vicende della tormentata e avventurosa biografia del poeta, nonché dall’autoritratto esemplare che ci è offerto dalle sue opere, in particolare dalle lettere, che sono un documento straordinario non soltanto della vita ma anche della psicologia tassiana.
Torquato nasce a Sorrento nel 1544, e dopo essere rimasto orfano della madre in tenera età, segue il padre Bernardo, esule nelle sue peregrinazioni per l’Italia, da Roma, a Urbino e a Venezia. La sua vocazione per la letteratura è precocissima: appena sedicenne, tra il 1559 e il 1560, ha già intrapreso la stesura del Gierusalemme, il primo abbozzo del grande poema sulla crociata, mentre negli anni immediatamente successivi, interrotto per il momento il progetto dell’epica storica, lavora alle liriche poi incluse nella raccolta degli Accademici Eterei e porta a termine il Rinaldo, poema cavalleresco nel solco della tradizione romanzesca coltivata dal padre Bernardo. Nello stesso tempo, alla scuola di Speroni e di Sigonio, tra Padova e Bologna, entra in contatto con il mondo dell’aristotelismo universitario, appassionandosi alla speculazione filosofica e alla riflessione critico-filologica.
Allontanato dall’ateneo bolognese per aver scritto una satira contro i professori, dopo una sosta a Padova, Tasso si trasferisce a Ferrara nell’ottobre del 1565, al servizio del cardinale Luigi d’Este. Qui si distingue subito nella vita culturale della corte, ottenendo la protezione delle sorelle del duca Alfonso II e stringendo amicizia con i letterati ferraresi, da Pigna a Guarini. Dopo un viaggio in Francia nel 1570, durante il quale conosce Ronsard, Tasso, di nuovo a Ferrara, passa alle dipendenze dirette del duca. È il periodo più felice della sua vita, nonché della sua carriera poetica: nel 1573 viene rappresentata l’Aminta, nel 1575 è ultimato, con il titolo provvisorio di Goffredo, il poema sulla Crociata che Tasso aveva ripreso sin dal 1565.
Ma l’armonia con il mondo della corte comincia presto a incrinarsi: mentre Tasso intraprende la revisione del poema cominciano a manifestarsi i primi segni del “mal farnetico” che lo tormenterà sino alla morte: dapprima aggredisce un servo con un coltello, poi si autodenuncia come eretico all’inquisitore, infine fugge a Torino presso i Savoia.
Tornato a Ferrara nel 1579, in occasione delle nozze di Alfonso d’Este con Margherita Gonzaga, Tasso inveisce contro il duca perdendo il controllo di sé. Viene allora rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna, dove resterà fino al 1586: nel corso della prigionia stende la maggior parte dei Dialoghi e autorizza nel 1581, dopo una prima edizione pirata, la stampa della Gerusalemme liberata. Le sue condizioni di salute però si aggravano: è assillato dalla “malinconia” e dalle allucinazioni, anzi, nelle lettere all’amico Maurizio Cataneo si dice perseguitato da un “folletto” che gli ruba i libri, prendendosi gioco di lui.
Una volta libero, il Tasso non riuscirà più a ritrovare la serenità perduta: in preda all’inquietudine passa da Mantova a Bergamo, quindi a Napoli e a Roma, in cerca di protezione e di pace, ospite di mecenati o di monaci, intento a progettare un’edizione definitiva delle sue opere, che continua a correggere e rivedere. I suoi interessi si concentrano ora, con gli ultimi dialoghi, sulla filosofia e sulla teologia, mentre sul versante letterario la poesia sacra de Le sette giornate del mondo creato prende il posto dell’epos eroico. Intanto la laboriosa, tormentata revisione del poema si conclude nel 1593 con la pubblicazione della Gerusalemme conquistata; ma proprio poco dopo il ritorno a Roma, dove era stato richiamato con la promessa di una pensione e dell’incoronazione poetica, il 26 aprile 1595 Tasso si spegne nel monastero di Sant’Onofrio, sul Gianicolo.
La lirica
La vastissima produzione lirica di Tasso si inserisce nella tradizione del petrarchismo maturo del Cinquecento, codificato da Bembo, ma al tempo stesso arricchito dalla lezione moderna di Della Casa, le cui ardite soluzioni stilistiche eserciteranno un notevole influsso anche sulla poesia della Gerusalemme. Alla “gravità” patetica e drammatica, che domina per esempio le grandi canzoni autobiografiche Al Metauro o Alle principesse di Ferrara, il Tasso sa però unire, nei sonetti e soprattutto nei madrigali, la “piacevolezza” di squisite modulazioni meliche, in un esercizio volto a tradurre la parola in musica, esaltando i valori fonici del verso. Nelle liriche amorose, un’atmosfera di trepido incanto avvolge le descrizioni della natura, le albe, i tramonti, le notti lunari, che fanno da sfondo al melodioso canto tassiano. Ma se “le grazie particolarmente convengono a la poesia lirica [...] e gli imenei, gli amori, e le liete selve e i giardini”, come si afferma nei Discorsi, il canzoniere tassiano comprende anche numerosi componimenti di carattere cortigiano-encomiastico e religioso, secondo una tripartizione tematica che l’autore adotta nel progetto di edizione definitiva delle sue Rime, di cui tra il 1591 e il 1593 vedono la luce soltanto i primi due volumi di Amori e di Laudi ed encomi.
Torquato Tasso
Il glorioso fiume
Canzone al Metauro
O del grand’Apennino
figlio picciolo sì, ma glorïoso
e di nome più chiaro assai che d’onde,
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
e rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al più denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dèa, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.
Ohimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sàssel la glorïosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se ’n portâr l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguíi con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.
In aspro esiglio e ’n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni:
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime a le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.
(non finita)
T. Tasso, Opere, a cura di B.T. Sozzi, Torino, UTET, 1964
L’Aminta
Nella “favola boschereccia” di Aminta, rappresentata sull’isola del Belvedere nell’estate del 1573, il Tasso traspone il rituale elegante della vita cortigiana nella semplicità stilizzata di un idillico sogno pastorale che, proprio mentre vagheggia l’evasione dal mondo della corte, ne riproduce, idealizzandoli, i comportamenti e le convenzioni.
Come sospesa in quest’aura di artificiosa spontaneità, la vicenda dell’amore tra l’ardente ma timido pastore Aminta e la ritrosa ninfa Silvia si avvia, non senza presagi di tragedia, verso il lieto fine, contrappuntata dagli interventi gnomici dei due confidenti, Tirsi, nel quale è da ravvisarsi lo stesso Tasso, e Dafne, resi saggi e disincantati dall’età matura. Intanto sullo sfondo compaiono altri protagonisti dell’ambiente ferrarese, dal Pigna (Elpino) al Guarini (Batto). Alla realizzazione di questo giovanile capolavoro contribuisce la sapienza stilistica di Tasso, che riesce a unire i ritmi cantabili del madrigale alle cadenze parlate del recitativo: realtà e finzione, arte e natura si fondono così perfettamente nell’“ambigua armonia” tra l’invito edonistico al piacere e la consapevolezza malinconica della sua fugacità.
La Gerusalemme liberata
L’intero percorso artistico del Tasso è contrassegnato da un’originaria tensione tra istinto creativo e lucida intelligenza critica. Nel caso della Gerusalemme liberata, essa si articola nella riflessione dei Discorsi dell’arte poetica, poi rielaborati nei tardi Discorsi del poema eroico, giungendo alla celebre definizione del poema come di un “picciol mondo”, la cui favola unitaria possa comprendere azioni diverse in una struttura armonica e compiuta. Di conseguenza, nell’architettura compositiva della Liberata, al movimento centripeto che conduce i Crociati all’assedio di Gerusalemme si alternano le spinte centrifughe, vere e proprie deviazioni che allontanano i guerrieri dal campo, che rappresentano al tempo stesso un traviamento morale.
Torquato Tasso
Canto Primo
Gerusalemme liberata, Canto I, ottave 1-5
Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.
O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.
Sai che là corre il mondo ove più versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i più schivi allettando ha persuaso.
Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e’ fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dì fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto impero de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1957
La costruzione narrativa del poema risulta determinata dall’azione di un sistema di forze contrapposte, organizzate secondo le polarità di bene e male, cristiano e pagano, teologia e magia, ordine e disordine, uniforme e molteplice. Lo scioglimento dell’intreccio compete a Rinaldo, immagine dell’eroismo indomito e audace, nonché capostipite della casata estense: compiuta la sua iniziazione dopo le ingannevoli lusinghe delle maga Armida e la purificazione sul Monte Oliveto, egli è in grado di vincere il maleficio della selva incantata di Saron, consentendo ai cristiani di trarne il legno per le macchine da guerra con le quali sferrare l’assalto decisivo.
Se Rinaldo impersona la virtù guerriera, consentendo al Tasso di ottemperare anche all’obbligo encomiastico nei confronti degli Estensi, tra gli altri condottieri Goffredo, modellato sul pius Enea virgiliano, rappresenta il prototipo dell’eroe della Controriforma cattolica, mosso da un’incrollabile fede nel disegno provvidenziale che guida la sua missione, mentre Tancredi, perseguitato da una tormentosa “follia d’amore”, è una figura più notturna e malinconica, segnata da un fato terribile. Nel campo pagano emergono le titaniche figure di Argante e di Solimano, simboli di una cieca furia devastatrice, che assurge a tragica grandezza nel secondo, al quale è concesso ravvisare nella ferocia dell’ultima battaglia “l’aspra tragedia dello stato umano”. I personaggi femminili uniscono poi il tema del coraggio e quello dell’amore, invariabilmente destinato, nel mondo poetico tassiano, alla delusione e al disinganno: il pudore di Sofronia, la fierezza di Clorinda, le seduzioni di Armida, la tenerezza di Erminia rappresentano i molteplici aspetti complementari della femminilità che il Tasso sa esplorare con una sensibilità mirabile.
Così il romance interiore delle passioni si sovrappone al naturalismo mimetico della narrazione, contaminando il linguaggio dell’epos con quelli della lirica e del dramma e conseguendo l’effetto finale di un intenso chiaroscuro patetico cui si conforma lo stile “magnifico” e “sublime” che, come appunto aveva teorizzato il Tasso, “non è lontano dalla gravità del tragico né dalla vaghezza del lirico, ma avanza l’uno e l’altro nello splendore d’una meravigliosa maestà”. Il “parlar disgiunto” risulta in fondo lo strumento espressivo più adeguato per un autore che infrange consapevolmente la norma classicistica dell’imitazione per rispecchiarsi nell’universo turbinoso delle emozioni dei suoi personaggi.
I Dialoghi
Composti in gran parte nel periodo della reclusione in Sant’Anna, i Dialoghi tassiani, dedicati ai soggetti più diversi, dal costume all’etica, dalla filosofia alla scienza, sono accomunati dal progetto unitario di dar vita a un’elegante letteratura didascalica d’intrattenimento che unisca sapienza ed eloquenza temperando la “gravità” della prima con la “piacevolezza” della seconda. La forma dialogica, sulla base dell’antico modello platonico attualizzato dalle teorizzazioni contemporanee di Sigonio e dello stesso Tasso, si rivela, da questo punto di vista, la più adatta a tradurre l’argomentazione rigorosa ma arida della lezione universitaria nei modi affabili di una conversazione cortigiana che, il più delle volte, vede come interlocutori contrapposti per l’appunto un filosofo di professione e un gentiluomo.
Attraverso la maschera del Forestiero Napolitano, il suo alter ego nei Dialoghi, il Tasso ripercorre l’enciclopedia del sapere cinquecentesco dalla prospettiva di chi si sente al tempo stesso integrato ed estraneo al sistema culturale cui appartiene.
Viene così delineato un orgoglioso autoritratto intellettuale che si confronta via via, tra aristotelismo e platonismo, con le diverse aree della composita cultura filosofica e letteraria del tardo Rinascimento, affrontando i temi più disparati: la nobiltà (Il forno) il piacere (Il nifo), il problema neoplatonico dei demoni (Il messaggiero) e quello della gestione della casa (Il padre di famiglia), la poesia (La cavaletta), l’amore (La molza). Ma il tenace impegno stilistico, che crea una prosa esatta e mobile tanto nel procedere sillogistico del ragionamento quanto nell’effusione lirica delle descrizioni e delle rievocazioni, unifica nella scrittura questa imponente tradizione culturale, trasformandola in un modello nuovo di alta letteratura filosofica.
Torquato Tasso
Parlando d’amore
La Molza overo De l’amore
Allora io rincominciai: - Se voglio prendere il principio da le opinioni più antiche, dirò ch’amor sia un gran dio, come già disse Orfeo, o grandissimo, come scrisse Euripide, e antichissimo oltre tutti gli altri; e se vorrò parlarne con felicissimi poeti, dirò ch’amore è giovenissimo e tenero e delicato molto, ma voglio seguir l’autorità d’Erisimaco, il quale affermò che l’amor buono sia la concordia e ’l reo la discordia; se con Empedocle, dirò ch’egli e la discordia siano principî; se con altri medici, conchiuderò che sia una sorte di malatia, la quale si può curare come l’altre, e co ’l digiuno o con l’ubbriachezza o co ’l trar del sangue fu da altri medicata. Ma s’io m’attenessi a l’opinione d’alcuni filosofi naturali, direi che l’amore è prima affezione de la materia, la quale, essendo imperfetta e informe, desidera la perfezione e la forma. Se narrerò l’opinione di Fedro, dirò ch’egli è degno di somma riverenza e giova molto a la virtù; se le favole d’Aristofane volessi raccontare, direi che prima gli uomini erano congiunti, ma dapoi furono divisi per l’ira di Giove in guisa che ciascuno divenne il mezzo il quale a l’altro suo mezzo cerca di unirsi; ma s’io m’appigliassi a quello che Socrate apprese da la sua maestra Diotima, direi che l’amore è più tosto un gran demone ch’un gran dio: egli non è bello come sono gli iddii, né eterno, ma mezzo fra le cose belle e le brutte e fra le mortali e le immortali: onde potrei diffinirlo desiderio di bellezza; e percioch’ogni desiderio presuppone privazione, finalmente direi ch’egli fosse privo de le cose belle. Ma s’io numerassi con l’altre opinioni quella di Lucrezio, io direi che l’amore è desiderio di trasportamento: perché l’amante par che desideri di trapassar ne l’amata. Se quella di Ieroteo fra queste mescolassi, intendereste che l’amore è una certa virtù inestata, per la quale le cose superiori hanno la providenza de le inferiori e l’inferiori si volgono a le superiori e l’eguali si congiungono. Ma s’a queste aggiungessi la diffinizione d’Aurelio, l’amor sarebbe un distendimento, per il qual la volontà si distende verso la cosa desiderata; o pur direi ch’amor è quella prima piacenza o quel primo piacere che abbiamo quando la cosa desiderabile ci occorre a la vista e ci diletta. Se doppo questa adducessi l’opinione di Plotino, si conoscerebbe che l’amore è un atto de l’anima che desidera il bene; se ultimamente recassi quella di Dante, udireste
Ch’amore e ’l gentil sono una cosa.
E tutte queste diffinizioni sono talmente antiche che la più nuova nacque inanzi l’accrescimento di questa lingua con la qual favelliamo, quando la poesia toscana era ancora giovinetta. Ma secondo quella del Bembo assai più moderna,
Amore è graziosa e dolce voglia;
né dopo questa n’addurò alcuna altra.
T. Tasso, Dialoghi, a cura di B. Basile, Milano, Mursia, 1991
L’ultimo Tasso
Dopo la liberazione da Sant’Anna, Tasso riprende a lavorare al Galealto re di Norvegia, una tragedia lasciata interrotta nel 1573, trasformandola nel Re Torrismondo: stampata a Bergamo nel 1587 ma rappresentata postuma solo nel 1618, l’opera, ambientata sullo sfondo delle desolate solitudini nordiche, è la storia della passione incestuosa che travolge i due inconsapevoli protagonisti, Alvida e Torrismondo, spingendoli poi al suicidio una volta scoperto il legame di sangue che li unisce. Il movimento drammatico della tragedia risulta quasi annullato dal sentimento diffuso della vanità irrimediabile di ogni ambizione o desiderio umano, che si esplicita nel celebre lamento del coro finale “Ahi lacrime, ahi dolore”.
Negli ultimi anni, mentre attende alla riscrittura del poema, il Tasso compone per lo più opere encomiastiche, tra le quali va ricordata la Genealogia di casa Gonzaga, o poemetti di soggetto devoto, come Il monte Oliveto o Le lagrime di Maria Vergine. Ma l’ultimo ambizioso esperimento nella storia della poesia tassiana è Le sette giornate del mondo creato, il poema in endecasillabi sciolti sulla creazione, ispirato alle fonti bibliche e patristiche: qui il Tasso tenta di saldare in una sintesi unitaria un complesso sistema dottrinale e teologico, conciliando spiritualità e dogma, enciclopedismo erudito e sofferta religiosità, e affidando alla voce del poeta-teologo il compito di sciogliere le contraddizioni laceranti del suo percorso esistenziale e culturale.