Totò
Nome d'arte di Antonio De Curtis, attore teatrale e cinematografico, nato a Napoli il 15 febbraio 1898 e morto a Roma il 15 aprile 1967. Attraverso la centralità della 'maschera' (in grado di vincere sui personaggi e sulla stessa qualità dei film interpretati lasciandoli in ombra) la presenza di T. ha rappresentato, sulla scena e sullo schermo, gli esiti di un'intera tradizione, che parte dalla commedia dell'arte e passa per il varietà, la sceneggiata, l'avanspettacolo. La spinta vitale e anarcoide del sottoproletariato si intreccia in lui con la identificazione ambigua di una ridicolaggine piccolo-borghese, messa in caricatura nei suoi aspetti deteriori. In questo senso, nella sua straordinaria immediatezza recitativa T. sapeva rovesciare la cupezza della morte e della fame sciogliendola in sberleffo, nel guizzo sintetico della maschera. Un marionettismo bizzarro spinto fino alla surrealtà parrossistica, il volto asimmetrico, sbilenco e deformato, il corpo disarticolato, svitabile, piegabile a ogni deformazione, si coniugavano in lui con un gusto per le acrobazie verbali al limite del nonsense, esprimendo spesso nella stessa comicità una modernità irreale e metafisica. Nel corso della sua carriera ottenne per due volte il Nastro d'argento come miglior attore: nel 1952 per Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli e nel 1967 per Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini. Per la prova offerta in quest'ultimo film l'anno precedente gli era stata conferita una menzione speciale al Festival di Cannes.
Fu cresciuto nel popolare rione Sanità dalla nonna e dalla madre, Anna Clemente, nubile, che tirava avanti con lavori saltuari; il padre era Giuseppe De Curtis, agente teatrale di stirpe nobile (era marchese), che avrebbe sposato la madre di T. nel 1921, trasferendosi con lei a Roma e riconoscendo il figlio. L'infanzia fu quella dei ragazzi dei vicoli napoletani: vita di strada, piccoli lavoretti, poca scuola. Si era già messo in luce, per la capacità di imitare il prossimo, tra i compagni del collegio Cimino e nelle cosiddette periodiche, piccole recite improvvisate a carattere familiare in uso a Napoli e nei dintorni fino al secondo dopoguerra. Suo idolo era il comico fantasista Gustavo De Marco, celebre per la capacità di 'snodarsi' e disarticolarsi, di usare il proprio corpo in figurazioni marionettistiche. Forse attorno ai sedici anni, T. debuttò imitandolo, con lo pseudonimo Clerment, sui teatrini in legno che fiorivano attorno alla stazione centrale di Napoli, dove si cimentavano anche i fratelli De Filippo e altri attori napoletani. Nel 1915 si arruolò volontario; schivato abilmente l'invio in Francia pretestuando una malattia, riuscì a non andare al fronte. A guerra finita era deciso a dedicarsi al teatro; si esibì in compagnie provvisorie, operanti per lo più in provincia nelle cosiddette recite staccate di fine settimana. Si costruì, rubacchiando a De Marco come a Nicola Maldacea e ad altri divi del momento, un piccolo repertorio di 'macchiette' e di soggetti, cui avrebbe spesso fatto ricorso in futuro per risolvere, in teatro o nei film interpretati dopo il 1947, momenti fiacchi dei copioni.Il suo apprendistato proseguì a Roma, nel 1921, a fianco del 'Pulcinella' Umberto Capece. L'anno seguente venne finalmente scritturato dall'impresario G. Iovinelli, proprietario a Roma dell'omonimo teatro, che aveva contribuito a lanciare Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini. Dopo qualche sortita a Napoli, la sua consacrazione tra i nomi di spicco del varietà avvenne al teatro Sala Umberto I di Roma, uno dei più importanti nel genere. Le macchiette che lo resero celebre furono quelle del Gagà, del Bel Ciccillo, del Biondo corsaro, di Otello, e altre ancora, rubate ad altri. "Il mio corredo", raccontò più tardi, "era composto da un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione. Ebbi da qui l'idea di creare un 'costume' che accentuasse la mia reale situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa col colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni 'a saltafossi', comuni scarpe nere basse, un paio di calze colorate. Così nacque l'abito di Totò". Il suo nome d'arte era ormai questo. Nella definizione del personaggio comico e nel suo passaggio a maschera concorsero molte influenze: oltre alle citate, anche Petrolini, quanto meno agli inizi, e l''omino di Chaplin'.Il varietà, composto da numeri di arte varia, stava lasciando il passo in quegli anni alla rivista, che univa i numeri tra loro attraverso un tenue pretesto narrativo, con alcuni personaggi-guida. T. agì, come tanti, nell'una e nell'altra forma di spettacolo: nella seconda come primo attore comico, con la compagnia di Achille Maresca che presentava anche operette, a fianco di soubrette come Isa Bluette e Angela Ippaviz, o con la Compagnia stabile napoletana Molinari dell'impresario E. Aulicino, con cui aveva già lavorato, che gestiva il Teatro nuovo di Napoli. Nel 1931 Maresca gli affidò una compagnia di rivista cui venne dato il suo nome, che godeva ormai di notevole fama: erano finiti gli anni della miseria e dell'apprendistato.La piccola compagnia girò l'Italia con un repertorio di copioni non certo eccelsi, ma nei quali l'attore poteva sbizzarrirsi nei suoi numeri comici, nelle macchiette musicali, nei finali per i quali meritò l'appellativo di 'uomo caucciù', per gli sketch che riprendevano vecchi copioni anonimi della tradizione napoletana (La camera fittata per tre, La scampagnata dei tre disperati, Il cafone al ristorante) o lo vedevano in bizzarri travestimenti alle prese con situazioni che scivolavano volentieri nell'assurdo. La sua comicità faceva ormai leva su due costanti: una mimica corporea e facciale di inedita ricchezza (la marionetta), e un'aggressività che trovava nella parola il suo principale strumento di espressione, parodiando il linguaggio aulico della borghesia avvocatesca dell'epoca. T. fu spesso, in teatro, un 'nuovo al mondo', un ingenuo che con la sua mancanza di condizionamenti sociali e di 'buona educazione' ne svelava il funzionamento e ne distruggeva le apparenze; oppure un poveraccio (ma anche un sussiegoso piccolo-borghese) che rivendicava, senza rispetto per nessuno, la soddisfazione dei suoi istinti primari di cibo, di sesso, di spazio, di riconoscimento: un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto, ipocrita, secondo lo stesso Totò.
Alle vecchie macchiette si erano aggiunti in repertorio numeri come l'Adamo di Monna Eva (1929), il Cajo Silio di Messalina (1929), Totò Charlot per amore (1930), Il prestigiatore (1931), il finto pazzo di Fra moglie e marito la suocera e il dito, La mummia vivente, il Dongiovanni, e molti altri spesso per riviste che scriveva egli stesso, come L'ultimo Tarzan che concluse nel 1939 la fertile stagione degli anni Trenta. Portate in tournée in quasi tutte le province italiane, queste riviste gli valsero l'ammirazione e il consenso di alcuni intellettuali (Cesare Zavattini, Umberto Barbaro, Renato Simoni, Marco Ramperti ecc.) ma soprattutto l'adesione di un pubblico sempre più numeroso. Dal 1932 anche capocomico, dirigeva una sua compagnia con proprie soubrette, e aveva per spalle Mario Castellani, il più fedele, il pugliese Guglielmo Inglese, suo cugino Eduardo Passarelli. Ma le 'piazze' che copriva erano ancora quelle povere dell'avanspettacolo, che offriva un rapido susseguirsi di numeri legati tra loro da un filo assai esile, per la durata di tre quarti d'ora o un'ora, in attesa della proiezione cinematografica. T. era ancora confinato al teatro minore. Qui la sua comicità e la sua maschera si definirono, nel contatto con il pubblico che il perbenismo del regime fascista non toccava, certo 'volgare' ma di una volgarità popolare che trovava nel comico sfogo e rivalsa. Furono dozzine le piccole riviste che T. mise in scena nel corso del decennio, conquistando infine quell'agiatezza che gli permise di compiacere una sua ossessiva mania: quella della nobiltà. Il fatto di essere nato figlio di N.N. era stato un rovello costante della sua vita, ed egli cominciò in quegli anni ad accumulare titoli nobiliari ‒ attraverso complicate ricerche araldiche ‒ spesso comprandone. Nel 1933 si era fatto adottare da un vecchio principe in miseria, Francesco Maria Gagliardi Focas, per poterne ereditare in tal modo il lunghissimo elenco di titoli. Nello stesso periodo, dopo il suicidio di una cantante da lui abbandonata, Liliana Castagnola, aveva incontrato una giovanissima ragazza fiorentina di cui fece la sua compagna, Diana Bandini Rogliani, dalla quale nel 1933 ebbe una figlia, Liliana, e che sposò nel 1935. Il matrimonio venne annullato in Ungheria nel 1939, anche se vissero assieme fino al 1950.
Nel 1937 il cinema si era accorto di lui proponendogli per il tramite del produttore Gustavo Lombardo l'interpretazione di Fermo con le mani!, su soggetto di Guglielmo Giannini e regia di Gero Zambuto, e nel 1939 Animali pazzi, su soggetto di Achille Campanile e regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Il primo era una charlottiana e sconclusionata divagazione che gli permetteva di esibirsi nei suoi aspetti più marionettistici. Il secondo, grazie al soggettista, noto per un pacato umorismo fitto di trovate surreali, fu decisamente più interessante, ma T. non vi appariva ancora a suo agio, privato come era della 'volgarità' e condizionato dal copione nelle sue improvvisazioni. Fino al dopoguerra la sua presenza nel cinema italiano fu secondaria, affidata ad altri quattro film il più importante dei quali, San Giovanni decollato (1940) diretto da Amleto Palermi, portava sullo schermo una commedia dialettale del siciliano Nino Martoglio, un cavallo di battaglia di Angelo Musco. Contribuì alla sceneggiatura Cesare Zavattini, che avrebbe dovuto in un primo tempo dirigerlo (e che poco dopo scrisse per lui il soggetto Totò il buono, portato sullo schermo da Vittorio De Sica con il titolo Miracolo a Milano solo nel 1951 e senza T.): in questo film T. ondeggia per la prima volta tra le tentazioni della maschera e la definizione di un carattere. Della sua presenza in Due cuori fra le belve (1943) di Giorgio C. Simonelli ebbe a scrivere Giuseppe De Santis, più tardi regista del Neorealismo: "Totò è un grande mimo. A nessuno più di lui si addice alla perfezione quel famoso dialogo di Kleist sulle marionette. Sembra svitabile come Pinocchio […] Sorprendente è anche l'estrema mobilità del suo viso oblungo […] certo è indiscutibile una sua parentela con certi animali domestici, così come non è lontano dalla struttura fisica di Buster Keaton" (in "Cinema", 10 luglio 1943).
Uomo di teatro, T. dedicava al cinema scarsa attenzione, tanto più che in quegli anni, gli anni della guerra, l'incontro con un autore quale Michele Galdieri e con una soubrette quale Anna Magnani gli permise quel trionfo sui principali palcoscenici della penisola cui da tempo aspirava. Le riviste che egli produsse e interpretò si intitolavano Quando meno te l'aspetti (1940), Volumineide (1942), Orlando curioso (1942), Che ti sei messo in testa? (1944), Con un palmo di naso (1944). Galdieri elaborò impalcature solide ed eleganti, che servivano bensì di contorno per sketch che lasciavano a T. la possibilità d'intervenire ancora 'a soggetto'. Lo sketch più celebre di T. appartiene a una rivista di Galdieri del dopoguerra, C'era una volta il mondo (1947), noto con il titolo L'Onorevole in vagone letto. Era all'inizio molto breve, ma, replica dopo replica, raggiunse i quaranta-cinquanta minuti, il tempo di un atto unico, ed è possibile goderlo nella riproposta che T., affiancato da Isa Barzizza e Mario Castellani, ne offrì nel film Totò a colori (1952) di Steno e Monicelli. L'aggressività della maschera, irriverente e violenta, si applicava alla distruzione del personaggio di un uomo politico. Non minore irriverenza c'era nelle riviste precedenti. Il controllo censorio operato dal ministero della Cultura popolare si era allentato, in tempo di guerra, permettendo una qualche satira della vita quotidiana del Paese in quegli anni difficili: la comicità svolgeva una funzione, da sempre ambigua, di corrosione dei luoghi comuni e della retorica del potere, di cui il potere sapeva servirsi per offrire al pubblico uno sfogo tuttavia controllabile. Le facili allegorie e l'ammiccante e prudente moralismo di Galdieri venivano però scavalcati dall'attore, che vi pescava occasioni per un intervento ben più graffiante. L'aspetto marionettistico di T. aveva modo di esprimersi al meglio nelle passerelle finali o in figurazioni come quelle del Manichino, da lui creato nel 1938 e ripreso con Galdieri, nella prima rivista della Liberazione. Con un palmo di naso, con le due figure di un Hitler isterico e allucinato, o di un nuovo e ambiguo Pinocchio in cui si esprimeva imprevedibilmente un Mussolini tradito dal Gran consiglio.
Dopo Che ti sei messo in testa?, il cui titolo primitivo era, con allusione agli occupanti tedeschi, Che si son messi in testa?, i nazisti ordinarono il suo arresto, cui l'attore sfuggì nascondendosi in casa di amici insospettabili fino all'arrivo delle truppe alleate. Secondo varie testimonianze T. avrebbe anche contribuito con grosse somme a finanziare la Resistenza romana.Gli anni dell'immediato dopoguerra lo videro protagonista di riviste quali Un anno dopo (1945) di Oreste Biancoli, che satireggiava in particolare la presenza degli Americani nella capitale; Ma se ci toccano nel nostro debole… (1947) di Francesco Nelli, Mario Mangini, Pietro Garinei e Sandro Giovannini; C'era una volta il mondo, e Bada che ti mangio! (1949) di Galdieri e Totò. Si trattava di riviste sfarzose, con un T. in gran forma, i cui contenuti proponevano la satira della nuova vita politica italiana in un'ottica che spesso sfociava nella nostalgia del passato regime. L'attore, peraltro, non aveva nascosto ai tempi del referendum del 1946 le sue simpatie monarchiche, coerentemente alle origini nobiliari che gli erano state riconosciute legalmente in più processi. Sempre più si andava precisando una sorta di schizofrenia tra l'immagine pubblica di T., attore comico di vena anarcoide, e il principe Antonio De Curtis, che, smessi i panni dell'attore, era un cittadino ricco e ossequiente, riservatissimo, compassato, iscritto, come si scoprì alla sua morte, alla massoneria.Nel 1947, per utilizzare scenografie e costumi di un melodrammatico Fiacre 13 (1948) di Raoul André e Mario Mattoli, quest'ultimo impiegò T. (con Carlo Campanini come spalla) in un film dalla sceneggiatura raffazzonata ma piena di incongrui riferimenti satirici alla realtà italiana del dopoguerra, I due orfanelli. Il successo fu clamoroso e T. diventò in breve tempo il divo numero uno della cinematografia italiana. A quel film seguirono Fifa e arena e Totò al giro d'Italia, entrambi del 1948 e diretti da Mattoli, Totò cerca casa di Steno e Monicelli, Totò le Mokò di Bragaglia, L'imperatore di Capri di Luigi Comencini, tutti del 1949, Totò cerca moglie (1950) di Bragaglia, Tototarzan e Totò sceicco, entrambi del 1950, di Mattoli, e via via decine di altri. Vituperati dalla critica, essi fecero di T. un personaggio amatissimo da un pubblico popolare, che vi scopriva l'irruenza primigenia della maschera, ma anche la propria fame e ansia di riconoscimento, in un rapporto immediato con le proprie frustrazioni. In essi T. riprendeva sketch, macchiette, canzoni, assolo del suo teatro, assistito da sceneggiatori e registi che si limitavano a offrirgli canovacci sui cui potesse intervenire con le sue doti di improvvisazione, e da spalle di provata esperienza teatrale, in grado di seguirlo e dargli la battuta: Carlo Campanini, il fedele Castellani, Alda Mangini, Giacomo Furia, Aroldo Tieri, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Luigi Pavese, e più tardi Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Macario, Dante Maggio, Eduardo Passarelli, Clelia Matania, Dolores Palumbo, Titina De Filippo, Enzo Turco, Carlo Croccolo, Tina Pica, Paolo Stoppa, Gino Cervi e soprattutto Peppino De Filippo (con cui diede più volte vita a una coppia esilarante, come in Totò, Peppino… e la malafemmina, 1956, di Camillo Mastrocinque).
"Da allora e sino al 1956-57 almeno un film di Totò è sempre compreso nell'elenco dei primi dieci classificati stagione per stagione", scrisse V. Spinazzola sulla rivista "Ferrania" nel 1964. "Nei circa quaranta film di questo periodo, Totò è un povero diavolo a metà ingenuamente sprovveduto a metà furbescamente sagace, aspirante alla bella vita e condannato a vivere di espedienti, smanioso di imporre la sua autorità e sempre tiranneggiato, beffato, incapace di ottenere rispetto […] Sotto i cieli più diversi, nelle situazioni più impensate il personaggio è sempre animato da un'inconfondibile carica qualunquisticamente anarchica, tanto sfrenata nelle intenzioni quanto velleitaria e grottesca nei fatti".Nei vent'anni prima della morte, T. lavorò incessantemente per il cinema, per lo più in questo tipo di film e in ruoli assai simili. Vi furono tuttavia alcune eccezioni. Se Totò cerca casa trasformava in farsa uno spunto tipico del cinema neorealista, e se in Yvonne la Nuit (1949) di Giuseppe Amato il suo personaggio si era già fatto più patetico che comico, in Napoli milionaria (1950) fu al fianco di Eduardo De Filippo nell'adattamento cinematografico che questi diresse della sua celebre commedia sugli effetti della guerra a Napoli; in Guardie e ladri fu un eccellente ladro contrapposto alla guardia interpretata da Fabrizi in una commedia dolceamara di impronta nettamente neorealista; in L'uomo, la bestia e la virtù (1953) di Steno interpretò il testo pirandelliano al fianco di Orson Welles; in Totò e Carolina (1955) di Monicelli, su soggetto di Ennio Flaiano, fu un umanissimo carabiniere incaricato di riportare al paese una giovane prostituta, e in Dov'è la libertà…? (1954) di Roberto Rossellini un carcerato che, ottenuta la libertà, scopre l'orrore della vita quotidiana nella Roma postbellica e torna in carcere con un'evasione alla rovescia. Il suo film di maggiore successo fu però, in quegli anni, Totò a colori, primo film italiano girato a colori, che altro non era che un'antologia di suoi famosi sketch teatrali. In 47 morto che parla (1950) di Bragaglia, si era cimentato con Ettore Petrolini e Molière (L'avaro); in Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Monicelli, con due racconti di A.P. Čechov; in L'uomo, la bestia e la virtù e in La patente di Luigi Zampa, episodio del film collettivo Questa è la vita (1954), con L. Pirandello; in Sette ore di guai (1951) di Vittorio Metz e Marcello Marchesi e nei tre film di Mattoli Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi, entrambi del 1954, con il già frequentato E. Scarpetta. Ma anche questi soggetti erano piegati alle necessità della sua maschera, e ne derivavano a volte alcune inedite stridenze.
L'interpretazione più lodata del periodo resta, assieme a quella in Guardie e ladri, quella del 'pazzariello' in L'oro di Napoli (1954) di De Sica, su soggetto di Giuseppe Marotta adattato da Zavattini. La critica, che disprezzò in genere il T. maschera 'volgare' più amato dal pubblico, lo apprezzò invece quando fu più personaggio e più umano, qualità espresse per es. in Il coraggio (1955) di Domenico Paolella. La sua filosofia T. la definì peraltro in Siamo uomini o caporali? (1955) di Mastrocinque, che firmò come autore del soggetto. In questo chapliniano resoconto delle disgrazie di un italiano prima, durante e dopo la guerra, le realtà umane si essenzializzano nella contrapposizione tra uomini e caporali, tra vittime e prepotenti, i quali ultimi (tutti impersonati da Paolo Stoppa), si presentano volta a volta nelle vesti di un milite fascista, del direttore di un lager, di un ufficiale americano, di un direttore di giornale, di un industriale. Che questa primaria distinzione e filosofia fosse per T. radicato convincimento lo dimostra la sua presenza al fondo di certe sue espressioni meno legate al mestiere d'attore, come in alcune poesie dialettali ('A livella), o in alcune canzoni ‒ qui, soprattutto in rapporto alle donne (Malafemmina) ‒ o amore nel volume autobiografico Siamo uomini o caporali? (1952) scritto in collaborazione con A. Ferraù ed E. Passarelli, che precedette la realizzazione dell'omonimo film.
La stampa si occupò spesso in quegli anni dei suoi molti amori, e in particolare di quello che lo legò dal 1952 a Franca Faldini, giovane attrice reduce da una esperienza di starlette a Hollywood, che gli fu fedele compagna sino alla morte. Si parlò molto, nel 1954, della gravidanza extramatrimoniale della Faldini, conclusasi dolorosamente con la morte del neonato. Sul finire del 1956 l'attore decise di tornare al teatro con una nuova rivista, A prescindere, di Nelli e Mangini, ottenendo un moderato successo. Durante la tournée venne colpito da broncopolmonite virale e, a Palermo, da un abbassamento della vista in scena (i suoi occhi erano già stati colpiti durante la lavorazione di Totò a colori, per le fortissime lampade utilizzate). Per oltre un anno restò completamente cieco, e quando tornò al cinema nel 1958 il suo fisico era duramente provato e la vista irrimediabilmente ferita. Continuò tuttavia a lavorare indefessamente in film di buon livello, quali I soliti ignoti (1958) di Monicelli, Arrangiatevi! (1959) di Mauro Bolognini, Risate di gioia (1960) di Monicelli, che lo vide di nuovo a fianco della Magnani, La mandragola (1965) di Alberto Lattuada, ma soprattutto, anche se la sua presa sul pubblico era calata, in piccole opere ‒ spesso più che mediocri ‒ costruite appositamente su di lui e nelle quali il suo estro comico impareggiabile continuò a rifulgere. In particolare: Letto a tre piazze (1960) di Steno, Totò, Peppino… e la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci, Tototruffa '62 (1961) di Mastrocinque, Totò diabolicus (1962) di Steno, Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Ottavio Alessi. Nei due ultimi espresse una vena macabra e mortuaria già affiorata in alcuni film precedenti, in particolare in La patente.
Federico Fellini aveva pensato di farne uno dei protagonisti del suo Il viaggio di G. Mastorna, Bolognini di un adattamento di I fratelli Cuccoli di A. Palazzeschi, e prima ancora Luchino Visconti aveva scritto per lui il soggetto di Vita di Petito (il grande Pulcinella dell'Ottocento) assieme a Suso Cecchi D'Amico: tutti film che per vari motivi non vennero realizzati. Lo stesso T. aveva proposto a più produttori, senza esito, un film muto da lui ideato e interpretato, nell'intento di conquistare il pubblico, straniero, che le difficoltà di doppiaggio gli avevano sempre allontanato (e forse il film avrebbe permesso la liberazione dell'essenza linguistica di T. ‒ quella di grande mimo ‒, sempre frenata da esigenze di copione, dalla subalternità alla parola e al parlato e, in fondo, dalla cultura dell'epoca e dalla sua stessa carriera). Fu Pasolini a utilizzarlo genialmente negli ultimi anni della sua vita, in Uccellacci e uccellini, in La Terra vista dalla Luna, episodio del film collettivo Le streghe (1967), e in Che cosa sono le nuvole?, episodio del film collettivo Capriccio all'italiana (1968), rispettando le sue caratteristiche ma inserendole in personalissimi apologhi su storia e natura, mondo sviluppato e mondo del sottosviluppo, crisi del marxismo e fine delle ideologie.
La vita privata dell'attore, assistito da Franca Faldini, dal cugino e segretario Eduardo Clemente e dall'autista Carlo Cafiero, si limitava ormai a sporadiche apparizioni in pubblico e a un'instancabile attività di benefattore, al cui interno fece spicco la fondazione di un ospizio per cani randagi. I suoi guadagni non erano eccelsi: aveva sempre preteso poco dai produttori e dilapidato i suoi proventi. Nel 1967 accettò di partecipare a una serie televisiva, Tutto Totò, che ripropose i suoi sketch più noti ma con scarsa originalità e in cui l'attore appariva provato. Meditava di tornare al teatro ma, sul set di Padre di famiglia di Nanni Loy, le sue condizioni fisiche si aggravarono (lo sostituì Ugo Tognazzi). Morì a Roma, assistito dalla Faldini. Fu sepolto a Napoli, nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire nel cimitero del Pianto a Poggioreale, dopo un funerale nella chiesa del Carmine cui prese parte un'immensa folla.
G. Fofi, De Curtis, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 33° vol., Roma 1987, ad vocem.