Tra ducati e repubbliche
La storiografia umanistica ufficiale veneziana si sviluppa nei decenni che vedono prima l’espansionismo della Repubblica in Italia centro-settentrionale e poi il crollo delle sue aspettative dopo Agnadello (14 maggio 1509). È nel contesto di queste vicende che le autorità della Serenissima con le opere storiche vogliono indirizzare l’opinione pubblica e, a livello internazionale, giustificare il diritto di sovranità sui territori di proprio dominio.
A metà del Quattrocento il governo intende chiamare Lorenzo Valla per comporre una storia della città, ma poi è preferito Biondo Flavio, il quale scrive l’opuscolo De origine et gestis Venetorum (1454) che, tuttavia, non soddisfa le esigenze della Repubblica al punto da non essere pubblicato. Nel 1483, l’incarico è conferito a Sabellico (1436 ca.-1506), a cui succedono Andrea Navagero (1483-1529) e Pietro Bembo (1470-1547). Il primo ha una scarsa conoscenza della realtà cittadina, ma viene selezionato per il suo stile aulico, che lo fa prefigurare come il Tito Livio di Venezia. Scrive un’opera di scarso valore, affollata di leggende favolose, che, però, contrariamente a quella di Biondo Flavio, incontra il favore della Repubblica. Nel 1530 è la volta di Bembo, incaricato di scrivere una storia veneta a cui l’umanista lavora malvolentieri. Al teorico della Prose della volgar lingua è anche imposto di scrivere in latino, a segno della tenuta della tradizione storiografica umanistica. Per poter procedere al lavoro Bembo ottiene il permesso di utilizzare i Diarii che nel corso degli anni ha scritto Marin Sanudo annotando giorno per giorno i fatti di maggior rilievo della vita della Repubblica.
Marin Sanudo (1466-1536), detto il Giovane per distinguerlo dal cronista medioevale Marin Sanudo il Vecchio, è esponente di una famiglia patrizia. Dopo aver ricoperto in gioventù importanti magistrature, successivamente è stato emarginato politicamente. Tuttavia, ha avuto la possibilità di assistere ai principali avvenimenti politici della Serenissima tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.
Già dal titolo della prima opera, i Commentarj della guerra di Ferrara (1484), si desume che il modello per Sanudo è Cesare. Sono evidenti, in ogni caso, i limiti del suo metodo storiografico: fondamentalmente un eccesso di notizie che soffoca l’esposizione. Il De origine situ et magistratibus urbis Venetae (1493) tratta della fondazione di Venezia, accogliendo la lezione di Biondo Flavio sull’attenzione alla descrizione dei costumi, della famiglia, delle forme del matrimonio e dell’educazione dei figli. Percorre l’opera una vivace curiosità per gli alimenti, le produzioni, la registrazione dei costi delle merci e dei servizi. L’interesse per le istituzioni e gli ordinamenti di governo rende lo scritto molto diverso dalle Laudes medievali: è infatti ormai il ritratto di una città moderna e razionale.
La spedizione di Carlo VIII (1495) è considerata un’attenta analisi delle tensioni tra gli Stati italiani all’inizio delle invasioni straniere e una miniera di notizie su Napoli alla morte di Ferrante. Le Vite dei dogi sono invece una cronaca che verrà consultata da tutti coloro che vorranno scrivere sulla storia del 15° secolo. Il suo nome, però, è fondamentalmente legato ai 58 volumi dei Diarii (dal 1° gennaio 1496 al settembre 1533) in cui Sanudo riporta lettere di ambasciatori, lettere di privati ma di interesse pubblico, decreti governativi ed episodi di cronaca.
I Diarii sono stati nel tempo ampiamente utilizzati, ma mai pubblicati (lo saranno soltanto tra il 1879 e il 1902). Ciò è dovuto alla forma linguistica delle trattazioni: Sanudo scrive in volgare veneziano, distorcendo anche i nomi stranieri. Spesso procede a una trascrizione frettolosa di documenti e istruzioni latine. Lo stile è diretto e la prosa è asistematica e congestionata dalla vivacità delle osservazioni e delle notizie: lunghe relazioni si intersecano a brevi annotazioni e a molteplici digressioni. L’autore prolunga la corsività delle cronache medievali, ma anticipa anche le stravaganze fantasiose della prosa rinascimentale. La paratassi livella tutto e, dunque, dal punto di vista storico, non gerarchizza.
La scelta del volgare compiuta da Sanudo non è, tuttavia, dettata da scarsa conoscenza del latino, ma da motivi ideologici. Se il latino di Livio è stato il modello di Leonardo Bruni e degli altri storiografi ufficiali, egli segue invece il Biondo Flavio polemico con la linea di Bruni, il cui lavoro ha inaugurato un’impostazione culturale tesa a rendere la storia accessibile ai nuovi patriziati cittadini: la storia si comprende quindi anche attraverso i fatti minuti e non esclusivamente dalle vicende dei grandi uomini. Per l’esposizione di tali fatti occorre una lingua viva, non il latino. Sanudo con il suo sermoneggiare veneziano ha però scarsa possibilità di conseguire il successo presso le autorità della Repubblica. Sintomatiche sono le vicende in merito all’ufficio di storiografo ufficiale. Alla morte di Sabellico, Sanudo spera di esserne il successore, ma nel 1516 i Dieci deliberano di preservare la storia repubblicana in forma aulica e si rivolgono all’umanista Navagero, continuatore dei canoni del Sabellico. Ancora più cocente è la sconfitta quando, alla morte di Navagero, gli succede Bembo, cui, peraltro, Sanudo è costretto a mettere a disposizione i Diarii. Soltanto nel 1531, quando ormai è vecchio e malato, gli si concede l’incarico di diarista. La sua linea a Venezia solo in seguito verrà ripresa, e con successo, da Girolamo Priuli, Nicolò Contarini e Paolo Sarpi.
Nella Repubblica ligure non è mancata nel corso del Medioevo una tradizione cronachistica cui va annoverato Caffaro (1080/1081-1166), l’autore degli Annali in cui sono registrati gli eventi più importanti del Comune. A Oberto (o Uberto) Foglietta (1518 ca.-1581) spetterà il compito di scrivere la storia di Genova secondo il modello di Bruni o di Sabellico. Foglietta è, infatti, il primo storiografo pubblico a Genova dove, in precedenza, la stesura degli Annali della città era compito del cancelliere o del segretario di Stato.
Nato da una famiglia di notai, politicamente schierati con i populares, ancora giovanissimo, nel 1535, Foglietta ottiene l’incarico di trascrivere i Castigatissimi Annali di Genova di Agostino Giustiniani. A causa delle difficoltà economiche della famiglia si trasferisce a Perugia, dove completa la sua formazione giuridica, e a Roma, dove ottiene la protezione di Giulio III e di Paolo IV che lo nomina referendario apostolico. Passa, quindi, al servizio di Emanuele Filiberto di Savoia e, successivamente, a quello dei cardinali Ippolito e Luigi d’Este.
È del 1559 la pubblicazione Delle cose della Repubblica di Genova, probabilmente già completato nel 1554. Trattando della disastrosa guerra di Corsica che aveva portato alla riforma del 1547, in base alla quale la ‘vecchia’ nobiltà aveva acquisito peso maggiore rispetto alla ‘nuova’, Foglietta deplora la debolezza navale della Repubblica dovuta, a suo giudizio, alla scelta di Andrea Doria e degli esponenti della vecchia nobiltà genovese di porre le loro squadre navali private al servizio della Spagna. Occorre, invece, a suo giudizio, costituire una grande flotta pubblica con la quale adeguatamente contrattare l’alleanza con la Spagna. L’opera, per il suo acceso carattere antinobiliare e per l’opposizione all’orientamento filospagnolo del ceto dirigente genovese, provoca la reazione della Repubblica che condanna l’autore al bando.
Nel periodo romano Foglietta compone alcune delle sue opere minori, tra cui il De causis bellorum religionis gratia excitatorum (rimasta inedita fino al 1839), riflessione sulle guerre di religione. Progetta, quindi, una storia contemporanea, ma porta a compimento solo tre frammenti sulla congiura dei Fieschi, sui tumulti a Napoli del 1547 e sull’assassinio di Pier Luigi Farnese, pubblicati a Napoli nel 1571 con il titolo Ex universa historia rerum Europae suorum temporum. I tre frammenti risentono dell’insegnamento di Francesco Guicciardini, a cui Foglietta cerca di rifarsi. Si tratta, tuttavia, di influenze esteriori e formali in quanto l’interesse resta novellistico, con il ricorso all’aneddotica come artificio stilistico per impressionare il lettore. L’opera viene subito criticata dai contemporanei che rimproverano a Foglietta la scarsa considerazione proprio della lezione di Guicciardini, soprattutto nella scelta del latino. Lo stesso Guicciardini esprimerà un parere negativo sull’autore, a suo giudizio intento a scrivere per dilettare, piuttosto che per coltivare gli ideali degli storici umanistici di scuola fiorentina.
Il De ratione scribendae historiae, stampato a Roma nel 1574, è la risposta di Foglietta alle critiche. L’autore enuncia alcune sue teorie storiografiche, tra cui l’indispensabilità dell’interpretazione dei fatti da parte dello storico. Tali dichiarazioni hanno fatto ritenere, con notevole esagerazione, Foglietta un precursore del metodo critico, ma, come è stato da altri evidenziato, la sua pratica storica è convenzionale. L’opuscolo ebbe, tuttavia, ampia fortuna e compare negli scritti sulla storia di Jean Bodin e di Francesco Patrizi, nonché nella silloge di Johannes Wolf.
Foglietta coltiva, inoltre, interessi legati al mondo mediterraneo con particolare attenzione all’espansionismo ottomano. Nel corso degli anni Settanta compone il De causis magnitudinis Turcarum imperii, dedicato a uno dei vincitori di Lepanto, Marcantonio Colonna. Lo storico genovese s’inserisce nel dibattito sulla grandezza dell’impero ottomano, punto di partenza della nascente turcologia. L’opera avrà, però, fortuna postuma e soprattutto nel mondo protestante, con un’edizione pubblicata a Norimberga nel 1592.
Frattanto Foglietta, nel tentativo di ottenere il perdono della Repubblica di Genova, pubblica la raccolta Clarorum ligurum elogia (1572), dedicata al principe di Melfi, della famiglia dei Doria a cui era stato tanto ostile. L’opera delinea i profili di liguri illustri, ma la scrittura è eccessivamente retorica e, soprattutto, risente del conformismo religioso controriformistico. Il centro dell’attenzione dell’autore è focalizzato su una gerarchizzazione che vede santi e papi all’apice, mentre il merito principale di Cristoforo Colombo è quello di aver portato la fede nelle nuove terre.
La presa di potere a Genova da parte dei nobili ‘nuovi’ nel 1575 favorisce la riabilitazione del Foglietta, il quale l’anno successivo è nominato storiografo ufficiale dal nuovo governo. Mentre è intento alla stesura degli Annali, muore a Roma il 5 settembre 1581. L’opera appare nel 1585 in latino e nel 1597 viene tradotta in italiano con dedica al doge e al Senato. È composta da dodici libri e ripercorre la storia di Genova dalle origini romane fino al 1527, data in cui Andrea Doria avvicina la Repubblica alla Spagna. Nonostante l’atteggiamento di sufficienza che Foglietta nutre nei confronti degli annalisti suoi predecessori, egli attinge a piene mani ai loro lavori, integrando lacune e, soprattutto, prestando attenzione alle svolte istituzionali della storia cittadina (introduzione dei podestà, avvento del capitano del Popolo, dogato popolare). Il suo lavoro resta impregnato di spirito antinobiliare, sebbene attenuato rispetto al dialogo del 1559. Le novità formali che si riscontrano nell’opera sono di scarso rilievo e sono soprattutto riassumibili in una riduzione dei virtuosismi stilistici. Se si registra un’influenza di Niccolò Machiavelli nella spiegazione dei mutamenti politici interni con cause naturali, l’ordinamento resta però rigidamente annalistico, con una successione degli avvenimenti priva di un filo conduttore che non sia quello temporale.
Il rilievo di Foglietta risulta significativo solamente rapportato alla mediocrità dei continuatori della tradizione annalistica umanistica. Tuttavia, le sue posizioni antispagnole e antiaristocratiche costituiscono un contributo originale che verrà ripreso a Genova da Bernardo Giustiniani Rebuffo e da Andrea Spinola. Quest’ultimo non critica tanto l’alleanza con la Spagna, ritenuta inevitabile, quanto i comportamenti del patriziato genovese, impegnato nell’inserirsi tra le gerarchie feudali del Regno di Napoli, tradendo lo spirito originario dell’aristocrazia della Repubblica.
L’antispagnolismo continua ad affiorare anche negli storici successivi, come i ricercatori di antiquaria e genealogisti Federico Federici (1570-1647) e Raffaele della Torre (1579-1666), entrambi interessati a delineare la natura del patriziato genovese. È attraverso questa storiografia che prende corpo l’immagine delle «catene d’oro» con le quali la Spagna tiene avvinghiata la Repubblica, causandone la decadenza. Dalla metà del Seicento il tema dell’antispagnolismo degli storici genovesi si accompagna, poi, all’immagine negativa della Francia, attraverso le opere di Gaspare Squarciafico e Cassandro Liberti, fino a giungere all’inizio del 18° sec. con Filippo Casoni (1662-1723).
Particolarmente vivace è la produzione di cronache a Mantova, a partire dal ministro e banchiere dei Gonzaga Bonamente Aliprandi (1350-1417 ca.) con la Cronica de Mantua, più nota come Aliprandina, in cui si racconta in versi dialettali la storia della città dalle origini fino al 1414, mescolando cronaca e mito, secondo parametri molto lontani dalla storiografia umanistica. Simili sono le opere di Antonio Nerli e di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, nonché la Cronaca di Mantova, dal 1445 al 1484, di Andrea Schivenoglia. È con Mario Equicola (1470 ca.-1525) e la sua Dell’istoria di Mantova (1521) che l’Umanesimo si fa presente nella produzione storica locale. Equicola soggiorna a Mantova negli ultimi anni della sua vita come segretario di Federico II Gonzaga. La sua opera, scritta soprattutto a scopo encomiastico, con medaglioni celebrativi di esponenti della famiglia Gonzaga, ha il merito di correggere errori delle precedenti cronache, ricorrendo a dati archivistici. Ampiamente celebrativi della famiglia principesca sono inoltre le opere del Seicento di Antonio Possevino, Ludovico Andreasi e Ippolito Donesmondi.
A Parma, dove esisteva un’antica tradizione cronachistica medievale grazie a Salimbene, nella prima età moderna è praticato soprattutto il genere biografico. Bonaventura Angeli (1525 ca.-dopo il 1576), dopo essere stato al servizio del duca Alfonso II, giunge a Parma come esiliato nel 1576 e lì compone la biografia di 131 personaggi illustri delle famiglie nobili locali. Il tema biografico è ripreso da Ranuccio Pico, che nel 1642 organizza cronologicamente 583 biografie. Il ravennate Vincenzo Carrari scrive l’Istoria de’ Rossi Parmegiani (1583), in cui affronta l’epoca del possesso della città da parte della famiglia.
L’ampia area emiliana occupata dai domini estensi e da altri potentati locali è ricca di cronisti e storici locali. A Ferrara gli Estensi sono, infatti, munifici con gli storici al loro servizio. Tra i primi vi è Pellegrino Prisciani, morto nel 1518, la cui opera in nove volumi è andata perduta. Un altro storico al servizio della corte di Ferrara è Gasparo Sardi (vissuto tra il 15° e il 16° sec.), a cui Paolo Giovio si rivolge per avere notizie sui duchi di Ferrara. Sardi compone dodici volumi, dieci dei quali pubblicati nel 1556, ma si caratterizza per scarsa capacità di scrittura e sovrabbondanza di notizie, spesso favolistiche. Negli stessi anni di Sardi, Cinzio Giovan Battista Giraldi (1504-1573) pubblica una breve storia della città in latino. Dagli Estensi viene, poi, commissionata un’altra storia a Gerolamo Falletti (1518 ca.-1564). A Modena, di rilievo sono le due cronache di Tommasino de’ Bianchi detto de’ Lancellotti (inizio 16° sec.-1554) e di Francesco Panini, quest’ultima scritta nel 1567.
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