Tra Rinascimento e Controriforma: aspetti dell’identità civile e religiosa delle donne in Italia
Sommario: Il Rinascimento: alle radici dell’identità civile e religiosa delle donne ▭ Fare le italiane ▭ Caterina da Siena dottore della Chiesa ▭ Caterina da Siena dall’Europa all’Italia ▭ ‘Clare donne’: donne e religiose nel secolo XV ▭ La clausura: una identità religiosa di ceto ▭ Il ‘terzo stato’: le congregazioni femminili della Controriforma
Se la religione costituisce un luogo topico dell’identità culturale di un popolo e di una nazione, per quanto riguarda le donne c’è un periodo storico che in momenti diversi è stato considerato come luogo fondativo dell’identità femminile: il Rinascimento. Nel secolo XX il fecondo movimento degli women’s studies ha posto come elemento teorico di discussione, nella sua fase iniziale, la domanda se le donne hanno avuto un Rinascimento, mentre un secolo prima, all’indomani dell’Unità d’Italia, gli studi storici sulla donna nel Rinascimento fornirono materiali e modelli per ‘fare le italiane’. Da questa constatazione partiremo per individuare gli aspetti tipologici e istituzionali che caratterizzano la religiosità femminile e il rapporto delle donne con la Chiesa, focalizzando il periodo rinascimentale e della prima età moderna come momento di snodo di una identità religiosa femminile che acquisisce aspetti di lunga durata, capaci di trasmettersi con progressivi adattamenti ma con sostanziale continuità fino all’Ottocento, superando il traumatico sconvolgimento politico dell’età giacobina e napoleonica.
Se in ogni tempo le donne sono state ‘oggetto’ di storia, attraverso la rappresentazione artistico-letteraria o storica proveniente dall’immaginario e dalla scrittura maschile, dalla metà del secolo scorso esse sono divenute ‘soggetto’ di storia in quanto capaci di autorappresentarsi e di produrre pratiche discorsive. Per quanto mediate, circoscritte e disperse, non sono mai mancate fonti documentarie per ricostruire aspetti della vita delle donne nei diversi periodi storici, ma non c’è dubbio che nel secolo XX domande, materiali e metodi d’indagine mutuati dalle discipline psico-socio-antropologiche, in una parola dalle nuove scienze umane, hanno arricchito in modo determinante le ricerche ‘al femminile’1. L’assenza delle donne dalla storia è infatti prima di tutto una questione di statuto disciplinare. Per questo motivo fin dall’inizio il movimento degli women’s studies si è costituito sulla base di una riflessione teorica a forte impronta internazionale. Tra i primi nodi teorici affrontati vi era il problema della periodizzazione della storia delle donne, la cui discussione ha contribuito a focalizzare gli studi su un peculiare momento storico.
Dal momento che, all’atto della costituzione degli women’s studies, la storia occidentale veniva per lo più presentata come l’avvicendarsi di eventi scanditi da movimenti culturali, istituzionali o economici che si presentavano come universali ma che vedevano prevalentemente un coinvolgimento maschile, occorreva chiedersi se la storia delle donne non avesse ritmi e scansioni diversi, se non fosse contrassegnata da una diversa periodizzazione. A questo problema si richiamava esplicitamente Joan Kelly quando nel 1977 poneva il quesito se sia esistito un Rinascimento femminile2.
Con il termine Rinascimento, come è noto, si designava – e si intende ancora pur nel ridimensionamento degli studi su questo soggetto – tanto un arco cronologico quanto la grande renovatio culturale e civile che sembra caratterizzare quel particolare momento storico. Il rifiorire dell’arte e del pensiero, accompagnata da una nuova concezione della vita e della libertà e contrassegnata da un forte impegno civile, hanno fatto sì che il Rinascimento sia stato unanimemente considerato un movimento progressivo. È vero che nel concetto di renovatio vi è una forte mitizzazione, nata tra i contemporanei stessi e confermata dagli storici del secolo XIX, e che nella cultura rinascimentale sono presenti anche aspetti oscuri, ma è indubbio che il movimento si presenta nel suo complesso come positivo, capace di catalizzare energie che si traducono in un ampliamento della riflessione culturale e degli spazi di libertà individuali. Secondo gli storici dell’Ottocento, come Jacob Burckhardt, anche le donne parteciparono di questa congiuntura favorevole, anche a loro si dischiuse l’istruzione: «Finalmente, per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo». E continuava: «Anzitutto l’educazione della donna nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell’uomo». Infatti esse si segnalarono nell’istruzione letteraria e filologica, nella partecipazione attiva alla poesia italiana «onde un numero considerevole di donne acquistarono una grande celebrità»3.
È a partire da queste asserzioni che Joan Kelly riconsiderava il periodo rinascimentale sotto il profilo della storia delle donne e giungeva a considerazioni opposte a quelle di Burckhardt. Non mancarono, è vero, donne erudite come la veronese Isotta Nogarola, ma essa ottenne di essere introdotta nel consorzio degli umanisti solo rinunciando al matrimonio ed esibendo la sua pietà e cultura religiosa. Se dal piano della erudizione si sposta lo sguardo ai più significativi mutamenti culturali del periodo rinascimentale, continua poi la Kelly, si può constatare che una nuova classe emergente crea forme di organizzazione politica e sociale che tendono a ridurre gli spazi di libertà e le opportunità di scelte femminili. Ha insomma inizio quella moderna relazione tra i sessi che vede una maggiore subordinazione della donna all’uomo. Né le cose mutano sostanzialmente se si osservano altri momenti della storia europea e occidentale contrassegnati da decisivi mutamenti, come la rivoluzione francese o la nascita del socialismo. La partecipazione anche femminile al sorgere e al dispiegarsi di questi eventi non comporta, constata ancora la Kelly, un’assunzione delle donne all’interno dei movimenti, se non in funzione subordinata e con esclusione da ruoli direttivi, né produce una evoluzione di rilievo nella condizione della loro vita.
La discussione sul Rinascimento femminile è significativa di uno dei nodi teorici della storia delle donne ancora irrisolto, ed è anche vero che neppure i manuali prodotti sullo scorcio del secolo scorso hanno affrontato il problema di una periodizzazione diversa da quella tradizionale4. Pur rimanendo insoluta sul piano teorico, la discussione aperta da Kelly sul Rinascimento femminile suscitò un vivace dibattito e sollecitò diverse risposte. Molti studiosi si mostrarono disposti a riconoscere un peggioramento delle condizioni di vita delle donne in particolari settori, come quello socio-economico e giuridico, diversi altri condivisero invece l’opinione di David Herlihy che nel vasto campo religioso le donne poterono raggiungere riconoscimento e potere5, acquisendo ruoli pubblici di rilievo come guide ascoltate dai principi o venerate da intere città. Anche in campo culturale le ricerche successive al giudizio liquidatorio della Kelly misero in luce una progressiva acquisizione degli strumenti letterari e retorici da parte delle donne che consentirono loro di accedere alla stampa, non solo attraverso la pubblicazione dei canzonieri petrarcheschi, ma anche attraverso più complesse forme di scrittura, come il romanzo o il trattato6. E neppure si può negare che, nel crogiuolo delle lotte religiose del secolo XVI, il controllo, la censura e la repressione si accompagnarono anche a un processo generalizzato di alfabetizzazione che non lasciò indietro le donne.
Il Rinascimento, rivisitato nel secolo XX dalle donne storiche, si presenta come un buon punto di partenza per indagare le radici culturali dell’identità femminile negli antichi Stati italiani e si presta al tempo stesso ad approfondire i caratteri di una religiosità che vede le donne ai vertici di un protagonismo che si afferma nonostante i meccanismi del controllo e della repressione.
L’assunzione del Rinascimento come luogo topico dell’indagine sulla identità e la cultura femminile è difficilmente disgiungibile dal successo di un libro come quello di Burckhardt, pubblicato in lingua tedesca nel 1860 e tradotto con aggiunte e correzioni nel 1876, che influenzò profondamente la cultura italiana ed europea fin dal suo primo apparire negli anni Sessanta del secolo XIX. La recente conclusione del processo di unificazione italiana, l’instaurazione di una monarchia costituzionale e la formazione di un primo Parlamento governato dalla destra storica furono gli eventi contestuali che concorsero alla positiva accoglienza e al duraturo successo dell’opera dello studioso svizzero. I nuovi governanti d’Italia dovevano inevitabilmente puntare sulla individuazione di azioni incisive per costruire il senso di appartenenza a una nazione, impegnandosi soprattutto sul versante dell’educazione e sulla proposizione di modelli culturali funzionali all’acquisizione di comportamenti comuni e condivisi.
La focalizzazione del Rinascimento come renovatio culturale europea di origine italiana e come affermazione della autonomia e della libertà individuale in opposizione ai poteri universali dell’impero e della Chiesa, ben si adattava al nuovo Stato laico e liberale che intendeva estendere il suo dominio sulla Roma papale. L’esaltazione dei letterati e degli artisti si prestava inoltre alla proposizione di modelli culturali da presentare ai giovani nella scuola e nei testi scolastici. Gli uomini e le donne illustri rimbalzarono così dall’antichità, attraverso l’Umanesimo e il Rinascimento, fino all’Ottocento italiano, subendo una selezione che differenziava nettamente il modello maschile da quello femminile7. Patriottismo ed eroismo contrassegnavano in primo luogo la formazione dei giovani italiani, mentre alle fanciulle i ‘Plutarchi femminili’ assegnavano in primo luogo il ruolo di mogli e madri. Anche l’istruzione femminile doveva essere indirizzata a modestia e sobrietà: «guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse»8.
Eppure il fascino del Rinascimento italiano di Burckhardt, della civiltà raffinata che si esprimeva nella conversazione, della cultura classica che si estendeva anche alle donne, aveva profondamente colpito uomini di cultura che svolsero a più riprese attività politica, come il più volte ministro Marco Minghetti9. Appassionato d’arte, cultore di storia della pittura italiana, il liberale bolognese pubblicò una monografia su Raffaello e scrisse diversi saggi storici, uno dei quali trattava delle donne artiste.
Profondamente convinto che i capolavori pittorici o scultorei fossero rappresentativi di un preciso contesto storico e culturale che contribuiva alla creazione dell’opera d’arte al pari dell’inventio e della abilità tecnica dell’artista10, i dipinti eccellenti del Rinascimento si prestavano efficacemente a trasmettere un messaggio educativo e politico al giovane popolo d’Italia. Sebbene Minghetti si applicasse con convinzione al perfezionamento dei suoi studi sulla pittura, facendosi guidare da eruditi illustri come Giovanni Morelli11, negli scritti sull’arte moderna l’intento pedagogico e la passione politica prendono spesso il sopravvento sul pur attento lavoro filologico e informativo. Ne abbiamo un significativo esempio nel saggio su Le donne italiane nelle belle arti pubblicato nella rivista «Nuova antologia» dell’anno 1877.
Composto sulla scia dell’universale ammirazione suscitata dall’opera dello storico svizzero sulla civiltà del Rinascimento in Italia, il lavoro di Minghetti si propone di mettere in rilievo il ruolo rilevante ricoperto dalle donne nelle arti figurative, settore scarsamente approfondito da Burckhardt. Si tratta dunque di un completamento della ricerca burckhardtiana che parte dalla convinzione di una superiorità culturale della pittura rispetto alla letteratura, ma che non prefigura un dissenso di Minghetti dal maestro, alle cui tesi egli aderisce affermando che «la civiltà moderna di tutta quanta l’Europa è grandemente debitrice alla cultura delle donne italiane»12.
Minghetti aveva aperto il lavoro su Le donne italiane nelle belle arti esponendo chiaramente le sue tesi principali: le donne delle classi superiori erano educate in profondità; vi era la convinzione che le donne potessero raggiungere risultati eccellenti nello studio delle scienze umane e le donne stesse ne erano consapevoli:
«Chiunque prenda a considerare attentamente le istorie d’Italia nel XV e nel XVI secolo, dovrà persuadersi come le donne (specialmente se di case signorili) si educassero con grandissima cura, e come gran profitto della educazione sapessero trarre. A quel tempo le donne furono tenute capaci di venire in eccellenza al pari degli uomini, coi quali gareggiarono soprattutto negli studii che si chiamano umani, e nel fervore per l’antichità classica. E di questa mirabile attitudine, e di ciò che potevano fare, ebbero esse stesse piena conoscenza, senza salirne in orgoglio o in vanagloria. Né stimarono che il governo della famiglia fosse impedimento alle lettere, anzi neppure alla vita pubblica, nella quale talune presero notevol parte»13.
Nell’esprimere con chiarezza il punto di partenza della sua ricerca, che corrisponde alla conoscenza degli studi al suo tempo acquisiti, Minghetti mostra di aver assimilato il modo con cui gli scrittori dell’età rinascimentale usavano lodare la cultura o la virtù di una donna definendola ‘virile’; con l’espressione «le donne furono tenute capaci di venire in eccellenza al pari degli uomini» egli intende infatti esaltare la figura della donna di corte del Rinascimento e tuttavia aggiunge una considerazione che rivela il bagaglio culturale dello scrittore e statista ottocentesco: quelle colte gentildonne non «stimarono che il governo della famiglia» fosse di ostacolo allo studio e all’impegno nella sfera pubblica.
Si tratta di una precisazione che rivela l’intento pedagogico con cui Minghetti studia le donne del Rinascimento, e che tradisce la sostanziale incomprensione dello statista della realtà storica dei secoli XV e XVI. Per le principesse e le dame di corte, la conversazione, la cultura e l’intrattenimento letterario costituivano elemento integrante del ‘governo della famiglia’ e non potevano dunque porsi in antitesi con questo. Minghetti ha invece presente una ben diversa situazione culturale, dove la richiesta d’istruzione viene dal basso, dalle donne della borghesia e del popolo che possono essere indotte, con l’accesso all’istruzione, a richiedere successivamente il diritto al lavoro e dunque a doversi trovare in contrasto con la piena dedizione al governo della famiglia e al lavoro domestico.
La costruzione di un modello ideale di donna colta e totalmente dedita alla famiglia è tipico in quel tempo di altri fecondi cultori di memorie storiche come il pratese Cesare Guasti14 e il fiorentino Isidoro del Lungo15: fatta l’Italia non occorreva soltanto fare gli italiani, ma anche le italiane. Il contributo minghettiano a questo intento è di elevato spessore culturale, prendendo come oggetto non soltanto le donne letterate ma anche le donne artiste e i più alti modelli di virtù femminili: la Madonna e le sante.
Al pari dei più modesti compilatori di libri scolastici e di ‘Plutarchi femminili’, che arricchivano il novero delle donne illustri includendovi le figure di martiri e sante cristiane, anche il politico bolognese intendeva evocare attraverso i suoi studi storico-artistici figure esemplari di riferimento. Secondo la cultura e il pensiero di Minghetti, il modello familiare e materno da offrirsi come esempio alle italiane del secolo XIX poteva essere ricercato nelle potenti rappresentazioni artistiche delle Madonne di Raffaello.
Attratto dal fascino del pittore che giudicava sommo per disegno e moderazione, il politico bolognese si differenziava dalla corrente culturale del preraffaellismo a lui contemporanea che aveva assunto Raffaello come prototipo dell’accademismo, propugnando una pittura più semplice e spontanea come quella dei pittori che l’avevano preceduto. In Raffaello, Minghetti vede il giusto mezzo tra l’intellettualismo di Leonardo e il naturalismo di Michelangelo e loda nel pittore urbinate la potenza del sentimento e degli affetti. Alla sua grandezza e notorietà giova soprattutto l’aver contribuito all’esaltazione della donna e della famiglia che traspare nelle numerosissime rappresentazioni della Vergine con il Bambino e santi. Nella monografia dedicata a Raffaello, Minghetti riserva diverse pagine al censimento e alla descrizione delle Madonne dipinte dal pittore urbinate. Non si fa cenno in queste carte al valore pedagogico delle immagini, ma da una breve annotazione si comprende che il colto statista ha chiaramente avvertito il carattere domestico e borghese di quella particolare pittura, che ha lasciato l’aulicità delle Madonne in maestà dell’epoca precedente ed è divenuta più affettiva e materna16.
Tra le sante cui Minghetti dedica attenzione come studioso e come politico ce n’è una in particolare che merita interesse per il valore emblematico che riveste nell’universo segnico del cristianesimo occidentale: la Maddalena. Non ci attarderemo sulle pur interessanti osservazioni che lo statista dedica all’evoluzione del modello agiografico della santa. Ai fini del nostro discorso il saggio minghettiano appare degno di considerazione perché riconduce al Rinascimento il momento di svolta della rappresentazione letteraria e iconografica della Maddalena, contribuendo a rafforzare l’idea di un periodo storicamente centrale nella costruzione dell’identità civile e religiosa delle donne italiane.
Non compare invece tra gli scritti d’arte di Minghetti la figura di una santa del Rinascimento che aveva rappresentato per secoli un modello di vita per le donne religiose: s. Caterina da Siena. Figura di rilievo europeo al momento della morte, successivamente relegata al ruolo di santa cittadina, a metà del secolo XIX ella ritornava a occupare un posto di eccellenza all’interno del pantheon cristiano. Nel 1859, infatti, Pio IX proclamava compatrona di Roma la santa senese, il cui corpo era conservato nella città dei papi fin dalla morte avvenuta nel 1380. Era un atto altamente significativo, non esente da motivazioni politiche, destinato a riportare in luce un modello militante di santità femminile che si mobilitava per la difesa del papato, pronta a compiere eroiche imprese per l’unità e la pace della Chiesa. Non c’è dubbio che la dignità conferita a Caterina da Siena nel contesto delle guerre per l’unificazione italiana, che avrebbero ben presto condotto alla fine del dominio temporale della Chiesa, doveva anche assumere il significato di riconfermare il papato come istituzione prima di tutto italiana, la cui sede era stata ricondotta a Roma per volontà di Dio e con l’aiuto dei santi.
Caterina da Siena è figura centrale per rappresentare e comprendere la religione femminile del Rinascimento e della prima età moderna. Ella è infatti il modello ideale a cui generazioni di donne vollero conformarsi imitandone il rigido ascetismo, ma al tempo stesso assumendone gli aspetti di impegno nel mondo, esercitato a servizio dei poveri, della città e della Chiesa. Inoltre la sua ricca produzione letteraria, ancorché non scritta ‘di propria mano’, fa di lei il prototipo della donna colta, degna di figurare in quel novero delle donne illustri che concorsero a forgiare l’immagine di un Rinascimento erudito in cui le donne furono considerate ‘pari all’uomo’.
Non a caso tanto gli women’s studies, da cui siamo partiti, quanto la Chiesa dell’Ottocento e del Novecento si avvalgono degli scritti di Caterina da Siena per ricollocare la mantellata senese nel contesto internazionale in cui era vissuta per diversi anni della sua vita, per venire successivamente relegata in un ruolo minore, tutto italiano, in conformità con un processo di decentramento e territorializzazione della religione femminile avvenuto nel corso della prima età moderna.
Considerata da Marina Zancan la prima scrittrice in lingua italiana17, data l’importanza intrinseca del suo epistolario e la lunga fortuna editoriale dello stesso18, Caterina da Siena venne proclamata nel 1970 dottore della Chiesa dal papa Paolo VI in virtù soprattutto del suo Libro della divina dottrina, un trattato teologico che meritava un riconoscimento di magistero analogo a quello conferito la settimana prima dallo stesso Paolo VI alla mistica spagnola Teresa d’Avila19. Il riconoscimento solenne della dignità del magistero a una donna apparve in quegli anni una positiva innovazione, che andava nel senso di quella renovatio e reformatio della Chiesa auspicata dal concilio ecumenico Vaticano II da poco concluso. Pochi ricordavano allora che fin dalla sua morte Caterina da Siena era stata considerata maestra della fede e rappresentata nell’iconografia ufficiale con la triplice aureola della verginità, del martirio e del dottorato20. Certo l’atto di Paolo VI non aveva motivazioni politiche. La santa italiana per eccellenza non veniva messa in campo per proteggere uno Stato. Non c’è dubbio tuttavia che anche quel riconoscimento tardivamente assegnato alla mantellata senese non era esente da ragioni strumentali.
Tra le motivazioni del conferimento del titolo a Caterina da Siena, espresse da Paolo VI nell’omelia della domenica 3 ottobre 1970, si leggono queste parole:
«Che diremo dunque dell’eminenza della dottrina cateriniana? Noi certamente non troveremo negli scritti della Santa, cioè nelle sue Lettere, conservate in numero assai cospicuo, nel Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina e nelle “orationes”, il vigore apologetico e gli ardimenti teologici che distinguono le opere dei grandi luminari della Chiesa antica, sia in Oriente che in Occidente; né possiamo pretendere dalla non colta vergine di Fontebranda le alte speculazioni, proprie della teologia sistematica, che hanno reso immortali i Dottori del medioevo scolastico. E se è vero che nei suoi scritti si riflette, e in misura sorprendente, la teologia dell’Angelico dottore, essa vi compare però spoglia di ogni rivestimento scientifico. Ciò invece che più colpisce nella Santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della fede, contenuti nei Libri Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento: una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello Spirito Santo, un carisma mistico»21.
Le parole qui riportate non esauriscono il lungo elenco di motivazioni che avevano indotto il pontefice a conferire un riconoscimento a quel tempo assolutamente fuori della norma: di Caterina da Siena Paolo VI ricordava in primo luogo «l’ossequio e l’amore appassionato che la Santa nutrì per il Romano Pontefice», la «stima singolare per quelle che chiama le “sante religioni”», «l’opera intensa, svolta dalla Santa per la riforma della Chiesa». Nessuna di queste motivazioni richiama, come si è detto, un presupposto politico che possa essere considerato come ragione tacita del conferimento del titolo dottorale. Il contesto è piuttosto quello del post-concilio e della riforma della Chiesa e l’insegnamento di Caterina viene additato come esempio di fedeltà al papato. Ai vescovi, sacerdoti e laici che alla chiusura dell’assise conciliare avrebbero voluto un più incisivo cammino verso la riforma della Chiesa, Paolo VI mostrava l’esempio di Caterina da Siena, che propugnava una riforma interiore, e successivamente esterna, ma sempre in comunione e in ubbidienza ai legittimi rappresentanti di Cristo:
«E che cosa intendeva essa per rinnovamento e riforma della Chiesa? Non certamente il sovvertimento delle sue strutture essenziali, la ribellione ai Pastori, la via libera ai carismi personali, le arbitrarie innovazioni nel culto e nella disciplina, come alcuni vorrebbero ai nostri giorni. Al contrario, essa afferma ripetutamente che sarà resa la bellezza alla Sposa di Cristo e si dovrà fare la riforma “non con guerra, ma con pace e quiete, con umili e continue orazioni, sudori e lagrime dei servi di Dio”»22.
In ultima analisi, se il dottorato conferito a due sante dal pontefice Paolo VI nel 1970 è esente dai motivi politici che avevano favorito la proclamazione di Caterina da Siena a compatrona di Roma prima e a Patrona d’Italia poi, nel 1939, per giungere più tardi ancora al compatronato d’Europa del 1999, è tuttavia finalizzato a indicare la via di un rinnovamento della Chiesa nella tradizione e nell’obbedienza al pontefice. Alle donne che avanzavano nella via della modernizzazione, del femminismo, della rivendicazione dei diritti Paolo VI concedeva il riconoscimento di una dignità magisteriale opponendo tuttavia, come si esprime nell’omelia per la proclamazione di Teresa d’Avila dottore della Chiesa, un netto rifiuto alle eventuali richieste di sacerdozio:
«Dobbiamo aggiungere due rilievi che ci sembrano importanti. Il primo è quello che osserva come Santa Teresa d’Avila sia la prima donna a cui la Chiesa conferisce questo titolo di Dottore; e questo fatto non è senza il ricordo della severa parola di San Paolo: Mulieres in Ecclesiis taceant (1 Cor. 14, 34): il che vuol dire, ancora oggi, come la donna non sia destinata ad avere nella Chiesa funzioni gerarchiche di magistero e di ministero. Sarebbe ora violato il precetto apostolico? Possiamo rispondere con chiarezza: no. In realtà, non si tratta di un titolo che comporti funzioni gerarchiche di magistero, ma in pari tempo dobbiamo rilevare che ciò non significa in nessun modo una minore stima della sublime missione che la donna ha in mezzo al Popolo di Dio. Al contrario, la donna, entrando a far parte della Chiesa con il Battesimo, partecipa del sacerdozio comune dei fedeli, che la abilita e le fa obbligo di “professare dinanzi agli uomini la fede ricevuta da Dio per mezzo della Chiesa” (Lumen gentium, II, 11). E in tale professione di fede tante donne sono arrivate alle cime più elevate, fino al punto che la loro parola e i loro scritti sono stati luce e guida dei loro fratelli. Luce alimentata ogni giorno nel contatto intimo con Dio, anche nelle forme più nobili dell’orazione mistica, per la quale San Francesco di Sales non esita a dire che posseggono una speciale capacità. Luce fatta vita in maniera sublime per il bene e il servizio degli uomini»23.
A fronte dell’assenza pressoché totale delle donne nei documenti dell’assise conciliare, il conferimento del dottorato assegnato nel 1970 a due sante della prima età moderna indica l’iniziale presa di coscienza del pontefice di un problema, quello del femminismo cristiano, che stava emergendo lentamente nella Chiesa insieme al più generale fermento culturale della società occidentale. Ne avrebbe assunto piena consapevolezza Giovanni Paolo II che dedicò alle donne discorsi e documenti di stima e comprensione, che non scalfivano tuttavia le ferme prese di posizione del predecessore. Continuando nella via intrapresa dai pontefici del secolo XIX e XX, il papa polacco si mostrò sensibile alle ‘pari opportunità’ delle sante, elevando Brigida di Svezia, Caterina da Siena e Teresa Benedetta della Croce a compatrone d’Europa24.
Si concludeva così una secolare parabola che riconduceva la mantellata senese a quel ruolo europeo che ella aveva avuto in vita e per alcuni decenni dopo la morte, per divenire, dopo la canonizzazione, una santa eminentemente cittadina.
Il culto di Caterina da Siena, da cui partiremo per un rapido sguardo sulla evoluzione della religiosità femminile tra Rinascimento e Controriforma, è emblematico di un percorso che segue inesorabilmente il cammino della cristianità e della società nei secoli XV-XVII: il crollo delle due autorità sovranazionali della Chiesa e dell’impero, la rottura dell’unità religiosa e politica, la territorializzazione delle chiese e la formazione dei particolarismi statali avranno una rapida ripercussione sulle istituzioni ecclesiastiche, condizionando pesantemente la vita religiosa, soprattutto femminile. Il fenomeno più vistoso sarà il progressivo distacco della cultura dal contesto europeo causato dall’indebolimento del ruolo degli ordini religiosi nella formazione delle donne. Qui si indicheranno sinteticamente alcune tappe di questo cammino.
Le ricerche storiche più recenti concernenti Caterina da Siena hanno proposto una lettura innovativa della figura della santa analizzandone in primo luogo il ruolo politico, precedentemente trascurato in favore dell’aspetto mistico e del modello agiografico25. Lo storico statunitense Thomas Luongo26 approfondisce dal punto di vista documentario la conoscenza dell’ambiente di formazione della santa ed esplora le condizioni politiche, oltre che religiose ed ecclesiastiche, del periodo specifico in cui Caterina si afferma come figura pubblica, imponendosi come santa. Senza la guerra degli Otto santi fra Firenze e il papato, originata a seguito dell’interdetto comminato contro Firenze per motivi fiscali, e l’ingresso di Siena e altre città toscane nella lega della città del Giglio, afferma Luongo, la ‘carriera’ di Caterina come santa non avrebbe raggiunto né la notorietà, né l’ampiezza di orizzonti che le è propria. Quell’evento specifico, infatti, diede occasione alla santa senese e al gruppo dei suoi seguaci di presentarsi come fautori politici del papato e della parte guelfa e come mediatori e operatori di pace. I più conosciuti campi di intervento di natura ecclesiastica di Caterina, l’invito a riprendere la crociata contro il turco e il ritorno del papato a Roma, si rafforzano e in parte si realizzano per la discesa in campo della mantellata e della sua familia in occasione del conflitto politico.
Quando a Caterina fu richiesto dalla signoria di Firenze di compiere un’ambasceria ad Avignone, la mantellata era già nota nella sua città come mediatrice di pace. Nel 1376 un nobile senese in lite con una famiglia nemica era ricorso al suo aiuto. L’incontro con la donna fu per lui determinante: non solo risolse i problemi familiari, ma si convertì e divenne uno dei più fedeli seguaci di Caterina, fungendo da segretario della mantellata per molti anni. Era Stefano Maconi, il redattore delle lettere e del Libro della divina dottrina della santa, che, come egli stesso racconta27, dopo la sua morte si fece religioso, entrando nel rigido Ordine dei Certosini.
L’ambasceria di Caterina al papa Gregorio XI fu certamente il momento culminante della sua fama di santità. Quando intraprese quel viaggio aveva già preso coscienza della sua missione. Infatti nella città natale era divenuta punto di riferimento di religiosi di ordini diversi, dagli Agostiniani, ai Domenicani, ai Canonici lateranensi, che avevano cominciato a introdurre nei loro conventi una più stretta osservanza28 e che dal 1373, anno della morte di Brigida di Svezia, avevano fatto il loro ingresso nella vita politica ed ecclesiastica, spingendo Caterina a ripercorre le orme della profetessa e ad assumerne il ruolo.
La missione di pace di Caterina non ebbe momentaneamente successo, ma papa Gregorio XI stabilì di ritornare a Roma nel 1377. Questo auspicato evento rafforzò la fama di santità della mantellata senese che fu chiamata a Roma, dove dimorò fino alla morte. Dopo la dolorosa circostanza, i discepoli non tardarono a raccogliere notizie sulle sue gesta e miracoli ai fini della canonizzazione. Raimondo delle Vigne da Capua, poi generale dell’Ordine dei Predicatori, compose la prima leggenda agiografica della mantellata senese, la Legenda maior, che divenne il prototipo delle agiografie successive. Il principale divulgatore delle gesta di Caterina fu un altro discepolo della santa, il domenicano Tommaso d’Antonio da Siena detto Caffarini, che nel convento dei Ss.Giovanni e Paolo di Venezia, dove risiedeva, organizzò un attivo scriptorium ove trascrisse e rielaborò la leggenda agiografica del confratello Raimondo e compose altri testi di grande importanza per l’Ordine29. Nel 1411 egli promosse in Venezia, nella diocesi di Castello, il primo processo informativo per la raccolta di testimonianze sulla santità di Caterina. Con parallela tenacia ed energia il Caffarini operò per ottenere l’approvazione del Terzo ordine domenicano. A tal fine compose un Tractatus de Ordine Fratrum de Poenitentia S. Dominici, e volle provare l’utilità di questa branca dell’Ordine raccogliendo le testimonianze sulla virtù di molte donne che erano vissute alla sequela dei Domenicani. Raccolse così le vite di Vanna da Orvieto, Margherita di Città di Castello, Agnese da Montepulciano, Margherita d’Ungheria, le compendiò e le trascrisse in forma predicabile, predisponendone poi diversi manoscritti30. La divulgazione delle virtù e dei miracoli delle terziarie vissute prima di Caterina da Siena non doveva servire soltanto alla approvazione dell’Ordine della Penitenza, ma doveva anche costituire un elemento di forza per la promozione della canonizzazione della santa senese.
Il riconoscimento della santità di Brigida di Svezia, cui Caterina si era ispirata, era avvenuto pochissimi anni dopo la sua morte. Nel 1391, infatti, il papa Bonifacio IX aveva proclamato santa la mistica svedese, fautrice del ritorno della Sede apostolica a Roma e fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore. Il processo informativo per la canonizzazione di Caterina da Siena, detto processo Castellano, era stato certamente indetto nella speranza di ripetere senza ostacoli il successo di Brigida. Il ritratto della santità della mantellata senese che emergeva dal processo veneziano era sicuramente ispirato alla Legenda Maior di Raimondo da Capua, ma doveva anche molto alla tipologia profetica e militante della nobildonna svedese. È proprio Antonio Caffarini che nella sua testimonianza al processo Castellano nomina più volte Brigida di Svezia, istituendo un parallelo con la mistica senese:
«Con tutto il rispetto verso il Signore e verso la sua Chiesa, la stessa cosa oso ripetere riguardo a questa vergine. In quanto essa per imitazione perfetta di lui ben può dirsi figlia legittima nel Signore del Padre san Domenico: e di lei ripeto anche. Come già è stato detto sopra riguardo a santa Brigida, che lasciò tanti mirabili esempi di virtù e tanti scritti alla Chiesa di Dio, che io mai ho trovato né trovo che nessun’altra vergine la quale abbia lasciato a edificazione della Chiesa tante testimonianze di mirabile dottrina e tanti bellissimi scritti come costei»31.
Ed è lo stesso Caffarini che in una lettera del 1415, volta a confutare le obiezioni di coloro che affermavano che dal ritorno dei papi a Roma vennero più mali che beni, introduce ancora un paragone tra la santità di Brigida e quella di Caterina:
«Così io dico al riguardo: infatti, benché dal ritorno di Gregorio XI all’Urbe Dio abbia permesso che seguissero molti mali, scandali e scismi che continuano tuttora – nonostante che quel ritorno e l’opera di persuasione di questa vergine per tale ritorno siano stati fatti in buona fede – pur tuttavia da qualcuno di questi mali è già venuto qualche bene, con il fatto che il papa Giovanni XXIII, che fu di così grande malizia nell’opera e nella fama, fu alfine deposto e confuso… Ed è lecito sperare attraverso la parola dei servi di Dio, segnatamente della beata Brigida e della nostra beata vergine che, attraverso tanti mali, la Chiesa debba finalmente riportare non soltanto la totale unità ma anche una speciale riforma come appare dalle rivelazioni fatte dalla beata Brigida e nella Legenda della beata vergine Caterina»32.
La vita di Caterina da Siena composta da Raimondo da Capua, aveva presente il modello di Brigida, ma ne accentuava i fenomeni mistici che comprendevano anche una forma di stigmatizzazione invisibile. Tale leggenda agiografica venne divulgata in tutta Europa e specialmente nei territori dell’impero attraverso gli attivi scriptoria di due discepoli: quello veneziano del Caffarini e quello indipendente del certosino Stefano Maconi, che dimorò alternativamente in importanti certose italiane e tedesche33. Il modello di santità mistico di Caterina venne imitato non soltanto dalle sorelle della penitenza, ma divenne fonte di ispirazione per le contemplative di tutti gli ordini religiosi nella prima età moderna34.
Contrariamente a quanto speravano i Domenicani, tuttavia, il richiamo alla santità di Brigida di Svezia non giovò al riconoscimento pubblico della vita virtuosa e dei miracoli della vergine senese. Al concilio di Costanza, apertosi nel 1414, avvenne anzi un fatto inusitato: la stessa canonizzazione di Brigida di Svezia venne contestata e il cancelliere dell’Università di Parigi Jean Gerson, il più autorevole teologo del tempo, venne incaricato di dare un parere sulla legittimità di quell’atto35. Egli non approvava la canonizzazione, ma non volle sconfessare l’operato di un pontefice. Prese tuttavia l’occasione da quel fatto per comporre alcuni importanti e influenti trattati sulla distinzione tra vere e false visioni e sul discernimento degli spiriti. Egli comprese che il misticismo, alla maniera dotta della scuola dei domenicani tedeschi come Eckhart, Tauler e Seuse, o a quella esperienziale delle donne illetterate ispirate da Dio, rappresentava una potente espressione dello spirito e un modo divino di manifestarsi, ma ne temeva il sottile confine con l’eresia e con la dottrina da poco condannata del «libero Spirito»36. Egli fissava quindi i criteri de probatione spirituum individuando tre elementi essenziali per testare la veridicità dei doni carismatici: la Scrittura e la dottrina, la gerarchia della Chiesa e la percezione interiore di dolcezza e di certezza del dono di Dio37. La puntualizzazione dottrinale di Gerson non venne applicata a Brigida di Svezia, la cui canonizzazione fu riconfermata nel 1419, ma ebbe un peso rilevante nei secoli successivi e certo influì nell’immediato a ostacolare il riconoscimento della santità di Caterina da Siena.
Già celebrata nella città natale con cerimonie pubbliche fin dagli anni immediatamente successivi alla sua morte, omaggiata dal Consiglio cittadino con un contributo annuale per le spese delle feste in suo onore38, la canonizzazione della mantellata senese tardava a venire, nonostante la presenza di un formale processo informativo. La sorpassò nella corsa al riconoscimento ufficiale di santità perfino il compatriota Bernardino, predicatore francescano famoso e focoso, nato l’anno di morte di Caterina e deceduto soltanto sei anni prima della canonizzazione, avvenuta nel 1450. Quali motivazioni si possono addurre per il ritardo dell’approvazione pontificia del culto di Caterina? Oltre all’incipiente sospetto verso la mistica, allora al culmine della religiosità femminile laicale, occorre forse ipotizzare che nel periodo del concilio di Costanza e negli anni immediatamente successivi i maggiori rappresentanti dell’Ordine domenicano avessero minor interesse per la vita religiosa delle donne e per la cura animarum, impegnati piuttosto sul piano della riorganizzazione dell’Ordine e della Chiesa e su quello altrettanto cogente della riflessione teologica. Saranno dunque i concittadini di Caterina a mantenere le relazioni con la Curia romana e sostenere con continuità e impegno gli oneri finanziari per ottenerne la canonizzazione. L’evento auspicato si realizzarà infine nel 1461, per deliberazione del papa Pio II, della famiglia senese dei Piccolomini.
Forzatamente ridotta a culto cittadino, le gesta di Caterina, conosciute in Europa fin dalla fine del Trecento per l’efficace azione degli scriptoria domenicani e certosini, circoleranno più tardi attraverso le stampe, costituendo il modello a cui moltissime donne vollero conformarsi.
L’organizzata macchina messa insieme dai Domenicani alla fine del secolo XIV per promuovere il culto di Caterina da Siena non ottenne momentaneamente l’esito sperato, ma servì a costruire modelli di santità per le donne di ogni ordine e condizione di vita. Nel convento veneziano dei Ss. Giovanni e Paolo, Tommaso Caffarini non si limitò a raccogliere le gesta delle mantellate vissute nei secoli precedenti, ma compose anche la vita di una sconosciuta terziaria di nome Maria, priva dei doni carismatici della consorella Caterina, con l’intento di fornire alle donne penitenti un modello di santità di facile imitazione39. Nella stessa città, nel monastero femminile del Corpus Domini, il domenicano fiorentino Giovanni Dominici introduceva invece la riforma osservante tra le monache del Secondo ordine avvalendosi di un intenso rapporto di direzione spirituale40 e ispirandosi al modello pisano di disciplina introdotto da Chiara Gambacorta, una discepola di Caterina da Siena, nel monastero da lei fondato. La disciplina più rigorosa del monastero di S. Domenico di Pisa, a cui si uniformarono i primi istituti femminili domenicani dell’Osservanza, era basata sul ripristino della stretta clausura, una misura voluta dalla Gambacorta, che piaceva anche all’aristocrazia cittadina41.
Attraverso lo scriptorium del Caffarini e la direzione spirituale di Dominici, Venezia si presentava dunque ai primi del Quattrocento come il luogo di elaborazione della nuova identità domenicana al femminile. A Firenze l’azione dello stesso Dominici doveva completare il quadro qui delineato. Il colto domenicano, fiorentino d’origine, era tornato a Firenze nel 1401, dopo essere stato bandito da Venezia. Aveva quindi lasciato l’officina veneziana del Caffarini e ora a Firenze, dal monastero brigidino del Paradiso da poco fondato per iniziativa del mercante umanista Antonio degli Alberti42, rivolgeva la propria attenzione alle madri di famiglia. Nello scriptorium del monastero del Paradiso era presente infatti una significativa opera di Dominici, La Regola del governo di cura familiare, che costituisce il primo esempio di letteratura ad status, una tipologia di scrittura rivolta per lo più alle donne, che ebbe grande successo nei secoli XV e XVI, consistente in una sorta di guida religiosa e morale per i diversi stati di vita. La Regola composta da Dominici era indirizzata a Bartolomea degli Alberti, moglie dell’esiliato Antonio, benefattore dell’Ordine di s. Brigida43.
All’inizio del secolo XV l’Ordine domenicano, pur non trascurando la spiritualità del Secondo ordine, era principalmente impegnato nella costruzione di un modello di santità femminile ispirato alla vita attiva44. Non molto diverso era l’orientamento dell’Ordine francescano, che riconosceva nel folignate Paoluccio Trinci l’iniziatore del rigoroso modus vivendi da cui ebbe origine l’osservanza dell’ordine minorita45. Sviluppatosi in una regione assai distante dalla città di Siena, dove nell’ultimo quarto del Trecento si erano concentrate le prime iniziative osservanti i due movimenti di osservanza francescano e domenicano trovavano tuttavia un elemento comune nel legame di Trinci con il vescovo-eremita Alfonso Pecha, confessore di Brigida di Svezia e protettore degli spirituali dell’Italia centrale46. La spiritualità brigidina, connessa anche con il movimento di riforma cateriniano e domenicano, potrebbe dunque essere considerata un elemento unificante le diverse iniziative di rinnovamento della vita religiosa maschile e femminile che si svilupparono nel secolo XV strutturandosi poi nei rami dell’osservanza.
Per quanto riguarda le donne religiose, anche nell’Ordine francescano si manifestò dapprima un interesse prevalente verso la vita devota laicale, che a Foligno iniziò intorno alla comunità di bizzocche di S. Anna fondata nel 1388 da Trinci e destinata a evolversi in una forma del tutto originale47. Qui le penitenti, che non erano tenute alla clausura, conducevano vita attiva e contemplativa. Dal 1395 al 1435 furono guidate da Angelina da Montegiove e dalla cugina Cecca di Burgaro, entrambe di stirpe comitale. Il modus vivendi di queste bizzocche era molto apprezzato dalle donne del luogo, ma era fuori della norma, perché non era prevista una forma di vita comunitaria delle penitenti francescane. Angelina ottenne così dapprima l’approvazione papale per il monastero di S. Anna e successivamente aggregò al monastero le altre comunità di terziarie che si erano sviluppate nei borghi vicini, dando vita a una congregazione autonoma di terziarie regolari, con governo centralizzato e pratica del capitolo generale. Si trattava di una vera e propria federazione di monasteri aperti, formati da bizzocche che intendevano consacrarsi a Dio senza sottoporsi alla clausura48. Questa forma innovativa di vita religiosa, che rispondeva a una ispirazione profonda e costante delle donne, tanto da presentarsi in forma analoga nel Seicento con l’Ordine delle Dame inglesi, o gesuitesse, istituito da Mary Ward, e nell’Ottocento con le congregazioni regolari a voti semplici, non poté avere lunga vita. Dapprima sorsero discussioni e inconvenienti con i Francescani circa la guida spirituale delle donne, successivamente venne contrastata l’assenza di clausura. Le disposizioni tridentine, infine, che destinavano all’estinzione tutte le comunità di terziarie che non osservavano la clausura, fecero sì che l’istituto folignate di S. Anna si trasformasse in monastero del Secondo ordine e che la congregazione della beata Angelina cessasse di esistere.
A parte l’innovativa esperienza di Angelina da Montegiove, i fermenti più vivaci della riforma francescana si indirizzavano verso gli istituti monastici. Mentre l’osservanza domenicana riconosceva in una donna laica, Caterina da Siena, la propria iniziatrice e madre, l’osservanza francescana si sviluppava a seguito della predicazione di Bernardino da Siena e delle ‘Quattro colonne’ dell’Ordine, interessando principalmente le donne aristocratiche che volevano vivere in povertà secondo la prima regola di s. Chiara49. Riscoperta e applicata inizialmente in Francia da Colette de Corbie50, la regola clariana – la prima forma di vita scritta da una donna per le donne – fu più volte tradotta in volgare nel secolo XV e anche commentata da Giovanni da Capistrano e Nicolò da Osimo. Monasteri di Clarisse osservanti furono fondati in diverse parti d’Italia da aristocratiche principesse o da dame di corte, divenendo ben presto centri religiosi e di cultura patrocinati dai principi e frequentati da nobildonne. Dapprima Paola Malatesta Gonzaga, promosse il monastero del Corpus Christi di Mantova (1416-1420), da cui scaturirono quelli della stessa denominazione di Ferrara e Bologna; successivamente venne fondato il monastero di Clarisse di S. Lucia di Foligno da cui si generarono quelli di Perugia, Sulmona, Urbino, Camerino e di tante altre città dell’Italia centrale. In Sicilia il monastero messinese di Montevergine divenne illustre per la fama di santità e gli scritti di suor Eustochia Calafato.
Nel secolo XV la vita religiosa femminile si caratterizzò per una grande vivacità tanto sul piano istituzionale quanto su quello della cultura. Le donne seppero indirizzare il loro desiderio di servire Dio e gli uomini occupando spazi tradizionalmente riservati alle donne, come quelli della carità e dell’assistenza ai poveri, ai pellegrini e ai malati, o approfondendo in modo innovativo le loro propensioni alla vita spirituale e contemplativa. Sul versante della vita attiva, non si debbono annoverare soltanto i ricordati istituti delle terziarie domenicane, francescane e degli altri ordini mendicanti, ma anche l’originale istituto delle Oblate olivetane di Francesca Bussi de’ Ponziani, vedova romana che inventò un ordine religioso femminile caratterizzato dalla territorialità, ossia dalla volontà di prestare un servizio al quartiere di residenza e alla città di Roma51. Sul piano della vita contemplativa si deve invece sottolineare il diffondersi di un cristianesimo devoto di forte impronta biblico-liturgica, ma anche caratterizzato dalla proposizione di modelli di vita eroici, mutuati dalle ‘clare donne’ dell’antichità classica e dalle sante e martiri cristiane.
La cultura delle donne del Rinascimento è senza dubbio un luogo topico, la cui veridicità va sempre storicamente riscontrata. E tuttavia è novità tutta umanistico-rinascimentale la celebrazione delle donne fatta da Vespasiano da Bisticci e con lui da Giovanni Sabadino degli Arienti e da Iacobus Philippus Bergomensis che, sulla scia di Boccaccio, riprendono l’elogio delle donne illustri dell’antichità classica arricchendola dei profili delle donne italiane viventi nel loro tempo. Celebrate innanzitutto come mogli fedeli, le principesse ricordate da Sabadino degli Arienti52, colto segretario dei Bentivoglio e più tardi di Isabella d’Este, erano anche capaci donne di governo. Molte di loro erano infatti in grado di reggere lo Stato durante l’assenza dei mariti, impegnati nell’esercizio delle armi53. Per questo motivo le figlie dei principi ricevevano una educazione «pari all’uomo», come si esprimeva Burckhard, e anche le donne erano destinatarie di trattati sull’arte del governo, come quello scritto dal piacentino Antonio Cornazzano per Eleonora d’Aragona, moglie del duca Ercole I d’Este54. Nel periodo rinascimentale la cultura delle nobildonne di ogni Stato e città italiana prevedeva anche la possibilità di dover esercitare il governo, arte per cui occorrevano doti morali e capacità di reggere la casa, come insegnava l’Oeconomicus di Senofonte da poco riscoperto e pubblicato. Al di sopra di ogni insegnamento letterario o artistico la cultura del tempo richiedeva tuttavia la fede e la devozione, che non costituivano un fatto privato, ma dovevano manifestarsi in forma pubblica. Alcuni brani dell’elogio fatto da Sabadino degli Arienti a Battista Sforza, moglie di Federico da Montefeltro, signore di Urbino, saranno sufficienti a disegnare il profilo di una ‘clara donna’ celebrata non tanto per la sua erudizione quanto piuttosto per le sue virtù morali e religiose:
«E poi si trasferitte ad Roma dove fece reverentia a Pio Secundo, pontefice maximo, orando cum tanta flagrantia et eloquentia, che la sua sanctità ne ebbe singular dilecto, et admiratione de la facundia de tanta donna; et in sua comendatione celebrò lei de molta laude, verso quilli che gli erano intorno, dicendo che credea de tale aetate Italia non havesse simile donna de costei. Visitava spesso li sancti templi et luochi devoti de essa cità, et specialmente le vergine vestale; dimorava cum loro, dicea l’officio a le hore come esse, el giorno et la nocte; deiunava li giorni de la septimana, come faceano loro, in pane et in aqua. Visitava in Urbino cum frequentia li lochi pii et devoti. Havea familiarità grande a li religiosi de sancta vita; et specialmente le monache de sancta Chiara eran spesso da lei visitate. Dicea ogni giorno l’officio, che diceano le prefate monache, amate da lei teneramente. Fu elemosinatrice oculta. Fu liberale in tutto, overo in parte, in maritare povere donzelle»55.
Univa alle doti morali anche l’erudizione la giovane Ippolita Sforza, figlia di Francesco, istruita nel greco da un precettore come Costantino Lascaris, data in moglie ad Alfonso I d’Aragona e vissuta a Napoli, a castel Capuano:
«Fu in eloquio facunda et eloquente. Legea egregiamente cum suavi acenti et resonantia, et intendea, assai mediocremente, latino. Dicea che legere spesso li morali libri, la persona vile se faceva egregia; perché era necessario che quella se acendesse a le virtù per gloria… Fu donna devota; deiunava spesso in pane et in aqua, orava, contemplava, dicea cum frequentia suoi officii et orationi. In la chiesia del castello Capoano, dove habitava, ogni giorno volea tre messe audire, et il vespro da sacerdoti, quando ad altri templi non andava. Vivea santamente, come religiosa. Visitava cum fuochi et oblatione li templi et lochi devoti et pii, et precipuamente la chiesia de la Nuntiata, loco de grande devotione»56.
Nei profili delle ‘clare donne’ tracciate da Sabadino degli Arienti l’intento encomiastico si coniuga anche con quello pedagogico, dovendo quei ritratti servire da esempio alle principesse e alle dame di corte per la loro educazione. Si può riscontrare infatti una notevole continuità nella formazione delle donne di corte, sia sotto il profilo educativo sia sotto il profilo religioso, fino alla metà del secolo XVI, quando eventi di grande portata ridurranno di molto il ruolo politico e culturale delle corti rinascimentali italiane. Dal punto di vista della devozione e della pratica religiosa, le testimonianze qui riportate mettono in evidenza alcuni tratti della religiosità femminile aristocratica che, pur in contesti e modi diversi, si prolungherà anche nei secoli successivi. Vorremmo innanzitutto notare il carattere della religiosità, che potremmo definire liturgico-sacramentale, legato come è alla recita delle ore canoniche e alla partecipazione alla messa. Non si fa cenno a devozioni, feste popolari o credenze superstiziose. Si insiste inoltre sul digiuno e quindi su una pratica penitenziale che è indice di fede vissuta e di volontà di ascesi personale. La preghiera è sempre accompagnata dalla elemosina verso istituti o persone tradizionalmente bisognose di aiuto, come i fanciulli abbandonati, gli orfani, le zitelle povere. I monasteri femminili, specialmente francescani, emergono come luoghi privilegiati di ritiro e di preghiera per le principesse di diverse città, che ne sono varie volte le fondatrici.
Mentre a Napoli Ippolita Sforza «vivea santamente, come religiosa»57 dedicandosi alle pratiche di pietà nella chiesa del proprio castello ed elargendo le elemosine all’istituto della SS. Annunziata, di fondazione regia, Battista Sforza a Urbino visitava «cum frequentia li lochi pii et devoti […] et specialmente le monache de sancta Chiara eran spesso da lei visitate»58. Si istituisce a partire dal primo Quattrocento, a seguito delle riforme osservanti, un vero e proprio legame privilegiato tra corti e monasteri di Clarisse. Principesse e dame di corte trascorrono periodi di preghiera in convento vivendo come religiose e molte di loro fanno professione nell’Ordine di s. Chiara. Non a caso fra Mariano da Firenze, che all’inizio del secolo XVI dà testimonianza dell’origine e dell’espansione del Secondo ordine francescano, intitola la sua cronaca Libro delle degnità et excellentie del Ordine della seraphica Madre delle povere donne Santa Chiara da Asisi59, richiamando la letteratura degli uomini e delle donne illustri, ma avendo anche presente la realtà aristocratica dei monasteri di Clarisse. Figlie o sorelle delle ‘clare donne’ educate a corte, anche le ‘povere donne’ di santa Chiara sono donne istruite e fini scrittrici60.
Il legame or ora richiamato tra corti e ‘clare donne’ francescane fa sì che i monasteri di Clarisse si qualifichino nel Quattrocento per la loro osservanza e cultura. Nell’Italia settentrionale il monastero del Corpus Domini di Bologna fondato da Caterina de’ Vigri, educata alla corte estense, e illustrato da Illuminata Bembo, donna colta e fine scrittrice, si distingue per osservanza e cultura61; nell’Italia centrale il monastero di S. Lucia di Foligno si rivela come foyer intellettuale del movimento osservante. L’istituto possiede una biblioteca62 e tra le professe si distinguono monache letterate come Battista Malatesta e Caterina Guarnieri63. Lo scriptorium di S. Lucia riveste poi un ruolo fondamentale nel trasmettere ai monasteri osservanti dell’Italia centrale e meridionale gli scritti spirituali e agiografici che gli giungevano dai monasteri di tutta la penisola. Da questo centro culturale parte una tradizione umbra dell’opera di Caterina de’ Vigri designata con il titolo di Le sette armi spirituali ed anche il libro della Vita della clarissa messinese Eustochia Calafato scritto dalla consorella Iacopa Pollicino.
Nel secolo XV le monache italiane non erano soltanto colte, ma anche attente ai progressi tecnologici e ai nuovi processi culturali: le domenicane fiorentine di San Iacopo a Ripoli gestirono per alcuni anni una delle prime tipografie della città64, mentre gli scritti spirituali delle religiose, da quelli di Caterina da Siena alle opere di Caterina de’ Vigri e Camilla Battista da Varano, verranno prontamente dati alle stampe65. Nel Cinquecento le ‘clare donne’ religiose e laiche prolungheranno il loro sodalizio ancora per alcuni decenni, realizzando circoli spirituali e culturali intorno a principesse di condizione vedovile, allevate secondo il modello tradizionale del vivere civile e religioso, ma attente ai sempre nuovi fermenti culturali e alla ricerca di una più profonda via dello spirito.
Per quanto nominalmente in vigore fin dalla bolla Periculoso di Bonifacio VIII (1298), la clausura monastica non era rigidamente applicata negli istituti religiosi del secolo XIV, per altro devastati, come il resto della popolazione, dalla grande peste della metà del secolo. Per questo motivo la scelta di Chiara Gambacorta di sottolineare il rigore della disciplina monastica, non solo abbracciando la povertà ma anche operando una separazione severa dal mondo, ebbe accoglienza favorevole tra le nobili pisane. L’idea di apporre un pesante panno alle grate del monastero per non vedere ed essere viste dai visitatori e da quanti si accostavano al convento acquisiva il valore simbolico del distacco dal mondo e della dedizione completa alla contemplazione e alla preghiera. Le due bolle di clausura concesse al monastero di S. Domenico di Pisa nel 1387 e nel 1426 vennero estese alle altre fondazioni osservanti domenicane che videro accrescersi il numero delle donne che volevano fare la professione religiosa66. Non c’è dubbio che inizialmente il successo della riforma fu dovuto al fervore spirituale e alla leadership di Chiara Gambacorta, ma ben presto il flusso monastico fu assecondato in primo luogo da motivi di ordine sociale.
La clausura fu infatti una disposizione dal significato complesso: mentre favoriva il silenzio contemplativo, garantiva anche la protezione sociale. Come argomenta finemente Sylvie Duval in relazione alla riforma promossa dal monastero pisano: «Il successo spirituale e sociale del movimento dell’Osservanza femminile fu però presto limitato e trasformato. Sappiamo infatti che a poco a poco i monasteri osservanti diventarono per le famiglie ricche e/o nobili un mezzo sicuro per rinchiudervi le giovani non destinate a sposarsi, proprio perché avevano adottato la stretta clausura. Questo nuovo fenomeno è ben visibile nella richiesta indirizzata al papa da parte di esponenti (maschi) delle più grandi famiglie cittadine genovesi di riformare il monastero domenicano della città alla “moda” pisana. A partire dal momento in cui la clausura osservante diventò un mezzo utile per mettere le ragazze vergini al sicuro e per impedire alle vedove di condurre una vita considerata “dissoluta”, il movimento dell’osservanza femminile perse gran parte della sua originalità e del suo carattere innovativo: le monache “forzate” furono sempre più numerose»67.
Il fenomeno della monacazione forzata, il cui inizio coincide con la diffusione dell’osservanza nei monasteri femminili alla metà del secolo XV e con l’aumento demografico che si riscontra in Italia e in Europa nel secondo Quattrocento, è ben noto. Non ci soffermeremo su questo aspetto, ma intendiamo piuttosto mostrare come nei primi secoli dell’età moderna la clausura femminile non rappresenta soltanto una normativa ecclesiastica di carattere disciplinare, ma esprime piuttosto un’identità religiosa, che coincide di fatto con una identità di ceto. Non a caso nel secolo XV vi è una sostanziale convergenza tra spiritualità laicale e religiosa, come abbiamo avuto modo di mostrare, ma vi è anche una sorta di continuità spaziale tra corte, palazzo e monastero che perdura fino all’epoca tridentina. Ne sono una prova i circoli femminili tenuti nei conventi da colte poetesse come Vittoria Colonna e da vedove ‘spirituali’ come Giulia Gonzaga68. Continuità che si interrompe in Italia solo dopo il Concilio di Trento, periodo in cui, non a caso, la clausura sarà di nuovo al centro di una trattativa tra padri conciliari e ceti dirigenti cittadini, trattativa che svela il labile confine tra riforma religiosa e identità sociale69, e lascia intravedere i complessi condizionamenti reciproci tra ecclesiastici e laici nell’approvare disposizioni che garantiscano la disciplina monastica e preservino l’identità religiosa.
La clausura ripristinata nei monasteri dell’osservanza all’inizio del secolo XV non si era estesa a tutti gli istituti femminili di antica fondazione, né aveva riguardato tutti gli ordini religiosi. Anche nei casi citati delle Clarisse osservanti i legami con le corti o con le famiglie di origine non si erano interrotti. Si trattava dunque di una norma diversamente applicata e soggetta a periodiche infrazioni e negoziazioni. Essa era tuttavia considerata, sia pure per motivi diversi, una condizione imprescindibile di disciplina tanto dalla Chiesa quanto dai ceti dirigenti cittadini. Per la Chiesa la clausura era la condizione richiesta per favorire la preghiera e la contemplazione, per i ceti dirigenti era uno strumento utile per preservare la verginità delle donne nubili. Non a caso in molte città si istituirono fin dal Quattrocento magistrature addette alla sorveglianza delle monache, per impedire scandali che avrebbero potuto compromettere l’onore delle famiglie e della città70.
Alla metà del secolo XVI la necessità di estendere a tutti i monasteri una più rigida clausura venne però considerata dalla Chiesa una norma non più procrastinabile. La Riforma protestante e la diffusione delle idee riformate avevano fatto presa specialmente nei rappresentanti degli ordini religiosi e si erano propagate anche nelle corti e nei conventi tramite la predicazione e la stampa. Separare le monache dai parenti e dai visitatori esterni non era più sufficiente, occorreva anche controllarne la formazione e la giurisdizione tradizionalmente affidata agli ordini religiosi di antica fondazione. L’efficacia del decreto tridentino sulla clausura fu determinata dal canone che affidava ai vescovi la sorveglianza dell’applicazione del decreto stesso e dava loro la facoltà di visitare tutti i conventi della diocesi, anche quelli soggetti ai regolari71. Si operava così un progressivo distacco dei monasteri femminili dagli ordini di appartenenza, ritenuti sospetti per la dottrina e meno attenti alla disciplina monastica, e si accentuava il processo di creazione di una nuova identità religiosa cittadina in cui le monache avevano un ruolo di eccellenza.
Pur contrastata dai padri conciliari con l’obbligo imposto ai vescovi di interrogare le novizie sulla libera volontà della professione religiosa, la monacazione forzata non poteva essere estirpata, dal momento che, con l’estensione anche al Regno di Napoli della norma della primogenitura nel diritto ereditario, era divenuta un pilastro portante della struttura familiare e sociale di antico regime72. Il problema centrale per le autorità ecclesiastiche era quello di conferire un’identità religiosa e culturale a quegli istituti che potevano di fatto essere scelti liberamente da alcune giovani e imposti a forza ad altre. Concorsero alla formazione di questa specifica identità sia il rinnovato fervore religioso promosso dagli ordini dei chierici regolari nati in epoca tridentina, sia il processo di urbanizzazione dei monasteri femminili, iniziato nel periodo delle guerre d’Italia e reso obbligatorio dalle disposizioni conciliari73, che accentuò il carattere cittadino degli stessi.
Le mura monastiche, le grate e i cancelli che vennero eretti intorno agli istituti femminili divennero il simbolo della nuova identità religiosa: in primo luogo quella di hortus conclusus, biblicamente interpretato come spazio in cui si consumava il matrimonio mistico, la promessa d’amore tra l’anima e Dio, il luogo della contemplazione74. Per contro, le stesse mura potevano rappresentare la separazione dal mondo, la detenzione involontaria, il carcere imposto dalla famiglia. Attenuarono il senso di frustrazione delle donne monacate a forza tanto l’ideologia nobiliare, che fece del monastero un luogo destinato unicamente alle donne di condizione aristocratica o appartenenti al ceto patrizio, quanto l’ideologia cittadina che seppe conferire un ruolo civico alla preghiera e alle diverse attività delle monache. Nel periodo della Controriforma i monasteri femminili si qualificarono principalmente come centri di cultura che potevano fornire non solo protezione ma anche educazione alle giovani dei patriziati cittadini che le famiglie avrebbero successivamente destinato al matrimonio75.
Una costante e impegnata azione di predicazione e di formazione rivolta alle donne che dovevano fare la professione religiosa si imperniò sull’esercizio dell’orazione mentale che doveva condurre per gradi alla contemplazione, all’unione mistica con Dio. Sulla scia di una cultura religiosa che nel secolo XV era uscita dai chiostri e aveva introdotto anche nelle corti esercizi di contemplazione e scale del paradiso76, il raggiungimento dell’unione con Dio attraverso l’ascesi e la preghiera divenne nel periodo della Controriforma meta agognata dalle donne che abbracciavano la vita religiosa. Al modello di santità di Caterina da Siena, ricordata nell’età barocca principalmente per i suoi doni mistici, si affiancarono gli esempi delle ‘sante nuove’: prime fra tutte Teresa d’Avila e Maria Maddalena de’ Pazzi. Il cammino della perfezione divenne impegno precipuo delle ‘spose di Cristo’.
Tra le tante guide spirituali, esercizi di preghiera e manuali per lo stato monastico, la Pratica della vita spirituale di Marc’Aurelio Grattarola, stampata per la prima volta nel 1605 per le monache e novizie, poi ampliata e destinata a tutti i fedeli, appare particolarmente significativa77. Composta da un oblato milanese di s. Carlo, familiare del cardinale Federico Borromeo, è improntata a semplicità e chiarezza espositiva ed è caratterizzata da equilibrio e moderazione. La pratica ha il tratto distintivo degli itinerari di perfezione: la prima parte si divide in capitoli riservati rispettivamente agli incipienti, ai proficienti e ai perfetti; la seconda parte contiene meditazioni ed esercizi spirituali. Il capitolo iniziale dell’edizione ampliata, rivolta a tutti i fedeli, mostra «L’obligo che ha ciascun Christiano d’aspirare e di caminare alla sua perfettione»; dedica poi il secondo capitolo allo stato religioso, mostrando «l’obligo che hanno i Religiosi d’acquistare la perfettione». Il modo per acquistarla è identificato nella pratica dell’orazione mentale che l’autore dà per acquisita, mettendo in guardia da alcuni inconvenienti che possono derivare dagli eccessi della preghiera e della meditazione:
«Primo, sapere che l’oratione è buona e necessaria et però si deve fare e continuare, ma per il tempo che conviene, e che le proprie forze corporali possono portare, che è l’ordinario d’un’hora per volta in circa, et due volte il giorno, e chi vuol passare questo tempo, non lo deve fare senza misurare bene le forze sue et col parere del buono e intelligente confessore. Et se mi dirai che i Santi facevano più lunghe orationi di questa, ti risponderò che nella vita de’ Santi alcune cose s’hanno da imitare et altre d’ammirare solamente; le virtù comuni della vita Christiana si devono imitare, ma le particolari che sormontano le forze della nostra natura, queste s’hanno da ammirare, ma non da imitare da tutti, perché non tutti sono chiamati da Dio a quell’altezza di perfettione, né ad ogni uno è data la medesima gratia, come afferma l’Apostolo dicendo: Divisiones gratiarum sunt: Idem autem Spiritus etc. I Cor. 12»78.
Questo avvertimento, accompagnato da analoghe avvertenze sugli inganni del demonio, sui pericoli del ricercare gusti spirituali, sul «modo di curare gli scrupoli», dato in un manuale di perfezione indirizzato alle monache e a tutti i fedeli, indica che l’orazione mentale e l’ascesi spirituale orientata al raggiungimento della contemplazione sono ormai divenute una componente della cultura religiosa della Controriforma che coinvolge settori ampi della cristianità. Non mi soffermerò sull’esame del complesso problema dell’invasione mistica e della possessione diabolica che caratterizza la cultura europea dell’età barocca, ora acutamente analizzato da Elena Brambilla nei suoi rapporti con la cultura filosofica e medica del tempo79; ritornerò invece sull’aspetto della identità religiosa e civile dei monasteri femminili della Controriforma riferendomi ancora una volta al manuale di Grattarola.
Sarà sufficiente citare la definizione di stato religioso che il sacerdote milanese formula in questo trattato per comprendere come a questa data la nuova identità monastica postridentina sia già stata elaborata e fissata. Essa fa perno sul significato sponsale della condizione monastica ed enfatizza lo stato di nobiltà della professione religiosa, estendendone il concetto simbolico allo status sociale delle monache aristocratiche:
«Lo stato Religioso è stato divino in terra, per lo sposalitio dell’anima con Dio, che si fa nella santa professione, per mezo de’ tre voti d’obedienza, povertà e castità, per mezo de’ quali viene l’anima a separarsi et allontanarsi totalmente da tutte le creature, lasciando se stessa ancora, et a sposarsi e unirsi col suo creatore et Dio. Un vincolo strettissimo di parentela et amicizia spirituale. Onde sì come una donzella generata di sangue basso, e discesa da famiglia ignobile, se viene sposata a qualche Re, perde quella prima bassezza et aquista la dignità e nobiltà regale; così la persona religiosa che prima era vilissima, nata figliola d’ira, et discesa dal bassissimo lignaggio di Adamo, per questo sposalitio che fa con Dio nell’atto della sua professione, viene da questo stato tanto basso ad innalzarsi all’altissimo stato, per così dire, della divinità, partecipando dell’istessa nobiltà et dignità di Dio […]. Et se lo stato religioso è stato divino in terra, Paradiso di Dio si può dimandar la religione, come a punto la chiama san Basilio, perché qual cosa si fa in Paradiso che non s’operi nella santa religione?»80
L’accentuazione della dignità regale della professione religiosa divenne inoltre ostentazione pubblica nei rituali di professione monastica che nel Seicento e nel Settecento acquistarono sempre maggior rilievo cittadino in ogni regione d’Italia. Da Milano a Napoli ogni monastero celebrava la professione delle novizie con cerimoniali che prevedevano processioni, musiche, poesie, libretti stampati in onore delle monacande e infine banchetti offerti ai partecipanti81. Cultura religiosa e ideologia cittadina furono solidali nel conferire alle monache una specifica identità spirituale e sociale, così da valorizzare un istituto combattuto dai protestanti e voluto fortemente dai ceti aristocratici. Pur non sottovalutando il ruolo culturale rivestito dai monasteri femminili nell’età barocca, secondo un filone storiografico recentemente individuato e percorso dalla ricerca internazionale82, non si deve tuttavia dimenticare che la clausura tridentina fu provvedimento gravosissimo. Essa non rese soltanto più difficili i rapporti con l’esterno, ma sottopose le monache all’autorità incontrastata di vescovi, confessori e padri di famiglia83, che sotto forma di amministratori designati dai vescovi tolsero alle abbadesse ogni autonomia anche nella gestione economica dei monasteri.
La clausura tridentina deve senza dubbio considerarsi un elemento di svolta nel movimento religioso femminile della prima età moderna, i cui effetti non sono limitati ai monasteri di monache, ma coinvolgono anche le penitenti dei diversi ordini religiosi. Nel corso del Quattrocento i terzi ordini, inizialmente composti da laici che vivevano nelle proprie case, avevano dato vita a forme di vita comunitaria sottoponendosi ad una regola84. Erano entrati così a far parte in modo strutturale dei diversi ordini mendicanti a cui si aggregavano tramite una professione. A differenza del Secondo ordine femminile, la cui finalità era esclusivamente contemplativa e la cui professione solenne implicava la clausura, le penitenti affiliate ai terzi ordini non erano claustrali e si impegnavano a vivere poveramente compiendo opere di carità o lavorando per il proprio sostentamento. Spesso di umili origini, si dedicavano alla cura degli ammalati, dei pellegrini, dei bambini abbandonati o delle orfane. Le loro attività potevano essere assai diverse a seconda del luogo e dei tempi, ma per lo più erano rivolte a rispondere ai bisogni sociali emergenti. Non a caso Caterina da Siena, vissuta in un periodo di frequenti lotte intestine, si adoperava per pacificare famiglie di fazioni nemiche, mentre ai primi del Cinquecento la nobile genovese Caterina Fieschi Adorno, terziaria francescana, dedicò se stessa e le sue sostanze alla fondazione di un ospedale per i sifilitici, male allora incurabile85. Nell’ambito della simbologia religiosa cristiana le terziarie venivano accostate alla figura di Marta, la sorella di Lazzaro che serviva Gesù.
Vicine, ma distinte dalle sorelle claustrali che impersonavano la biblica Maria, le terziarie o bizzocche o pinzochere, come venivano chiamate nel secolo XV a seconda della regione in cui vivevano, non si differenziavano dalle claustrali soltanto per un’opzione spirituale, ma anche per ragioni sociali. Se è vero che alcune terziarie note per il loro acceso misticismo, come le già menzionate Caterina da Siena e Caterina da Genova, provenivano da famiglie cospicue o nobili, e se alla fine del Quattrocento anche principi e principesse amavano iscriversi ai terzi ordini mendicanti e volevano essere sepolti in abito penitente, come Alberto III Pio da Carpi86, è pur vero che nella maggior parte dei casi le bizzocche erano di origini medio-basse e preferivano alla contemplazione l’impegno nel mondo e l’esercizio della carità.
Anche lo status vitae era determinante per indirizzare le donne a una vita attiva o contemplativa. Le donne maritate non potevano che essere accettate come penitenti secolari, le vedove e le vergini avevano anche la possibilità di vivere in comunità e osservare una regola in quei raggruppamenti di terziarie che spesso assumevano le dimensioni e seguivano una forma vitae analoga a quella di un monastero di clausura. In ambito domenicano, dove a seguito della predicazione savonaroliana e sull’esempio di Caterina da Siena si sviluppò un vivace movimento penitenziale, attivo specialmente in Toscana e nelle città dell’Italia centro-settentrionale, le terziarie vollero vivere in comunità aperte, per svolgere il loro apostolato anche con la parola, a contatto con i principi e i ceti dirigenti cittadini. Imitando la santa senese, esse conducevano vita rigidamente ascetica ed erano soggette ad estasi e fenomeni mistici che conferivano loro un alone di santità. Considerate sante mentre erano ancora viventi, esse erano venerate dal popolo e consultate dai principi come ‘celeste oracolo’87. Tra queste ‘sante vive’, come venivano popolarmente designate, Colomba Guadagnoli da Rieti acquistò fama in Perugia, dove eresse un monastero aperto con il concorso della città e del popolo. Il suo modus vivendi venne accolto anche da altre comunità domenicane88. Nasceva così un istituto dove si intendevano conciliare le istanze di vita attiva e di vita contemplativa, congiungendo di nuovo insieme le sorelle Marta e Maria. Forme analoghe di realtà istituzionali si diffusero poi in tutti gli ordini mendicanti. Nel primo Cinquecento, durante il periodo critico delle guerre d’Italia e della prima penetrazione delle idee protestanti, il movimento religioso femminile si presentava nella penisola animato e variegato.
Il decreto del concilio di Trento che ripristinava la clausura delle monache, approvato nel 1563, non menzionava esplicitamente le terziarie, ma pochi anni dopo la costituzione apostolica Circa pastoralis, emanata dal domenicano Pio V nel maggio 1566, estendeva la clausura anche alle sorelle affiliate ai terzi ordini che vivevano in comunità, obbligandole a prendere i voti e fare la professione solenne89. Esse sarebbero quindi diventate monache a tutti gli effetti. Quelle terziarie che non avessero voluto accettare la nuova condizione non avrebbero potuto più ricevere postulanti ed erano pertanto destinate all’estinzione. Si restringeva quindi ulteriormente lo spazio tradizionale della cura animarum degli ordini religiosi, quel legame privilegiato con le donne che si era manifestato fin dai primi tempi della loro fondazione.
Per quanto la costituzione circa Pastoralis non venisse universalmente osservata, potendosi constatare che, dopo un periodo di effettiva diminuzione, un notevole numero di conventi del Terzo ordine ricomparve nel corso del Sei e Settecento in ogni diocesi italiana, non si può affermare che il provvedimento fosse diretto a eliminare la finalità dell’istituto e l’identità religiosa simboleggiata da Marta. Fin dal primo Cinquecento infatti si erano sviluppate in Italia diverse esperienze di aggregazione religiosa delle donne che si ispiravano alle confraternite laicali e che manifestavano un analogo desiderio di dedicarsi a Dio secondo un modello di vita attiva. Prima in ordine di tempo fu la Compagnia di s. Orsola, fondata a Brescia da Angela Merici nel 1535, allo scopo di dare una formazione spirituale a quelle giovani donne di condizione ‘civile’ che avessero voluto consacrarsi a Dio, ma che non potevano essere accolte nel monastero perché non avevano dote sufficiente. La Compagnia aveva i caratteri di una confraternita laicale: aveva uno statuto, un nucleo dirigente costituito esclusivamente da donne, conduceva riunioni periodiche di carattere spirituale e educativo90. Per essere affiliati ci si doveva iscrivere e successivamente solennizzare l’ingresso con una cerimonia pubblica. Le Orsoline, come vennero popolarmente chiamate, continuavano a vivere nelle loro case esercitando mestieri diversi. Dato l’alto numero di adesioni, le iscritte furono divise per quartieri, secondo le quattro circoscrizioni territoriali cittadine, e alcune donne più mature, vergini o vedove, furono designate in qualità di maestre o assistenti per ogni loro necessità materiale e spirituale.
Nata in un periodo di forte contestazione degli ordini religiosi e dei voti monastici e nel momento in cui i monasteri femminili andavano qualificandosi sempre più come istituti destinati ai ceti aristocratici a causa della notevole dote richiesta all’ingresso, la Compagnia di s. Orsola rappresentò un modo nuovo per le donne di consacrarsi a Dio continuando a vivere nel mondo. Inizialmente composta da giovani donne povere o di origine modesta, con il passare del tempo la Compagnia acquistò credito in Brescia e in altre città. Il ceto sociale delle donne che chiedevano di entrare nell’istituto si elevò notevolmente: non soltanto serve o artigiane si iscrissero alla Compagnia, ma anche ragazze che avevano una istruzione di base e potevano insegnare alle altre donne. Negli anni cruciali del concilio di Trento, le cui decisioni andavano nel senso sopra accennato di delegittimazione dei vecchi ordini religiosi e di controllo serrato delle monache e delle terziarie, la nuova forma di aggregazione delle donne, di carattere locale e dipendente da laici ed ecclesiastici della città, poteva costituire un modello da proporre ai vescovi per la cura delle anime nella loro diocesi. A comprendere l’interesse e l’importanza dell’istituto fu per primo Carlo Borromeo, che introdusse la Compagnia di s. Orsola a Milano operando alcuni importanti mutamenti nello statuto originario. Innanzitutto sottopose la compagnia alla cura spirituale di un vicario vescovile, diminuendo quindi il carattere laicale, per di più a conduzione femminile, che ne aveva caratterizzato l’origine, e accentuando invece l’aspetto di istituto diocesano con finalità di servizio alla Chiesa. Autorizzò inoltre la convivenza di alcune Orsoline che gradualmente si costituirono in collegi91. La diffusione della Compagnia nella diocesi milanese servì da volano per la fondazione di diverse altre compagnie nelle diocesi lombarde92 e in quelle dell’Emilia-Romagna. Nella nuova struttura di aggregazione laicale delle donne i vescovi postridentini individuarono un valido aiuto per il compito di istruzione delle bambine nelle scuole di dottrina cristiana istituite nelle diverse chiese locali, e furono in grado di qualificare culturalmente quel notevole gruppo di giovani che per motivi economici e sociali non potevano entrare in convento. Attraverso la Compagnia di s. Orsola e il parallelo istituto delle Dimesse, nato a Vicenza a opera del minore osservante Antonio Pagani e diffusosi soprattutto in Veneto93, i vescovi postridentini potevano legittimare un ‘terzo stato’ di vita delle donne, che si poneva accanto ai due stati fino allora socialmente accettati: il matrimonio e il convento. Il detto aut marus aut murus era all’origine della concezione di onore familiare che considerava disdicevole per un padre non aver provveduto alla sistemazione delle figlie giunte alla maggiore età. Il ‘terzo stato’ legittimava il nubilato e quindi la permanenza nella propria casa delle donne che non volevano sposarsi, assegnando loro un compito specifico di servizio alla Chiesa e alla società94. Il fiorire delle scuole di dottrina cristiana in cui si insegnava a leggere anche alle bambine fu il risultato di un felice incontro tra istanze controriformistiche e desiderio delle donne di partecipazione attiva alla vita religiosa e sociale.
Fin dal primo Cinquecento la volontà di offrire una alternativa alle donne che non potevano o volevano sposarsi – comprese le vedove che intendevano rimanere tali – aveva spinto alcune gentildonne come la contessa di Guastalla Ludovica Torelli a istituire collegi laici che si specializzarono nell’istruzione femminile. Più tardi anche principi, come i Farnese a Parma95 e i Gonzaga a Castiglione delle Stiviere96, promossero collegi di educazione. Questi nobili istituti affiancarono gli educandati che esistevano nei monasteri femminili fornendo una istruzione che si ispirava al modello gesuitico97. La formazione delle ‘clare donne’ tendeva ora a distaccarsi dai monasteri di clausura per affidare la direzione delle coscienze e indirizzare i modelli di comportamento alla Compagnia di Gesù, l’Ordine religioso che si era già imposto come innovatore sul piano degli studi e della formazione culturale della classe dirigente. I Gesuiti rifiutarono di istituire un ramo femminile del loro Ordine, ma non si sottrassero al compito di ispirare la fondazione di collegi e monasteri e fare da guida spirituale alle donne. Più volte nobildonne di diversi paesi, come la Spagna e l’Inghilterra, vollero dar vita a un ordine delle gesuitesse, ma i loro tentativi fallirono. Un parziale successo fu conseguito dall’inglese Mary Ward che nel 1609-1610 fondò a Saint-Omer nei Paesi Bassi l’istituto della Beata Vergine Maria, detto delle Dame inglesi, di carattere internazionale, le cui case, presenti anche in Italia, erano collegate in una congregazione retta dalla fondatrice in qualità di superiora generale. Dopo un primo decreto di lode ricevuto nel 1616 da Paolo V, che faceva sperare in una futura approvazione dell’istituto, un reciso diniego venne da Urbano VIII che, con la bolla Pastoralis Romani Pontificis del 13 gennaio 1631, soppresse la congregazione che contravveniva alla bolla Circa pastoralis sull’obbligo della clausura. La stessa Mary Ward fu sospettata di eresia e incarcerata in un monastero di Clarisse a Monaco di Baviera98.
Eppure il progetto educativo di Mary Ward, modellato sulla ratio studiorum dei Gesuiti, era il più adatto a fornire un’istruzione adeguata alle giovani donne aristocratiche. Provvidero in modi diversi altri collegi nati in Italia nel corso del Seicento, come quello fiorentino delle Montalve, fondato dalla nobildonna spagnola Eleonora Ramirez Montalvo99, o quello savonese della Purificazione di Maria Santissima, patrocinato dal Senato di Genova100.
Mentre nelle diverse città italiane, con prevalenza dei centri urbani centro-settentrionali, si moltiplicavano gli istituti di educazione destinati alle donne aristocratiche e alle fanciulle di ceto ‘civile’, non veniva meno il processo di alfabetizzazione iniziato dalle scuole della dottrina cristiana e rivolto ai bambini di ogni strato sociale. A Milano e in diversi centri lombardi le Orsoline provvedevano all’insegnamento primario delle fanciulle101. A Roma e a Bologna si istituirono le scuole pie102, che comprendevano anche classi femminili, destinate all’istruzione popolare; in diverse città, maestre private si dedicavano ormai all’istruzione minima delle fanciulle, che prevedeva la lettura e i ‘lavori donneschi’103. Fu alla fine del Seicento che nacque un progetto più articolato di istruzione femminile, ancora una volta ispirato al modello gesuitico, quello seguito nell’istituto delle Maestre Pie Venerini di Viterbo (1685), che costituì il prototipo delle scuole pubbliche femminili che si diffusero nel Lazio e a Roma104 e transitarono, senza essere soppresse dal regime napoleonico, nel secolo della Restaurazione e dell’Unità d’Italia.
Provvidero ad animare le iniziative di catechesi, alfabetizzazione, istruzione superiore delle fanciulle quelle donne che, pur all’interno di un progetto di vita cristiano, vollero restare nel mondo per impegnarsi in attività di tipo culturale o sociale. Nell’esperienza religiosa italiana l’azione educativa delle donne appare prevalente rispetto all’istanza caritativa. Certo non mancarono Oblate ai servizi degli ospedali, ma non vennero fondate congregazioni femminili paragonabili alle francesi Figlie della Carità di s. Vincenzo de’ Paoli, istituite da Luisa di Marillac nel 1642. Si può supporre che la rete delle confraternite fosse in grado di coprire i bisogni più urgenti della povertà cittadina; è certo invece che il ‘terzo stato’ delle donne crebbe costantemente riuscendo anche a costruirsi spazi autonomi di libertà in una società dominata dall’‘occhio del padre’. Non a caso nel Settecento le comunità di terziarie non claustrali tornarono a essere numerose anche in città, come Bologna, appartenenti alla Stato pontificio.
Nel periodo controriformistico, che aveva interessato le donne più sul piano della identità religiosa e del controllo disciplinare che non su quello della persecuzione ereticale, l’enfatizzazione della vita monastica come stato più perfetto era stata accompagnata da un linguaggio religioso che si esprimeva principalmente nella mistica. Per questo motivo la repressione antiquietistica di fine Seicento105 può ben considerarsi la fine di un’epoca: non si trattava soltanto della nuova scienza e di quel contesto culturale che caratterizzò la ‘crisi della coscienza europea’, ma anche di un più profondo mutamento della società che, insieme alla decadenza demografica ed economica dell’aristocrazia, non poneva più la verginità, e quindi la vita monastica e il suo linguaggio espressivo e culturale, al culmine dei valori.
Inizia qui il lento processo di declino dei monasteri femminili, la cui traumatica e violenta repressione alla fine del Settecento sarà accompagnata da una campagna culturale, come quella capeggiata da Diderot e dagli altri illuministi, volta a rovesciarne l’identità costruita tra Rinascimento e Controriforma.
Note
1 G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in Il mondo contemporaneo, X, 2, Gli strumenti della ricerca, a cura di N. Tranfaglia, Firenze 1981, pp.1434-1469.
2 J. Kelly, Did Women have a Renaissance?, in Id., Women, history and theory, Chicago-London 1984, pp. 19-50. Dal Rinascimento partiva anche la riflessione di N. Zemon Davis, La storia delle donne in transizione: il caso europeo, «Nuova DWF», 3, 1977, pp. 7-33.
3 J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel 1860 (trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1968, pp. 361-362).
4 Cfr. anche Becoming visible. Women in european history, ed. by R. Bridenthal, S. Mosher Stuard, M.E. Wiesner, Boston-New York, 19872; Storia delle donne in Occidente, a cura di G. Duby, M. Perrot, 5 voll., Roma-Bari 1990-1992; M.E. Wiesner, Women and gender in early modern Europe, Cambridge 1993 (trad. it. Le donne nell’ Europa moderna: 1500-1750, Torino 2003, con introduzione di A. Groppi); O. Hufton, The prospect before her. A history of women in western Europe, London 1995 (trad. it. Destini femminili. Storia delle donne in Europa 1500-1800, Milano 1996); Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Roma-Bari 20092.
5 D. Herlihy, Did Women have a Renaissance? A Reconsideration, «Medievalia et Humanistica», 13, 1985, pp. 15-16. Sul problema cfr. inoltre O. Niccoli, Introduzione a Rinascimento al femminile, a cura di O. Niccoli, Roma-Bari 1991.
6 Cfr. A History of women’s writing in Italy, ed. by L. Panizza, S. Wood, Cambridge 2000; V. Cox, Women‘s writing in Italy. 1400-1650, Baltimore 2008.
7 Cfr. L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di S. Soldani, Milano 1989.
8 I. Porciani, Il Plutarco femminile, in L’educazione delle donne, cit., p. 311.
9 Sul pensiero politico di Minghetti cfr. M. Minghetti, Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Roma 1986; sulla sua biografia: R. Gherardi, s.v. Minghetti Marco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXXIV, Roma 2010, pp. 614-629.
10 Questo aspetto degli scritti di Minghetti è stato chiaramente messo in luce da R. Gherardi, Da Burckhardt a Machiavelli: uno scritto di Marco Minghetti su Le donne italiane nelle belle arti, «Il pensiero politico», 40, 2008, pp. 85-92. Gli scritti sull’arte sono in corso di pubblicazione in Le donne, la Maddalena, le Madonne. Scritti sull’arte di Marco Minghetti, a cura di R. Gherardi, Bologna 2010.
11 A. Foratti, Gli studi d’arte di Marco Minghetti, «Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per l’Emilia e la Romagna», 16, 1937.
12 «Raccolsero a sé dintorno nei ritrovi quotidiani il fiore dei dotti che vivevano nelle città loro, e coi lontani per lettere frequenti conversarono, infondendo la cortesia in quegli animi che tenevano ancora della selvatichezza del Medio Evo: di guisa che la civiltà moderna di tutta quanta l’Europa è grandemente debitrice alla cultura delle donne italiane», cfr. M. Minghetti, Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV e XVI, in Le donne, la Maddalena, le Madonne, cit., p. 33.
13 Ibidem.
14 A. Macinghi Strozzi, Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, Firenze 1877.
15 I. Del Lungo, La donna fiorentina nei primi secoli del comune, Firenze 1887; più tardi ampliato in La donna fiorentina del buon tempo antico, raffigurata da Isidoro Del Lungo, Firenze 1906.
16 M. Minghetti, Le donne, la Maddalena, le Madonne, cit., pp. 108-109.
17 M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino 1998.
18 M. Zaggia, Varia fortuna editoriale delle lettere di Caterina da Siena, in Dire l’ineffabile. Caterina da Siena e il linguaggio della mistica, a cura di L. Leonardi, P. Trifone, Firenze 2006, pp. 127-187.
19 Proclamazione di santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, Omelia del Santo Padre Paolo VI, domenica 27 settembre 1970, http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1970/documents/hf_p-vi_hom_19700927_it.html (26 luglio 2010).
20 A. Volpato, ‘Corona aurea’ e ‘corona aureola’: ordini e meriti nella ecclesiologia medioevale, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 91, 1986, pp. 115-182.
21 Proclamazione di santa Caterina da Siena Dottore della Chiesa, Omelia del Santo Padre Paolo VI, domenica 3 ottobre 1970, http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1970/documents/hf_p-vi_hom_19701003_it.html (26 luglio 2010)
22 Ibidem. Per il passo citato cfr. S. Caterina da Siena, Il dialogo della divina Provvidenza, ovvero Libro della divina dottrina, cc. XV, LXXXVI, a cura di G. Cavallini, Roma 1968, pp. 44, 197.
23 Proclamazione di santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, cit.
24 Spes Aedificandi, Lettera Apostolica in forma di «Motu proprio» di Giovanni Paolo II del 2 ottobre 1999, http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/motu_proprio/documents/hf_jp-ii_motu-proprio_01101999_co-patronesses-europe_it.html (26 luglio 2010).
25 Ha avuto particolare successo l’interpretazione del misticismo di Caterina da Siena e delle sante dell’età moderna in chiave di anoressia nervosa avanzata da R.M. Bell, Holy anorexia, Chicago-London 1985 (trad. it. La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, Roma-Bari 1987); a questa interpretazione ha risposto, in chiave di idee teologiche e pratiche religiose, C. Walker Bynum, Holy feast and holy fast. The religious significance of food to medieval women, Berkeley 1987 (trad. it. Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, Milano 2001).
26 F.T. Luongo, The saintly politics of Catherine of Siena, Ithaca (N.Y.)-London 2006.
27 Il racconto è nella deposizione di Stefano Maconi al processo di canonizzazione di Caterina del 1411. L’edizione latina del processo è in Fontes vitae S. Catharinae Senensis historici, IX, a cura di M.-H. Laurent, Milano 1942 (con appendice di documenti sul culto e la canonizzazione di s. Caterina da Siena). Per la traduzione italiana cfr. Il Processo Castellano. Santa Caterina da Siena nelle testimonianze al Processo di canonizzazione di Venezia, a cura di T.S. Centi, A. Belloni, Firenze 2009 (prima ed. italiana condotta sull’edizione latina di M.-H. Laurent).
28 Cfr. Atti del Simposio internazionale cateriniano-bernardiniano (Siena 1980), a cura di D. Maffei, P. Nardi, Siena 1982.
29 S. Nocentini, Lo “scriptorium” di Tommaso Caffarini a Venezia, «Hagiographica», 12, 2005, pp. 79-144; Id., La diffusione della Legenda Maior di santa Caterina, in Il velo, la penna e la parola. Le domenicane. Storia, istituzioni e scritture, a cura di G. Zarri, G. Festa, Firenze 2009, pp. 125-131.
30 Su queste beate domenicane cfr. A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma 1990.
31 Il Processo Castellano, a cura di T.S. Centi, A. Belloni, cit., p. 98.
32 Ibidem, p. 362.
33 H. Angiolini, s.v. Maconi Stefano, in Dizionario Biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXVII, Roma 2006, pp. 118-122; G. Leoncini, Un certosino del tardo medioevo: don Stefano Maconi, in Die Ausbreitung kartausischen Lebens und Geistes im Mittelalter, Salzburg 1991, pp. 54-58 (Analecta cartusiana, 2).
34 Su Caterina da Siena e le successive penitenti domenicane: Dominican penitent women, ed. by M. Lehmijoki-Gardner, New York 2005. Sulla mistica nei monasteri domenicani tedeschi del Basso Medioevo cfr. J. Hamburger, The visual and the visionary. Art and female spirituality in Late Medieval Germany, New York 1998.
35 Sul tema si vedano i numerosi studi di A. Vauchez, a partire da Sainte Brigitte de Suède et Sainte Catherine de Sienne: la mystique et l’Ėglise au dernières siècles du Moyen Âge, in Temi e problemi nella mistica femminile trecentesca, Atti del Convegno (Todi 1979), Todi 1983, pp. 227-248; fino ai saggi contenuti in Saints, prophètes et visionnaires. Le pouvoir surnaturel au Moyen Âge, Paris 1999 (trad. it. Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel Medioevo, Bologna 2000).
36 Cfr. P. Dronke, Women writers of Middle ages: a critical study of texts from Perpetua (203) to Marguerite Porete (1310), Cambridge 1984 (trad. it. Donne e cultura nel Medioevo: scrittrici medievali dal II al XIV secolo, Milano 1986); M. Porete, Lo specchio delle anime semplici, Cinisello Balsamo 1994 (trad. it. di G. Fozzer, prefazione storica di R. Guarnieri, commento di M. Vannini, testo mediofrancese a fronte, versione trecentesca italiana in appendice).
37 Vana observantia. La lotta di Jean Gerson contro le false credenze e le false visioni, a cura di C. Fiocchi, Milano 2008, p. 41.
38 Cfr. G. Parsons, The cult of Saint Catherine of Siena. A study in civil religion, Aldershot 2008, pp. 20-21.
39 T. Caffarini, La santità imitabile: “Leggenda di Maria da Venezia” di Tommaso da Siena, a cura di F. Sorelli, Venezia 1984.
40 G. Dominici, Lettere spirituali, a cura di M.T. Casella, G. Pozzi, Freiburg 1969; D. Bornstein, Spiritual kinship and domestic devotions, in J.C. Brown, R.C. Davis, Gender and society in Renaissance Italy, Essex 1998, pp. 173-192; M.P. Paoli, Antonino da Firenze O. P. e la direzione dei laici, in Storia della direzione spirituale, III, L’età moderna, a cura di G. Zarri, Brescia 2008, pp. 85-130, in partic. pp. 90-100.
41 A. Roberts, Dominican women and renaissance art. The convent of San Domenico of Pisa, Aldershot 2008.
42 R. Miriello, I manoscritti del monastero del Paradiso di Firenze, Firenze 2007.
43 Il testo del Dominici è stato pubblicato soltanto nel secolo XIX: G. Dominici, Regola del governo di cura familiare, a cura di D. Salvi, Firenze 1860. Sulla fortuna del testo cfr. M.P. Paoli, Sant’Antonino “Vere pastor et bonus pastor”: storia e mito di un modello, in Verso Savonarola. Misticismo, profezia, empiti riformistici fra medioevo ed età moderna, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1999, pp. 47-36. Sulla successiva letteratura ad status cfr. Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma 1996.
44 Cfr. M. Lehmijoki-Gardner, Worldly saints. Social interaction of Dominican penitent women in Italy, 1200-1500, Helsinki 1999.
45 M. Sensi, Dal movimento eremitico alla regolare osservanza francescana. L’opera di fra Paoluccio Trinci, Assisi 1992.
46 M. Sensi, Alfonso Pecha e l’eremitismo italiano di fine secolo XIV, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 47, 1993, pp. 51-80.
47 La beata Angelina da Montegiove e il movimento del Terz’ordine francescano femminile, Atti del Convegno di studi francescani (Foligno 1983), a cura di R. Pazzelli, M. Sensi, Roma 1984.
48 Cfr. M. Sensi, Dalle bizzocche alle “clarisse dell’Osservanza”, in Uno sguardo oltre: donne, letterate e sante nel movimento dell’Osservanza francescana, Atti della prima Giornata di studio sull’osservanza francescana al femminile (Foligno 2006), a cura di P. Messa, A.E. Scandella, Assisi 2007, pp. 25-77, in partic. pp. 54-63.
49 Su santa Chiara cfr. C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi, Milano 2007.
50 E. Lopez, Culture et sainteté, Colette de Corbie (1381-1447), Saint-Etienne 1994.
51 Francesca Romana. La santa, il monastero e la città alla fine del Medioevo, a cura di A. Bartolomei Romagnoli, Firenze 2009.
52 C. James, Giovanni Sabadino degli Arienti: a literary career, Firenze 1996.
53 Sull’esercizio del potere da parte delle donne nel Rinascimento cfr. Donne di potere nel Rinascimento, a cura di L. Arcangeli, S. Peyronel, Roma 2008.
54 Cfr. R.L. Bruni, D. Zancani, Antonio Cornazzano. Le opere a stampa, Firenze 1984; Id., Antonio Cornazzano. La tradizione testuale, Firenze 1984.
55 Gynevera de le clare donne di Joanne Sabadino de li Arienti, a cura di C. Ricci, A. Bacchi della Lega, Bologna 1968, pp. 294-295.
56 Ibidem, pp. 339-341.
57 Ibidem, p. 341.
58 Ibidem, p. 295.
59 Fra Mariano da Firenze O.F.M., Libro delle degnità et excellentie del Ordine della seraphica madre delle povere donne sancta Chiara da Assisi, introduzione, note e indici a cura di padre G. Boccali O.F.M, Firenze-Assisi 1986.
60 Sulla poesia in convento cfr. E. Graziosi, Poesia nei conventi femminili: qualche reperto e un testo esemplare, in Caterina Vigri. La santa e la città, Atti del Convegno (Bologna 2002), a cura di C. Leonardi, Firenze 2004, pp. 47-72.
61 Cfr. Vita artistica nel monastero femminile. Exempla, a cura di V. Fortunati, Bologna 2002.
62 C. Compare, I libri delle Clarisse osservanti nella Provincia seraphica S. Francisci di fine ’500, «Franciscana», 4, 2002, pp. 169-372.
63 J. Dalarun, Il monastero di Santa Lucia di Foligno foyer intellettuale, in Uno sguardo oltre, cit., pp. 79-111.
64 M. Conway, The Diario of the printing press of San Jacopo da Ripoli, 1476-1484: commentary and transcription, Firenze 1999.
65 G. Zarri, Libri di spirito. L’editoria religiosa in volgare nei secoli XV-XVII, Torino 2009.
66 Sulla riforma del monastero pisano, oltre al volume di A. Roberts, Dominican Women, cit., cfr. la tesi di dottorato di S. Duval, La fondation du Couvent Saint-Dominique de Pise. Chiara Gambacorta et les débuts de la réforme dominicaine 1382-1419, Université Lumière-Lyon II, Juin 2004.
67 S. Duval, Chiara Gambacorta e le prime monache del monastero di San Domenico di Pisa: l’Osservanza domenicana al femminile, in Il velo, la penna e la parola, cit., pp. 93-112, in part. p. 111.
68 Gli studi diversi e recenti su queste figure, che la storiografia ha selezionato come rappresentative della cultura femminile rinascimentale o della religiosità ‘spirituale’ con propensioni verso il pensiero riformato, prescindono quasi sempre dal considerare il luogo in cui vivevano e la vita di pietà ‘tradizionale’ che conducevano all’interno di un monastero. È interessante dal punto di vista della storia letteraria: D. Robin, Publishing women. Salons, the Presses, and the Counter-reformation in Sixteenth-Century Italy, Chicago 2007.
69 L’espressione ‘labile confine’ richiama anche la permeabilità tra monastero e città: E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani, secoli XVI-XVII, Milano 2001.
70 Per un quadro d’insieme sui monasteri femminili in Italia tra Rinascimento e Controriforma cfr. G. Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in St.It.Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, 1986, pp. 357-429; una versione aggiornata è in G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000, pp. 43-143.
71 Concilium Tridentinum, sess. XXV. De regularibus ac monialibus, in COGD, III, pp. 151-160.
72 Sulla famiglia meridionale cfr. G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, XV-XIX secolo, Torino 1988.
73 Concilium Tridentinum, sess. XXV. De regularibus ac monialibus, cit.
74 F. Cardini, M. Miglio, Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale, Roma-Bari 2002.
75 I monasteri femminili come centri di cultura tra Rinascimento e Barocco, Atti del Convegno storico internazionale (Bologna 2000), a cura di G. Pomata, G. Zarri, Roma 2005; C. Monson, Disembodied voices. Music and culture in an early modern Italian convent, Berkeley 1995 (trad. it. Voci incorporee. Musica e cultura in un convento italiano della prima età moderna, Bologna 2009).
76 G. Zarri, La religione di Lucrezia Borgia. Le lettere inedite del confessore, Roma 2006.
77 Prattica della vita spirituale per le monache, & altre persone desiderose di far progresso nella christiana perfettione. Con il modo d’alleuare le nouitie, & le figliuole secolari ne’ monasteri. Composta dal m.r. p. Marc’Aurelio Grattarola oblato di S. Ambrosio. Et nouamente ampliata dall’istesso auttore, In Milano, per l’herede del q. Pacifico Pontio, & Gio. Battista Piccaglia, 1605; Pratica della vita spirituale per ogni stato di persone desiderose di far progresso nella christiana perfettione. Raccolta da diuersi padri, & probati autori. Per Marc’Aurelio Grattarola sacerdote della Congregatione delli oblati di s. Ambrogio, e Carlo. Nuouamente in questa terza impressione da molti errori emendata & accresciuta dall’istesso autore, In Venetia, presso Sebastiano Combi, 1614.
78 Pratica della vita spirituale per ogni stato di persone, cit., 1614, parte I, cap. XXXXIII, pp. 120-121.
79 E. Brambilla, Corpi invasi e viaggi dell’anima. Santità, possessione, esorcismo dalla teologia barocca alla medicina illuminista, Roma 2010.
80 Pratica della vita spirituale per ogni stato di persone, cit., 1614, parte I, cap. II, pp. 6-7.
81 R. Kendrick, Celestial sirens. Nuns and their music in early modern Milan, Oxford 1996; E. Novi Chavarria, Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli 2009, in partic. pp. 30-43.
82 Female monasticism in early modern Europe. An interdisciplinary view, a cura di C. van Wyhe, Aldershot 2008.
83 G. Zarri, La clôture des religieuses et les rapports de genre dans les couvents italiens (fin XVIe-XVIIe siècle ), «Clio. Histoire, femmes et sociétés», 26, 2007, pp. 37-59.
84 La vastissima bibliografia sui terzi ordini è riassunta in: G. Rocca, s.v. Terz’Ordine, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, IX, coll. 1042-1050; Id., s.v. Terz’Ordine regolare, ivi, coll. 1050-1063; E. Boaga, s.v. Terz’Ordine secolare, ivi, coll. 1097-1109. In relazione alle donne cfr. L. Mezzadri, I Terzi Ordini e la spiritualità femminile, in La sponsalità dai monasteri al secolo. La diffusione del carisma di Sant’Angela nel mondo, Atti del Convegno internazionale di studi (Brescia-Desenzano 2007), a cura di G. Belotti, X. Toscani, Brescia 2009, pp. 57-83.
85 Cfr. D. Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. Le confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, Napoli 2002.
86 Erasmo stigmatizza questo evento nella sua opera I Colloqui, per cui cfr. Erasmo da Rotterdam, I colloqui, a cura di G.P. Brega, Milano 20012, pp. 416-430.
87 Cfr. G. Zarri, Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Torino 1990. E inoltre: T. Herzig, Savonarola’s women: visions and reform in Renaissance Italy, Chicago-London 2008.
88 Cfr. Una santa, una città, a cura di G. Casagrande, E. Menestò, Perugia-Firenze 1990.
89 R. Creytens, La giurisprudenza della Sacra Congregazione del Concilio nella questione della clausura delle monache (1564-1576), in La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto Centenario della Fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964, pp. 563-597.
90 L. Mariani, E. Tarolli, M. Seynaeve, Angela Merici. Contributo per una biografia, Milano 1986. Più recentemente: Q. Mazzonis, Spiritualità, genere e identità nel Rinascimento. Angela Merici e la Compagnia di Sant’Orsola, Milano 2007.
91 Sulla diffusione delle Orsoline a Milano: C. Di Filippo, La Compagnia di sant’Orsola dalla crisi del consolidamento (1540-1600), in La sponsalità dai monasteri al secolo, cit., pp. 459-490; Id, Le Orsoline milanesi e lombarde: educare fra parrocchia e collegio, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», 14, 2007, pp. 75-91.
92 Per Cremona: A. Foglia, Genesi e sviluppo di Compagnie ispirate al modello mericiano in diocesi di Cremona tra il XVI e i primi decenni del XVII secolo, in La sponsalità dai monasteri al secolo, cit., pp. 491-511; per Ferrara: M. Turrini, La Compagnia e il Collegio di Sant’Orsola a Ferrara tra Cinque e Settecento, ivi, pp. 513-527.
93 Sull’istituto delle Dimesse si veda G. Zarri, Disciplina regolare e pratica di coscienza: le virtù e i comportamenti sociali in comunità femminili (secoli XVI-XVIII), in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994 (Annali dell’Istituto Storico Italo-germanico in Trento, Quaderno 40), pp. 257-278.
94 Il concetto di ‘terzo stato’ è formulato in G. Zarri, Il ‘terzo stato’, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di S. Seidel-Menchi, A. Jacobson Schutte, T. Kuehn, Bologna 1999, pp. 311-334; aggiornato in G. Zarri, Recinti, cit., pp. 453-480.
95 Cfr. D. Culpepper, “Our Particular Cloister”. Ursulines and female education in Seventeenth-Century Parma and Piacenza, «Sixteenth Century Journal», 36, 2005, pp. 1017-1037.
96 M. Paganella, Cinzia, Olimpia e Gridonia Gonzaga: profilo storico del Collegio delle Vergini di Gesù di Castiglione delle Stiviere, Castiglione delle Stiviere 1994.
97 Un censimento degli istituti, con relativa bibliografia, è in: G. Rocca, Gesuiti, Gesuitesse e l’educazione femminile, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», 14, 2007, pp. 65-75.
98 E.M.I. Wetter, s.v. Ward Mary, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., X, 2003, coll. 583-586. Cfr. inoltre M. Ward, Mary Ward und ihre Gründung. Die Quellentexte bis 1645, hrsg. von U. Dirmeier, 4 voll., Münster 2007 (Corpus Catholicorum, 45-48).
99 Villa La Quiete. Il patrimonio artistico del Conservatorio delle Montalve, a cura di C. De Benedictis, Firenze 1997; F. Sani, I conservatori toscani in età medicea, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», 14, 2007, pp. 151-176.
100 G. Rocca, Gesuiti, Gesuitesse, cit., p. 69.
101 A. Turchini, Sotto l’occhio del padre. Società confessionale e istruzione primaria nello Stato di Milano, Bologna 1996; F. Terraccia, Per uno studio degli educandati monastici nella Diocesi di Milano. Tipologia delle fonti, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», 11, 2004, pp. 383-406.
102 Cfr. R. Fantini, L’istruzione popolare a Bologna fino al 1860, Bologna 1971.
103 Cfr. G.L. Masetti Zannini, Maestre bolognesi nei secoli XVII-XVIII, «Strenna storica bolognese», 18, 1978, pp. 255-292.
104 Cfr. M. Caffiero, Santità, territorio e istituzioni. Le Maestre Pie tra centro e periferia (secoli XVII-XVIII), in Id, Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Pisa-Roma 2000, pp. 113-119; R. Chiacchella, Per una storia dell’istruzione femminile in Umbria: le Maestre Pie, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», 14, 2007, pp. 141-150.
105 Cfr. M. Modica, Infetta dottrina. Inquisizione e quietismo nel Seicento, Roma 2009.