Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dal pessimismo di Schopenhauer e dei maggiori esponenti della sua scuola – Eduard von Hartmann, Philipp Mainländer e Julius Bahnsen – e giungendo fino a Nietzsche, nella cultura filosofica dell’Ottocento si delinea il passaggio dal pessimismo al nichilismo.
Il pessimismo metafisico di Arthur Schopenhauer
Quantunque abbia adoperato una sola volta il termine pessimismo e in un appunto pubblicato postumo, Arthur Schopenhauer è senza dubbio il filosofo che, nell’età moderna, ha dato la teorizzazione più coerente del principio pessimistico, ossia del principio secondo il quale il non essere è preferibile all’essere.
Nel suo capolavoro del 1819, Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer, prende le mosse dalla distinzione kantiana tra il fenomeno e la cosa in sé. E mentre Kant aveva dichiarato inconoscibile la cosa in sé e aveva limitato ai fenomeni l’ambito di ciò che è possibile conoscere, Schopenhauer vuole infrangere il suo interdetto e andare oltre Kant, ritenendo indegno di un vero filosofo arrendersi dinanzi alla difficoltà del problema. Perciò si domanda proprio che cosa sia la cosa in sé e la identifica con la volontà di vivere. Da un punto di vista fenomenico il mondo è rappresentazione, ma nella sua essenza metafisica è volontà: è questo l’“unico pensiero” che egli afferma di voler dimostrare col suo libro.
Il suo ragionamento procede per contraddizione: se la cosa in sé non è rappresentabile, allora, per definizione, sarà tutto ciò che non è rappresentazione. E, se le rappresentazioni sono organizzate secondo leggi razionali (lo spazio, il tempo e la causalità), la cosa in sé avrà caratteristiche esattamente opposte: non potrà essere che un principio non razionale, non collocabile nello spazio, extratemporale, privo di scopi e senza fondamento. La volontà di vivere cieca e ottusa, appunto. Ma l’affermazione che la volontà di vivere è la cosa in sé è assai gravida di conseguenze: equivale ad affermare che mentre il mondo sembra dotato di senso, come lo sono le rappresentazioni, in realtà, come la volontà, è completamente privo di senso. È come capovolgere la celebre formula di Hegel, secondo la quale “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”, nella formula, che non appartiene a Schopenhauer ma ne compendia efficacemente la posizione, secondo cui tutto ciò che è reale (la volontà di vivere) è irrazionale e tutto ciò che è razionale (i fenomeni, le rappresentazioni) è irreale, ossia mera apparenza.
Da questa fondazione metafisica del pessimismo Schopenhauer fa scaturire delle conseguenze tutt’altro che trascurabili anche sul piano della filosofia morale. Essendo la volontà l’essenza di tutta la realtà, e quindi di tutti gli individui, ne discende che gli individui siano da considerare alla stregua di tragicomici burattini nelle mani della volontà, vittime inconsapevoli del suo gioco perverso. Inoltre, poiché la volontà è intesa come un tendere cieco, ottuso, eterno e insaziabile, ne deriva che gli individui debbano essere concepiti come irrimediabilmente condannati al dolore, alla sofferenza, all’infelicità e alla vanità di tutti i loro sforzi. Perciò la vita umana è descritta da Schopenhauer come “un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia”: il dolore deriva dagli infiniti desideri insoddisfatti, la noia dal fatto che la volontà, per definizione, non può mai trovare un vero appagamento. Infine, se ogni individuo è un frammento della volontà di vivere, ognuno agisce solo in vista della affermazione della propria volontà, e dunque a discapito degli altri. Gli uomini sono dunque irrimediabilmente egoisti, lupi per gli altri uomini, o, come Schopenhauer scrive efficacemente nei Parerga e paralipomena, sono come dei porcospini, che in una notte d’inverno si stringono gli uni agli altri per ripararsi dal freddo, ma ottengono soltanto l’effetto di tormentarsi reciprocamente con gli aculei.
La vita è dunque “un affare che non copre le spese”: il non essere è preferibile all’essere. Ma sarebbe illusorio pensare che il suicidio possa portare a una vera liberazione dal gioco perverso della volontà. La volontà di vivere, che è eterna, non viene minimamente scalfita dalla morte di un singolo individuo. Se il dolore e la miseria dell’esistenza si radicano nella volontà, non c’è che una via per la liberazione: l’autosoppressione della volontà. Si tratta del percorso iniziatico, difficile e tormentato, mediante il quale la voluntas si trasforma in noluntas, una sorta di ascesi laica che culmina nella pace del nirvana.
Apostoli ed evangelisti
Pubblicato durante quelli che sono stati definiti gli “anni ruggenti” della filosofia tedesca, mentre l’egemonia della filosofia hegeliana, che celebra la razionalità del reale, è all’acme, Il mondo come volontà e rappresentazione è quello che si dice un fiasco clamoroso. Quasi tutta la prima edizione finisce al macero. Schopenhauer, che non è un accademico, accusa i professori di filosofia di avere ordito contro di lui una vera e propria congiura del silenzio e si paragona a Caspar Hauser, un giovane che era apparso improvvisamente a Norimberga dopo avere vissuto per circa vent’anni segregato. Ma a partire dalla seconda metà degli anni Trenta comincia a formarsi intorno a lui una ristretta cerchia di discepoli: gli “apostoli” e gli “evangelisti”, come lui li chiama. Apostoli sono coloro i quali non scrivono su di lui, evangelisti coloro i quali prendono la penna per difendere e diffondere le sue dottrine. Finalmente ha anche lui la sua “scuola”, dice, divertendosi a coniare un appellativo per tutti i componenti di essa: il “protoevangelista”, Friedrich Dorguth; l’“apostolo più dotto”, Johann August Becker; l’“arcievangelista”, Julius Frauenstädt, autore delle Lettere sulla filosofia di Schopenhauer; l’“apostolo Giovanni”, Adam von Doss; il “doctor indefatigabilis”, Ernst Otto Lindner; l’“apprendista evangelista”, August Gabriel Kilzer; il “nuovo apostoletto”, David Asher. C’è finanche un evangelista apocrifo, il biografo Wilhelm Gwinner. Ma è degno di nota che nessuno dei discepoli diretti di Schopenhauer, nemmeno Carl Georg Bähr, l’autore del più bel libro che sia stato scritto su Schopenhauer durante la sua vita, ne interpreti il pensiero in chiave pessimistica.
Tre pessimisti della scuola di Schopenhauer: Hartmann, Mainländer e Bahnsen
Quando nel 1860 Schopenhauer muore, è all’apice della fama ed è ormai considerato da molti il maggior filosofo della Germania dell’epoca. Dopo la sua morte, alcuni intellettuali intraprendono il tentativo di sviluppare in modo originale la sua metafisica pessimistica: si tratta del filosofo dell’inconscio Eduard von Hartmann, del teorico della redenzione attraverso la castità, Philipp Mainländer, e dell’ideatore della “realdialettica”, Julius Bahnsen, che sono i maggiori esponenti di quella che è stata detta la “scuola di Schopenhauer” in senso lato.
L’ex militare e autodidatta Eduard von Hartmann esordisce come filosofo nel 1869, pubblicando un libro che avrebbe riscosso un enorme successo e gli sarebbe valso l’offerta di ben tre cattedre universitarie che egli, fedele all’antiaccademismo del suo maestro, rifiuta. Il libro si intitola La filosofia dell’inconscio e si presenta come una trasformazione della filosofia di Schopenhauer, ottenuta innestando sul suo tronco elementi provenienti da Schelling e da Hegel.
La volontà cieca e ottusa di Schopenhauer, pensa Hartmann, a rigore non è in grado di volere alcunché. Occorre dunque ammettere che la volontà abbia un suo finalismo intrinseco, per quanto inconscio, che spetta alla filosofia portare alla chiarezza della coscienza. Bisogna innanzitutto fondare il pessimismo su basi rigorosamente scientifiche.
Hartmann propone perciò di effettuare un calcolo matematico del “bilancio eudemonologico” del mondo: in qualsiasi mondo esistente, argomenta, se ai piaceri si sottraggono i dolori, il bilancio eudemonologico sarà sempre negativo. In un mondo che non è, invece, tale bilancio sarà pari a zero. Dunque il non essere è preferibile all’essere e il finalismo inconscio della volontà consiste appunto nel suo tendere al non essere.
Coerentemente con queste premesse, mentre Schopenhauer pensa il nirvana come un difficile percorso iniziatico riservato a pochi eletti, Hartmann ritiene che il processo di liberazione possa coinvolgere l’intero genere umano. Basta che si affidi al finalismo inconscio della volontà, e, una volta smascherate attraverso la filosofia tutte le sue illusioni a proposito della felicità, l’umanità sarà finalmente pronta per ciò che Hartmann chiama “il pieno abbandono della personalità al processo del mondo, per il raggiungimento del suo scopo, la redenzione generale del mondo”.
Si tratta di una forma di escatologia negativa, che colloca nel nucleo metafisico stesso della realtà la garanzia della redenzione, dunque di una forma di pessimismo fortemente edulcorata.
Anche Philipp Mainländer (1841-1876), il cui vero nome è Philipp Batz, è un autodidatta: un impiegato di banca appassionato della filosofia di Schopenhauer e del pessimismo, che per lui si compendia nella proposizione: “Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo”. In un mondo dominato dal dolore, dalla sofferenza e dalla miseria, infatti, non ci può essere posto per nessun Dio. Ma, nonostante tutto, Mainländer pensa che il mondo abbia in sé la tendenza a ricongiungersi all’unità precosmica di Dio: le ricerche della termodinamica sull’entropia offrono secondo lui la conferma scientifica che il mondo sia destinato al nulla e dunque alla redenzione finale. Ma si può e si deve fare qualche cosa per aiutare e accelerare questo processo.
Mainländer individua allora tre diverse vie per la redenzione: il socialismo, che eliminando i bisogni infiacchirebbe l’umanità preparandone la scomparsa; la castità generale, che alla lunga porterebbe all’estinzione del genere umano, e, infine, il suicidio, che oltre a far ricongiungere immediatamente l’individuo col nulla originario, dovrebbe anche avere il significato di un atto esemplare. Ed è la via che egli effettivamente pratica, togliendosi la vita la notte fra il 31 marzo e il 1° aprile 1876. Ha appena ricevuto la prima copia fresca di stampa del suo libro dal titolo La filosofia della redenzione.
Non è un autodidatta, invece, Julius Bahnsen (1830-1881), un insegnante di liceo che ha conosciuto personalmente Schopenhauer nel 1856 e da allora si è dichiarato suo seguace. Nella sua prima opera, dal titolo Contributi alla caratterologia (1867), Bahnsen si ricollega ai “fondamenti stabiliti da Arthur Schopenhauer”, ossia alla metafisica della volontà, per sviluppare una sorta di fenomenologia della volontà, anzi, delle singole volontà individuali: la scienza del carattere, appunto, che dovrebbe servire come base di una pedagogia di impronta schopenhaueriana. Ma è nella sua ultima opera, intitolata La contraddizione (1880-1882), che svolge gli sviluppi della dottrina di Schopenhauer che risultano più interessanti per il tema del passaggio dal pessimismo al nichilismo.
La volontà di Schopenhauer, infatti, è interpretata da Bahnsen come intimamente scissa e autocontraddittoria. È volontà di vita ma, se il non essere è preferibile all’essere, non dovrebbe volere la vita; non vuole la morte, poiché è volontà di vita, eppure dovrebbe volerla. La volontà, dunque, “vuole ciò che non vuole e non vuole ciò che vuole”. Si tratta di una contraddizione non soltanto logica, ma assolutamente reale e, come tale, assolutamente irrisolvibile e inconciliabile. Perciò Bahnsen esclude qualsiasi possibilità di redenzione: sia quella schopenhaueriana del nirvana, sia quella del nulla assoluto vagheggiata da Hartmann e da Mainländer. Per lui il mondo è un “eterno tramonto”, che mai ha avuto inizio e non avrà mai fine. Banhsen, con la sua “realdialettica”, propone così una versione talmente radicale del pessimismo post-schopenhaueriano da essere definita “miserabilismo”.
Dal pessimismo al nichilismo: Nietzsche
A partire dalla pubblicazione della Filosofia dell’inconscio di von Hartmann, nella cultura tedesca divampa una vivace polemica, nota come la “controversia sul pessimismo”, nella quale intervengono le migliori menti filosofiche del paese. Ma anche letterati, teologi, artisti ed esponenti politici, conservatori, liberali e socialisti, esprimono la loro posizione, chi per condannare il pessimismo, chi per esaltarlo. Il pessimismo assume quasi i connotati di una moda culturale, efficacemente descritta in alcuni articoli del sociologo Georg Simmel. Eppure, a quell’epoca in Germania, almeno apparentemente, non c’è nessuna ragione per essere pessimisti: la Kultur germanica ha la meglio sulla Civilisation latina nella guerra franco-prussiana, la Germania porta a compimento l’unificazione nazionale e celebra la fondazione del Reich. Perché nei cosiddetti Gründerjahre si diffonde il pessimismo?
È questo l’interrogativo che si pone uno schopenhaueriano di vecchia data come Friedrich Nietzsche. Formatosi come filologo classico e convertito alla filosofia dalla lettura del Mondo di Schopenhauer, “il maestro severo del quale posso gloriarmi”, Nietzsche, sin dalla sua prima opera, intitolata La nascita della tragedia (1872), sviluppa le proprie riflessioni in una direzione antitetica rispetto a quella di Schopenhauer: l’essere è sempre preferibile al non essere, come insegnano i Greci attraverso l’arte tragica. Perciò al pessimismo di Schopenhauer e degli schopenhauerianiNietzsche contrappone l’affermazione tragica della vita, rappresentata dal dionisiaco. Ma a Schopenhauer, in ogni caso, riconosce sempre il merito di essere stato il primo a porre, col suo pessimismo, il problema del valore e del significato dell’esistenza.
Così è anche in un aforisma del quinto libro della Gaia scienza (seconda edizione del 1887), intitolato Per il vecchio problema: “che cosa è tedesco” (af. 357), che contiene una specie di sguardo retrospettivo sullo sviluppo della filosofia tedesca che va da Schopenhauer allo stesso Nietzsche, ossia dal pessimismo al nichilismo. Scrive Nietzsche: “Un quarto problema sarebbe se anche Schopenhauer, col suo pessimismo, cioè con il problema del valore dell’esistenza, dovesse essere stato proprio un Tedesco. Non lo credo. L’avvenimento, dopo il quale c’era da aspettarsi questo problema con tale sicurezza che un astronomo dell’anima avrebbe potuto calcolarne giorno e ora, il tramonto della fede nel Dio cristiano, la vittoria dell’ateismo scientifico, è un avvenimento totalmente europeo per il quale tutte le stirpi devono avere la loro parte di merito e di onore. Come filosofo, Schopenhauer fu il primo ateo dichiarato e irremovibile che noi Tedeschi abbiamo avuto [… ]. La non divinità dell’esistenza era per lui qualcosa di dato, di palpabile, d’indiscutibile [… ] è qui che si trova tutta la sua rettitudine: l’ateismo assoluto, onesto, è appunto il presupposto della sua problematica [...]”. Rispetto a Schopenhauer, il pessimismo post-schopenhaueriano, con la sua “particolare inettitudine”, costituisce per Nietzsche un evidente passo indietro: “Con ciò non alludo affatto a Eduard von Hartmann; è invece un mio vecchio sospetto, ancor oggi non del tutto dissipato, che egli sia per noi troppo abile, voglio dire che, da quel furbacchione matricolato par suo, non solo si sia forse sin da principio fatto beffe del pessimismo tedesco – che, alla fine, potrebbe eventualmente ‘legare’ per testamento ai Tedeschi l’esempio di come fosse possibile canzonarli al tempo della fondazione del Reich. Io però domando: deve forse ascriversi a onore dei Tedeschi la vecchia trottola Bahnsen, che per tutta la vita si è deliziato nel roteare attorno alla sua miseria realistico-dialettica e alla sua sfortuna ‘personale’ [… ]? Oppure si dovrebbe annoverare, tra i veri Tedeschi, tali dilettanti e vecchie zitelle, quale il dolciastro apostolo della verginità Mainländer? [… ] Né Bahnsen, né Mainländer, e tanto meno Eduard von Hartmann danno un appiglio sicuro quanto al problema se il pessimismo di Schopenhauer, il suo sguardo terrorizzato volto a un mondo sdivinizzato, e diventato stolto, cieco, folle e problematico, il suo onesto terrore [... ] non sia stato soltanto un caso eccezionale tra i Tedeschi, bensì un avvenimento tedesco [… ]. No, i Tedeschi di oggi non sono pessimisti! E Schopenhauer fu pessimista, sia detto ancora una volta, come buon Europeo e non come Tedesco”.
Nietzsche, in questo modo, non solo esprime in maniera icastica il suo giudizio su tutti e tre gli esponenti principali della scuola di Schopenhauer, ma rende soprattutto esplicito e valorizzato il significato del pensiero di Schopenhauer nella storia della cultura europea dell’età moderna, considerandolo come la prima filosofia dopo la morte di Dio, ossia come la prima espressione, sebbene ancora embrionale, del nichilismo. E, in tal modo, indica un’efficace linea interpretativa di un fenomeno culturale altrimenti per molti versi inspiegabile: la diffusione del cosiddetto pessimismo filosofico nella Germania dei Gründerjahre. Infatti, mentre in Europa si aggira lo spettro del comunismo, comincia ad avvertirsi la presenza di un ospite forse ancor più inquietante: un ospite chiamato nichilismo.