traditore, traditrice
Designa " colui che compie azioni che menano alla rovina la persona, che si fida "; cfr. Cv IV VII 3 [il] traditore... ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo difetto de la inimistade; si ricordi Fiore XLII 10 sì sarei provato traditore, / ched i' gli ho fatto sacramento e fé. Il falso amico, con il suo atteggiamento e i suoi atti, genera fiducia nell'animo di coloro che lo circondano, mentre in realtà mira a nuocere ad essi. L'azione del t. si caratterizza percio come una decisa scelta contro chi si fida in seguite a tacito o esplicito patto e giuramento di fedeltà (sacramento).
Nell'uso dantesco t. designa Malabocca, il ‛ pubblico dei maldicenti ' (Malabocca... / è traditor: chi 'l tradisce non erra, LXIX 6), che sarà combattuto con astuzia fraudolenta da Falsembiante, il quale si qualifica a sua volta come t. (XCIX 9 i' son traditore, / e per ladron m'ha Dio pezz'ha giuggiato).
Si vedano ancora If XXXIII 8 se le mie [di Ugolino] parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, cioè a Ruggieri; XXVIII 85 Quel traditor che vede pur con uno, Malatestino Malatesta (v. TRADIMENTO); malvagio traditor (XXXII 110) è detto Bocca degli Abati; in Pg XX 104 è ricordato Pigmalion, fratello di Didone, traditore e ladro e paricida. La forma femminile è attestata due volte, riferita alle ricchezze, false traditrici, in quanto non mantengono le promesse fatte (Cv IV XII 4 e 5).
I Traditori nella Commedia. - Categoria di peccatori, dei quali D. precisa la colpa, e la conseguente collocazione nel nono e ultimo cerchio dell'Inferno, in If XI 52-56, 61-66 (La frode... / può l'uomo usare in colui che 'n lui fida / e in quel che fidanza non imborsa. / Questo modo di retro par ch'incida / pur lo vinco d'amor che fa natura / ... Per l'altro modo quell'amor s'oblia / che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, / di che la fede spezïal si cria; / onde nel cerchio minore, ov'è 'l punto / de l'universo in su che Dite siede, / qualunque trade in esterno è consunto), e che poi descrive in modo più particolareggiato in XXXII 1-XXXIV 67, distinguendoli in quattro sezioni: la Caina (t. dei parenti), l'Antenora (t. della patria o della Parte politica), la Tolomea (t. degli ospiti) e la Giudecca (t. dei benefattori o delle somme autorità). Rimandando per le questioni concernenti le singole sezioni alle voci relative, basterà qui accennare ad alcuni problemi di carattere generale.
Per quanto riguarda la definizione della colpa dei t. e in particolare la loro distinzione dai fraudolenti, quel che dice D. stesso, per bocca di Virgilio, nel passo citato, è abbastanza chiaro: mentre la frode consiste nel nuocere con l'inganno a chi ci è congiunto dal generico vincolo di amore creato dalla comune natura umana, il tradimento invece si ha quando si usa la frode contro chi avrebbe anche altre e più specifiche ragioni di fidarsi del traditore, in quanto a lui legato da vincoli di affetto, quali appunto la parentela, la patria o la Parte comune, l'ospitalità, la gratitudine.
Meno facile appare invece stabilire se questa definizione e distinzione sia stata originalmente escogitata da D. stesso o si appoggi almeno in parte a fonti religiose o filosofiche o giuridiche.
Il Busnelli, seguito da altri studiosi, cita, a tale proposito, un passo di s. Tommaso, in cui questi, riecheggiando s. Gregorio Magno, elenca tra i peccati figli dell'avarizia, e più precisamente pone, in fondo a questo elenco, la fraus e la proditio con la seguente distinzione: " si autem dolus committitur opere, sic quantum ad res erit fraus; quantum autem ad personas erit proditio, ut patet de Iuda, qui ex avaritia prodidit Christum " (Sum. theol. II II 118 8): ma, come si vede, si tratta di precedente alquanto generico, poiché la distinzione del filosofo è fondata su un criterio diverso da quello del poeta.
Meno improbabile, invece, che, per quanto riguarda la speciale gravità dei peccati di tradimento, D. abbia tenuto presente (come pure pensa il Busnelli) Aristotele, che ritiene colpevole di " iniuria " particolarmente grave colui che " multa iusta evertit, aut contempsit: iusiurandum, datam dexteram, hospitium, fidem, affinitates: multorum namque criminum exaggeratio fit ... Summa est iniuria, si eum laedit qui de se bene meritus est: plura namque peccat, quod non bene facit et quod male " (Rhet. I 14; trad. Trapezunzio, Venezia 1550, f. 10); e anche il commento, a questo luogo, di Averroè, dov'è precisato, fra l'altro, che " maximae iniuriae est dolo uti in confidentes... Et periurium et foederis violatio et consimilia his ex rebus quae narrantur scriptis historiis... Et turpior esset dolus et iniuria, quando fierent illi a quo praecesserit beneficentia illi qui dolum commiserit et iniurius fuerit " (I 15; ediz. cit., f. 42).
Non si dovrà in ogni caso dimenticare che, a giudicare il tradimento come peccato particolarmente condannabile, D. può essere stato spinto anche dall'orrore suscitato nei suoi contemporanei e in lui stesso dai numerosi delitti a tradimento che allora venivano compiuti, soprattutto per ragioni politiche: un orrore che si riflette anche nei dizionari giuridici medievali, in cui il tradimento è considerato come " un delitto speciale, quale oggi è contemplato solo per alcuni crimini contro lo stato " (Jannaco, Scritti, p. 38).
Poco agevole appare altresì determinare i criteri a cui D. si è ispirato per la distinzione e graduazione interna delle varie specie di tradimento, corrispondenti alle quattro sezioni in cui è diviso il nono cerchio. Il Busnelli richiama anche in questo caso i passi sopra citati di Aristotele e di Averroè: ma, a parte l'accenno alla maggiore gravità del dolus e dell'iniuria quando siano commessi contro i benefattori, per il resto le corrispondenze appaiono generiche o discutibili. E ancor meno persuasivi sembrano i tentativi, compiuti da altri, per mettere in rapporto la graduazione dantesca dei vari tradimenti con quella tra i vari generi di charitas che viene proposta da s. Tommaso (Sum. theol. II II 26): il quale invece afferma, per esempio, che bisogna amare sopra gli altri, dopo Dio, i propri consanguinei (ibid. 8), e che il benefattore in certi casi dev'essere amato meno del beneficato (ibid. 12).
Né convince l'opinione, esposta dal Filomusi Guelfi, che D. abbia tenuto conto unicamente della condizione della persona contro cui si commette il tradimento. Più attendibile, anche perché concorda con alcuni motivi fondamentali dell'etica dantesca, l'ipotesi di Iacopo (seguito dalle Chiose Selmi, dall'Ottimo e dal Buti), il quale, senza cercare conferme in fonti specifiche, ritiene che D. abbia posto nelle prime due sezioni, come meno colpevoli, i t. di vincoli naturali di amore quali la famiglia e la patria, e nelle due ultime i t. di vincoli affettivi assunti volontariamente, quali l'ospitalità e la gratitudine: ipotesi ripresa e precisata in modo abbastanza persuasivo (a parte la discutibilità della designazione dei peccatori dell'ultima zona) dal Chimenz: " la distribuzione... risponde a un criterio ideale di giustizia... altamente morale e sociale. Il vincolo di sangue è fondamentalmente un fatto di natura, indipendente dalla volontà dell'individuo, e perciò chi tradisce i congiunti è, per D., meno colpevole di chi tradisce la patria o la parte, il quale viola un vincolo sociale da lui liberamente accettato, anche se determinato parzialmente da condizioni esterne. Più colpevole ancora chi tradisce l'ospite, in quanto vìola un vincolo creato interamente dal proprio libero arbitrio, qual è quello dell'amicizia. Di tutti il più colpevole chi tradisce il rappresentante della maestà sia divina che umana... e infatti chi tradisce coloro che sovraintendono al reggimento spirituale della società, non solo offende nel modo più abominevole Dio e tutta la società... ma scalza addirittura i fondamenti della società stessa ".
Sulla determinazione del contrapasso, cioè del rapporto tra la colpa commessa dai t. e la loro pena generale, che consiste nell'essere immersi più o meno profondamente nella ghiaccia di Cocito (su ciò cfr. la voce COCITO), c'è accordo pressoché unanime tra gl'interpreti, sia antichi che moderni. Particolarmente precisa e chiara la spiegazione di Benvenuto, il quale, dopo aver ricordato che " ardor amoris et amor caritatis figuratur semper in igne, qui est calidus, levis et purus et tendit semper ad altum ", afferma che giustamente, " per oppositum, istud crudele odium proditionis reponitur in glacie, quae est frigida, gravis, semper deorsum tendens, et fit ex aqua, quae est colamentum omnium aquarum infernalium, ad denotandum quod omnis calor amoris et humanitatis est extinctus in duro et frigido corde proditoris, et quod istud peccatum praegravat omnia alia mundi, ita quod proditio rectissime inimicatur et contrariatur et dilectioni et pietati ".
Per quanto riguarda la rappresentazione artistica dei t. si vedano le voci relative alle singole zone del cerchio nono, e soprattutto ai singoli dannati in esse compresi. Sarà tuttavia qui opportuno accennare almeno al fatto che prima di cominciare la descrizione del cerchio dei t., in If XXXII 1-15, D. sente il bisogno d'indicare egli stesso al lettore i criteri a cui s'ispirerà la sua arte appunto nel descrivere quel cerchio, il suo proposito di esprimere il sentimento di estremo disgusto suscitato da una categoria di peccatori sopra tutte spregevole (Oh sovra tutte mal creata plebe / ... mei foste state qui pecore o zebe!, vv. 13-15), mediante rime aspre e chiocce, uno stile cioè in cui, più sistematicamente che negli altri canti dell'Inferno, tornino immagini ruvide e bestiali, un lessico violentemente espressivo e plebeo, ritmi stridenti e dissonanti: un proposito a cui risponde in effetti organicamente, pur attraverso una ricchissima varietà di gradazioni, tutta la rappresentazione del nono cerchio.
Bibl. - Sulla caratterizzazione etica dei t. e sulla loro suddivisione e graduazione si vedano: G. Busnelli, " L'Etica nicomachea " e l'ordinamento morale dell'" Inferno ", Bologna 1907, 139-147; L. Filomusi Guelfi, Studii su D., Città di Castello 1908, 99-100, 115-116; M. Baldini, La costruzione morale dell'" Inferno " di D., ibid. 1914, 255-269; A.H. Gilbert, Dante's Conception of lustice, Durham 1925, 108-111.
Tra le letture del canto XXXII dell'Inferno toccano qualcuno dei problemi qui discussi quelle di D. Mantovani, Firenze 1907; A. Messeri, ibid. 1917; A. Barbadoro, ibid. 1931; A. Chiari, in Lett. dant., ibid., 163-193; C. Grabher, Firenze 1940 (poi in Lett. dant. 613-625); C. Jannaco, Scritti di letteratura italiana, ibid. 1953, 45-58; A. Pézard (1959), in Lect. Internazionale, Inferno, Milano 1963, 308-342; G. Varanini, Firenze 1962; M. Puppo, in Nuove Lett. III 131-142.