TRADIZIONE (lat. traditio, "consegna")
La tradizione è nettamente separata dalla storia soltanto in seguito alla critica razionalistica del Seicento. E allora che si pone in discussione l'autorità degli storici classici e si comincia a esigere, per la storia, la garanzia del documento. Solamente con G. B. Vico si giunge a un atteggiamento meno severo verso la tradizione: egli pone le "volgari tradizioni" accanto alle favole, ma si pone a cercare in esse le testimoniame della vita preistorica delle nazioni. Dopo di lui è soprattutto G. B. Niebuhr, che le sottopone ad analisi critica per trarne gli elementi per la ricostruzione della primitiva storia romana. In tempi recenti la "verità" della tradizione, anzi del mito storico, è stata affermata dal gruppo formatosi intorno al poeta tedesco St. George (F. Gundolf, E. Kantorowicz, E. Bertram).
Una consapevole e sistematica lotta contro la tradizione è all'origine del mondo moderno. All'epoca di Bacone, Cartesio e Galilei, nel campo filosofico e scientifico, corrisponde, nel campo politico e giuridico, l'azione delle monarchie, che violano le antiche consuetudini giuridiche e le "libertà" feudali in nome della "ragion di stato", sovvertono i tradizionali "privilegi" delle corporazioni con l'intervento mercantilistico, sostituiscono l'esercito stanziale alle tradizionali milizie feudali, unificano e accentrano l'amministrazione secondo un programma nazionale. La lotta s'intensifica nel Settecento con le riforme dei "principi illuminati". La borghesia, che nella tradizione scorge la fonte d'ogni abuso e privilegio, appoggia quest'opera. "Ragione", "Natura", "diritto naturale" sono i concetti impiegati dai filosofi in questa polemica antitradizionalistica. Di essa il campione è Voltaire, mentre il ritorno allo stato di natura, predicato dal Rousseau, ne è l'espressione più radicale.
Tuttavia già nel corso del Settecento si nota una vivace reazione contro gli arbitrî delle riforme razionalistiche e contro lo stato burocratico e accentratore. Montesquieu, membro della noblesse de cabe, insiste sulla dipendenza delle istituzioni dall'ambiente; l'abate Galiani deride l'astrattezza e il semplicismo dei riformatori; J. Möser si oppone ai "piani generali" in nome dell'individualità storica dei corpi politici e ha il gusto della tradizione locale; A. Ferguson indica il valore del comune "sentimento politico" nella formazione delle istituzioni; J. G. Herder conferisce al senso della tradizione carattere polemico di difesa della vita popolare, nella sua freschezza e spontaneità, contro il despotismo militare-burocratico fridericiano; A. de Giuliani critica le riforme giuseppine. Per reazione allo sviluppo enorme degli affari, della banca, della ricchezza, la società inglese è presa, nella seconda metà del Settecento, dal gusto per le pittoresche rovine, per il gotico, per le leggende e tradizioni medievali. Questa moda letteraria fornisce le armi a E. Burke nel momento in cui la lotta antitradizionalistica si esaspera ed esplode nella Rivoluzione francese. Contro il "secolo dei copisti, economisti e ragionieri" Burke esalta la tradizione cavalleresca, fatta di disinteresse,. sentimento dell'onore, dignità nell'obbedienza, devozione e fedeltà. I romanzi di W. Scott diffondono in tutta Europa tale spirito.
Con la Restaurazione la tradizione è intesa come tradizione cattolica, monarchica e feudale. Chateaubriand scioglie un inno alle tradizioni cattoliche della vecchia Francia; F. Schlegel dichiara che è tanto più "vera" una nazione quanto più è fedele alla sua tradizione, cioè alla sua struttura medievale; F. Gentz e A. Müller riducono il rispetto della tradizione a stagnante conservazione monarchica; J. Haller celebra la tradizione feudale contro l'idea moderna, sovvertitrice, dello "stato".
Tuttavia il concetto della tradizione diventa ben presto un motivo rivoluzionario. Un patriota tedesco, K.F. Eichhorn, dà ai Tedeschi la coscienza della loro unità nazionale, indipendente dalla pluralità dei loro stati, descrivendo la lenta formazione delle loro tradizioni giuridiche; J. Grimm, con la sua grammatica storica dellaa lingua tedesca, dà loro la coscienza della loro unità spirituale e, descrivendo le antiche consuetudini germaniche, inizia la cosiddetta "storia della cultura". L'idea delle "tradizioni germaniche" passa in Inghilterra dove provoca la polemica, protrattasi lungo l'intero Ottocento, sul calore delle tradizioni anglosassoni nella società inglese.
Della forza della tradizione hanno pure coscienza i patrioti italiani, a cominciare da V. Cuoco, che nell'offesa recata a essa indica la causa del fallimento della repubblica partenopea. I neoguelfi cercano di adeguare il loro programma politico alla tradizione italiana, che considerano comunale e cattolica. C. Cattaneo si appella alla tradizione municipale, G. Mazzini alla tradizione romana e repubblicana.
Nella seconda metà dell'Ottocento la tradizione è esaltata dai critici della democrazia e del radicalismo. T. Carlyle oppone al capitalismo, al socialismo, al parlamentarismo le tradizioni gerarchiche e ascetiche del Medioevo. H. Taine, E. Renan, G. Sorel denunciano come un crimine e come l'origine di tutti i mali della loro patria la distruzione della grande tradizione francese compiuta dai giacobini. F. Dostoevskij si erge a difensore della tradizione cristiana della vecchia Russia contro la "civiltà" materialistica dell'Occidente. M. Barrès denuncia gli intellettuali staccati dalle tradizioni paesane, e celebra i misteriosi legami del suolo e del sangue. Da questo concetto mistico-biologico della tradizione i razzisti tedeschi trarranno il mito del movimento nazionale-socialista.
In generale sono i nazionalismi contemporanei che si battono per la difesa o la rinascita della tradizione. R. Kipling cantò le tradizioni coloniali britanniche. Ch. Maurras si appella alla tradizione classica francese che fa coincidere, nel campo politico, con la tradizione dell'ordine monarchico. B. Mussolini ispira la propria azione, pur così originale, alla tradizione imperiale romana.
Teologia cattolica.
Nell'uso della Chiesa, "tradizione" designa quella notizia che concerne la fede o la morale, trasmessaci da prima oralmente, sebbene poi sia stata conservata anche per iscritto. E in questo senso, più ristretto e teologicamente più proprio, la tradizione va distinta dalla Scrittura sacra (tradizione obiettivamente considerata): e rispetto alla sua origine, se ha Dio per autore immediato, è divina; se viene dal potere concesso da Dio alla Chiesa, si dice ecclesiastica. E poiché gli Apostoli talora operarono da semplici promulgatori della rivelazione divina, talora da pastori o reggitori della Chiesa, la tradizione da loro proveniente può essere apostolico-divina (nel primo caso); ovvero apostolico-ecclesiastica (nel secondo caso). La prima è perpetua e immutabile; non così la seconda, derivando dalla podestà pastorale che passa con la medesima pienezza da S. Pietro nei suoi successori. Ed è mutabile quest'ultima, quando riguarda segnatamente l'ordine disciplinare, come le ordinazioni ecclesiastiche circa le feste, i digiuni e simili. Così, quanto alla materia, le tradizioni ecclesiastiche si distinguono in dogmatiche e morali; mentre le divine non ammettono questa distinzione se non in senso formale, cioè di concetti o rispetti diversi di una cosa stessa; giacché ciò che è divinamente tramandato spetta all'oggetto della fede: è da credersi in quanto è vero, da praticarsi in quanto è bene.
Le tradizioni divine - che si dicono anche ecclesiastiche, in quanto custodite e trasmesse per organo della Chiesa - sono quelle di cui per lo più trattano i documenti ecclesiastici. Tali la professio fidei Tridentina (imposta da Pio IV, il 13 novembre 1564), il Decreto tridentino (Sess. IV, dell'8 aprile 1548): il quale insegna "la verità" (dogmatica) e la disciplina (morale) essere contenuta del pari nei libri scritti (Sacra Scrittura) e nelle tradizioni senza scritto, dalla bocca stessa di Cristo ricevute dagli Apostoli e dai medesimi Apostoli, per dettame dello Spirito Santo, trasmesse quasi di mano in mano e pervenute fino a noi". Il Tridentino dichiara perciò che "accoglie e venera con pari affetto di pietà e riverenza tutti i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, come le tradizioni stesse, sia spettanti alla fede sia alla morale, siccome dettate da Cristo a voce, o dallo Spirito Santo suggerite, e conservate per continuata successione dalla Chiesa Cattolica".
Il Concilio mette così tra le fonti della rivelazione divina e perciò come "regola di fede" la tradizione, al pari della Scrittura; anzi più avanti vuole che la stessa Scrittura sacra "non sia mai interpretata contrariamente alla tradizione, cioè a dire, contro quel senso che tenne e tiene la Santa Madre Chiesa, alla quale spetta il giudicare del vero senso e dell'interpretazione delle Scritture sante, o anche contro l'unanime consenso dei Padri", come quello che è pure indizio sicuro della tradizione. E infatti, la storia tutta della rivelazione divina ci mostra che questa viene comunicata ai popoli anzitutto per via della tradizione, sia nell'Antico Testamento - né solo prima della legge scritta di Mosè, ma anche dopo - sia nel Nuovo, come appare nella primitiva promulgazione del Vangelo, avvenuto mediante la predicazione - Euntes docete - e dalla positiva raccomandazione degli Apostoli di accogliere e conservare questa predicazione o tradizione, anteriore a tutti gli scritti o libri sacri [cfr. fra le varie lettere di S. Paolo, Rom., XVI, 17; e specialmente II Tintoteo, I, 13; Il, 1 segg.).
Da questi e da altri passi della Scrittura medesima viene dunque ripudiato, come fu poi condannato dal Concilio tridentino, l'errore dei protestanti, i quali escludono la tradizione dalle fonti della rivelazione divina, ponendo per unica regola di fede la Scrittura sacra, interpretata secondo il principio del "libero esame" a grado di ciascuno. L'errore è del resto evidente per la semplice considerazione che l'esistenza stessa, l'autorità e il numero dei Libri sacri ci sono noti solo per la tradizione; onde a questa debbono per forza ricorrere i protestanti stessi che la negano, smentendosi da sé per il loro presupposto esclusivo, che riesce infine a scalzare l'autorità medesima della Bibbia. Parecchi protestanti moderni perciò hanno cercato di attenuare queste negazioni.
Ai nostri giorni, poi, senza negarla apertamente, vengono a distruggere egualmente la tradizione i modernisti, col loro soggettivismo o immanentismo, stravolgendo tutto il concetto della tradizione, quasi fosse una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli altri, mercé la predicazione, per mezzo della formula intellettuale", a cui essi attribuiscono poi, oltre al valore rappresentativo, una cotale efficacia di suggestione sui credenti e su quelli che ancora non credono. Le loro conclusioni, filosoficamente e storicamente insussistenti e teologicamente ereticali, sono state perciò condannate nel decreto Lamentabili e poi dall'enciclica Pascendi (1907).
Bibl.: A. M. Vellico, La Rivelazione e le sue fonti nel "De praescriptione haereticorum" di Tertulliano, Roma 1935; R. Bellarmino, De controversiis, I: De Verbo Dei scripto et non scripto, Venezia 1721; C. Schrader, De theologico testium fonte... seu traditione, Parigi 1878; J. B. Franzelin, Tractatus de divina Traditione et Scriptura, Roma 1870; H. Pinard de la Boullaye, L'héritage de Jésus, Parigi 1935; id., L'Écriture sainte est-elle la régle unique de la foi?, in Nouvelle revue théologique, Lovanio 1936 (settembre-ottobre); J. Madoz, El concepto de la tradición en S. Vicente de Lerino, Roma 1933. Per le tradizioni popolari, erroneamente dette ecclesiastiche, cfr. F. Savio, I papi e le tradizioni religiose popolari, Monza 1909.
Per le tradizioni popolari, v. folklore.