tragedia
Il primo esempio del termine ricorre nel passo del Convivio che esalta la nobiltà del latino come lingua ormai fissata dalla grammatica e quindi trasmessa di generazione in generazione senza alcun mutamento: lo latino è perpetuo e non corruttibile... Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo (I V 8). La seconda occorrenza si ha nella definizione che Virgilio dà dell'Eneide come dell'alta mia tragedia (If XX 113).
Senza entrare nel merito della dottrina degli stili (v.), per rendersi ragione del valore del termine occorre richiamarsi alla teoria enunciata in VE II IV 5-7 Deinde in hiis quae dicenda occurrunt debemus discretione potiri, utrum tragice, sive cornice, sive elegiace sint canenda. Per tragoediam superiorem stilum inducimus, per comoediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Si tragice canenda videntur... assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem [oportet] ligare.... Stilo equidem tragico tunc uti videmur, quando cum gravitate sententiae tam superbia carminum quam constructionis elatio et excellentia vocabulorum concordat. Nella terminologia dantesca, come del resto nella tradizione medievale, t. è dunque ogni componimento poetico caratterizzato dalla gravità dell'argomento, dalla sublimità dello stile e dall'eccellenza del linguaggio; e poiché questi caratteri stilistici appaiono evidenti nell'Eneide, anche il poema virgiliano può essere chiamato così. Per le stesse ragioni, è lecito supporre che nel passo del Convivio, oltre che a vere e proprie commedie e t. antiche, D. alluda anche a opere latine che tali non possono essere definite secondo la terminologia moderna.
Tuttavia nell'epistola a Cangrande (Ep XIII 28-31), D. aggiunge altre considerazioni, contrapponendo comoedia e tragoedia: per i problemi connessi, vedi Commedia: Titolo. Si aggiunga, a segnare il trapasso dal De vulgari alla Commedia, l'ulteriore precisazione, data appunto nell'epistola a Cangrande, della ragione stilistica: Si... ad modum loquendi [respiciamus], remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et mulierculae comunicant; pare cioè che D. giunga a identificare il parlare comico con la locutio vulgaris, comico in quanto volgare. E così nella risposta a Giovanni del Virgilio. Se insomma lo sacrato poema (Pd XXIII 62), il poema sacro (XXV 1), da cui D. attende ormai l'alloro poetico, può essere avvicinato a opera di qual si sia comico o tragedo (XXX 24), e per contrario si allude al poema virgiliano con l'espressione solitamente usata per la poesia volgare (ciò c'ha veduto pur con la mia rima, If XIII 48), si può ben fare l'ipotesi che l'opposizione dei due termini sia sempre più sentita come un fatto di lingua: " la tragedia latina di Virgilio, la Comedia volgare di Dante " (I. Baldelli, Sulla teoria linguistica di D., in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 710-713).
Per l'accentazione, v. Parodi, Lingua 234, e P. Rajna (Il titolo del poema dantesco, in " Studi d. " IV [1921] 6-9), il quale, concludendo, afferma: " Alla derivazione dal greco è dunque dovuta, secondo un convincimento meritevole di pienissimo assenso, l'accentazione comedía, tragedía, a cui Dante si uniforma. Avrebbe anche potuto profferire, e volere che si profferisse, comèdia, tragèdia: ve lo incitava Orazio colla Poetria; glielo consentiva, a tacer d'altri, Uguccione, del quale le Magnae Derivationes furono a lui familiari. Preferì attenersi al sistema più seguito e più dotto ".