TRAGEDIA
. Origine. - È una delle questioni più oscure e più dibattute negli ultimi tempi. La parola τραγῳδία ("tragedia") è attica, mentre δρᾶμα ("dramma") è parola peloponnesiaca; l'etimologia è incerta, benché siano evidenti le parole da cui deriva (τράγος "capro", ᾠδή "canto"). Secondo un'interpretazione che risale agli Alessandrini del sec. III a. C. e che dominò incontrastata fino a qualche tempo fa, tragedia significherebbe "canto per il capro": sia che s'intendesse, poi, il capro come premio della gara di canto (Orazio, Arte poetica: carmine qui tragico vilem certavit ob hircum), sia che s'intendesse "canto per il sacrificio d'un capro". Secondo, invece, un'altra etimologia, certo più antica della precedente, che tra i moderni fu risuscitata la prima volta dal Bentley, tragedia significherebbe "canto dei capri", cioè di attori mascherati da capri (τράγοι): tale etimologia è attestata nell'Etymologicum Magnum (764, 6): "per lo più i cori erano composti di satiri, che chiamavano capri". Le due etimologie rivelano due concezioni diverse dell'origine della tragedia: la seconda, aristotelica, riconnette l'origine della tragedia con i satiri del dramma satiresco; la prima, più tarda, separa nettamente il dramma satiresco dalla tragedia.
Aristotele, nella Poetica, dà sull'origine della tragedia quasi le sole notizie antiche che si posseggano. Ma esse sono molto sobrie e molto scarse, poiché Aristotele parlava a chi era in grado di comprendere i suoi rapidi accenni meglio che non riesca a noi. Egli ci informa che la tragedia, come la commedia, da principio era improvvisata, e che ebbe origine da "quelli che intonavano il ditirambo", come la commedia "da quelli che intonavano i canti fallici". Questo è, per noi moderni, se non per gli antichi, spiegare obscurum per obscurius, poiché del ditirambo sappiamo assai poco. Aristotele accenna, poi, a "molti mutamenti" che la tragedia ebbe "finché non raggiunse la sua forma naturale" per il numero degli attori, per l'estensione, per lo stile, il metro, la disposizione degli episodî. Incidentalmente afferma che, in origine, la tragedia era tutt'una cosa col dramma satiresco: a proposito dello stile tragico, che "per lo svilupparsi della tragedia dal dramma satiresco tardi divenne severo". E così pure il metro originario non era il trimetro giambico, era il tetrametro trocaico "per essere la poesia satiresca e maggiormente orchestica". Di aver dato origine alla tragedia, come alla commedia, si vantarono i Dori: Aristotele non si pronunzia esplicitamente, ma sembra non aver nulla da obiettare contro la legittimità del vanto.
I critici moderni hanno cercato d'interpretare e integrare Aristotele; oppure hanno messo da parte le sue testimonianze, tentando nuove vie, assolutamente diverse. Interpretando Aristotele, si è detto che la tragedia avrebbe avuto origine non dal ditirambo attico, ma dal ditirambo peloponnesiaco: in Attica, Dioniso non è accompagnato da un corteo di satiri, ma da un corteo di Sileni, e i Sileni, rappresentati nell'arte figurativa con le code di cavallo, non si possono confondere con i satiri. La connessione col ditirambo è avvalorata anche dalla notizia di Suida, che Arione "l'inventore" del ditirambo, sarebbe anche l'"inventore del modo tragico", e dalla testimonianza di Giovanni Diacono, un oscurissimo commentatore di testi di retorica, che Arione avrebbe scritto la prima "tragedia" e che la cosa sarebbe già ricordata da Solone in un'elegia. Erodoto di Arione aveva detto (I, 23): "primo degli uomini, per quanto io sappia, compose un ditirambo, diede al suo carme questo nome, e lo insegnò a un coro in Corinto". Le notizie vanno interpretate in un unico senso possibile. Arione, per il primo, sostituì ai soliti coreuti del ditirambo i satiri peloponnesiaci. Fantasticare, come han fatto alcuni moderni, di "ditirambi tragici", di "tragedia lirica", non è lecito, perché non ha senso. Il ditirambo era, s'intende, più antico di Arione: il nome è già in Archiloco, in un frammento che doveva appartenere proprio a un ditirambo.
La derivazione del ditirambo peloponnesiaco sembrò confermata dalla scoperta dei carmi bacchilidei chiamati "ditirambi" nel papiro, nei quali l'elemento dialogico è sviluppatissimo (per es., il Teseo è tutto un dialogo cantato fra Egeo e il coro, per raccontare la venuta del giovane Teseo in Atene). E in realtà l'origine peloponnesiaca sembra confermata, oltre che dalla testimonianza aristotelica, dalla leggiera patina dorica che riveste il linguaggio dei cori nella tragedia attica, e dall'origine peloponnesiaca attribuita ai vecchi poeti del dramma satiresco, Pratina e Aristia (di Fliunte). Inoltre, una testimonianza di Erodoto parla di "cori tragici" che avevano luogo a Sicione, in onore dell'eroe Adrasto: questi cori furono dal tiranno Clistene tolti ad Adrasto e assegnati a Dioniso. I "cori tragici", a cui Erodoto allude, hanno, naturalmente, ben poco a che fare con la tragedia: dovevano esser cori di τράγοι, non diversi da quelli che Arione istruiva a Corinto.
La connessione della tragedia col dramma satiresco è provata, oltre che dall'attestazione precisa di Aristotele, da tre passi di drammi satireschi (Eschilo, Prometeo satiresco, fr. 207; Sofocle, I segugi, 358; Euripide, Ciclope, 80), che sono da interpretare nettamente in favore dell'identificazione dei satiri con i τράγοι. Non è poca cosa, se si pensa alla grande scarsezza delle reliquie da noi possedute del dramma satiresco; ogni tentativo di toglier valore a questi passi può dirsi fallito.
La connessione della tragedia col dramma satiresco è inoltre avvalorata dalla coesistenza delle due forme d'arte in una stessa tetralogia. Con la tetralogia, composta di tre tragedie e un dramma satiresco, è già avvenuta la separazione fra tragedia e dramma satiresco, tra le forme di arte seria e quella burlesca; ma la connessione dimostra pur sempre l'affinità, e soprattutto è un residuo dell'antica identità: tanto più che lo stesso coro serviva per le tre tragedie e per il dramma satiresco. Qualche volta una tragedia vera e propria come l'Alcesti di Euripide, sostituiva, nella tetralogia, il dramma satiresco: altra prova di affinità tra le due forme poetiche. Infine, qualche traccia del "linguaggio satiresco" della più antica tragedia, possiamo scoprirla ancora in qualche scena delle Supplici eschilee, nella ricostruzione dell'Alcesti di Frinico, perfino in un passo dell'Aiace sofocleo: è questa la diretta e migliore conferma della testimonianza aristotelica.
Affermare che la tragedia ha avuto origine dal ditirambo, vuol dire affermarne l'origine dionisiaca. Il ditirambo è un antico canto dionisiaco, come mostra il suo ultimo studioso, il Pickard-Cambridge ("bel canto di Dioniso signore" lo chiamava già Archiloco). L'origine dionisiaca può essere avvalorata dalla connessione delle rappresentazioni tragiche con le feste dionisiache, in special modo con le Lenee e le Grandi Dionisie, connessione che si è tentato, ma senza fortuna, di dimostrare secondaria. E una tragedia come le Baccanti euripidee, innegabilmente arcaizzante, può dare qualche idea del fervore dionisiaco che dové ispirare le prime tragedie: alcune di esse (non è per nulla necessario che fossero tutte) celebravano fatti della "storia sacra" di Dioniso.
In questi ultimi anni si è venuta determinando una vivace reazione contro le opinioni tradizionali. Il primo a sostenere una nuova teoria (precorso, in parte, dal Rohde e dal Dieterich, che volevano connettere l'origine della tragedia con i misteri) fu Guglielmo Ridgeway, che nel suo libro The origin of tragedy with special reference to the Greek tragedians si staccò nettamente da Aristotele, facendo risalire l'origine della tragedia alle danze mimiche in onore degli eroi (morti illustri, divinizzati). Tracce di queste danze mimiche in cui gli attori sembrano portare maschere di pelli di animali, furono trovate nei monumenti micenei. D'altra parte, il Ridgeway, dallo studio del carnevale moderno in Tracia e in Tessaglia, dove credé trovare sopravvivenze di tali danze, e da una vastissima comparazione con popoli primitivi d'ogni regione (dell'India, del Tibet, della Mongolia, perfino della Polinesia), dedusse che in origine la tragedia fu essenzialmente la celebrazione d'un morto attorno ad una tomba. Una riprova della teoria dovrebbe esser data dallo studio della sopravvivenza del tipo primitivo nelle tragedie greche rimasteci (riti funebri, libazioni, preghiere intorno a una tomba, ecc.).
Soltanto più tardi, diffusosi il culto di Dioniso nella Grecia, sarebbe avvenuta la sovrapposizione del dio agli antichi eroi: un esempio lo troveremmo proprio nella testimonianza erodotea della sostituzione di "cori tragici" in onore di Dioniso a quelli in onore di Adrasto. I villaggi dell'Attica avevano ciascuno il suo eroe locale: il culto di Dioniso sarebbe così rimasto legato a queste feste locali, come a Sicione. Diverso dalla tragedia sarebbe il dramma satiresco, di un'origine del tutto differente, che rappresenterebbe davvero l'unico vero elemento dionisiaco delle rappresentazioni teatrali ateniesi. Il dramma satiresco sarebbe stata la celebrazione del nuovo dio, che adempiva, per la vegetazione, alla stessa funzione degli antichi eroi.
La teoria del Ridgeway ha suscitato, naturalmente, opposizioni, consensi, discussioni infinite: a queste hanno preso parte, più che i filologi, antropologi, storici delle religioni, persino psicanalisti. La teoria del Ridgeway è stata in vario senso modificata, attenuata: notevolissima è la teoria conciliatrice di M. Nilsson, che fa nascere la tragedia da un'unione del culto di Dioniso con le lamentazioni funebri. Alle nuove idee si possono muovere obiezioni gravissime.
Prima di tutto, il dispregio della tradizione è ingiustificato. Aristotele aveva studiato la tragedia a lungo: se anche non leggeva più drammi del sec. VI (i cosiddetti "drammi di Tespi" erano falsificazioni posteriori), non poteva ingannarsi grossolanamente su alcuni punti fondamentali: per esempio, sulla sostanziale affinità fra tragedia e dramma satiresco. Si è affermato che l'origine della tragedia dal ditirambo sarebbe una semplice "congettura" di Aristotele, che lo sviluppo della tragedia sarebbe, in lui, "una costruzione razionalistica". Ma, in realtà, Aristotele non espone congetture sue, né ha mai tono polemico: egli afferma cose generalmente ammesse da tutti, o dà i risultati di ricerche sue o anteriori a lui. È dunque un errore fare minor conto di Aristotele che del carnevale della Tracia dei nostri giorni.
Inoltre, la nuova teoria non spiega perché e come il culto di Dioniso si sarebbe sovrapposto a quello degli eroi, perché Clistene abbia sostituito al culto di Adrasto proprio il culto di Dioniso, e non quello di un altro eroe come Adrasto. Il problema delle origini della tragedia non sarebbe, dunque, risolto, ma soltanto spostato, ammettendo che la teoria sia giusta, e la nuova teoria si troverebbe in un imbarazzo almeno uguale a quello della teoria dionisiaca.
Infine, uno dei punti più deboli della nuova ipotesi è la netta separazione fra tragedia e dramma satiresco, quando tutto sembra confermare l'affinità, cioè la testimonianza aristotelica. Una volta riconosciuta, come la nuova teoria riconosce, l'origine dionisiaca del dramma satiresco, non si ha più il diritto di obiettare che le tragedie conservate si riferiscono poco o nulla a Dioniso: proprio lo stesso avviene per il dramma satiresco, come appare dai drammi satireschi e dai frammenti rimastici.
Le nuove teorie, comunque, non sono state affatto inutili: hanno servito a richiamare l'attenzione sulla povertà della nostra tradizione, sulle difficoltà enormi, alle quali si va incontro, ogni volta che si cerca d'integrare le irrimediabili lacune, e hanno indotto a maggior cautela nell'interpretazione delle poche notizie tradizionali. E alcune obiezioni minori sono giuste: che il capro non sia, in origine, strettamente connesso con Dioniso, che il costume dei τράγοι non era in tutto uguale a quello dei satiri, ecc. Chi voglia oggi riesaminare tutta la tradizione, senza toglierle ogni fede, deve tener conto di queste cose. Così, nessuno, oggi, ripeterà più che le tragedie più antiche mettevano in scena unicamente o prevalentemente fatti della "passione" di Dioniso. Una tesi simile non è assolutamente provata, ma neppure necessaria per credere all'origine dionisiaca, se già Bacchilide scriveva ditirambi senza Dioniso. E converrà pure ammettere che i τράγοι di Tespi non erano in tutto e per tutto identici ai satiri di Pratina. Al posto dei τράγοι nel dramma satiresco vero e proprio, che, possiamo dire, cominciò con Pratina, furono sostituiti i satiri. I τράγοι sono dunque non i satiri, ma i predecessori dei satiri: che non si debbano identificare del tutto, nonostante le affinità, prova la stessa opposizione conservata dei nomi: τράγοι per la tragedia di Frinico, σάτυροι per il dramma satiresco di Pratina. E tragedia è "canto dei τράγοι", non dei satiri, perché i cori erano formati di τράγοι, soltanto nel successivo dramma satiresco sostituiti dai satiri. Ma le affinità sono ugualmente innegabili: altrimenti, non ci sapremmo assolutamente spiegare le identificazioni degli antichi.
Altra difficoltà innegabile è il passaggio dal duetto cantato del ditirambo bacchilideo al dialogo recitato della tragedia. Bisogna pur riconoscere che il passaggio dai versi lirici, accompagnati dalla musica, al tetrametro e al trimetro recitati, è ancora inspiegato.
Sviluppo della tragedia greca classica. - La tradizione racconta che in Atene le rappresentazioni tragiche furono portate da Tespi, del demo attico d'Icaria, presso Maratona: Tespi sarebbe stato il primo tragediografo, cioè "l'inventore della tragedia". La prima rappresentazione drammatica sarebbe avvenuta nell'Olimpiade 61 (536-533 a. C.): il Marmo di Paro ha la data 535. Tespi non è nominato da Aristotele, ma di lui ci dà notizie Suida, che accenna a un'altra tradizione, secondo la quale il primo tragediografo sarebbe stato Epigene di Sicione. Alla personalità storica di Tespi, se non a quella di Epigene, non vi è ragione per non credere. A Tespi si attribuisce il merito di avere introdotto il primo attore, cioè di avere staccato un attore dal coro. Non è senza ragione che "attore" in greco si dica ὑποκριτής "risponditore": la sua più antica funzione è quella stessa del re Egeo nel Teseo di Bacchilide. E non troppo diverse dal ditirambo bacchilideo dobbiamo immaginarci le "tragedie" di Tespi.
Si esce dalla preistoria con Frinico, "scolaro", cioè successore, di Tespi, di cui si celebravano e ricordavano ancora i "dolci canti" al tempo di Aristofane: il commediografo ne celebra la bellezza del corpo, il lusso nel vestire, l'arte delle tragedie. Con Frinico, per la prima volta, la tragedia dové cominciare ad attenuare i suoi tratti burleschi, proprio mentre Pratina sviluppava dallo stesso nucleo originario il dramma satiresco vero e proprio, nel quale quei tratti erano accentuati. Così le due forme di arte si svilupparono contemporaneamente ad Atene per opera di due poeti notevolissimi. Purtroppo, di Frinico, attraverso le scarse notizie e gli scarsissimi frammenti, possiamo intuire soltanto confusamente la grandezza. Dové essere novatore audace: portò nella scena il primo dramma storico, La presa di Mileto, facendo piangere gli Ateniesi col ricordo di una sventura recentissima del patriottismo nazionale greco. Molto notevole è anche che Euripide, nella sua Alcesti, seguì abbastanza da vicino, sia pure infondendovi uno spirito molto diverso, il dramma omonimo di Frinico.
La storia vera e propria della tragedia comincia, per noi, con Eschilo, giustamente riconosciuto dall'opinione generale come il più grande genio drammatico, insieme con Shakespeare, della letteratura mondiale. "Eschilo", dice Aristotele, "diminuì la parte del coro, e fece protagonista il dialogo". E a lui attribuisce l'aver introdotto il secondo attore. Con questa innovazione eschilea il dialogo si rendeva definitivamente indipendente dal coro: si aveva finalmente una vera e propria tragedia. Con due soli attori, Eschilo scrisse capolavori, come I Persiani, i Sette contro Tebe, l'Agamennone. Primo a introdurre il terzo attore, sempre secondo Aristotele, sarebbe stato Sofocle. Ma un passo di Temistio, che, citando Aristotele stesso, attribuisce la novità a Eschilo, sembra derivare dal dialogo aristotelico perduto I Poeti: Aristotele, molto probabilmente a distanza di tempo, faceva affermazioni contraddittorie. Comunque, almeno nel 458, già Eschilo stesso adopera il terzo attore. Così la tragedia raggiungeva quella che, secondo Aristotele, era "la sua forma naturale". Solo eccezionalmente si ricorse all'uso del quarto attore (nec quaria loqui persona laboret, dirà Orazio nell'Arte poetica).
La rappresentazione d'una tragedia greca ha ben poco di comune con la rappresentazione d'una tragedia moderna. Di essa si occupava lo stato: la rappresentazione era una liturgia (servizio pubblico), che lo stato imponeva ai cittadini ricchi; aveva, dunque, carattere statale e sacro (v. teatro): tracce di questo carattere essenziale conserverà sempre la tragedia greca, perfino la tragedia euripidea e posteuripidea. Non bisognerebbe mai dimenticare, quando si parla della tragedia greca, che al centro dell'orchestra si innalzava l'altare in onore di Dioniso. Proprio a questo carattere sacro è dovuta l'idealizzazione che della tragedia costituisce l'essenza: lingua e stile sono elevati, lontani da ogni espressione volgare o banale, e l'idealizzazione riveste anche episodî e personaggi della tragedia, che vorrebbero essere più realistici, così che anche le scene cosiddette "borghesi" e gli eroi cenciosi e mendicanti di Euripide sono stilizzati secondo un'idealizzazione tragica. Un greco non avrebbe mai pensato, come tutti i moderni da Shakespeare in poi, che una tragedia, e anche una commedia, potesse essere scritta in prosa.
A questa idealizzazione è dovuta la scelta stessa degli argomenti, che, tranne pochissime eccezioni, erano desunti dalla materia mitica: da Omero, e specialmente dai poeti ciclici.
Una tragedia è, dunque, una storia di eroi: storia era per i tragici, il mito: anche per Euripide, che, col suo stesso dubitare, criticare, deridere, mostra che del mito la sua arte non sa fare a meno. I tragici sono i continuatori di Omero: non è senza ragione il motto di Eschilo, giustamente o falsamente attribuitogli da Ateneo, ch'egli raccoglieva avanzi del grande banchetto omerico; né senza ragione Platone considera, in un certo modo, Omero l'archegeta della poesia tragica.
All'antico carattere sacro è dovuto anche lo strettissimo legame che la tragedia "nata dallo spirito della musica", secondo l'espressione nietzschiana, conservò sempre con la musica e con la danza. Anche quando il coro perse importanza, perché si cominciò a sentirlo come un impedimento, non più come un elemento essenziale dell'arte, Euripide sostituì ai cori i duetti e gli a solo degli attori, applicando alla tragedia le innovazioni dovute alla genialità musicale di Timoteo. Musica e danza erano elementi essenziali della tragedia, che per noi sono irreparabilmente perduti, perché non potremo mai averne un'idea adeguata. Per esse i poeti tragici, che erano anche musici, si staccavano nettamente da Omero: esse erano la fonte di quel "dionisiaco" che Nietzsche opponeva giustamente all'"apollineo" dell'arte omerica.
Un'altra conseguenza del carattere religioso della tragedia greca è che il poeta tragico vuol essere non soltanto poeta, ma maestro del suo popolo. Tale era Eschilo per Aristofane, il quale, in un verso celebre delle Rane "per i fanciulli c'è il maestro che insegna, per gli adulti ci sono i poeti", assegnava all'arte, e in particolare all'arte tragica, un fine pedagogico, e ammirava i poeti perché educavano e rendevano migliori gli uomini, e li giudicava degni di morte quando li rendevano peggiori. Eschilo, in alcuni cori delle Supplici e dell'Agamennone, aveva cantato la sua fede purissima nell'onnipotenza e nella giustizia di Zeus, aveva mostrata al popolo la sua religiosità profonda, molto più alta di quella professata dagli Ateniesi, le sue tendenze monoteistiche, il suo ardente desiderio di giustizia.
Anche Sofocle volle essere maestro del popolo ateniese, e insegnò una fede meno serena e più rassegnata: dopo aver mostrato sulla scena esempî insigni di empietà punita, quando s'accorse che non sempre l'infelicità umana era colpevole, che non sempre la giustizia divina appariva manifesta negli eventi umani, non volle indagare più oltre e proclamò virtù suprema la venerazione degli dei. E maestro degli Ateniesi volle essere Euripide, e insegnò le verità delle quali era profondamente convinto: la falsità dei miti, l'assurdità della religione tradizionale, la debolezza della ragione, l'irrimediabile infelicità degli uomini. Non è meraviglia che la tragedia greca, soprattutto sui cori, dibatta spesso i problemi più importanti che travagliavano la coscienza dell'ateniese del sec. V, che travagliano ancora la coscienza dell'uomo moderno: i problemi della colpevolezza e dell'innocenza, della responsabilità umana e divina, dell'infelicità incolpevole dell'uomo e della bontà e giustizia di Dio.
La materia mitica che dava origine alla tragedia era ben conosciuta, in generale, dagli spettatori. A questi era tolto, dunque, il volgare interesse per l'intreccio, per l'epilogo del dramma: ognuno sapeva in anticipo come l'azione sarebbe andata a finire. Soltanto Euripide, e solo qualche volta, alterando il mito, o inventando completamente qualche episodio, poté destare la curiosità degli spettatori: come avviene nell'Elena, nell'Ifigenia taurica, nell'Oreste. Ma, a non tener conto delle poche eccezioni, la notorietà dell'intreccio non poteva non contribuire ad elevare la poesia della tragedia: gli spettatori erano naturalmente tratti a interessarsi non ai fatti in sé e per sé, ma al modo come i fatti si svolgevano, come commovevano la fantasia del poeta: cioè alla poesia stessa.
L'azione è, soprattutto in Eschilo e in Sofocle, semplice e lineare: i tre grandi tragici sono maestri insuperabili nello svilupparla in poche scene potenti. Sofocle è ugualmente grande sia nel ritardare abilmente l'azione con episodî destinati unicamente ad accrescere la tensione drammatica, sia nell'accentuare i contrasti facendo scoppiare il pathos tragico con indicibile violenza. Euripide rompe in alcuni suoi drammi l'unità di azione, ricercando in una azione dispersa e perfino in più azioni un'unità di Stimmung, cioè un'unità intima più profonda. In tutti e tre i tragici, appunto perché poeti grandissimi, né l'azione è mai sacrificata ai caratteri dei personaggi, né i caratteri all'azione. Ma i caratteri nascono naturalmente dall'azione, e da essa sono inseparabili, grandeggiano, ma non la impoveriscono, staccano, ma non stridono. Si deve escludere nei tragici greci ogni intenzione di studio psicologico, così frequente nel dramma moderno; per questo, così spesso è stata negata dai moderni, ma del tutto a torto, ai personaggi della tragedia greca la dignità di caratteri. Ma caratteri veri, cioè individualità potenti, essi sono, proprio perché sono assai più che mezzi di dimostrare l'abilità psicologica del poeta. Così l'Eteocle e la Clitemnestra di Eschilo sono caratteri, cioè figure d'insuperata complessità psicologica e potenza drammatica. E Sofocle, accentrando tutta l'azione intorno ai suoi dolorosi protagonisti, ne metterà maggiormente in rilievo l'animo indomabile: ogni tragedia sofoclea fa risonare in terribile crescendo il dolore del protagonista, che sembra percorrere tutta la gamma della sofferenza. Euripide stesso, di cui si è rilevata fino all'esagerazione l'affinità con la commedia nuova, è lontanissimo dalla scialba tipizzazione dei personaggi di quella forma d'arte, e non soltanto rappresenta anime complesse di donne travolte dalla passione d'amore, o anime ingenue di giovinetti a cui sorridono eroici fantasmi di gloria, ma perfino ai suoi personaggi più comuni e convenzionali riesce a dare, con un'umanità che è fatta d'ingenua tenerezza, o d'ingenua cattiveria, o d'ingenua debolezza, la loro individualità.
Chi voglia rendersi conto del gran mutamento che modificò, in soli cinquant'anni, la tragedia greca e il concetto stesso del tragico, basterà che confronti l'Orestea di Eschilo con l'Oreste di Euripide. Eschilo cantava in tre tragedie la sventura di tutta una stirpe: l'uccisione di Agamennone, la vendetta di Oreste, l'assoluzione del matricida. Le Erinni di Eschilo, le terribili divinità che perseguitano chi s'è macchiato del sangue materno, diventano nell'Oreste euripideo fantasie che tormentano il sonno di un malato. E il dramma di Euripide ha scene di tragicità profonda, ma anche lunghe discussioni sofistiche ed episodî che mirano quasi esclusivamente a raggiungere . un grande effetto teatrale. Se pure non è assolutamente privo di unità, come può sembrare a prima vista, è rotto da dissonanze stridenti: la tragedia, arricchendosi di elementi romanzeschi, ha perduto la semplicità di linee e la mirabile armonia che aveva in Eschilo.
La trilogia non era per Eschilo soltanto un vincolo; più spesso che ostacolo alla poesia, era fonte di poesia.
Gli ampî tratti di materia mitica che il poeta prendeva a trattare, si dattavano perfettamente all'estensione della trilogia. Dall'Agamennone alle Eumenidi c'è una linea sola, un'azione tragica sola, che si prepara lentamente nell'attesa angosciosa della più gran parte dell'Agamennone, scoppia, con forza irresistibile, alla fine di questo dramma e nelle Coefore, dove trova la sua azione, poi lentamente si acquieta e si risolve, trova la sua catarsi nelle Eumenidi. All'Agamennone fastoso, ricco di grandi scene, e perfino, da ultimo, di rapide sorprese, segue la sobrietà cupa delle Coefore, accentrate intorno a un solo motivo drammatico, scarne fino ad apparire monotone a chi giudichi superficialmente. Alle Coefore segue una tragedia ricca di elementi varî, modernistica almeno quanto sono drammi arcaistici le Coefore e l'Agamennone stesso. Tutta la trilogia finisce con uno spettacolo scenografico e fastoso: con la processione al lume delle fiaccole, tra canti pii e clamori rituali, in onore delle figlie della Notte. La trilogia cominciava, all'inizio dell'Agamennone, con un altro spettacolo scenografico e fastoso: quello dei fuochi che brillano improvvisti nella notte, a trasmettere, da un monte all'altro, da un'isola all'altra, dall'uno all'altro continente, l'annunzio della vittoria. Così il senso caratteristicamente ellenico della simmetria lega in una sua sottile e profonda armonia il grande pathos tragico eschileo.
A Sofocle s'attribuisce lo scioglimento della tragedia dal vincolo della trilogia; certamente Sofocle, autore egli stesso di trilogie (una sua Telefea è stata attestata recentemente da un'iscrizione), generalizzò quello che Eschilo stesso aveva fatto con i Persiani per eccezione: rappresentò insieme tre drammi di contenuto diverso. L'innovazione corrisponde in tutto al carattere dell'arte sofoclea, che ama accentuare fortemente l'azione intorno a un personaggio. Il dramma separato diventa così davvero un brano di materia mitica, rappresentato e sentito dal poeta con assoluta libertà, mentre la trilogia esigeva una trattazione più continuata, più vicina a quella dell'epos. E il tragico è ormai più libero dal peso della materia mitica: il dramma separato segna il perfetto dominio del poeta sul mito.
Al dramma separato s'attenne quasi sempre anche Euripide; ma, genio novatore e inquieto, non contento di aver realizzato un'assoluta novità in tragedie come la Medea, volle, nelle sue tragedie più tarde, chiudere in un dramma solo un amplissimo tratto di materia mitica che avrebbe potuto trovare un'espressione adeguata in un'intera trilogia. A questa tendenza euripidea di trattare con libertà il mito sono necessarî i nuovi espedienti tecnici, tanto biasimati da antichi e da moderni: il prologo nella nuova forma che prende con Euripide e il deus ex machina. Ma a questi artifici bisogna guardarsi dall'attribuire grande importanza: il prologo è un tentativo di dare anche una certa unità esterna al dramma, esponendone l'antefatto, facendone prevedere l'epilogo, o, viceversa, nascondendolo a bella posta, per aumentare la curiosità degli spettatori; il deus ex machina non serve, come si è pensato ingenuamente, a sciogliere nodi troppo imbrogliati, che erano una difficoltà insuperabile per il poeta stesso, ma a risolvere un problema che il poeta vuol dimostrare davvero insolubile, o a conciliare, nell'epilogo, sia pure esternamente e formalmente soltanto, la tragedia col mito.
Non è possibile qui tracciare la storia dell'influsso immenso che la tragedia greca ebbe sulla letteratura moderna. Imitata da Ennio, Pacuvio, Accio, Seneca, influì, soprattutto attraverso Seneca, sul teatro moderno. Shakespeare stesso, attraverso Seneca, si riconnette in qualche modo a Euripide. Ed Euripide stesso influì molto sulla commedia menandrea, che attraverso Plauto e Terenzio è rivissuta nel teatro moderno.
Nel Cinquecento, rinata la conoscenza dei classici greci, i tragici furono studiati direttamente e tenuti a modello: dagli esemplari greci deriva, o vuol derivare, la prima tragedia "regolare" delle letterature moderne, la Sofonisba di Giangiorgio Trissino. Dalle discussioni fiorentine della Camerata dei Bardi sull'unione di poesia e musica nella tragedia greca, nacque il melodramma.
Racine, Corneille, Voltaire, Alfieri, Foscolo, Shelley, Goethe imitarono nelle loro tragedie i Greci; in tempi più vicini a noi, Swinburne imitò Eschilo, da lui immensamente ammirato, nella sua Atalanta in Calydon; Leconte de Lisle, traduttore in prosa dei tre tragici, si ispirò a Eschilo, per Les Érinnyes e all'Ione euripideo per l'Apollonide; Hofmannstahl creò un'Elettra modernistica, con una morbosa psicologia d'isterica, ma che pur conserva molti tratti sofoclei; D'Annunzio tolse ispirazione dall'Elettra sofoclea per la sua Fiaccola, e dall'Ippolito e dalle Supplici di Euripide per la sua Fedra. Molto numerosi sono stati i travestimenti moderni dell'Edipo re: basterà ricordare Hofmannstahl, Gide, Cocteau. La tragedia fu anche musicata da Musorgskij e da Pizzetti.
Ogni volta che il mondo greco fu riscoperto, ogni volta che la civiltà greca tornò in onore, la tragedia fu considerata come il culmine della poesia classica. I tragici greci, specialmente Sofocle, furono elemento fondamentale nelle discussioni tra Winckelmann e Lessing sull'arte. Il romantico Augusto Schlegel, nelle celeberrime Lezioni sulla poesia drammatica, analizzando criticamente i tre grandi tragici, li avvicinava alla cultura moderna. Schiller e Goethe fecero sulla tragedia greca molte finissime osservazioni particolari; e Goethe rivendicava giustamente contro Schlegel la grandezza di Euripide, e definiva l'Agamennone eschileo "il capolavoro dei capolavori". Hölderlin tradusse da grande poeta due tragedie di Sofocle; e Sofocle specialmente rappresentò e simboleggiò la sua intuizione più profonda della grecità come "serenità nata dalla passione e bellezza nata dal dolore". Hölderlin precorre Nietzsche; e con La nascita della tragedia di Nietzsche, attraverso l'affermazione del pessimismo greco e del carattere "dionisiaco" della tragedia in opposizione all'"apollineo" dell'epos omerico, attraverso la rivendicazione degli elementi irrazionali dell'arte e la superiorità di Eschilo, fortemente affermata sugli altri due tragici, si manifesta una nuova concezione dell'ellenismo. I tragici greci erano così definitivamente liberati dal velo classicistico che ne offuscava l'intelligenza. Non che non affiorino ancora in molti critici residui classicistici; ma la comprensione dell'antica tragedia è divenuta, in generale, più profonda. La filologia si è acquistata le maggiori benemerenze nella critica del testo: fondamentale è l'edizione eschilea del Wilamowitz. Anche le questioni tecniche sono state studiate dai filologi con grande acume e pazienza; ma, ingiustamente sopravvalutate, hanno condotto a rimpicciolire e a fraintendere l'arte dei poeti. Recentemente si può osservare, proprio nella filologia, una giusta reazione. Ma v'è di più: alcuni drammi greci sono rappresentati con vivo successo in tutto il mondo civile, soprattutto in Grecia e in Italia. Basterà ricordare le rappresentazioni di Padova, di Fiesole, soprattutto di Siracusa. Anche il pubblico moderno meno preparato a intendere poesia così antica, è vinto dal fascino, che, a distanza di tanti secoli, hanno i capolavori dei tragici greci.
E veramente la tragedia greca è un'opera di bellezza imperitura. Per essa il genio greco espresse con piena intensità l'infinita passione che era capace di accogliere; e questa passione l'espresse in forme pure e cristalline, con la stessa ideale bellezza con la quale scolpiva il grande fregio del Partenone. I versi dolcissimi e perfettissimi di Sofocle cantano l'irrimediabile infelicità umana con un'intensità di sentimenti che non potrà essere superata, forse neppure raggiunta, dai poeti posteriori. Ma questa poesia disperata è anche, in un senso più alto, consolatrice e rasserenatrice: gli stessi poeti cantano con la stessa forza le gioie impetuose e i sogni ardenti della giovinezza, i paesaggi belli e sereni, i moniti dell'antica saggezza umana, le lodi dell'infinita e misteriosa potenza divina. Così Hölderlin poté udire, da Sofocle, attraverso il dolore, la parola di gioia, l'unica veramente consolatrice: l'affermazione della grandezza e della nobiltà umana.
Bibl.: Per l'origine della tragedia: W. Ridgeway, The origin of tragedy with special reference to the Greek tragedians, Cambridge 1910; M. Nillsson, Der Ursprung der Tragödie, in Neue Jahrb. klass. Philol. 1911; Pickard-Cambridge, Dithyramb, Tragedy and Comedy, Oxford 1927; M. Pohlenz, Das Satyrspiel und Pratinas von Phleius, in Nachr. Gött. Ges., 1926.
Per la tragedia greca in generale: U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Einleitung in die griechische Tragödie, Berlino 1907; M. Pohlenz, Die griechische Tragödie, Lipsia 1930; E. Romagnoli, Nel regno di Dioniso, Bologna 1918; E. Howald, Die griechische Tragödie, Monaco 1930; G. Perrotta, I tragici greci, Bari 1931; W. Krauz, Stasimon, Berlino 1933.
Il genere tragico. - Sull'esperienza della tragedia greca classica Aristotele fonda la sua definizione del genere tragico. Un famoso passo della Poetica (all'inizio del cap. VI) contenente quella definizione della tragedia su cui poi doveva fondarsi la teoria drammatica del Rinascimento, può servire anche oggi utilmente come punto di partenza per tracciare le caratteristiche storiche di questo genere di composizione.
Scrive Aristotele: "È la tragedia l'imitazione (μίμησις, parola resa di solito con "imitazione", ma meglio: "rappresentazione") d'un'azione seria e compiuta, avente una certa ampiezza (cioè: contenuta entro certi limiti), in discorso abbellito in differenti modi nelle varie parti (ciò si riferisce alle differenze di metro e di dialetto tra le odi corali e il dialogo), esposto da persone in atto e non in forma di racconto, la quale per via della pietà e del terrore opera la purgazione (κάϑαρσις) di queste passioni". In questa definizione si ha in ordine logico: 1. che è la tragedia e che cosa rappresenta; 2. la forma in essa usata; 3. la maniera in cui è comunicata; 4. la funzione a cui adempie. Secondo questa definizione la tragedia non implica necessariamente una fine dolorosa; significa soltanto un dramma che rende la vita seriamente, contrapposto alla commedia, che la rende in modo grottesco (altrove tuttavia - al cap. XIII, 6 della Poetica - Aristotele preferisce la fine dolorosa, per quanto ciò paia contraddetto da quanto dice al cap. XIV, 9). Nel Medioevo però, grazie in parte all'influsso dell'Orestes di Blosso Emilio di Draconzio (sec.. V), poema epico in esametri, tragedia e commedia divennero sottospecie dell'epica, con conclusione rispettivamente luttuosa o allegra (tipica l'ingenua etimologia di Francesco da Buti, che vuol vedere l'origine del nome del componimento, bello all'inizio, luttuoso alla fine, nell'aspetto del capro, bello di fronte, ma "dietro è sozzo, mostrando le natiche nude e non avendo di che coprirle").
Ogni punto della definizione aristotelica è stato fonte di divergenze d'interpretazione. Per chiaro che sembri il primo (la tragedia è la rappresentazione d'un'azione), che cosa propriamente costituisce un'azione? Critici moderni hanno cercato di precisare, intendendo per azione un "conflitto" (Brunetière), una "crisi" (William Archer); gradatamente l'azione della tragedia è passata dall'esterno all'interno, dagli avvenimenti coi loro partecipanti attivi e passivi, alla cangiante scena dell'anima, ove le differenze tra agire e patire sfumano, e il dramma può essere, in un certo senso, statico (Maeterlinck, Čechov, Pirandello). "Un'azione seria": il gr. σπουδαῖος "serio" significa qui "che vale la pena che ci se ne occupi". Altra vessata questione: che cos'è abbastanza serio per la dignità della tragedia? Aristofane inveiva contro Euripide per aver condotto sulla scena tragica mendicanti e innamorati; B. Daniello (1536) distingueva la tragedia dalla commedia per ciò che ai poeti comici "sogliono esser materia le più famigliari et domestiche operationi, per non dir basse e vili; ai tragici le morti degli alti re et le ruine dei grandi imperi"; e il far consistere la serietà della tragedia nello stato sociale dei personaggi fu un'idea propugnata non solo da tutto il Rinascimento (Philip Sidney protestava contro l'indecorosità "in majestical matters" del dramma inglese contemporaneo), ma anche dal classicismo, ed ebbe grande influsso sul dramma moderno, specie in Francia (i nemici di Racine trovavano indecoroso che egli facesse nascondere un imperatore dietro a una tenda; al Coleridge e a F. Sarcey ripugnava il portinaio in Macbeth, e molti critici moderni han biasimato la meschinità dell'ambiente dei drammi di Ibsen).
"Esposta da persone in atto, e non in forma di racconto"; agita, cioè, non narrata. Ma codesta parte della definizione aristotelica non corrisponde a verità neanche per il teatro greco, ove azioni atroci, come l'uccisione dei figli di Medea, sono riferite dal nunzio; e d'altronde la tragedia elisabettiana, rincarando la dose sugli orrori di Seneca, non si peritò di rappresentare in scena le azioni più raccapriccianti.
Ma il punto più controverso della definizione aristotelica è quello che riguarda la catarsi delle passioni. Il Lessing suggerì si rendesse il termine con "purificazione" e spiegò: nella vita reale gli uomini sono talora troppo proclivi alla pietà e al terrore, talvolta troppo poco; la tragedia è un correttivo che li riporta a un virtuoso e felice punto medio. Altri hanno interpretato nel senso che la pietà e il terrore venivano purificati nel teatro col diventare disinteressati; erano, cioè, sublimati. Ma il termine usato da Aristotele è una metafora tolta dal linguaggio medico; significa "purgazione", come chiarisce il commento di Proclo alla Repubblica di Platone (I, 42): "La tragedia e la commedia contribuiscono a purgare le passioni che non possono interamente reprimersi, né d'altra parte soddisfarsi senza pericolo, ma abbisognano d'uno sfogo moderato. Questo esse conseguono nelle rappresentazioni drammatiche, e così ci lasciano indisturbati per il resto del tempo". Nel linguaggio dell'odierna psicanalisi, ciò suonerebbe: la tragedia non è che un mezzo per liberarci delle repressioni. Il concetto aristotelico della catarsi va messo in relazione con l'attacco di Platone contro i poeti, nella Repubblica. "La natural sete di piangere e di lamentarci, che noi dominiamo nelle nostre ore di sventura, è proprio la cosa che i poeti assecondano e appagano", - aveva detto il nemico dei poeti, Platone; a cui ribatte Aristotele che al contrario la poesia rende gli uomini meno emotivi offrendo un salutare sfogo periodico alle loro passioni; il concetto di catarsi va interpretato insomma come una replica polemica sullo stesso piano morale da cui giudicava Platone; piano morale su cui pure Aristotele era incline a mettersi, come in genere tutta l'antica critica. Che poi codesta catarsi sia effettivamente il fine della tragedia, potrebbe sì provarlo la pratica del teatro greco, di concludere il dramma su una nota di calma; ma a quale dei drammaturghi, anche dell'antichità, potrebbe ascriversi quell'intenzione come la determinante per la composizione dell'opera? L'interesse appassionato per il carattere umano - e non un fine terapeutico di purgare i proprî simili - è la nota comune dei drammaturghi di ogni tempo, da Sofocle a Shakespeare a Pirandello: il coro dell'Antigone canta lo stesso tema che suggerisce l'esclamazione dell'Amleto: "What a piece of works is man". Se poi veniamo a considerare qual genere di piacere soddisfi nel pubblico lo spettacolo d'una tragedia (escluso il vecchio concetto che esso serva d'ammaestramento morale), ci troviamo dinnanzi a varie spiegazioni. Alcuni, a cominciare da Rousseau (Lettre sur les Spectacles), sostengono che il piacere d'assistere a una tragedia è prevalentemente di natura sadistica (a una analoga Schadenfreude, o maligno sollazzo, soddisferebbe la commedia) - sia piacere di veder altri soffrire, sia di soffrire noi stessi (nel qual caso si potrebbe parlare di masochismo). Hume, nel saggio Of Tragedy, vede, nell'assistere a una tragedia, divenire più intenso il piacere che proviamo nell'attività della fantasia intenta a rispecchiare la vita: più intensa è la vita rispecchiata, più cresce il piacere. Mentre il Fontenelle (Réflexions sur la Poétique, XXXVI) sosteneva che il terribile diventa piacevole in teatro perché il suo effetto è indebolito dal nostro senso dell'irrealtà, Hume sostiene che la bellezza fantastica del dramma ci commuove così intensamente appunto perché terribile è l'argomento. Hegel vede nella tragedia due opposte ragioni contemperarsi in una superiore armonia: l'esempio classico è l'Antigone, dove sia Creonte sia Antigone hanno una parte di ragione, ma solo una parte, perciò essi soffrono, ma la giustizia di Dio si compie. Altri esempî egli trova nel sacrificio che Agamennone fa della figlia alla patria, nel matricidio d'Oreste per vendicare il padre, nel quale ultimo caso, come nel Filottete, la riconciliazione avviene non per mezzo della distruzione dell'individuo, ma con un compromesso o una sottomissione. La tragedia moderna, tuttavia, con la sua concentrazione sul carattere dei personaggi, non quadrava così bene alla descrizione hegeliana di sintesi di opposti; descrizione basata su un'interpretazione parziale del teatro greco. Schopenhauer, d'altra parte, vede nella tragedia il più elevato dei generi poetici, in quanto meglio di ogni altro rivela la natura del mondo e dell'esistenza: "i dolori senza nome, le angosce dell'umanità, il trionfo dei malvagi, il potere schernitore del caso, la disfatta irreparabile del giusto e dell'innocente". Ma se questa spiegazione sembra convenire a molti drammi moderni a luttuoso fine, spesso spiranti profondo pessimismo, l'effetto della tragedia non è d'ispirare rassegnazione o disprezzo della vita, come dovrebbe secondo lo Schopenhauer. Per Nietzsche l'essenza della tragedia non è solo delusione, ma un alternarsi d'illusione e di delusione; al mondo eroico e magnifico di Apollo si contrappone il selvaggio rapimento della musica di Dioniso, e così nasce la tragedia. La spiegazione del Nietzsche seduce in quanto, come è stato osservato, le antichissime forme d'arte che egli distingue nella Grecia, sono più che forme d'arte: sono miti, cioè filosofia incipiente; e quel che egli vi trova di soddisfacente, è elemento filosofico, non già artistico. D'altra parte la sua filosofia oltrepassa i limiti della critica d'arte per diventare arte essa stessa. Altri (F.L. Lucas, Tragedy), ravvicinandosi al Hume, vede l'essenza della tragedia nel piacere che proviamo a soddisfare la nostra curiosità di esperienza: onde la necessità della serietà (sia pure alleviata dall'elemento comico) e della verità, senza la quale non si potrebbe aver commozione; il problema del male e della sofferenza è posto dinnanzi a noi, e se non trova risposta, è tuttavia reso tollerabile per la verità con cui è rispecchiato nella finzione, per l'arte con cui è comunicato: l'amertume poignante et fortifiante de tout ce qui est vrai.
Aristotele enumera sei elementi essenziali nella tragedia: intreccio e carattere; linguaggio e idee; l'elemento lirico o musicale provveduto dal coro, e l'elemento spettacoloso. Vediamoli partitamente.
In Eschilo si può osservare la lotta per il predominio sulla scena tra attore e coro: nella prima delle sue tragedie conservateci, le Supplici, il coro è composto delle cinquanta figlie di Danao, che sono le eroine del dramma; nei Persiani il numero dei componenti del coro è disceso a dodici, ma questi augusti vegliardi conservano un'importanza di primo piano; nei Sette contro Tebe il coro non è più il primo a entrare, ed è un gruppo di donne tebane che si piegano sotto i rimproveri di Eteocle, pur ribellandosi in parte alla fine sotto la guida di Antigone; nel Prometeo il coro di Oceanine è disceso ancor più chiaramente alla posizione subordinata di spettatore impotente, per quanto simpatizzante, che è tipica della maggior parte dei cori greci, per quanto esse alla fine si rifiutino di abbandonare Prometeo malgrado le minacce di Ermete; nell'Agamennone la degenerazione dell'elemento individuale del coro è completa; qualcosa dell'antica dignità ritorna al coro nelle Coefore e nelle Eumenidi, ove il coro dà il nome al dramma, ed è anzi parte attivissima nell'ultimo. Ma il graduale diminuire dell'importanza del coro, il suo ridursi a una mera eco impersonale, può seguirsi fino a Euripide e a Seneca. Tuttavia questo nucleo primitivo della tragedia era venuto ad adempiere ad alcune importanti funzioni nell'economia del dramma: può ricordare il passato, commentare il presente, predire il futuro; offre al poeta un portavoce per le sue opinioni, e allo spettatore un'immagine di sé stesso; forma lo sfondo della comune umanità contro cui risaltano gli eroi, è a un tempo - come sostenne lo Schiller - un muro che separa il dramma dal mondo reale, come un cerchio magico, e un ponte tra le figure eroiche della leggenda e la folla degli spettatori. Col risorgere della tragedia di tipo classico, il coro risorse a debole vita, sui modelli senechiani, negli intermezzi; ma alla sua funzione risposero. meglio nuovi espedienti: così nel teatro elisabettiano la parte di commento e di eco che nella tragedia greca è propria del coro, è messa in bocca a qualche attore, a un gruppo di cittadini (Richard III, Julius Caesar), a un folle (King Lear), oppure è condensata in un brano lirico, quali i songs disseminati nei drammi di Shakespeare, che dànno una trasposizione fantastica, come in simboli magici, delle situazioni su cui aleggiano, sicché ove Deianira o Polissena avevano un'ode corale a lamentare il loro destino, Desdemona non ha che la breve, ma acutamente patetica, canzone del salice. Ovvero considerazioni tipiche d'un coro greco sono affidate al monologo di un protagonista: tale il famoso monologo di Amleto. Una resurrezione deliberata del coro greco fu tentata dal Manzoni e da Thomas Hardy in The Dynasts; d'altronde evidente è il carattere corale, lirico, dei discorsi dei personaggi nei drammi di D'Annunzio; altrove, nelle parole di un vecchio servitore, come nel Giardino dei ciliegi del Čechov, può vedersi un surrogato moderno dei commenti del coro.
Quanto all'intreccio della tragedia, o favola, Aristotele osserva che deve essere d'una certa ampiezza, avere una certa struttura, e che infine esso è la parte più importante, l'anima, del dramma. I limiti d'ampiezza posti dalla logica d'Aristotele e dalla capacità umana di assistere a uno spettacolo rimangono decisivi; di solito la durata della tragedia è sempre stata dalle due alle tre ore. Circa la struttura, con l'apparentemente banale osservazione che una tragedia deve avere un principio, un mezzo, e un fine, Aristotele ha inteso che il dramma debba avere buone ragioni per cominciare dove comincia e terminare dove termina, e che gl'incidenti debbano susseguirsi secondo un'evidente catena di causalità. Tuttavia, se la pratica del teatro greco è conforme a questa regola, e quella del teatro classico francese vi aderisce rigorosamente, il teatro elisabettiano abbonda d'arbitrio, con risultati in alcuni casi felicissimi (per esempio l'introduzione di Falstaff in Henry IV), ma nella maggioranza disastroso. Dell'arbitrio elisabettiano per ciò che concerne il tempo e lo spazio, il teatro moderno si è avvalso con parsimonia, ché l'estensione nel tempo va a detrimento della tensione drammatica; d'altronde la libertà elisabettiana permette un normale svolgimento della favola, senza dover ricorrere a ripieghi per spiegare l'antefatto. L'uditorio greco conosceva la favola del dramma in antecedenza, il teatro classico francese cercò di ovviare alla difficoltà con la figura del confidente; oggi, con la scomparsa del soliloquio (curiosamente resuscitato, tuttavia, da Eugene O'Neill in Strange Interlude, a rendere il contenuto subconscio dei personaggi), e l'avversione del pubblico a ripieghi improbabili, il problema presenta notevoli difficoltà. E quanto deve venir spiegato, quanto tenuto segreto fino alla fine? Lope de Vega e Boileau hanno insistito sull'importanza della sorpresa, della quale si può dire che i Greci facessero a meno, essendo al corrente della favola. Oggi la sorpresa pare più propria del melodramma, mentre due mezzi più potenti per avvincere l'anima degli spettatori sono la sospensione e l'ironia tragica. Di questo mezzo - per cui lo spettatore sa ciò di cui alcuno degli attori è all'oscuro e si comporta di conseguenza - si ha un esempio classico nell'Elettra di Sofocle (v. 1450 segg.). Di questa forma familiare d'ironia tragica nulla ha detto Aristotele, ma di quella forma di tragedia il cui intreccio è basato sull'ironia del destino è fatto discorso nella Poetica. Le cose che più commuovono nella tragedia, dice Aristotele nel cap. VI della Poetica, sono la περιπέτεια e la ἀναγνώρισις, di solito interpretate come "rovescio di fortuna" e "riconoscimento". Ma la prima è spiegata da Aristotele nel cap. XI: la "peripezia" ha luogo quando una linea d'azione intesa a produrre un certo risultato produce l'opposto; così il messaggero viene per liberare Edipo dal timore di sposare sua madre, e invece, rivelando chi sia Edipo, produce l'effetto opposto. Nella "peripezia" (rettamente intesa, come può esserlo dopo l'interpretazione del Vahlen, del 1866) è implicita tutta una concezione tragica della vita, per cui una catastrofe è opera di persone bene intenzionate, o di coloro stessi che ne vengon travolti; così, quando Deianira invia al marito quello che essa crede un filtro d'amore e che sarà invece uno strumento di morte, quando Edipo volontariamente precipita proprio nell'abisso da cui rifugge, quando Otello scopre di aver gittato via nella sua ignoranza il gioiello della sua felicità, quando Lear si affida alle mani delle cattive figlie e tormenta la sola che l'ami. Ecco perché Aristotele connette la περιπέτεια con la ἀναγνώρισις, cioè con il "discoprimento" ("riconoscimento" non rende l'idea), col cader della benda dagli occhi, troppo tardi. Connesso con questo tipo d'intreccio complesso (a cui Aristotele contrappone l'intreccio semplice, che svolge una mera serie di eventi, come le Troiane d'Euripide) è la dottrina dell'errore tragico o ἁμαρτία, che critici moraleggianti hanno cercato d'interpretare non come un mero errore, quale sta a significare, ma come una debolezza morale, una colpa, desiderosi di stabilire una giustizia poetica, e legger nella catastrofe la necessaria punizione d'un fallo. ‛Αμαρτία può essere sia un delitto come quello di Clitemnestra, o uno sbaglio di calcolo come quello di Deianira. È vero che Aristotele, venendo a parlare dei caratteri, dice che le sventure di un essere affatto innocente, anziché commuoverci o atterrirci, non farebbero che offenderci e ripugnarci; ma altra è la pratica del teatro greco. In Edipo vediamo un uomo condannato prima della nascita, in Ifigenia e Polissena di Euripide, vittime innocenti. Invano Racine si sforza di assortire il castigo al delitto: chi può rappresentarsi la sua Fedra come una delinquente? Se poi cerchiamo la ἁμαρτία in tragedie moderne, come quelle di Ibsen, vediamo che un errore intellettuale, non etico, è quanto può intendersi con quel termine. La passione che nel dramma moderno è fonte di quell'errore cieco e perdonabile che Aristotele intendeva, è di solito l'amore, che, in tutto il corso della tragedia greca, ha parte preponderante solo nell'Ippolito e nella Medea.
Quanto ai caratteri, Aristotele osserva (Poet., XIII e XV) che l'eroe tragico ideale non dev'essere né buono in sommo grado, né del tutto cattivo, inclinante piuttosto alla bontà, e che i caratteri siano fedeli al loro tipo e coerenti. Queste caratteristiche formarono oggetto d'importanti discussioni nel Rinascimento. Già Euripide, nella sua ricerca di realismo, aveva trasgredito al primo di questi precetti presentando figure meschine come il Giasone della Medea e il Menelao dell'Oreste. Nel teatro elisabettiano, per contro sotto l'influsso del tiranno di Seneca e del principe di Machiavelli (secondo il travisamento protestante) l'eroe tragico per eccellenza fu un malvagio, o un superuomo al di là del bene e del male. Nella tragedia moderna anziché la malvagità è la debolezza che pare più fatta per muovere gli affetti, sebbene essa sembri la negazione del "carattere", in quanto tale, poco drammatica. Quanto alla convenienza del carattere alla persona a cui appartiene, il Rinascimento e il classicismo conferirono una curiosa rigidità al precetto aristotelico, esigendo che, in omaggio al decorum, un vecchio avesse sempre certe determinate caratteristiche, un giovane certe altre, e così il soldato, il mercante, e via dicendo; ma se i tipi trovan posto nella commedia, essi sembrano la negazione dell'essenza della tragedia, che verte intorno all'individuo, non al tipo. Quanto alla coerenza dei caratteri, neanche questo principio cui rigorosamente aderì il teatro classico, può trovarsi messo in pratica nel teatro elisabettiano, che di solito subordinò la coerenza all'effetto scenico, o in molti drammi moderni; per una diversa concezione della natura umana (valga per tutti il teatro di Pirandello). Il carattere è per Aristotele cosa secondaria, mentre la cosa principale (μέγιστον) è l'intreccio. Questo può dirsi sia stato messo in pratica nella tragedia di nazioni come la greca e la francese, presso cui è accentuato il senso architettonico: l'Edipo e Athalie offrono i due più cospicui esempî. Ma il precetto non corrisponde alla pratica del dramma elisabettiano, ove spesso l'intreccio è ibrido e sconnesso (in parte a causa della collaborazione di parecchi autori), mentre l'intuizione del carattere umano tocca le più alte cime e redime le imperfezioni costruttive (valgano ad esempio, il Doctor Faustus del Marlowe, l'Amleto, e 'Tis Pity She's a Whore del Ford).
Resta a dire degli altri tre elementi della tragedia secondo Aristotele: le idee, il linguaggio, e il lato spettacoloso, o, come si dice oggi, la coreografia. La parte data all'elemento pensiero nella tragedia è cresciuta in proporzione della decadenza dell'elemento lirico e poetico, fino a raggiungere il massimo nel dramma dialettico di Shaw (la tragedia di Santa Giovanna, ove pure l'elemento lirico è più presente che in altri drammi di Shaw, insegni); ma già il processo si avverte confrontando la divina fissità di Eschilo con la agilità causidica di Euripide; o l'implacabile irrigidimento volitivo di Corneille con la propaganda scettica di Voltaire; o l'esaltazione superumana di Marlowe (specie nel Tamburlaine) con l'ironia del Malcontent di Marston, o rendendoci conto dei varî stadî della tragedia di Amleto, divenuta da mera tragedia di vendetta, la tragedia del carattere melanconico (v. amleto, in Appendice). Sicché lo sviluppo di ogni teatro nazionale pare seguire codesta parabola, dal lirico all'intellettuale. Quanto al linguaggio e all'elemento spettacolo, il loro svolgimento è in rapporto alla perpetua tendenza del dramma d'aderire sempre di più alla realtà. La tragedia - è stato detto (F. L. Lucas) - comincia come un oratorio, diventa la conversazione ascoltata in una stanza, un episodio visto in una strada, una tranche de vie (come Street Scene di Elmer Rice). Lo scolorirsi del linguaggio, la scomparsa delle metafore (che per Aristotele sono il segno del genio naturale), si possono seguire da Eschilo a Euripide, da Marlowe a Shirley; è solo nello splendore della sua giovinezza che il dramma ardisce il linguaggio supremamente poetico di Eschilo e di Marlowe. Racine è l'esempio più cospicuo di poeta tragico di una società raffinata, che ottiene il massimo dell'effetto con un vocabolario povero e poche immagini stereotipate; con simile scarsezza di mezzi, uno stile "pensato e non cantato", senza ornamenti, consegue potenti effetti l'Alfieri. La tendenza al realismo accelera nella tragedia il processo di usura del linguaggio, e di smussamento del verso; dal ritmo eroico di Eschilo si passa ai saltellanti giambi di Euripide, dal tonante blank verse di Marlowe si scende ai periodi ritmici disossati di Beaumont e Fletcher (il processo può seguirsi nella stessa carriera di Shakespeare). I tentativi di ravvivare la tragedia in versi nel secolo scorso (Hernani di V. Hugo, i Cenci dello Shelley, l'Atalanta in Calydon e la trilogia di Maria Stuarda - specie lo Chastelard - dello Swinburne, la Penthesilea del Kleist), e in questo secolo (in Italia, D'Annunzio, Sem Benelli), anche se accompagnati da momentaneo successo, non hanno fatto che confermare l'impossibilità dell'impresa sulle scene moderne.
Ma se non più il verso, un periodare ritmico e ricco, un sapiente uso di pause, nei drammi in prosa di Maeterlinck (su cui è modellata la Salomé del Wilde), di Claudel, di D'Annunzio, pare oggi atto strumento espressivo della tragedia.
Dice Aristotele che il terrore e la pietà si possono produrre con mezzi spettacolosi, ma che è meglio produrli col modo in cui il dramma è scritto. Mentre nel dramma primitivo, anche per difficoltà tecniche, quasi tutta la rappresentazione dell'ambiente è lasciata alla fantasia dello spettatore, coi luoghi designati e simili puerili espedienti, la tendenza moderna a sopraffare la tragedia con le macchine sceniche, nell'illusione di riprodurre la realtà, ha sortito effetti deleterî; non sono mancati tentativi di ritorno alla semplicità antica (senza l'ingenuità relativa), fino alla stravaganza (per es., in Inghilterra Amleto e Macbeth recitati in modern dress).
Ha puramente interesse storico la famosa questione delle tre unità, di tempo, di luogo e d'azione. Aristotele aveva detto che la favola deve essere compiuta e perfetta, deve cioè avere unità; e che l'azione dell'epopea e quella della tragedia differiscono nella lunghezza "perché la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o poco più, mentre l'epopea è illimitata nel tempo" (Poet., V). Questo luogo è una semplice deduzione dalla pratica della tragedia greca; il coro, tra l'altro, era determinante, non essendo possibile che la stessa dozzina di vegliardi riapparisse insieme ora ad Atene, ora a Sparta, ora a Tebe, e puntualmente a distanza d'anni. Orazio, come Aristotele, insistette solo sull'unità d'azione. Il blocco di tre unità è creazione dei critici italiani del Rinascimento: Giraldi Cinzio, Robertelli, Trissino, Scaligero, definiscono l'unità di tempo, V. Maggi dà i primi accenni dell'unità di luogo, ma il primo trattatista a concepire l'unità di luogo e a dare così alle tre unità la loro forma definitiva è il Castelvetro nella Poetica (1570).
In Inghilterra la dottrina delle tre unità poco prese piede; vi si uniformò Ben Jonson, ma proprio dall'Inghilterra, col dott. Johnson, fu sferrato nel Settecento un attacco conclusivo, nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare: la sua argomentazione fu copiata dallo Stendhal in Francia; mentre da noi il Manzoni seppelliva le tre unità nella famosa lettera. Connessa con l'unità di azione è la proibizione, anche questa arbitrariamente attribuita ad Aristotele dai critici del Rinascimento, di mescolare il comico al tragico - del che non mancavano esempî nella tragedia greca (la nutrice nelle Coefore, i nunzî nell'Antigone e nelle Baccanti, il Menelao dell'Elena e l'Eracle dell'Alcesti, il quale ultimo dramma può a buon diritto chiamarsi la prima tragicommedia). La tradizione medievale, in cui la mescolanza di comico e tragico non ripugnava, trasmise al teatro elisabettiano quegli elementi che salvarono il dramma inglese dalle pastoie delle unità pseudo-aristoteliche, e fecero di questo dramma il modello dei romantici. La famosa prefazione al Cromwell dell'Hugo afferma i diritti del grottesco sulla scena più ligia alle tre unità, la francese.
Bibl.: Per la storia della tragedia nei singoli paesi, vedi sotto le varie letterature nazionali. Vedi particolarmente: H. Weil, Études sur le drame antique, Parigi 1897; F. Nietzsche, La nascita della tragedia (traduz. ital.), Bari 1907; A. Winterstein, Die Ursprünge der Tragödie, Vienna 1925; W. Cloetta, Beiträge zur Literaturgeschichte des Mittelalters und der Renaissance, II: Die Anfänge der Renaissancetragödie, Halle 1890-92; W. Creizenach, Geschichte des neueren Dramas, ivi 1911 segg.; I. E. Spingarn, La critica letteraria nel Rinascimento (trad. ital.), Bari 1905; F. L. Lucas, Tragedy, Londra 1927; H. Reich, Der Mimus, Berlino 1903 (opera fondamentale sull'arte drammatica); J. Gregor, Weltgeschichte des Theaters, Vienna 1933; J. Bab, Das Theater im Lichte der Soziologie, Lipsia 1931.