tralucere
Il verbo, usato da D. cinque volte (quattro nella Commedia e una nelle Rime, sempre in rima), offre qualche difficoltà d'interpretazione. L'ampio studio di F. Brambilla Ageno (in " Studi d. " XLVII [1970] 5-14) è dedicato ai diversi valori che esso assume nella Commedia.
Anzitutto si osserva che i commenti antichi sono di scarso aiuto per l'esatta comprensione del significato (in genere tralasciano di chiosarlo), certo perché non vedono in esso le diverse sfumature che noi moderni notiamo. I commenti più recenti, anche quelli più impegnati sul piano lessicale, non sono unanimi. Utile è quindi il confronto con i testi medievali in cui il verbo compare; fra quelli citati dall'Ageno (e in parte già dal Tommaseo nel Dizionario), si veda per es. Guido Giudice (Storia della Guerra di Troia), Albertano da Brescia (Della Consolazione), e poi Cavalca, il Novellino, G. Villani, ecc.; in tutti questi esempi t. varia dal valore proprio (legato all'etimologia: transluceo) di " trasparire " a quello traslato di " rilucere ", " risplendere ", a quello infine, causativo, di " far risplendere ", " diffondere la luce su " qualcosa o qualcuno. Questa vastità dell'ambito semantico era propria anche dal latino translucere, e continuerà a essere caratteristica del verbo nel Petrarca e negli autori successivi.
Quanto alle occorrenze dantesche, l'uso proprio di t. si registra solo in Rime CIII 29 per tema non traluca / lo mio penser di fuor sì che si scopra; in metafora, il pensiero è paragonato a una ‛ luce ' interna che può " trasparire ", " rivelarsi "; ma si noti che l'equivalenza di t. con " trasparire " è ottenuta con l'aggiunta della locuzione di fuor, senza la quale il valore sarebbe stato più generico e sfumato.
In Pg XIV 79 da che Dio in te vuol che traluca / tanto sua grazia, il Chimenz e il Porena spiegano t. come " trasparire ", pensando evidentemente alla grazia divina come a una luce che, penetrata in D., ne ‛ traspaia ' fuori rivelandosi alle anime; ma con maggiore probabilità l'immagine è quella della grazia che, nell'atto stesso in cui ‛ colpisce ' D., " diffonde la sua luce " su di lui, traendone bagliori; il t. è dunque più morale che materiale e, osserva il Pietrobono, " detto da un cieco [l'invidioso Guido del Duca], acquista un valore più grande, accresciuto dal tanto che segue ".
In Pd V 12 s'altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio / ... che quivi traluce, sono alcuni commenti antichi a chiosare t. come " trasparire " (Benvenuto: " transparet umbraliter... in mundo "; Buti: " Trapassa con falsa luce imperò che pare quel che non è "); ma, come osservò per primo il Tommaseo, il barlume di luce che colpisce le cose terrene che seducono l'uomo è uno " splendore riverberato ", un " riflesso ", ovviamente più debole della fonte luminosa stessa, sicché meglio vale interpretare il verbo come " risplendere in modo indistinto ", " mandare bagliori incerti ", che appunto possono ingannare i sensi.
La scala che appare nel cielo di Saturno è di color d'oro in che raggio traluce (Pd XXI 28); di nuovo, questa volta il Torraca, interpreta t. come " trasparire ", pensando che lo scaleo descritto sia di polvere d'oro circonfuso, compenetrato dallo splendore del sole, che lo attraversa. Ma quasi certamente si tratta invece di " oro che si illumina intensamente, riflettendo un raggio di sole " (Sapegno); in effetti l'immagine richiama quella di Pd XVII 121-123; e non si dimentichi che il cielo di Saturno è detto cristallo (XXI 25).
Sulla scorta di quest'ultimo passo si spiega l'occorrenza di Pd XIII 69 (la cera, che rappresenta la materia plasmata da Dio creatore, sotto 'l segno / ideale... più e men traluce), e non vi può essere alcun dubbio che il valore sia quello di " risplendere di luce riflessa ", " riverberare la luce ", " assorbire la luce (divina) e rifletterla " più o meno, a secondo della ‛ disposizione naturale '.