Tramonto (e trasfigurazione) di una ‘tradizione’
Nel 1951, in un saggio molto bello (L’influenza culturale di Benedetto Croce, «L’approdo letterario», n. s., ottobre-dicembre 1966, 36, pp. 3-32), Gianfranco Contini scrive che per gli «juniores» il problema era quello di riuscire a essere «postcrociani», senza essere «anticrociani». Aveva ragione, ma non era un programma semplice.
Dopo la guerra, specie per i filosofi italiani, la questione fondamentale consisteva nel prendere le distanze da Benedetto Croce. Né diversa era la situazione degli storici, i quali intendevano allontanarsi dalla ‘rinascita neoidealistica’, e riconsiderare il lavoro storico in sé e per sé, al di fuori di condizionamenti di carattere filosofico. Se di ‘storicismo’ si voleva continuare a parlare, si doveva trattare di uno ‘storicismo’ differente ‒ decapitato, verrebbe da dire, della filosofia. Ma la polemica con Croce non era di carattere filosofico o, genericamente, teorico: coinvolgeva dimensioni ideologiche e anche politiche. Non tanto, occorre aggiungere, per le posizioni che Croce aveva assunto quando l’Italia era «divisa in due»; delle quali gli era anzi dato merito. Ma per il ruolo apertamente di parte da lui assunto quando aveva accettato la presidenza del Partito liberale italiano (1944-47), suscitando perplessità anche in uomini che, durante gli anni del fascismo, erano stati al suo fianco, in un’azione quotidiana contro i ‘barbari’.
Né è difficile comprendere che in questa polemica siano stati in prima linea il Partito comunista italiano e gli intellettuali ‒ anche filosofi ‒ che lo sostenevano in modo diretto, pure attraverso l’opera di riviste come «Il Politecnico» e «Società», entrambe del 1945. Del resto, l’orientamento culturale del Partito comunista era stato netto fin dall’inizio (anche se sarà formalizzato da Palmiro Togliatti in una Commissione culturale del 1953): i marxisti italiani dovevano studiare, e promuovere, la cultura italiana ‒ Francesco De Sanctis, non Vissarion G. Belinskij; Antonio Labriola, non Georgij V. Plechanov; e naturalmente, senza che ci fosse bisogno neppure di dirlo, Antonio Gramsci, non Croce.
Composti tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, è tra la fine degli anni Quaranta ‒ le Lettere vengono pubblicate nel 1947, suscitando l’attenzione dello stesso Croce ‒ e gli anni Cinquanta che gli scritti di Gramsci sprigionano tutta la loro energia nel dibattito filosofico e politico italiano. Organizzati volutamente in modo tematico, essi si contrappongono punto per punto alla ‘sistemazione’ crociana: dalla filosofia alla letteratura, alla storia d’Italia, alla concezione dell’intellettuale e della sua funzione. Croce, ovviamente, si rese conto di essere l’obiettivo di quella strategia, e finché ebbe voce (e vita) replicò in modo energico. Ma perse la partita.
Del resto, come si è già avuto modo di dire, il neoidealismo era entrato in una situazione di crisi già da molti anni, né Croce era riuscito a imporlo alla società italiana ‒ come era invece avvenuto nel primo decennio del Novecento ‒ con il lavoro, veramente straordinario, che aveva compiuto nei suoi ultimi anni, riproponendosi problemi centrali, come quelli dell’origine della dialettica, del rapporto tra ‘natura’ e ‘civiltà’, della figura dell’Anticristo: in una parola, della funzione delle forze del male nel processo storico. Sono testi straordinari, che liquidano, in via definitiva, l’immagine erasmiana o goethiana di Croce, mostrando con chiarezza il fondo tragico della sua persona e del suo pensiero (come è stato del resto messo in giusta evidenza dagli studi degli ultimi anni).
Il tempo era però cambiato: il grande volume pubblicato nel 1951 per Ricciardi, nel quale Croce raccoglie una scelta delle sue opere ‒ e che provoca la riflessione di Contini citata all’inizio di queste pagine ‒ è, in effetti, una sorta di congedo definitivo dalla società e dalla cultura italiana ‒ almeno nelle forme con cui vi era stato presente nell’ultimo cinquantennio. Croce è, infatti, un ‘classico’ ‒ come ha confermato puntualmente la sua fortuna in Italia e fuori d’Italia negli ultimi anni; ma, come avviene ai ‘classici’, è tornato in forme e guise nuove, ponendo nuove domande e rispondendo a nuovi problemi, differenti da quelli propri dell’epoca in cui era vissuto. Il Croce di oggi è un altro Croce, e ha poco in comune con quello che fu oggetto di polemica ideologica e politica dopo la guerra e lungo gli anni Cinquanta, per una scelta consapevole, programmatica, di origine nettamente politica.
È significativa, da questo punto di vista, la vicenda di una rivista come «Società», di chiaro orientamento comunista. In una prima fase, essa si sforza di dare voce alle principali espressioni della cultura europea, specie a quella degli anni Trenta; successivamente rielabora in termini ‘nazionali’ il suo lavoro, sulla base di un orientamento politico preciso, quello del ‘partito nuovo’ che Togliatti fonda al suo rientro in Italia.
Naturalmente, questa forte accentuazione ‘politica’ potrebbe sorprendere, discorrendo di una rivista come «Società» e, in generale, del marxismo italiano; ma è così, in effetti, che stanno le cose. Come è stato messo in rilievo, i filosofi che aderirono al Partito comunista italiano lo fecero per una scelta di tipo strettamente politico, non teorico, spezzando, per questo, in modo drastico – qualora fosse stato necessario –, i fili del lavoro che avevano svolto in passato. Basti pensare a Cesare Luporini – autore di un libro fondamentale come Situazione e libertà nell’esistenza umana (1942) – e ai cenni che fa a Karl Marx proprio su «Società», la rivista che egli dirigeva insieme a Romano Bilenchi: l’impianto teorico al quale fa riferimento è quello delineato da Karl Löwith in Von Hegel zu Nietzsche (1941), poi fatto tradurre in italiano da Norberto Bobbio per i tipi di Einaudi (Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, 1949). È dalla crisi – e dalla dissoluzione – dell’hegelismo che scaturiscono, unitariamente, le posizioni di Sören Kierkegaard, Friedrich Nietzsche e Marx, i quali vanno dunque considerati in un quadro comune, in cui il tema della ‘decisione’ di origine weberiana assume un valore centrale. È, precisamente, la stessa tesi che Löwith aveva già sviluppato negli anni Trenta su «Studi germanici», e che aveva colpito allora anche il giovane Delio Cantimori, il quale se ne era servito ‒ e anche questo è sintomatico ‒ nel suo saggio su Carl Schmitt pubblicato sulla stessa rivista.
Luporini diventerà uno dei più autorevoli marxisti italiani, ma alla fine della guerra si avvicina a Marx per una scelta politica, con un elemento ‘volontaristico’ sul quale egli stesso ha richiamato l’attenzione in uno schizzo autobiografico molto interessante (l’Introduzione a Dialettica e materialismo, 1974). Ma si cita questa esperienza perché essa non è né unica, né isolata: nel marxismo italiano c’è (si potrebbe dire) una sorta di ‘vizio di origine’ che ne segna genesi e caratteri, e che è stato decisivo anche nel suo traumatico declino: comincia a entrare in crisi alla fine degli anni Settanta, proprio quando inizia il tramonto del Partito comunista, che finirà di esistere, come organizzazione autonoma, nel 1989, in coincidenza con il crollo del muro di Berlino e la fine del ‘socialismo reale’.
Né è difficile spiegare come e perché si sia determinato questo intreccio. Alla base del ruolo assegnato alla teoria c’era, nella ‘tradizione’ comunista italiana, una specifica interpretazione dell’avvento del fascismo e della sconfitta delle forze politiche riconducibili al mondo operaio. Essa veniva fatta risalire al distacco fra intellettuali e movimento operaio. E questo a sua volta era spiegato anche alla luce delle carenze teoriche del Partito socialista, che non era stato in grado di confrontarsi con i punti più alti della cultura contemporanea; in Italia con Croce, e anche con Giovanni Gentile. Di qui la necessità anzitutto politica di sollevare la discussione a questo livello, come aveva fatto Gramsci nei Quaderni del carcere, sottolineando il valore della ‘questione degli intellettuali’. Essa era parte costitutiva del processo di formazione, in Italia, di una democrazia antifascista, di una democrazia progressiva ‒ per utilizzare il termine proprio della ‘tradizione’ comunista, in cui si esprimeva una concezione precisa della ‘rivoluzione’ in Occidente. Così intesi, ‘questione degli intellettuali’ e marxismo erano aspetti di una medesima strategia, unum et idem. Come conferma puntualmente il fatto che la crisi, e la fine, di quella strategia politica abbiano coinciso in Italia con la crisi e il declino sia della ‘questione degli intellettuali’ che del marxismo teorico: nati insieme, finiscono insieme.
In Italia ‒ in coerenza con la ‘tradizione’ nazionale ‒ marxismo e politica sono stati dunque congiunti dall’inizio alla fine. E questo implica, come è ovvio, anche un giudizio sui caratteri, la qualità e le finalità di questo marxismo. Il che non vuol dire che il marxismo italiano non abbia avuto per circa un trentennio un ruolo decisivo nella società, da molti punti di vista. Non solo a opera dei filosofi; ma – occorre precisare ‒ soprattutto per il lavoro degli storici, forse la punta più avanzata e più feconda del marxismo italiano, ben organizzato anche sul piano istituzionale, attraverso l’opera sia di importanti case editrici (a cominciare da Einaudi) che di riviste di primo piano, come «Studi storici» ‒ la rivista dell’Istituto Gramsci, fondata nel 1959. Essa, specie nel periodo in cui fu diretta da Gastone Manacorda, riuscì a sciogliere, sulla scia delle indicazioni di Gramsci ma in maniera autonoma e originale, il problema dei caratteri propri di uno storicismo postidealistico, individuando un nuovo punto di equilibrio, e di unità, fra storia e storiografia. È un fatto: gli storici che in quel periodo si sono rifatti al marxismo sono riusciti a cambiare l’immagine tradizionale della nostra vicenda nazionale. Non è poco; e hanno poi contribuito in maniera fondamentale a stringere un nesso organico tra socialismo e marxismo, che sarà messo in crisi negli anni Ottanta del secolo scorso.
Si sono visti i fondamentali motivi politici che stavano alla base della polemica del marxismo italiano contro Croce. Ma questo atteggiamento critico non è circoscrivibile solo a quell’ambiente. Esso è diffuso nella gran parte della cultura italiana, anche in quella di matrice laica e cattolica.
Questa polemica si muove in tre direzioni: l’elaborazione di un nuovo concetto di filosofia e, a esso strettamente connesso, di un nuovo concetto di storia della filosofia (connessione, è appena il caso di notarlo, di chiara ascendenza idealistica); una nuova riflessione sui rapporti tra filosofia e scienza; una profonda azione di apertura dei confini della filosofia italiana verso altri orizzonti, anzitutto europei. Con una notevole attenzione – occorre aggiungere ‒ anche verso la cultura americana, specie a opera delle istituzioni e degli intellettuali di orientamento cattolico. In tutti e tre i campi lungo gli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta vennero conseguiti risultati importanti.
Gli studi di storia della filosofia furono condotti a livelli di sicuro valore internazionale; si stabilirono rapporti nuovi tra scienza e filosofia, avviando anche una nuova politica istituzionale e accademica; furono riaperte le frontiere (che, in verità, non erano mai state chiuse per pensatori come Croce) verso le principali tendenze della filosofia europea del 20° sec. ‒ dalla fenomenologia all’antropologia (rappresentata in Italia da un personaggio d’eccezione come Ernesto De Martino). E in questo quadro fu avviato un lavoro assai vasto di traduzione, sia proponendo i principali testi del dibattito filosofico contemporaneo, sia recuperando lavori ormai classici. E ciò a opera di case editrici come Einaudi, con la sua Biblioteca filosofica (affidata a Bobbio), o come Laterza che, sotto la direzione di Eugenio Garin, rinnovò in modo profondo i progetti culturali che erano stati alla base dei Classici del pensiero antico e dei Classici del pensiero moderno.
Fu un grande lavoro, che contribuì a mutare in modo sostanziale le immagini della filosofia e della storia della filosofia quali erano state elaborate dalla ‘riforma intellettuale e morale’ neoidealistica, immettendo nuovamente il nostro Paese nel circuito filosofico internazionale.
Naturalmente, non è tutto oro ciò che luccica; si tradussero talvolta libri inutili; soprattutto si diffuse la tesi del ‘provincialismo’ della cultura nazionale, come se l’Italia fosse stata emarginata per mezzo secolo dai centri vivi della filosofia internazionale e non avesse invece fatto sentire la sua voce con un timbro originale in campi e problemi più congeniali alla sua ‘tradizione’ ‒ dal pensiero politico alla storiografia, all’estetica, come dimostrano, per fare un solo esempio, le numerose traduzioni delle opere di Croce. Tesi che, come vedremo, si accentuerà, fino a diventare una sorta di ‘senso comune’, tuttora tanto diffuso quanto infondato (e oggi basterebbe citare la diffusione addirittura mondiale del pensiero di Gramsci che della ‘tradizione’ nazionale è stato, nei Quaderni del carcere, critico consapevole e originale).
Di filosofia, e soprattutto di storia della filosofia, si discusse in lungo e in largo negli anni Cinquanta, organizzando anche specifici convegni, ai quali diedero un contributo essenziale studiosi come Garin, Mario Dal Pra, Giulio Preti e anche Ugo Spirito con l’azione stimolatrice del «Giornale critico della filosofia italiana».
Ma certo, in quegli anni, il punto più avanzato della discussione ‒ e insieme il motore di polemiche talvolta molto aspre ‒ fu anzitutto Garin che, mettendo a frutto anche la lezione di Gramsci, elaborò la tesi della «filosofia come sapere storico», come si intitolava un suo libro fortunato, concluso ‒ ed è sintomatico ‒ dal testo della relazione su Gramsci e la cultura italiana che Garin aveva tenuto al primo convegno di studi gramsciani.
Più volte Garin, tornando anche criticamente su quel suo lavoro uscito nel 1959, sottolineò che non era certo sua intenzione ridurre la filosofia a storia della filosofia, tanto meno, genericamente, a storia; ma che era invece suo intento rivendicare il carattere filosofico del lavoro storico-filosofico, anche per reagire a un atteggiamento che tendeva a ridurre l’opera degli storici a quella di zelanti e operose formiche, prive di ‘problemi’. E aveva ragione. Ciò non toglie che in quella impostazione ci fosse il rischio di ridurre la filosofia a cultura e la storia della filosofia a storia della cultura, come gli venne obiettato da studiosi quali Enzo Paci e Preti, suoi coetanei; ma anche, in seguito, da studiosi più giovani, come Gennaro Sasso. In molti casi ci fu, in effetti, una sottovalutazione dell’‘autonomia’ della filosofia in quanto tale che ha pesato, e inciso, sullo sviluppo degli studi di storia della filosofia nel nostro Paese, risoltisi, in certi settori e in alcuni momenti, in un esercizio puramente erudito, senza alcuno spessore problematico.
Ma questo riguarda anzitutto gli epigoni, i quali, come sempre accade, hanno impoverito le posizioni originarie, senza capirne la complessità teorica e le interne articolazioni. In ogni caso, quello che conta nel giudizio su una posizione sono i risultati che essa riesce a conseguire e, in questo caso, furono copiosi.
Anzitutto fu ripensato il ‘mito’, e il concetto, del Rinascimento, mettendo a fuoco nuovi temi ‒ dalla retorica alla magia, all’astrologia ‒, nel quadro di una ricerca che assunse quale problema centrale il rapporto fra Rinascimento e ‘mondo moderno’ e come punto di riferimento generale la periodizzazione dell’età rinascimentale stabilita da Cantimori: da Francesco Petrarca a Jean-Jacques Rousseau.
In quegli anni fu poi liquidata la vecchia idea di un ‘primato’ della filosofia italiana, così come venne affossata, in via definitiva, la categoria del ‘precursorismo’, cara alla storiografia neoidealistica; e questo attraverso un’indagine che si misurava con i processi storici reali, identificando, e studiando, volta per volta quello che ogni età aveva inteso come filosofia. E su questa strada furono studiati i punti nevralgici della filosofia europea: da Francesco Bacone a Gottfried Wilhelm von Leibniz, da Jean Bodin a John Locke, da Pierre Gassendi a Isaac Newton, fino allo storicismo tedesco contemporaneo.
Furono, come si è già detto, anni assai fecondi anzitutto per la storia della filosofia, che di fatto assorbì gran parte della ricerca filosofica, mutando quel rapporto tra filosofi e storici della filosofia che aveva connotato il cinquantennio precedente e diventando, sul piano internazionale, un sicuro punto di riferimento.
Ma in quegli anni fu realizzato anche il terzo obiettivo, tendente a stabilire nuovi rapporti tra filosofia e scienza. Gli anni Cinquanta furono la stagione del ‘neoilluminismo’, anzitutto per iniziativa, e capacità istituzionali e organizzative, di Nicola Abbagnano, il quale riuscì a coinvolgere intorno alla sua attività i maggiori filosofi italiani di quel periodo con un impegno pubblicistico molto importante, del quale fu perno la «Rivista di filosofia» e del quale, senza alcun dubbio, il Dizionario di filosofia da lui pubblicato con la casa editrice Taylor resta il frutto più significativo: un vero e proprio ‘manifesto’ programmatico, si potrebbe dire.
Oggi, del neoilluminismo si sottolineano spesso i limiti e le contraddizioni, come in genere fanno gli storici, ma post festum. Né, in effetti, quell’esperienza fu priva di carenze. Ma occorre guardare alla sostanza della cosa: con tutti i suoi limiti, si trattò di un movimento assai importante, sia per il lavoro svolto, sia perché pose le basi di una più penetrante, e sistematica, attenzione ai problemi della scienza e della filosofia della scienza, anche grazie al contributo di un personaggio di primo piano come Ludovico Geymonat. Esso ebbe il merito, tra l’altro, di stimolare gli studi di politica e di filosofia politica, cui si dedicò in modo specifico Bobbio, contribuendo a porli su basi più avanzate, al passo con i tempi.
Al neoilluminismo fece dunque capo una pluralità di linee e di ricerche, tutte però unificate ‒ e questo va sottolineato ‒ da un atteggiamento di tipo ‘laico’, nel senso più alto della parola; tanto più importante, se si pensa alla situazione dell’Italia in quel periodo e alle correnti clericali che, in molti momenti, cercarono di invadere la vita culturale, e filosofica, del Paese. Insomma, un vasto mondo uscì da una fase di crisi e di stagnazione, e cominciò a muoversi in forme e modi nuovi, senza trascurare, peraltro, quelle che erano state le tendenze di fondo della ‘tradizione’ italiana: di praxis, per es., si continuò a parlare. E non solo, come era naturale, sulla scia di Gramsci, ma anche secondo le nuove prospettive critiche aperte da Preti in un libro notevole come Praxis ed empirismo (1957), nel quale al centro della discussione, insieme a Marx, è John Dewey.
Sul lavoro fatto negli anni Cinquanta nell’ambito degli studi di filosofia si può esprimere, nel complesso, un giudizio positivo, tenendo conto, ovviamente, dei punti di partenza da cui esso prese le mosse e della situazione concreta ‒ anche politica ‒ in cui esso si svolse; senza sottovalutarne ovviamente i limiti, consistenti essenzialmente nella delineazione di ‘programmi’ e di ‘intenzioni’ generali, piuttosto che nella conseguente, e rigorosa, realizzazione di lavori scientifici. Né, ovviamente, può essere escluso che uno sviluppo di questo tipo si sarebbe potuto avere anche grazie al coinvolgimento di nuove forze, se non fosse intervenuta la cesura degli anni Sessanta, che ebbe conseguenze dirompenti anche nel campo degli studi filosofici.
In genere si presenta il Sessantotto come una sorta di ‘esplosione’ improvvisa, generata anzitutto dagli studenti. Ma non è così. Quel movimento affonda le sue radici nelle grandi manifestazioni sindacali dei primi anni Sessanta, in una situazione favorevole, dopo decenni di subalternità, alle forze del lavoro.
Era finita la lunga accumulazione degli anni Cinquanta, governata sul piano politico dal ‘centrismo’; da Paese agricolo l’Italia si era trasformata in una delle principali potenze industriali del mondo; il mercato del lavoro si configurava ora in termini positivi per i lavoratori.
Tutto un mondo era cambiato in profondità e ormai cominciavano a manifestarsi anche in superficie ‒ sul piano dei diritti politici e sociali ‒ le trasformazioni nei rapporti di classe maturate lungo quelli che sono stati, senza dubbio, fra gli anni più importanti dello Stato unitario italiano.
Del resto, che il mondo stesse mutando – e che di questo occorresse prendere atto pure sul piano culturale e filosofico ‒ l’aveva avvertito anche il Partito comunista e, in modo particolare, Togliatti, che al primo convegno di studi gramsciani presentò una relazione su Gramsci e il leninismo (1958), riaffrontando, in altre parole, la questione della ‘rivoluzione’ in Occidente; cioè il problema dell’accesso al potere delle classi lavoratrici. Né era casuale, questo netto spostamento d’accento: dal 1956 – e, in modo specifico, dal congresso del Partito socialista tenutosi quell’anno a Venezia ‒ era in gestazione il centro-sinistra, cioè un’alleanza di governo fra Democrazia cristiana e Partito socialista, con il rischio per il Partito comunista di essere tagliato fuori da questa nuova stagione politica; come in effetti sarebbe accaduto.
Di fatto, con quella relazione si avviava una nuova interpretazione di Gramsci ‒ non più situato nella cultura italiana, come avveniva nella relazione di Garin (che da questo punto di vista appariva ‘arretrata’, e corrispondeva, nella strategia di Togliatti, ad altre esigenze), ma presentato quale seguace e, soprattutto, interprete originale di Vladimir I. Lenin. Interpretazione connessa, a sua volta, a una simmetrica, e contemporanea, indagine sulle ‘novità’ del mondo attuale, destinata a sfociare nel convegno sulle Tendenze del capitalismo italiano organizzato nel 1961 dall’Istituto Gramsci, nel quale si confrontarono, a viso aperto, le diverse posizioni presenti nel Partito comunista.
Dopo una lunga fase in cui si era impegnato anzitutto nella difesa delle ‘libertà borghesi’ – stabilendo importanti alleanze con autorevoli esponenti della cultura italiana di matrice ‘laica’ –, il Partito comunista scendeva su un terreno nuovo, e più avanzato, sollecitando anche i filosofi marxisti a prendere atto della situazione e a sviluppare le loro ricerche in nuove, più attuali, direzioni. Di lì a poco, su «Rinascita» sarebbe, in effetti, esplosa la discussione sull’«oggettività reale della contraddizione», mentre Luporini avrebbe preso nettamente posizione contro lo ‘storicismo’ – cioè l’ideologia che, nella versione gramsciana, lungo gli anni Cinquanta era stata il punto di riferimento dell’iniziativa politica e teorica del ‘partito nuovo’ di Togliatti.
All’inizio degli anni Sessanta anche il marxismo teorico italiano entra dunque in una nuova fase di movimento. E ciò avviene sia nelle sedi ufficiali del partito, sia a opera di filosofi, istituzioni e riviste, che sorgono in questi anni e che preparano, o accompagnano, il Sessantotto – da «Quaderni rossi», dove Raniero Panzieri pubblica il ‘frammento sulle macchine’ di Marx, a «Classe operaia» o a un libro come Operai e capitale (1966) di Mario Tronti. Sorgono nuovi temi, nuovi problemi, nuove prospettive critiche che finiscono con il coinvolgere, come era naturale, anche l’immagine tradizionale di Gramsci, del quale ora, consegnandolo al passato, si comincia a criticare l’‘ideologia’.
Il Sessantotto potenzierà al massimo queste tendenze, immettendo nella discussione nuovi testi e nuovi autori – Karl Korsch, il György Lukács di Geschichte und Klassenbewusstsein (Storia e coscienza di classe), Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, la Scuola di Francoforte. E proprio in quegli anni per il marxismo teorico italiano iniziava una lunga fase di crisi, che sarebbe arrivata al suo apice negli anni Ottanta. Ma questa ondata investì con pari, e anzi maggiore intensità, anche gli studi filosofici di carattere accademico, sconvolgendoli dalle fondamenta.
È in questa situazione che inizia a declinare – e non si riprenderà più – un intero sistema accademico, scientifico, istituzionale, compresi naturalmente gli studi di filosofia e, specialmente, quelli di storia della filosofia che, negli anni Cinquanta, avevano rappresentato l’elemento principale degli studi filosofici in Italia. Mutano linee di ricerca; si impongono nuovi temi; cambiano i rapporti tra le discipline; entra in discussione la tradizionale ‘enciclopedia’ del sapere. Un solo esempio: si è visto quale incidenza, anche di ordine generale, abbiano assunto in quel periodo gli studi sul Rinascimento e il loro profondo rinnovamento. Ora questo campo di studi perde peso; così come perde importanza il problema – classico, plurisecolare – del rapporto tra Rinascimento e ‘mondo moderno’.
Se negli anni Trenta gli studi sulla filosofia rinascimentale avevano rappresentato il luogo nel quale erano state poste, sul piano storiografico, le domande concernenti la ‘condizione umana’, ora, come terreno centrale di discussione sul destino dell’uomo e sul ‘progresso’ delle civiltà, in Italia e fuori, si afferma la rivoluzione scientifica, e in questo quadro balza in primo piano il problema del rapporto tra essa e il ‘mondo moderno’, con la sostanziale liquidazione di quello che era stato un tema cardine del pensiero europeo, almeno da Jean-Baptiste d’Alembert in poi.
Nell’ambito specifico degli studi sul Rinascimento perde, invece, peso e importanza l’interpretazione in chiave ‘civile’ maturata tra le due guerre, mentre prevalgono le visioni in chiave ‘ermetica’ che identificano ‘ermetismo’ e ‘magia naturale’. Ne scaturiscono posizioni e atteggiamenti critici nei quali gli elementi di tipo ‘religioso’ prevalgono nettamente su quelli di tipo ‘naturale’, contribuendo così a eliminare autori e testi del Rinascimento dalle grandi correnti del pensiero europeo moderno, del quale viene – simmetricamente – presentata un’interpretazione tanto forzata quanto unilaterale.
Colpito su entrambi i lati, il Rinascimento dei ‘moderni’ perde il ruolo e il peso di primo piano che aveva avuto fino a quel momento; mentre la ‘filosofia del Rinascimento’ diventa una disciplina specialistica, fra altre discipline dello stesso tipo. Se si tiene conto di quello che il Rinascimento era stato per d’Alembert, Jules Michelet, Jacob Burckhardt, Gentile, lo stesso Garin, è un vero mutamento d’epoca.
A considerarlo oggi, il Sessantotto appare come una sorta di spartiacque: punto di confluenza dei movimenti di emancipazione iniziati nei primi anni Sessanta, esso li potenzia e li rilancia verso gli anni Settanta, il vero punto di snodo della storia italiana recente. Fu allora che diventarono generali a livello di coscienza – trasformandosi in opzioni politiche e istituzionali – i problemi che erano cominciati ad affiorare in superficie, ponendo una domanda complessiva di trasformazione e di liberazione.
In altre parole, si riaprì in termini concreti il problema della democrazia nel nostro Paese e, con esso, la questione del rapporto tra ‘governati’ e ‘governanti’, che era stata al centro – per fare un nome – della riflessione di Gramsci. A loro volta, questi problemi scaturivano, in primo luogo, da una nuova percezione dell’individuo e dei suoi diritti personali – oltre che sociali e politici. E questo entrava in conflitto – in linea di principio e di fatto – con tutte le principali culture filosofiche e politiche che avevano predominato fino a quel momento in Italia.
Erano estranei alla tradizione neoidealistica che, su questo punto concordemente, aveva dissolto l’individuo ‘empirico’ nello Spirito oppure nell’Atto. Ma anche la cultura comunista – con le elaborazioni filosofiche che essa aveva prodotto – era sostanzialmente distante, quando non ostile, alle problematiche teoriche e politiche concernenti l’individuo. Si muoveva infatti in un orizzonte ‘di massa’, che non concedeva significato e valore autonomo all’individuo in quanto tale, e che aveva rappresentato, fino a quel momento, tutta la dimensione della politica.
In questo senso, le posizioni comuniste erano vicine a quelle cattoliche, che nutrivano pari sospetto, e diffidenza, per la dimensione individuale, concepita come un’eredità negativa delle culture, e delle filosofie, di matrice liberale.
Insomma era tutta la ‘tradizione’ italiana che, nelle sue varie componenti, non appariva in grado di fare i conti con le novità che si erano affermate a livello della coscienza generale della nazione, e che volevano, ora, essere riconosciute sul piano politico e istituzionale (come dimostrò senza equivoci il successo dei referendum promossi dal Partito liberale). Paradossalmente, la crisi del Partito comunista iniziò, sul piano teorico e politico, proprio quando esso raggiunse il maggior successo sul terreno elettorale; ma con il PCI entrò in crisi, e iniziò a declinare, un’intera ‘tradizione’ politica e civile, della quale esso, anche sul piano ‘statale’, era diventato il principale interprete. Fu, anche in questo caso, una crisi, al tempo stesso, sia politica che teorica.
Negli anni Ottanta, proprio quando il PCI è messo al margine sul piano politico, sul terreno teorico viene spezzato dai suoi avversari il rapporto tra socialismo e marxismo costruito con un lavoro secolare, e al posto di Marx, nel pantheon del socialismo italiano viene collocato Pierre-Joseph Proudhon, contro cui Marx aveva scritto pagine di fuoco in Das Elend der Philosophie (Miseria della filosofia).
Naturalmente in linea di principio non era detta l’ultima parola, e anche il nesso tra marxismo e socialismo si sarebbe potuto ricostituire. Ma il marxismo teorico, almeno in quella forma, in Italia era ormai definitivamente finito. Come gli eventi si sarebbero incaricati di mostrare, la partita era stata giocata, e persa, negli anni Settanta.
L’individualismo, come ha scritto in pagine importanti John Stuart Mill – che lo valorizza fino alla difesa dell’eccentricità, contrapponendolo all’‘ordine’ cinese –, è un valore positivo; ma se non è governato in senso democratico ed emancipatorio, esso declina obiettivamente in senso conservatore e reazionario: come è avvenuto nella recente storia italiana. Dalla lunga crisi delle speranze e delle esigenze maturate negli anni Settanta sono scaturiti, progressivamente, processi di depoliticizzazione e di spoliticizzazione assai vasti. Ma essi sono diventati tanti più acuti e gravi perché si sono connessi all’inizio del declino del modello moderno di Stato nazionale italiano. Considerati, e valutati, in modo unitario, questi processi configurano la crisi del rapporto tra nazione, Stato e democrazia da cui è stata generata quella ‘rinascita’ dell’Italia dopo il fascismo e l’8 settembre che è alla base della Costituzione repubblicana. Configurano, in altri termini, la crisi delle basi costitutive della Repubblica.
Rispetto a questa situazione, la ‘tradizione’ filosofica italiana ha avuto poco da dire; anzi, non ha detto niente. Negli ultimi decenni del Novecento ne sono state dissolte le radici; la dimensione ‘civile’ che ne ha connotato la storia ha perso forza, è decaduta; ed è declinata la concezione – a essa connessa – del filosofo come figura ‘civile’, legata alla vita della polis, della città. L’ultima filosofia di carattere ‘civile’ – e ‘statale’ – in Italia è stata quella di matrice comunista, e si è visto quale fine abbia fatto, sia per responsabilità proprie che per il determinarsi di eventi internazionali straordinari che, certo, l’hanno colpita al cuore.
Il dibattito filosofico in Italia negli ultimi decenni è una verifica di tutto questo: ne sono stati al centro grandi pensatori come Nietzsche e Martin Heidegger, notevoli personalità quali Ernst Jünger, Hans Georg Gadamer, Arnold Gehlen; movimenti come l’ermeneutica e il decostruzionismo; problemi come l’‘oblio dell’essere’, il ‘destino’ della tecnica, il nichilismo, la secolarizzazione. È intorno a essi che ha girato la gran parte dei filosofi italiani. Mai – si può dire – l’Italia, dal punto di vista filosofico, è stata capta, come in questi ultimi decenni. Né c’è da obiettare sull’importanza e sul rilievo, a volte eccezionali, dei pensatori – e dei temi – che sono stati messi al centro della discussione. Si tratta, in effetti, di problemi di vasta portata che, nella loro formulazione originaria, spesso risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, quando si discute con intensità, specie in ambito tedesco, della questione della ‘tecnica’ e del «tramonto dell’Occidente», come si intitola il libro di Oswald Spengler (Der Untergang des Abendlandes, 2 voll., 1918-1923), criticatissimo da Croce e anche da Thomas Mann, ma da non sottovalutare, anche quale indice assai acuto della crisi europea. Quegli autori e quei testi hanno rappresentato dunque con forza e capacità non comuni i ‘problemi’ dell’epoca – problemi non nuovi, ma ripensati e trasfigurati – e anche i processi aperti nella società italiana, ai quali, dal loro punto di vista, hanno certo dato una risposta. Un’epoca e una società connotate – come si è già detto – da vasti processi di depoliticizzazione e da tutto ciò che essi implicano, sia sul piano delle scelte generali che su quello delle opzioni di vita personale.
Di questa situazione si possono dare, e sono state date, molte spiegazioni. Ma volendone dare una coerente con quanto si è venuto dicendo in queste pagine – e sottolineandone perciò simmetricamente la unilateralità –, si potrebbe dire che il tratto comune di questa epoca, e della società italiana attuale, risiede, precisamente, nella crisi e nella fine delle forme politiche che hanno connotato il 20° sec. – quando si erano configurate sia a destra che a sinistra in termini di ‘massa’ – e di ciò che esse hanno significato nelle esperienze sia collettive che individuali di milioni di uomini. Sta qui la radice originaria della crisi della tradizione ‘civile’ che si è aperta in Italia negli ultimi decenni, e che si è espressa in modi perfino plateali nella fine – a opera della magistratura – dei grandi partiti di massa che avevano sorretto, e governato, la prima stagione della Repubblica italiana – a cominciare, come si è visto, dal Partito comunista.
Naturalmente, occorre distinguere i piani e i livelli, senza confondere dimensioni filosofiche e opzioni politiche. Ma, come aveva ben capito Mann fin dai primi anni del Novecento, criticandola in modo feroce, la «democratizzazione» – cioè la politica di massa – è una visione del mondo che coinvolge la concezione dell’individuo, della società, del processo storico, e la stessa visione dell’arte e della sua funzione (tema che a Mann interessava in modo particolare). Nel 20° sec. la politica è stata l’architrave di una generale Weltanschauung, e ha retto il destino di milioni di individui che, dietro un simbolo e una bandiera, hanno investito e consumato la loro vita.
Al suo livello, in quel secolo la politica è stata un concentrato di opzioni teoriche, anche filosofiche – qualcosa che oggi appare addirittura incomprensibile, inconcepibile, proprio per la spoliticizzazione che connota la società sia italiana che europea. Per dirla in termini classici, negli ultimi decenni del 20° sec. depoliticizzazione e spoliticizzazione hanno investito l’‘intero’, non la ‘parte’.
È tutto ciò che in quei decenni è finito; ed è in tale contesto che si situano, da un lato, la crisi della tradizione ‘civile’ italiana e, in modo specifico, della sua ultima incarnazione teorica, il marxismo comunista; dall’altro, l’affermarsi delle filosofie della ‘crisi’ e della ‘secolarizzazione’ – che è altra cosa dalla ‘laicizazzione’ di cui avevano parlato grandi filosofi come Wilhelm Dilthey, rappresentando il processo di costituzione del ‘mondo moderno’. Sono, infine, due facce di uno stesso processo, da considerare – ovviamente – nella loro specifica autonomia.
La storia, come si sa, non sta mai ferma, anche se i processi risultano chiari solo quando risalgono in superficie, e la nottola spicca il suo volo. Ci sono però alcuni elementi recenti che forse consentono di guardare, oggi, con occhi nuovi – e da una diversa distanza – alla situazione italiana.
Anzitutto sta entrando in crisi la ‘moda’ heideggeriana così diffusa e pervasiva (e quando si dice ‘moda’ si intende una cosa assai seria, come sapeva bene Croce). Da questo punto di vista è veramente sintomatico il giudizio che nel 2010 ha espresso su Heidegger lo studioso italiano che si è maggiormente impegnato per la diffusione nel nostro Paese del suo pensiero:
Heidegger – scrive Franco Volpi nella Introduzione preparata per i Contributi di filosofia, poi non pubblicata per disposizione degli eredi – rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che ‘non pensa’ ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofista, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose – l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo –, soffiando sul mito greco-romano dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (Varro docet!). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Facendo un’eccezione, si è citato a lungo; ma per la sua articolazione e nettezza, e per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, questo giudizio segna effettivamente un passaggio d’epoca nella fortuna di Heidegger in generale e, in modo speciale, in Italia. Ma non meno interessante è il fatto che alcuni filosofi italiani, sviluppando posizioni originali, abbiano cominciato a prendere posizione, per es., anche nei confronti di correnti fino a ora dominanti come l’ermeneutica, ribadendo energicamente, in questo caso, il principio di ‘verità’ e di ‘realtà’. Oggi si ricomincia a parlare di ‘fatti’ che prevalgono sulle ‘interpretazioni’, ipotizzando addirittura la nascita di un new realism.
È difficile, anche in questo caso, prevedere come e se evolverà questa situazione. Ma è un fatto nuovo, da rilevare. Così come è da sottolineare che, sia pure da un punto di vista determinato, si è ricominciato a studiare la ‘tradizione’ italiana, individuandone la specificità nel concetto di ‘vita’ – nella prospettiva teorica della ‘biopolitica’.
Qualunque sia il giudizio che si voglia dare su questa interpretazione, ciò significa che la ‘tradizione’ nazionale appare ancora viva, e degna di interesse – almeno sul piano storico. Resta, naturalmente, da vedere se essa abbia ancora qualcosa da dire come proposta teorica, oppure se si sia esaurita, in via definitiva, negli anni Ottanta del secolo scorso, quando si è congiunta con la crisi del modello statuale moderno. Né, da questo punto di vista, è un fenomeno risolvibile solamente nei confini nazionali italiani. Si tratta di vedere se la filosofia, oggi, intenda ristabilire – e sia in grado di farlo, e in che termini – rapporti con la sfera politica e, in generale, con la vita civile – un caposaldo di quella che si è chiamata ‘modernità’ –, proiettandosi anche oltre le barriere dello Stato nazionale. Stato e nazione – si è avuto già modo di dirlo – non sono realtà convertibili l’una nell’altra senza residui, in modo lineare: e questo, come vale per il passato, può valere anche per il futuro. È possibile perciò che la ‘tradizione’ italiana non sia finita e che, in forme profondamente nuove, possa riprendere senso, e vigore, protendendosi al di là dell’orizzonte che l’ha connotata negli ultimi centocinquant’anni.
Ma, conviene ribadirlo, è difficile fare previsioni: tanto più è difficile in un tempo storico come quello attuale, morfologicamente connotato, quale tendenza generale, dalla ‘democrazia dispotica’. In questione, oggi, non è solamente il destino della filosofia. Solo il tempo e le generali vicende degli uomini potranno sciogliere l’interrogativo – posto, ovviamente, che la filosofia, e in particolare quella italiana, abbia ancora qualcosa da dire.