Trapianti
di Emilio Sergio Curtoni
SOMMARIO: 1. Introduzione. □ 2. La reazione di rigetto: a) modalità del rigetto; b) cause del rigetto. □ 3. Controllo genetico degli antigeni dell'istocompatibilità: a) ipotesi sui fattori genetici responsabili del rigetto; b) l'ereditarietà; c) gli antigeni dell'istocompatibilità; d) gli antigeni leucocitari. □ 4. La regione HLA: a) studi sierologici; b) le colture miste linfocitarie; c) i loci della regione HLA e i fenotipi HLA; d) funzione delle strutture HLA. □ 5. Le caratteristiche immunologiche del ricevente. □ 6. Organizzazione dei trapianti in clinica. □ 7. La terapia antirigetto: a) terapia immunosoppressiva; b) terapia selettiva. □ Bibliografia.
1. Introduzione.
Mentre la pratica dei trapianti d'organo sperimentali, eseguiti al solo scopo di ricerca scientifica, ha avuto inizio già dai primi anni di questo secolo, l'uso dei trapianti clinici, a scopo terapeutico, è subentrato molto più di recente. Dopo i primi tentativi pionieristici eseguiti negli anni cinquanta, l'applicazione dei trapianti nella clinica ha avuto uno sviluppo sempre più vasto a partire dagli anni sessanta.
Numerose sono attualmente le malattie curate per mezzo dei trapianti e vari i tipi di organi trapiantati a scopo terapeutico. Sono state eseguite, negli ospedali di tutto il mondo, alcune decine di migliaia di trapianti di rene, alcune centinaia di trapianti di cuore, centinaia di trapianti di fegato, migliaia di trapianti di midollo osseo; si può inoltre aggiungere all'elenco un più limitato numero di trapianti di pancreas, di intestino e di polmone.
Malgrado i trapianti d'organo vengano ora adottati su vasta scala, pure il loro uso presenta complessi problemi biologici i quali, al momento attuale, sono risolti solo in parte. Lo studio dei problemi biologici dei trapianti costituisce oggi una delle branche avanzate della ricerca scientifica in campo biomedico.
L'esecuzione dei trapianti comporta sostanzialmente due categorie di problemi. La prima riguarda più strettamente l'atto del trapianto e comprende soprattutto problemi di natura tecnica, concernenti essenzialmente il reperimento dell'organo o tessuto da trapiantare, il distacco di questo dall'organismo del donatore, la sua conservazione a breve o lungo termine, e finalmente la sua collocazione in situ nell'organismo del ricevente, che deve porre l'organo o il tessuto in grado di esplicare regolarmente le sue funzioni. I più importanti di questi problemi sono quindi quelli chirurgici, e tra essi uno dei principali concerne, per la maggior parte dei trapianti, la possibilità di attaccare i vasi sanguigni del tessuto trapiantato all'apparato circolatorio dell'organismo ospite, in maniera tale da consentire una normale circolazione di sangue nel trapianto medesimo. Questo ostacolo fu superato all'inizio del secolo a opera di un noto scienziato francese, A. Carrel (v., 1902), il quale mise a punto una nuova metodica per la sutura dei vasi sanguigni. Questa tecnica, che si valeva dell'uso di aghi da sutura particolarmente sottili, permise di eseguire trapianti di organo con relativa sicurezza. Da quel periodo si iniziarono in molti laboratori trapianti sperimentali in numerose specie animali. La prima relazione scientifica riguardante un trapianto sperimentale fu pubblicata in una rivista medica austriaca (v. Ullmann, 1902): vi erano esposti i risultati di esperimenti di trapianto eseguiti in uno stesso animale (autotrapianto), fra animali della stessa specie (allotrapianto) e fra animali di specie diverse (xenotrapianto). A questi primi esperimenti fecero rapidamente seguito altri e in tal modo le tecniche chirurgiche di trapianto registrarono rapidi progressi.
Si fu quindi in grado di dimostrare che gli organi trapiantati sono capaci di esercitare le loro normali funzioni nell'organismo ospite, ma si notava peraltro regolarmente che, tranne nel caso di autotrapianti, gli organi o i tessuti trapiantati cessavano la propria attività funzionale entro breve tempo dopo il trapianto stesso. Nel 1914 Carrel pubblicò una revisione critica di tutti gli esperimenti che aveva eseguito negli anni precedenti, nella quale concludeva che i trapianti terminavano quasi sempre con un fallimento (v. Carrel, 1914). A questo punto si cominciò a delineare la seconda categoria di problemi, quelli concernenti il rigetto, che risultarono ben più complessi di quelli tecnici dell'esecuzione del trapianto, e più difficili da superare. A causa di questo ostacolo la pratica dei trapianti non poté essere applicata nella medicina come rimedio terapeutico se non molti anni dopo: fu infatti solo nel 1951 che, negli Stati Uniti, si cominciarono a eseguire in clinica i primi trapianti di rene.
Anche al momento attuale, i maggiori sforzi di ricerca nel campo della clinica dei trapianti sono rivolti a superare la difficoltà principale, che è costituita dalla reazione di rigetto.
2. La reazione di rigetto.
a) Modalità del rigetto.
Poco dopo che l'organo è stato trapiantato, si stabiliscono connessioni vascolari fra esso e l'organismo ospite. Tali connessioni (vasi sanguigni e vasi linfatici) permettono il flusso di sangue e di linfa dall'ospite al trapianto e viceversa. A pochi giorni dall'esecuzione del trapianto, però, si accumulano intorno all'organo trapiantato, o si infiltrano nelle sue porzioni periferiche, cellule di vario tipo provenienti dall'ospite: si tratta soprattutto di piccoli linfociti, linfoblasti e plasmacellule, le cosiddette cellule ‛immunocompetenti', cioè capaci di partecipare a fenomeni immunologici. Attraverso un contatto diretto con le cellule dell'organo ospitato esse danno luogo a fenomeni di ‛citolisi', cioè di uccisione di queste ultime. Inoltre provocano, direttamente o attraverso i loro prodotti di secrezione, una degenerazione della parete dei piccoli vasi, con fenomeni di piccole trombosi e di emorragie: come conseguenza, il flusso sanguigno nell'organo, indispensabile alla sua sopravvivenza, comincia a diminuire e la funzionalità dell'organo stesso diminuisce a sua volta gradualmente fino a cessare del tutto.
Nella fase iniziale della reazione di rigetto, nell'organo attaccato dalle cellule dell'ospite si verificano fenomeni infiammatori, per cui esso si presenta rigonfio; successivamente, con il procedere del rigetto e con la diminuzione sempre più notevole della sua funzionalità, l'organo (o tessuto) trapiantato diminuisce di volume e diventa grinzoso e scuro. A questo punto il trapianto è stato completamente ‛rigettato'.
I fenomeni ora descritti sono quelli fondamentali della reazione di rigetto, della quale sono note almeno tre modalità: a) il ‛rigetto iperacuto', che si verifica entro poche ore dal trapianto e che, come si vedrà più avanti, è espressione di una precedente ‛immunizzazione' dell'organismo ospite contro le cellule trapiantate; b) il ‛rigetto acuto', che interviene in un periodo compreso di solito fra un minimo di otto giorni e un massimo di venticinque giorni; c) il ‛rigetto cronico', molto più lento, che viene completato nel giro di mesi e consiste in una sofferenza molto lentamente ingravescente dell'organo trapiantato.
La modalità normale del rigetto di trapianto nell'uomo, in un individuo che non sia stato precedentemente immunizzato o che non sia sottoposto a terapie tendenti a evitare il rigetto stesso, è quella del rigetto acuto. Questo tipo di rigetto viene riscontrato, oltre che nell'uomo, in tutte le altre specie di Mammiferi studiate. Anche gli Uccelli sono capaci di presentare il rigetto acuto di trapianto, mentre nei Rettili la modalità abituale è quella del rigetto cronico. Sembra quindi che nella scala evolutiva la capacità di esplicare un rigetto acuto si sia sviluppata solo in periodi relativamente recenti, e perciò non sia comune a tutti i tipi di organismi.
b) Cause del rigetto.
Informazioni sulle cause che inducono il rigetto vennero raccolte soprattutto mediante esperimenti di trapianti di tessuti tumorali e di cute normale. Già all'inizio del secolo osservazioni condotte su alcuni tumori spontanei dei topi dimostrarono che, se un tumore insorto spontaneamente in un certo ceppo di topi veniva trapiantato in topi di ceppo diverso, sopravviveva per breve tempo, per poi essere rigettato. Inoltre, se successivamente al rigetto si innestava, allo stesso topo che aveva ricevuto il primo trapianto di tumore, un secondo trapianto dello stesso tumore, proveniente dallo stesso ceppo di topi da cui era stato prelevato il tumore precedente, questo secondo trapianto sopravviveva per un tempo molto inferiore a quello del primo. Successivamente fu dimostrato che anche i tessuti non tumorali, se venivano trapiantati da un donatore a un ricevente per due volte consecutive, la seconda volta venivano rigettati più velocemente che non la prima. Gli esperimenti decisivi su questo fenomeno furono condotti da uno scienziato inglese, P. B. Medawar, a cui valsero il premio Nobel: egli studiò estesamente il comportamento di trapianti eseguiti per due volte consecutive da uno stesso donatore a uno stesso ricevente, e denominò il rigetto accelerato che si riscontrava a carico del secondo trapianto ‟second set rejection". Questo tipo di rigetto corrisponde al rigetto iperacuto cui si è accennato in precedenza. Nel corso di esperimenti su trapianti di cute, Medawar osservò che il trapianto che verrà rigettato con le modalità del second set si comporta in modo diverso dal primo trapianto eseguito nello stesso ricevente: la vascolarizzazione del tessuto innestato non è completa, l'infiltrazione cellulare che porterà al rigetto è molto più precoce e il rigetto stesso si conclude più rapidamente. Un comportamento di questo genere, cioè l'accelerazione di una reazione allorché questa avvenga in un organismo in cui sia già avvenuta precedentemente, è tipica di un fenomeno immunologico. È soprattutto basandosi sulle osservazioni ora menzionate che si concluse che il rigetto del trapianto è dovuto a cause immunologiche.
Le caratteristiche fondamentali di un processo immunologico sono trattate ampiamente in un'altra voce della presente enciclopedia (v. immunologia e immunopatologia: Immunologia generale), a cui si rimanda per una più vasta informazione in materia. In questa sede ci si limiterà a ricordare alcuni termini e alcuni aspetti dell'immunità che riguardano specificamente il rigetto dei trapianti.
Un organismo nel quale vengano introdotte sostanze estranee riesce generalmente a riconoscere come non appartenente a se stesso il materiale così penetratovi e a difendersi contro di esso: al meccanismo di difesa che viene posto in atto si dà il nome di immunità. Le strutture molecolari che l'organismo riconosce come estranee a se stesso e contro le quali esercita le proprie difese immunitarie si chiamano antigeni. Alla superficie delle cellule vi sono numerose strutture, le quali possono essere diverse da individuo a individuo: sono queste strutture che nelle cellule trapiantate fungono da antigeni.
Come è noto, i meccanismi di difesa immunitaria sono sostanzialmente due: l'immunità umorale e l'immunità cellulare. L'immunità umorale consiste nella produzione di anticorpi. Quando un antigene viene introdotto in un organismo può stimolarne un particolare sistema cellulare, detto immunocompetente, a fabbricare un suo antagonista specifico: l'anticorpo. Questo è una molecola proteica della famiglia delle immunoglobuline, che si trova soprattutto nel plasma sanguigno ma è reperibile anche in altri liquidi dell'organismo. L'anticorpo prodotto a causa dello stimolo costituito da un determinato antigene è capace di reagire solo con quell'antigene: questa specificità dell'anticorpo costituisce una delle caratteristiche fondamentali della risposta immunitaria.
Un problema che ancora non è stato completamente risolto è se l'immunità umorale svolga un ruolo importante nel rigetto. Infatti è stato osservato che in un organismo che abbia ricevuto un trapianto, è quasi sempre possibile riscontrare la presenza di anticorpi specifici per le cellule del tessuto trapiantato; non è chiaro, però, se questi anticorpi abbiano una parte di rilievo nel rigetto del trapianto stesso. Fino a poco tempo addietro sembrava provato che la quantità di anticorpi prodotti da un organismo in seguito a un trapianto aumentasse con relativa lentezza, raggiungendo il suo massimo solo dopo la distruzione completa del trapianto. Al contrario, studi più recenti, eseguiti in animali da esperimento utilizzando tecniche di indagine particolarmente sensibili, hanno dimostrato che già poco tempo dopo l'esecuzione del trapianto sono reperibili anticorpi diretti contro le cellule trapiantate prima ancora che siano rilevabili i primi segni di rigetto. Inoltre, contrariamente a quanto si era creduto di riscontrare in precedenza, ci si è resi conto di recente che il massimo della produzione degli anticorpi è raggiunto prima della completa distruzione del trapianto. Queste nuove acquisizioni sembrano deporre a favore di un ruolo degli anticorpi, nel rigetto, più importante di quanto non si sia creduto in passato.
È stato anche riscontrato che nel determinismo del rigetto gli anticorpi hanno un'importanza diversa a seconda che si tratti di trapianti di tessuti solidi oppure di cellule libere: quest'ultimo tipo di trapianto è rappresentato dalla trasfusione di sangue e dal trapianto di midollo osseo, il quale viene ottenuto sotto forma di liquido e trapiantato come tale. Nel caso di trapianti di cellule libere, sono state raggiunte prove consistenti che il loro rigetto (cioè la distruzione delle cellule) è da imputarsi soprattutto agli anticorpi, cioè all'immunità umorale. Per quanto riguarda i trapianti di tessuti solidi, invece, non vi sono prove soddisfacenti che un mezzo importante per il rigetto sia rappresentato dagli anticorpi, che probabilmente costituiscono solo un'arma secondaria. In certe circostanze, anzi, gli anticorpi diretti contro le cellule trapiantate possono rappresentare un fattore protettivo del trapianto stesso: è questo il fenomeno di ‛facilitazione immunologica', di cui si parlerà più oltre.
Nei confronti del trapianto di tessuti solidi, che rappresenta la grandissima maggioranza dei trapianti eseguiti, il rigetto è piuttosto conseguente a un altro tipo di reazione immunologica: la reazione cellulare. Questa è caratterizzata dall'intervento di cellule, prevalentemente linfociti, che, a quanto sembra, non producono anticorpi diretti contro l'antigene, bensì sono esse stesse in grado di attaccare direttamente l'antigene. Come accennato in precedenza, una caratteristica costante della reazione di rigetto del trapianto è il reperto di un'infiltrazione, nel tessuto trapiantato, di cellule linfocitarie e istiocitarie dell'ospite. Già nei primi anni del secolo (cfr. Da Fano, cit. in Billingham e Silvers, 1971) fu prospettata l'ipotesi, poi ulteriormente sviluppata, che tale reazione delle cellule linfoidi fosse coinvolta nella resistenza ai trapianti; ma solo nel 1954 fu fornita da uno scienziato inglese, N. A. Mitchison (v., 1954), la prova conclusiva che la resistenza di un ospite contro il trapianto è dovuta non ad anticorpi ma a cellule. Mitchison dimostrò infatti che si può trasferire uno stato di iperimmunizzazione contro i trapianti (cioè la capacità di rigettare un trapianto con la modalità del rigetto acuto) in un individuo che non abbia mai ricevuto un trapianto in precedenza, trasferendogli linfociti da un individuo in cui era già stato praticato un trapianto. L'iperimmunizzazione non può invece essere indotta se al posto di cellule si trasferiscono anticorpi.
In conclusione, quindi, il rigetto dei trapianti è un fenomeno immunologico evocato dagli antigeni presenti alla superficie delle cellule trapiantate, i quali vengono riconosciuti come estranei dall'organismo ospite e da questo combattuti. La reazione si svolge prevalentemente a carico dell'immunità cellulare.
3. Controllo genetico degli antigeni dell'istocompatibilità.
a) Ipotesi sui fattori genetici responsabili del rigetto.
L'ulteriore progresso degli studi ha consentito di dimostrare che gli antigeni responsabili del rigetto (detti anche ‛antigeni dell'istocompatibilità') sono controllati geneticamente. All'inizio del secolo un ricercatore danese, Jensen, osservò, nel corso di esperienze su trapianti di tumori nei topi, che animali di ceppi differenti non presentavano tutti la stessa suscettibilità all'attecchimento e alla crescita della neoplasia in studio. Pochi anni più tardi fu stabilito più chiaramente che il rigetto riflette differenze genetiche fra il donatore e il ricevente. Per quanto riguarda l'uomo, anche per questo aspetto le indagini furono molto più tardive di quelle su animali da esperimento: solo negli anni sessanta l'analisi dei dati dei trapianti clinici di rene e sperimentali di cute - che dimostravano che in ambedue i tipi di trapianto la sopravvivenza del tessuto trapiantato ha una diversa durata a seconda che esso provenga da un individuo geneticamente estraneo al ricevente oppure da un suo consanguineo (genitore o fratello) e che il trapianto è accettato in maniera permanente e senza alcun segno di rigetto se viene scambiato tra due gemelli monozigotici (geneticamente identici) - consentì di ottenere le prime valide informazioni.
In pochi campi della medicina moderna la genetica ha un'importanza così notevole come in quello dei trapianti. Nel corso di questa esposizione si parlerà delle modalità di controllo genetico degli antigeni dell'istocompatibilità: sembra quindi opportuno richiamare alcune nozioni di base sull'ereditarietà, a complemento di quelle che già sono esposte in altra parte della presente enciclopedia (v. genetica).
b) L'ereditarietà.
Nei nuclei delle cellule dell'organismo (quasi tutte le cellule ne sono provviste) v'è una serie di filamenti, chiamati ‛cromosomi' che sono costituiti da acido desossiribonucleico (DNA). Essi, attraverso un meccanismo noto come sintesi proteica, controllano la produzione di tutte le proteine necessarie alla costituzione e alla funzione della cellula. Tutte le molecole che costituiscono la struttura cellulare sono controllate dal DNA: infatti esse o sono proteine, e quindi vengono sintetizzate direttamente a opera del DNA, oppure sono sostanze lipidiche o glicidiche, le quali a loro volta vengono sintetizzate a opera di enzimi proteici prodotti dal DNA.
Ogni segmento di cromosoma controlla la sintesi di una determinata proteina, la quale ha una sua funzione specifica: tali segmenti si chiamano geni. A causa dei fenomeni di mutazione, di un gene possono esistere varie forme alternative, dette ‛alleli', che danno luogo a prodotti generalmente simili fra di loro ma non uguali, esercitanti la stessa funzione. La zona di cromosoma che può essere occupata da un certo gene (o da uno dei suoi alleli) si chiama locus. Tutti i possibili alleli in grado di occupare un certo locus formano un ‛sistema di alleli'. Nel nucleo di ogni cellula umana vi sono 46 cromosomi, riuniti in 23 paia. I due cromosomi che compongono un paio sono detti ‛omologhi' e controllano le stesse funzioni; ciò significa che a ogni gene presente su di un cromosoma, incaricato di fabbricare una certa proteina, corrisponde in un punto analogo del cromosoma omologo un gene identico o simile (allele), deputato alla fabbricazione della stessa proteina. Un esempio piuttosto noto di geni alleli è il sistema degli antigeni eritrocitari umani AB0, controllati geneticamente, in base al quale gli individui, a seconda degli alleli che possiedono, vengono classificati nei ben noti gruppi sanguigni: A, B, AB, 0. Questi geni controllano strutture presenti sui globuli rossi, le cui caratteristiche antigeniche sono ben note: se un individuo riceve una trasfusione di globuli rossi aventi alla propria superficie un antigene in esso assente (ad esempio se viene trasfuso sangue di gruppo A a un paziente di gruppo B) viene evocata una reazione immunitaria che può essere anche grave, fino a provocare, in certi casi, la morte del paziente. Analogamente a quanto si osserva per i globuli rossi, anche le cellule dei tessuti trapiantati hanno alla loro superficie strutture, controllate geneticamente, dotate di capacità antigenica.
I cromosomi costituiscono il materiale ereditario, cioè il materiale che viene trasmesso dai genitori ai figli tramite le cellule germinali. Ogni cellula germinale, maschile e femminile, in seguito al meccanismo della ‛meiosi' possiede non 23 paia di cromosomi come tutte le altre cellule, bensì solo 23 cromosomi, uno per ogni paio di omologhi. Allorché al momento della fecondazione si uniscono le cellule germinali paterna e materna, si fondono anche i loro nuclei, ricostituendo un solo nucleo dotato di 46 cromosomi. Da quell'unica cellula originaria per duplicazioni successive deriveranno tutte le cellule del nuovo organismo, ciascuna delle quali avrà 23 paia di cromosomi.
Poiché la possibilità che l'uno o l'altro cromosoma di una coppia faccia parte di una certa cellula germinale dipende esclusivamente dal caso, è praticamente impossibile che due cellule germinali di uno stesso individuo abbiano lo stesso corredo cromosomico: la probabilità che siano identiche è (½)23, cioè meno di una su otto milioni. Da ciò deriva che due fratelli, a meno che non siano gemelli monozigotici, non hanno praticamente alcuna probabilità di avere tutti i medesimi caratteri ereditari. D'altra parte, si spiega invece il fenomeno dell'assenza di rigetto dei trapianti scambiati tra gemelli monozigotici: infatti essi, provenendo dalle stesse cellule germinali paterna e materna, hanno identico patrimonio cromosomico e quindi le loro cellule avranno i medesimi antigeni di superficie. Se un organo o un tessuto viene trapiantato dall'uno all'altro di una coppia di tali gemelli, l'organismo ricevente non riscontra nelle cellule trapiantate strutture antigeniche differenti dalle proprie e quindi non mette in atto contro di esse nessuna reazione immunitaria.
Sebbene la probabilità che due fratelli siano geneticamente identici sia infinitesima, essi sono peraltro più simili fra loro che non due individui geneticamente estranei. Infatti, se si prende in esame una singola coppia di cromosomi omologhi, si può calcolare che due fratelli abbiano il 25% di probabilità di aver ereditato dai due genitori la medesima coppia cromosomica. Se ad esempio si identifica una coppia di cromosomi omologhi paterni con le lettere dell'alfabeto A e B, e la corrispondente coppia di cromosomi omologhi materni con le lettere C e D, si vede come le cellule germinali paterne potranno portare o il cromosoma A o il cromosoma B, mentre le cellule germinali materne potranno avere il cromosoma C oppure il cromosoma D. Al momento della fecondazione si possono unire: 1) una cellula paterna portante il cromosoma A con una cellula materna portante il cromosoma C; 2) una cellula paterna portante il cromosoma A con una cellula materna portante il cromosoma D; 3) una cellula paterna portante il cromosoma B con una cellula materna portante il cromosoma C; 4) una cellula paterna portante il cromosoma B con una cellula materna portante il cromosoma D.
Ognuna di queste quattro combinazioni avrà 25 probabilità su 100 di verificarsi. Quindi due fratelli avranno, per una singola coppia di cromosomi omologhi, il 25% di probabilità di essere identici (questo se si trascura il fenomeno del crossing-over) e perciò avranno il 25% di probabilità di essere identici per un carattere controllato da un solo sistema di geni alleli, oppure da più sistemi di geni alleli dipendenti da loci posti l'uno vicino all'altro su uno stesso cromosoma.
c) Gli antigeni dell'istocompatibilità.
Studi sul controllo genetico degli antigeni dei trapianti furono condotti, inizialmente, sperimentando su topi ai quali venivano trapiantati tessuti tumorali o lembi di cute normale. Tutte queste ricerche, fino a tempi recenti, erano basate particolarmente sull'analisi dei trapianti eseguiti in ceppi puri di animali. Su questi si basarono anche le indagini più vaste tendenti a determinare il numero di sistemi di alleli che controllano gli antigeni dell'istocompatibilità. Il metodo abitualmente usato è stato quello di cercare di determinare per quanti sistemi di antigeni dell'istocompatibilità differissero due ceppi puri di topi. Le indagini partivano sulla base di alcuni postulati: a) che ciascun allele di un sistema di antigeni dell'istocompatibilità venga espresso anche quando è allo stato ‛eterozigote', cioè quando quel determinato allele è presente solo su uno dei due cromosomi omologhi; b) che i vari sistemi dell'istocompatibilità siano controllati da loci i quali segregano indipendentemente: ciò significa che essi sono posti su cromosomi diversi, oppure, se su uno stesso cromosoma, a notevole distanza l'uno dall'altro, così da poter essere frequentemente separati dal crossing-over; c) che anche un solo antigene, determinato da un solo allele, sia capace di stimolare una reazione immunologica di rigetto del trapianto allorché sia presente nel tessuto trapiantato ma assente nel ricevente: in questo caso si dice che è ‛incompatibile'.
Un ceppo puro è costituito da animali che, incrociati tra fratelli per molte generazioni, sono ‛omozigoti' a tutti i loci, cioè per tutti i sistemi. Due ceppi puri di animali differiscono l'uno dall'altro per alleli presenti in alcuni loci. Agli effetti degli studi sull'istocompatibilità (cioè sulla compatibilità ai trapianti) si confrontano due ceppi puri di topi, differenti per almeno alcuni alleli dell'istocompatibilità. Se topi dei due ceppi vengono incrociati, i loro figli (chiamati ‛generazione F1') saranno eterozigoti per gli alleli a ciascun locus per cui i ceppi parentali avevano differenti alleli. Se due animali appartenenti alla generazione F1 vengono incrociati, ne risulta una progenie chiamata ‛generazione F2', la quale includerà individui che portano tutte le possibili combinazioni degli alleli dell'istocompatibilità a un determinato locus: infatti per ciascun locur essi saranno omozigoti come l'uno o l'altro dei ceppi originari, oppure eterozigoti. Il numero e la proporzione di ‛genotipi' diversi trovati nella generazione F2 dipenderà dal numero dei sistemi dell'istocompatibilità che segregano indipendentemente. Se si praticano trapianti di tessuto da donatori appartenenti ai ceppi puri parentali a riceventi appartenenti alla F2, si osserva che essi attecchiscono definitivamente in alcuni topi della F2, mentre vengono rigettati dagli altri componenti della medesima F2. Il numero di diversi loci dell'istocompatibilità aventi alleli diversi nei due ceppi puri originari può essere dedotto dalla proporzione di trapianti rigettati rispetto al totale dei trapianti eseguiti. Se per esempio due ceppi diversificano per un solo locus dell'istocompatibilità, la proporzione di trapianti di tessuto dei ceppi parentali che verrà accettata dagli individui appartenenti alla generazione F2 sarà 3/4. Se i due ceppi differiscono per due loci dell'istocompatibilità, la proporzione di trapianti provenienti dai ceppi puri originari che sarà accettata è (3/4)2 = 9/16. Se ne può trarre la regola generale che la proporzione di riceventi, appartenenti a una generazione F2, che rigetterà un trapianto proveniente da uno dei ceppi originari è (3/4)n, dove n è il numero dei loci dell'istocompatibilità per cui i due ceppi parentali differiscono.
Un calcolo del numero dei loci dell'istocompatibilità può essere eseguito anche analizzando la proporzione dei rigetti osservati in trapianti eseguiti da donatori appartenenti a uno dei due ceppi puri parentali a riceventi figli di un incrocio tra individui della generazione F1 e membri dell'altro ceppo parentale.
Il primo dei due metodi esposti è chiamato ‛metodo della F2', il secondo è detto ‛metodo del reincrocio'. L'uso parallelo di ambedue i metodi permette di controllarne reciprocamente la validità.
Applicati ad alcune specie animali, i metodi descritti hanno permesso di valutare, seppure con approssimazione, il numero di sistemi genetici indipendenti che controllano la produzione di antigeni dell'istocompatibilità. Nei topi e nei ratti questi test, applicati al confronto di vari ceppi puri, hanno indicato l'esistenza di almeno 15 o 17 distinti loci dell'istocompatibilità. È verosimile supporre che, trattandosi sempre di Mammiferi, anche i Primati (e quindi pure l'uomo) abbiano un numero di loci dell'istocompatibilità simile a quello dei roditori studiati.
Anche per lo studio degli antigeni dell'istocompatibilità nella specie umana sono stati introdotti modelli matematici. Naturalmente non si possono eseguire studi che prevedano l'utilizzazione di ceppi puri; per questo si sono elaborati modelli matematici basati sul calcolo delle differenti probabilità che un ricevente, il quale abbia un determinato genotipo, possa incontrare un donatore di tessuto compatibile quando il donatore venga scelto ‛a caso' tra i consanguinei del ricevente oppure fra individui a questi geneticamente estranei.
A questo punto è peraltro necessario introdurre il concetto di ‛antigeni forti' e ‛antigeni deboli' dell'istocompatibilità: in breve, antigeni forti sono quelli la cui incompatibilità porta rapidamente a un rigetto non dominabile dalla terapia antirigetto che viene praticata abitualmente dopo il trapianto; al contrario, l'incompatibilità per antigeni deboli è dominabile dalla terapia antirigetto e comunque non si esprime se non dopo periodi relativamente lunghi dall'esecuzione del trapianto.
Esaminando con questi criteri ampie casistiche di trapianti sperimentali (di cute), senza applicazione della terapia antirigetto, oppure di trapianti clinici di rene (in cui la terapia antirigetto viene applicata e quindi è mascherato tutto o in parte l'effetto degli antigeni deboli), si è giunti alla conclusione che i sistemi dell'istocompatibilità nell'uomo sono complessivamente molto numerosi (analogamente a quanto è stato dimostrato nel topo), ma i sistemi controllanti gli antigeni forti sono in numero limitato, probabilmente non più di due. Uno di questi fu identificato sierologicamente nel sistema di antigeni eritrocitari AB0 cui in precedenza si è fatto cenno; i risultati di esperimenti di trapianti di piccoli lembi di cute e la valutazione dell'esito di trapianti clinici d'organo hanno permesso di concludere che gli antigeni A e B del sistema AB0 sono da considerarsi antigeni forti dell'istocompatibilità. Esistono prove che essi non solo sono presenti sulla superficie dei globuli rossi, ma vengono espressi anche alla superficie delle cellule di tutti o quasi i tessuti. Una prima conclusione, raggiunta a metà degli anni sessanta riguardo agli antigeni dell'istocompatibilità nell'uomo, è che occorre evitare una incompatibilità per gli antigeni A o B. Come conseguenza, tutti i trapianti clinici vengono da tempo eseguiti evitando l'incompatibilità per questi antigeni.
Allorché si analizzano, sempre nell'uomo, gli esiti di trapianti compatibili per il sistema AB0, si osserva che i trapianti eseguiti tra fratelli sopravvivono a lungo nella proporzione di circa il 25%. Ciò sta a provare ulteriormente che, oltre al sistema AB0, probabilmente un solo altro sistema di antigeni dell'istocompatibilità è importante agli effetti del rigetto dei trapianti.
d) Gli antigeni leucocitari.
Parallelamente alle osservazioni compiute esaminando gli esiti di trapianti, sono stati eseguiti tentativi di identificazione sierologica degli antigeni principali dell'istocompatibilità, oltre a quelli del sistema AB0. Un importante contributo fu dato con la dimostrazione che gli antigeni che regolano l'istocompatibilità sono presenti anche sui globuli bianchi del sangue. Infatti se si iniettano leucociti di un individuo in un altro, e successivamente si preleva un lembo di cute al donatore e lo si trapianta nel ricevente, il lembo trapiantato viene rigettato secondo le modalità del rigetto iperacuto o second set rejection. Ciò dimostra che il ricevente del trapianto era venuto a contatto in precedenza con antigeni uguali a quelli del tessuto trapiantato, cioè con gli antigeni dei leucociti che gli erano stati iniettati in un primo tempo. Questa è la dimostrazione che i leucociti (cioè i globuli bianchi) possiedono gli stessi antigeni dell'istocompatibilità presenti alla superficie delle cellule dei tessuti solidi.
Una volta accertato che gli antigeni dell'istocompatibilità sono presenti anche sui globuli bianchi, sono state messe a punto varie tecniche per la loro analisi. Rispetto alle cellule dei tessuti solidi, i globuli bianchi presentano alcuni vantaggi per lo studio in laboratorio: sono infatti elementi cellulari separati l'uno dall'altro, si possono ottenere con grande facilità mediante semplici prelievi di sangue periferico e risultano particolarmente adatti a essere coltivati in vitro. Con tale metodica, ponendo i leucociti a contatto con sieri contenenti anticorpi specifici per un determinato antigene leucocitario di superficie, è possibile dimostrarne la presenza grazie alla conseguente reazione di ‛agglutinazione' (ossia di aggregazione delle cellule in ammassi) oppure di ‛citolisi' (cioè di distruzione delle cellule stesse). Sulla base di queste metodiche è stata sviluppata una serie di ricerche sugli anticorpi antileucocitari e sui fattori da questi identificati che, nel giro di alcuni anni, hanno portato alla identificazione di numerosi antigeni dei leucociti umani.
I principali quesiti posti successivamente avevano lo scopo di stabilire quale sia il controllo genetico della produzione di tali antigeni - se essi cioè dipendano da un solo sistema oppure da più sistemi indipendenti - e di appurare se gli antigeni leucocitari scoperti mediante indagini sierologiche in vitro siano gli stessi che in vivo provocano, con la loro incompatibilità, il rigetto dei trapianti. Chiarire se gli antigeni leucocitari siano controllati da una sola regione cromosomica oppure da più regioni cromosomiche indipendenti è importante non solo dal punto di vista speculativo ma anche per le notevoli implicazioni pratiche, che saranno esaminate successivamente. Le ricerche in proposito, eseguite con i metodi classici della genetica umana, e cioè osservando la distribuzione degli antigeni nella popolazione e la modalità della loro trasmissione dai genitori ai figli, portarono a concludere che il controllo in questione è operato da un'unica regione cromosomica di limitata estensione. Se questa regione comprenda un singolo locus oppure più loci strettamente associati, è stato chiarito solo in seguito.
4. La regione HLA.
a) Studi sierologici.
Gli antigeni dell'istocompatibilità presenti alla superficie dei linfociti umani furono riconosciuti inizialmente, come si è detto, mediante reazioni sierologiche, impiegando anticorpi specifici reperiti nel siero di individui precedentemente immunizzati (si trattava di persone che avevano ricevuto trasfusioni di sangue, di donne che avevano avuto gravidanze oppure di pazienti che avevano ricevuto trapianti di rene). Mediante queste reazioni sierologiche, generalmente di linfocitotossicità, è stato possibile individuare una serie di antigeni presenti alla superficie non solo di tutti i tipi di linfociti ma anche di tutti i globuli bianchi e di tutte, o quasi, le cellule nucleate degli altri tessuti. Studi genetici sulla distribuzione di tali antigeni in campioni di popolazione e in gruppi familiari consentirono di dimostrare che gli antigeni dell'istocompatibilità individuati alla superficie dei linfociti si suddividono in tre gruppi, controllati da tre loci posti l'uno vicino all'altro in una regione cromosomica che è stata denominata HLA (Human Leukocyte Antigens). Studi ulteriori, sempre condotti con anticorpi reperibili nel siero di immunizzati, hanno reso possibile individuare un altro gruppo di antigeni, presenti questi ultimi alla superficie non di tutti i globuli bianchi bensì di una sola sottopopolazione linfocitaria, i linfociti di tipo B. Si è dimostrato che anche questi ultimi sono controllati da un locus appartenente alla regione cromosomica HLA, denominato, per motivi che verranno chiariti successivamente, locus DR.
b) Le colture miste linfocitarie.
Le indagini sulle strutture antigeniche dell'istocompatibilità presenti alla superficie dei linfociti umani non sono però state limitate all'uso di tecniche di sierologia, bensì ampliate dall'impiego delle metodiche di immunologia cellulare. Si tratta principalmente delle ricerche che fanno uso delle ‛colture miste linfocitarie'. Il principio di questo test è il seguente: è dimostrato che i linfociti di due individui, qualora vengano mescolati in vitro, si ‛attivano' vicendevolmente. L'attivazione consiste nella trasformazione dei linfociti in grandi cellule chiamate ‛blasti', ricche di acido nucleico, e successivamente nella loro entrata in mitosi. Colture miste eseguite tra i linfociti di individui consanguinei oppure geneticamente estranei hanno dimostrato che il grado di attivazione della coltura è in rapporto con la diversità genetica che sussiste fra i soggetti esaminati. È stato anche dimostrato che il grado di attivazione delle colture miste linfocitarie è in rapporto con la compatibilità o meno per il sistema HLA: infatti colture miste di linfociti provenienti da fratelli che siano identici per i prodotti della regione cromosomica HLA non si attivano. Si è quindi dedotto che l'attivazione di una coltura mista linfocitaria dipende dalla differenza che sussiste fra le popolazioni di linfociti in coltura rispetto a prodotti controllati da geni che si trovano anch'essi nella regione cromosomica HLA. È stato possibile individuare tali prodotti mediante colture miste linfocitarie eseguite con particolari accorgimenti tecnici e secondo uno schema di indagine che si avvale dell'uso di linfociti provenienti da figli di matrimoni fra consanguinei. L'accorgimento tecnico consiste nel rendere le colture miste ‛unidirezionali': i linfociti di uno dei due individui vengono trattati con agenti che ne impediscono l'attivazione del DNA, farmaci specifici oppure radiazioni ionizzanti. Le cellule cosi trattate sono ancora in grado di stimolare l'altra popolazione linfocitaria alla divisione, ma non sono più capaci di dividersi esse stesse. Perciò l'attivazione linfocitaria che si osserva a carico di una coltura mista di questo tipo è imputabile ai linfociti di uno solo dei due individui. I linfociti preventivamente trattati in modo da non poter entrare in mitosi vengono chiamati ‛stimolatori'. Con questa tecnica è possibile valutare separatamente, in esperimenti differenti, le due capacità di una popolazione linfocitaria di stimolare l'altra alla mitosi e di entrare in mitosi essa stessa. Il principio genetico sul quale si basa l'utilizzazione delle colture miste unidirezionali per giungere alla descrizione delle strutture responsabili dell'attivazione è quello di usare come stimolatori cellule di un individuo omozigote per i geni della regione HLA, nella supposizione, come si è detto innanzi, che la stimolazione venga esercitata da strutture controllate dalla regione HLA. Per trovare individui omozigoti pur non conoscendo preventivamente il locus che si vuole studiare, si può ricorrere vantaggiosamente all'uso di cellule provenienti da donatori i quali siano figli di consanguinei. Infatti, come è noto, il matrimonio fra consanguinei aumenta la probabilità per i figli di essere omozigoti a uno qualunque dei loro loci. Per i figli di cugini di primo grado la probabilità di omozigosi a un qualunque locus è 1/16. Raccogliendo numerosi campioni di linfociti provenienti da figli di matrimoni fra cugini di primo grado e usandoli come stimolatori in coltura mista unidirezionale, ne è stata trovata una certa percentuale (appunto approssimativamente uno su sedici) che si dimostrava incapace di stimolare l'attivazione in coltura di alcuni campioni di linfociti. Questa osservazione ha portato a concludere che tali campioni di cellule stimolatrici provenivano da individui effettivamente omozigoti per il gene responsabile dell'attivazione dei linfociti posti in coltura mista, e che i linfociti capaci di reagire contro tali stimolatori possedevano un antigene uguale a quello presente allo stato omozigote sulle cellule stimolatrici. In tal modo è stato possibile identificare una serie di strutture di superficie dei linfociti, responsabili dell'attivazione di colture miste. Si è dimostrato che tali strutture sono controllate da una serie di alleli a un solo locus, presente anch'esso nella regione cr0mosomica HLA e denominato HLA-D. In realtà non è certo che queste strutture siano dotate di caratteristiche antigeniche, perché esse sono state scoperte non attraverso reazioni antigene-anticorpo bensì mediante la loro capacità di attivare colture miste linfocitarie. Un paragone fra le strutture HLA-D e gli antigeni HLA-DR, menzionati in precedenza, ha permesso di appurare che vi sono strette correlazioni fra queste due serie di prodotti genici. Infatti nella maggior parte dei casi alla presenza di una data struttura HLA-D corrisponde nei linfociti dello stesso individuo la presenza di una data struttura DR. Questo è il motivo per il quale i prodotti del locus DR hanno questo nome, che significa D-Related.
c) I loci della regione HLA e i fenotipi HLA.
La ricerca degli antigeni dell'istocompatibilità condotta fino all'inizio degli anni ottanta ha dunque consentito di identificare strutture antigeniche presenti alla superficie di tutte le cellule, o solo di qualche popolazione cellulare, controllate da cinque loci strettamente associati fra loro nell'ambito di una regione cromosomica di dimensioni limitate, denominata HLA. Ciascuno di questi loci è altamente polimorfico: ciò significa che esistono nella popolazione numerosi alleli a ciascun locus. Essi sono alcune decine per i loci HLA-A e HLA-B; per ciascuno dei loci HLA-C, HLA-D e HLA-DR ne sono stati invece identificati finora solo circa una decina. Poiché ogni individuo, essendo diploide, possiede due alleli per ciascuno di questi loci, e poiché ciascun locus è notevolmente polimorfico, la maggior parte degli individui sarà eterozigote a ognuno dei cinque loci, cioè avrà dieci antigeni HLA controllati dai loci finora noti. La conseguenza di questo polimorfismo così elevato è che sono possibili moltissime combinazioni fenotipiche HLA diverse; si può infatti facilmente calcolare come il loro numero sia di molti milioni. Ciascuna di queste combinazioni ovviamente è rara o rarissima. Peraltro si osserva che alcune combinazioni di antigeni sono un po' più frequenti di quanto ci si attenda. Ciò è causato dal fenomeno dell'‛associazione gametica preferenziale' o linkage disequilibrium, che consiste in questo: la presenza di alleli HLA su un medesimo cromosoma dovrebbe dipendere solamente dalla frequenza di ciascuno di questi alleli nella popolazione, mentre in effetti si riscontra che alcune combinazioni di alleli HLA si trovano presenti su un medesimo cromosoma più spesso dell'atteso. Questa associazione preferenziale può avere varie cause, ma si è orientati a credere che quella principale sia di carattere evolutivo e cioè che certe associazioni di alleli HLA sarebbero state favorite dalla selezione naturale (v. sangue: Genetica del sangue).
Per il numero elevatissimo di combinazioni HLA presenti nella popolazione è molto improbabile trovare due individui che possiedano i medesimi antigeni HLA. Questo rende molto difficile, praticamente impossibile, poter eseguire trapianti nei quali il donatore di organo e il ricevente siano identici per tutti gli antigeni HLA, se il trapianto è fra due individui geneticamente estranei. A questa difficoltà può forse aggiungersene un'altra: non si è in grado di sapere se nella regione HLA esistano altri loci, per il momento ancora sconosciuti, i quali codifichino per strutture cellulari coinvolte anch'esse nel rigetto dei trapianti. Peraltro, studi paralleli eseguiti su animali da esperimento (principalmente il topo) fanno supporre che nella regione HLA umana esistano tali loci, ancora sconosciuti. Perciò nel caso di un trapianto tra estranei anche una perfetta identità per gli antigeni HLA sinora noti non garantisce un'assoluta compatibilità per tutte le strutture HLA, comprese quelle eventuali non ancora identificate. Diverso è il caso di un trapianto che si esegua tra fratelli. Infatti, poiché la regione cromosomica HLA è di dimensioni relativamente ridotte, essa viene di solito trasmessa dai genitori ai figli come se fosse un unico gene, in blocco. Ciò significa che due fratelli hanno il 25% di probabilità di avere ereditato dai genitori i medesimi geni HLA, e dunque di essere geneticamente identici per tutti i prodotti di quella regione cromosomica. Perciò, se mediante la tipizzazione per gli antigeni HLA finora identificati si giunge a stabilire che due fratelli hanno ricevuto dai genitori i medesimi geni HLA, si avrà la certezza che essi sono identici anche per altri eventuali prodotti HLA non ancora identificati. Se si esegue un trapianto clinico tra due fratelli identici per i geni HLA, si osserva che il trapianto ha una sopravvivenza molto prolungata. Per i trapianti di rene, per i quali esiste l'esperienza più vasta, si è osservato che quando il donatore è un fratello del ricevente, identico a questo per la regione HLA, il rene trapiantato è ancora funzionante dopo molti anni in circa il 90% dei casi. Queste osservazioni confermano che i fattori principali che regolano il rigetto del trapianto sono controllati dalla regione HLA. Probabilmente essi sono costituiti in parte dagli antigeni HLA finora scoperti, in parte da altri antigeni HLA: infatti trapianti eseguiti fra individui geneticamente estranei, pur uguali per tutti gli antigeni HLA noti, mostrano una sopravvivenza a lunga distanza in una percentuale di casi minore di quella riscontrata nei trapianti tra fratelli identici.
d) Funzione delle strutture HLA.
Si è detto in precedenza che a causa dell'elevato numero di diversi fenotipi HLA presenti nella popolazione, la probabilità di trovare donatore e ricevente geneticamente estranei identici per tutti i fattori HLA è pressoché nulla. Si tratta ora di vedere se le informazioni finora accumulate sul sistema HLA consentano comunque in pratica di eseguire trapianti clinici che abbiano una buona probabilità di successo a lunga scadenza. Per discutere questo problema è opportuno richiamare brevemente quanto si sa attualmente sulla funzione biologica delle varie strutture HLA. Studi sperimentali condotti su numerose specie animali hanno permesso innanzitutto di appurare che in tutti i Mammiferi e anche in animali evolutivamente molto più lontani dall'uomo, come gli Uccelli, esiste una regione cromosomica che controlla il rigetto dei trapianti, la quale sia per l'assetto dei suoi loci che per la sua funzione può dirsi analoga alla regione cromosomica HLA umana. Questa regione, chiamata genericamente ‛complesso principale dell'istocompatibilità', è quindi filogeneticamente molto antica: ciò significa che i prodotti da essa controllati debbono essere di importanza notevole. Studi condotti soprattutto su specie animali diverse da quella umana, in particolare topo e cavia, stanno ora chiarendo che i prodotti del complesso principale dell'istocompatibilità svolgono una funzione essenziale nel campo della reattività immunologica. Sotto questo aspetto essi sembrano avere importanza in vari processi, fra i quali il riconoscimento delle strutture estranee contro le quali mettere in atto una reazione immunitaria, e l'innesco delle reazioni immunitarie stesse. Quale sia la funzione, nell'ambito generale del controllo delle reazioni immunologiche, dei prodotti dei singoli loci HLA umani finora noti, non è ancora del tutto chiaro. Per quanto riguarda i trapianti, a quanto sembra i prodotti dei loci D-DR (com'è stato accennato in precedenza, è possibile che D e DR siano il medesimo locus) sarebbero i responsabili dello stimolo iniziale della risposta immunologica tessutale; questo fenomeno sarebbe rappresentato in vitro appunto dalla stimolazione dei linfociti posti in coltura mista. Lo stimolo di una reattività immunologica conduce alla proliferazione di popolazioni di linfociti chiamati killers (deputati a uccidere), che avrebbero la funzione di aggredire gli agenti estranei. Nel caso del rigetto del trapianto, l'azione di queste cellule killers si esplicherebbe contro le cellule del tessuto trapiantato: il loro bersaglio sarebbe costituito dagli antigeni HLA-A, B o C. In una visione semplificata della reazione di rigetto del trapianto sembra perciò che una incompatibilità fra donatore e ricevente per HLA-D e/o DR abbia la funzione di scatenare l'inizio della reazione di rigetto mediante la produzione di cellule killers, mentre un'incompatibilità per gli antigeni HLA-A, B e (forse) C metterebbe a disposizione delle cellule killers i bersagli contro cui esse si dirigerebbero specificamente per aggredire le cellule trapiantate. Schematicamente perciò sembra sufficiente che fra un donatore e un ricevente di trapianto venga rispettata la compatibilità HLA-D o DR, in modo da non consentire l'inizio di una reazione di rigetto. Oppure, nel caso che questo non sia possibile, il rispetto di una compatibilità per gli antigeni HLA-A, B e C non permetterebbe alle cellule killers prodotte di trovare un bersaglio idoneo contro il quale rivolgersi per distruggere le cellule trapiantate. In effetti, sperimentalmente si è verificato che anche il solo rispetto della compatibilità per uno di questi due gruppi di antigeni (D/DR oppure A, B, C) consente una sopravvivenza media del trapianto migliore di quella di un trapianto eseguito senza tener conto di alcuna compatibilità. Inoltre si è osservato che il rispetto della compatibilità per ambedue questi gruppi di antigeni consente una sopravvivenza del trapianto ancora migliore. Occorre pur sempre tener presente però che non tutti i prodotti della regione HLA sono noti, e probabilmente non è ancora stata identificata qualche altra struttura, anch'essa di importanza rilevante per l'istocompatibilità.
5. Le caratteristiche immunologiche del ricevente.
La selezione di un ricevente idoneo deve tener conto di fattori che vanno al di là della sola compatibilità per gli antigeni tessutali, di cui si è parlato finora, e coinvolgono anche caratteristiche proprie del ricevente. Infatti la prontezza e l'intensità con cui un individuo è in grado di esplicare una reazione di rigetto non dipendono solo dal grado di incompatibilità per gli antigeni prima illustrati, ma anche dalle caratteristiche immunologiche dell'individuo stesso.
Una di queste è la capacità più o meno elevata di porre in atto reazioni immunitarie. Nel corso di esperimenti su animali si è osservato che nell'ambito di una stessa specie vi sono effettivamente individui più capaci e individui meno capaci di esplicare reazioni immunologiche contro certi antigeni. Iniettando un medesimo antigene in vari animali di una stessa specie si osserva che alcuni producono forti quantità di anticorpi, altri producono pochi anticorpi, altri ancora non ne producono affatto. Anche nell'uomo si possono riscontrare fenomeni analoghi: ad esempio, se si somministra uno stesso vaccino a numerose persone si può osservare come la risposta (immunitaria) allo stimolo antigenico sia diversa da caso a caso: in alcuni individui la risposta è molto intensa, in altri è di entità media, in altri infine è molto scarsa o manca del tutto. Questa capacità di fornire risposte immunologiche di grado più o meno elevato sembra essere in parte generica, in parte specificamente in rapporto a determinati antigeni: un organismo può cioè esplicare reazioni immunologiche intense, di media entità o scarse contro qualunque antigene gli venga iniettato, in relazione a una caratteristica generale della sua capacità di risposta immunologica; oppure può mostrare una particolare iperreattività o iporeattività nei confronti di un certo antigene o di un certo gruppo di antigeni e reattività normale per tutti gli altri antigeni, espressione di una capacità di risposta immunologica specifica nei confronti di quell'antigene o di quel gruppo di antigeni.
Per valutare la capacità generica di reazione immunitaria, sono eseguibili test che consentono di distinguere nella popolazione individui che generalmente forniscono risposte immunologiche vivaci (i cosiddetti high responders) e individui la cui capacità di risposta sembra generalmente più bassa della norma (detti low responders). Naturalmente, la possibilità di prevedere caso per caso il rischio di una reazione di rigetto più o meno intensa e più o meno precoce è della massima importanza nella selezione dei pazienti che debbono ricevere un trapianto a scopo terapeutico.
Per quanto riguarda invece la capacità di risposta specifica contro gli antigeni dell'istocompatibilità, studi condotti su animali da esperimento hanno dimostrato che vi sono individui meno reattivi degli altri. Sono in atto ricerche per appurare se questo tipo di fenomeno si verifichi anche nell'uomo e se sia possibile mettere a punto test di laboratorio che consentano di riconoscere individui la cui capacità di risposta immunologica nei confronti degli antigeni dell'istocompatibilità, o di alcuni di essi, sia diversa dalla media. È evidente che anche la possibilità di definire questa caratteristica rappresenterebbe un altro elemento di notevole significato nella valutazione delle probabilità di riuscita di un trapianto.
Della massima importanza è anche l'eventuale esistenza, nel sangue di un paziente che debba ricevere un trapianto, di anticorpi specifici per gli antigeni HLA. Infatti, poiché tali antigeni sono presenti sia sulla superficie delle cellule dei tessuti solidi, sia su quella dei globuli bianchi, la produzione di anticorpi anti-HLA può conseguire anche a trasfusioni di sangue. Un altro evento in occasione del quale possono essere prodotti anticorpi anti-HLA è la gravidanza: infatti, se il feto ha ereditato dal padre antigeni HLA diversi da quelli della madre, l'entrata di leucociti fetali nel sangue materno può stimolare la madre a produrre anticorpi anti-HLA. Questa situazione si verifica con elevata frequenza: si calcola che almeno il 30% delle donne produca anticorpi anti-HLA nel corso di gravidanze. I dati sull'esito di trapianti terapeutici dimostrano che i pazienti che al momento del trapianto possedevano anticorpi citotossici per i linfociti del donatore di organo hanno un'elevata probabilità di presentare il cosiddetto ‛rigetto iperacuto'.
La presenza nel ricevente di anticorpi citotossici antiHLA, quand'anche non diretti contro i linfociti del donatore di trapianto, sembra costituire comunque un evento sfavorevole: la maggior parte delle statistiche sui trapianti d'organo eseguiti finora consente di rilevare che la sopravvivenza di trapianti in riceventi che avevano già prima del trapianto anticorpi anti-HLA, seppure apparentemente non diretti contro antigeni presenti sulle cellule trapiantate, è più breve di quella dei trapianti eseguiti in pazienti in cui tali anticorpi non erano stati dimostrati. A prescindere dalle diverse possibili cause di questo fenomeno, sia di carattere tecnico sia di ordine biologico, sembra comunque assodato che la presenza di anticorpi in un ricevente comporta una maggiore probabilità di prognosi sfavorevole dell'esito del trapianto.
6. Organizzazione dei trapianti in clinica.
Da quanto detto finora risulta che i fattori che occorre valutare al momento di decidere se eseguire un trapianto in un certo paziente sono molteplici: gli antigeni tessutali dell'organo che si intende trapiantare e quelli del ricevente, la reattività immunologica del ricevente stesso, la preesistenza in questi di anticorpi anti-HLA. Ne risulta quindi chiaramente la necessità di operare caso per caso la scelta del più favorevole accoppiamento donatore-ricevente fra un numero molto vasto di individui.
Poiché l'orientamento attuale è quello di trapiantare organi prelevati da cadaveri, e non esistendo ancora metodiche di conservazione che permettano di mantenere un organo in buone condizioni per lunghi periodi, un organo prelevato da un cadavere deve essere trapiantato entro poche ore. Per questo motivo non è per ora attuabile una ‛banca di organi' ove conservare numerosi organi fra i quali si possa scegliere di volta in volta quello più adatto per un determinato paziente. Perciò il problema della scelta viene risolto capovolgendo i termini, cioè scegliendo fra numerosi possibili riceventi quello più adatto all'organo disponibile.
Sono quindi sorte organizzazioni su vasta scala, che riuniscono numerosi centri ospedalieri per l'esecuzione dei trapianti di rene, che sono per ora quelli praticati più largamente. Lo schema di queste organizzazioni è il seguente: tutti i pazienti che necessitano di trapianto di rene vengono tenuti in vita mediante emodialisi extracorporea, cioè con il cosiddetto ‛rene artificiale', apparecchio capace di esplicare funzioni di depurazione simili a quelle del rene. Intanto le loro caratteristiche utilizzabili per valutare l'opportunità del trapianto, cioè tutte quelle precedentemente illustrate unitamente ai dati clinici, vengono analizzate e inserite nella memoria di un calcolatore elettronico centralizzato. Allorché si rende disponibile un organo da prelevare da un cadavere, vengono rapidamente esaminati gli antigeni HLA del donatore, mentre l'organo viene asportato chirurgicamente e mantenuto in condizioni ottimali. La tipizzazione HLA del donatore viene comunicata al medesimo calcolatore, il quale sceglie fra i pazienti di cui ha memorizzato le caratteristiche i soggetti più idonei a ricevere l'organo. Con i sieri di questi pazienti vengono allora eseguite prove per accertare l'eventuale presenza in essi di anticorpi diretti contro gli antigeni HLA del donatore. Alla fine della serie di analisi viene scelto il ricevente più idoneo: l'organo è allora inviato all'ospedale cui il paziente appartiene e viene quindi trapiantato.
Si è detto prima che, per avere una buona probabilità di individuare un ricevente compatibile allorché si rende disponibile un organo, è necessario poter esercitare la scelta fra un numero il più alto possibile di pazienti, di un ordine comunque non inferiore a parecchie centinaia. D'altra parte ogni centro ospedaliero può curare con il rene artificiale un numero limitato di malati, spesso non più di qualche decina. Quindi la possibilità di scelta deve essere estesa ai pazienti di numerosi ospedali; si è anzi calcolato che un'organizzazione adeguata dovrebbe estendersi, per essere efficiente, a tutti i malati esistenti in una popolazione di qualche decina di milioni di abitanti. Per questo motivo sono nate, per lo scambio di organi per i trapianti, organizzazioni nazionali o sopranazionali. La prima di queste (chiamata Eurotransplant) è sorta nel 1967 e raggruppa in un solo organismo collaborativo i centri ospedalieri di quattro nazioni dell'Europa settentrionale: Olanda, Belgio, Lussemburgo e Germania Occidentale. Successivamente, altri gruppi di collaborazione simili sono nati in Europa e in altri continenti. I trapianti eseguiti in questo ambito sono molte migliaia. Questo costituisce al momento uno degli esempi migliori di collaborazione internazionale in campo medico, collaborazione che risulta tanto più necessaria quanto più complesse e delicate divengono le possibilità terapeutiche.
7. La terapia antirigetto.
a) Terapia immunosoppressiva.
Operata nel modo migliore la scelta di un organo da trapiantare a un determinato paziente ed eseguito il trapianto, si pone un'altra serie di problemi riguardanti l'applicazione di un trattamento terapeutico che inibisca, o rallenti il più possibile, la reazione di rigetto. Gran parte del trattamento antirigetto è costituito dalla ‛terapia immunosoppressiva', che consiste nell'inibire la capacità di un individuo di sviluppare una reazione immunologica contro antigeni estranei al proprio organismo; evidentemente, in queste condizioni il trapianto non verrà rigettato. Questo scopo viene perseguito o mediante un mezzo fisico (radiazioni) oppure attraverso farmaci, sintetici e non. La terapia immunosoppressiva, peraltro, non presenta solo vantaggi, ma in genere anche notevoli inconvenienti, di maggiore o minore gravità a seconda del trattamento impiegato: i mezzi immunosoppressivi possiedono tutti un grado vario di nocività, e non possono quindi essere usati senza pericolo. L'inconveniente più importante, comunque, è costituito dal pericolo di sopprimere la capacità dell'organismo di reagire immunologicamente non solo contro gli antigeni del tessuto trapiantato, bensì in generale contro tutti gli antigeni: ne consegue quindi un'inibizione della capacità di difesa contro agenti patogeni (batteri o virus) con cui l'organismo si trovi a contatto. La ricerca scientifica nel campo dell'immunosoppressione tende soprattutto a due obiettivi: a) trovare mezzi innocui, che possano essere impiegati senza effetti nocivi collaterali; b) mettere a punto la possibilità di provocare una immunosoppressione ‛specifica', di sopprimere cioè la capacità di reazione immunitaria dell'organismo solo nei confronti del tessuto trapiantato, lasciando invece integra quella di reagire contro tutti gli altri antigeni.
Uno dei mezzi immunosoppressivi attualmente impiegati è rappresentato dalle radiazioni, sostanzialmente erogate con lo scopo di distruggere le cellule immunocompetenti: alla sua base è l'osservazione che in un animale precedentemente sottoposto a irradiazione Röntgen è possibile ottenere l'attecchimento di un trapianto. La pratica inizialmente tentata dell'irradiazione totale dell'organismo risultò tuttavia notevolmente pericolosa, in quanto, oltre a vari altri effetti collaterali, provocava la distruzione del midollo osseo, impedendo quindi la sopravvivenza. Si sono allora tentate altre modalità di trattamento radiante, quale ad esempio l'irradiazione della sola zona del trapianto, con lo scopo di distruggere le cellule immunocompetenti dell'ospite che si raccolgono intorno all'organo trapiantato per provocarne la distruzione. Ancora, è possibile irradiare il sangue del paziente al di fuori dell'organismo: esponendo a una fonte di radiazioni una cannula inserita con le sue estremità rispettivamente in un'arteria e in una vena è possibile distruggere almeno una parte delle cellule immunocompetenti ematiche nel momento in cui il flusso di sangue si trova all'esterno dell'organismo.
Un altro tipo di trattamento immunosoppressivo consiste non nell'uccidere, bensì nel togliere dall'organismo le cellule immunocompetenti. Questo obiettivo viene perseguito sostanzialmente attraverso tre modalità: a) deplezione di linfociti del dotto toracico, grosso vaso nel quale scorre la linfa, che è particolarmente ricca di linfociti: praticando un'apertura nel dotto toracico si può estrarre una grande quantità di linfa e quindi ottenere una significativa diminuzione del numero di linfociti dell'organismo; b) ablazione della milza, organo linfoide che ha un ruolo importante nella reattività immunologica; c) ablazione del timo, altro organo di fondamentale importanza agli effetti della risposta immunologica.
Un'ulteriore categoria di mezzi immunosoppressori è costituita dai farmaci: fra questi, quelli usati da più lungo tempo sono i cortisonici, dotati di proprietà antinfiammatorie e in grado quindi di favorire sia l'attecchimento del trapianto sia la risoluzione delle crisi di rigetto che si presentano nel corso della vita del trapianto stesso. Vengono attualmente impiegati numerosi farmaci di sintesi, la cui funzione è in generale quella di ostacolare la divisione cellulare (mitosi) e quindi quella delle cellule immunocompetenti che costituisce la prima fase della reazione di rigetto del trapianto: il più noto di questi farmaci è l'azatioprina, che esplica nell'uomo un'azione immunosoppressiva più marcata di quella di tutti gli altri farmaci di sintesi noti (v. chemioterapia antineoplastica e immunologia e immunopatologia: Immunologia generale).
Un altro immunosoppressore che da alcuni anni viene usato molto largamente in tutti i centri di trapianto è il siero antilinfocitario, antisiero contenente anticorpi anticellule immunocompetenti umane, prodotto da animali ai quali vengono iniettati linfociti oppure cellule di milza o di timo di uomo. L'antisiero prodotto in questo modo e iniettato in un ricevente di trapianto esplica una notevole attività immunosoppressiva e generalmente non dà luogo a rilevanti fenomeni nocivi collaterali: si dice cioè che ha un buon ‛indice terapeutico'. Altri aspetti positivi del siero antilinfocitario sono i seguenti: a) può essere utilizzato sia per sopprimere la prima reazione immunologica esplicata nei confronti del trapianto ('risposta primaria'), sia per combattere crisi di rigetto iperacuto, solitamente più difficili da dominare; b) sembra capace di superare, almeno in parte, anche l'incompatibilità per gli antigeni più ‛forti', quelli cioè la cui incompatibilità non è in genere dominabile con la terapia immunosoppressiva; c) la sua azione sembra inoltre contrastare, più che quella umorale, la risposta immunologica cellulare che presumibilmente svolge il ruolo più importante nel rigetto del trapianto, risultando così significativamente specifica.
b) Terapia selettiva.
Oltre che con i mezzi antirigetto precedentemente citati, la cui azione è prevalentemente aspecifica (cioè diretta contro la capacità di reazione immunitaria globale del paziente), sono stati effettuati tentativi di proteggere l'organo trapiantato con procedimenti che lascino intatta la capacità del paziente stesso di reagire immunologicamente contro altri antigeni. Alcuni di tali metodi terapeutici si basano sul principio che la reazione contro un organo trapiantato è messa in atto non da tutte le cellule immunocompetenti dell'organismo ma solo da alcune, dotate della capacità di reagire specificamente contro gli antigeni del tessuto estraneo. Queste cellule, attivate dal tessuto trapiantato, si moltiplicano fino a dar luogo a una vasta popolazione di cellule, ognuna delle quali è in grado di attaccare il trapianto; da poche cellule iniziali, quindi, se ne originano numerose altre, aventi la stessa specificità immunologica delle progenitrici (teoria clonale della risposta immunologica: v. immunologia e immunopatologia: Immunologia generale e Malattie autoimmuni). Se si fa agire un farmaco capace di colpire selettivamente le poche cellule immunocompetenti progenitrici attivate dal contatto con l'antigene e avviate quindi alla mitosi, queste ne risultano pressoché totalmente distrutte, mentre tutte le altre cellule immunocompetenti dell'organismo rimangono intatte. In tal modo, eliminando solo le cellule capaci di iniziare una reazione contro un determinato trapianto, può esserne evitato il rigetto pur non inibendo tutte le altre reazioni immunologiche dell'organismo (mediate da cellule immunocompetenti diverse). Sulla base di questo principio sono state tentate terapie consistenti nella somministrazione al ricevente, prima del trapianto, di alcune cellule provenienti dallo stesso individuo da cui verrà prelevato l'organo da trapiantare, oppure di estratti purificati di antigeni HLA uguali a quelli del donatore; in seguito allo stimolo immunologico prodotto dalle cellule o dall'antigene purificato, vengono attivate selettivamente le cellule immunocompetenti del ricevente da cui dovrà avere inizio la reazione di rigetto. Se a quel punto si somministra al ricevente stesso un farmaco capace di distruggere le cellule in mitosi, le cellule immunocompetenti attivate saranno almeno in parte distrutte.
Un altro mezzo per attuare una terapia antirigetto selettiva è quello di evocare un fenomeno di ‛facilitazione immunologica': questa consiste nel tentativo di ‛mascherare' gli antigeni dell'istocompatibilità delle cellule trapiantate in modo che essi, così mascherati, non possano essere attaccati dall'apparato immunocompetente dell'ospite. Tale obiettivo viene perseguito facendo aderire alle cellule anticorpi anti-HLA specifici per i loro antigeni, dopo aver selezionato e privato questi ultimi di una parte di una molecola essenziale perché l'anticorpo possa esplicare la sua azione citolitica. Conseguentemente la porzione della molecola anticorpale che aderisce all'antigene lo ‛maschera' e ne impedisce il riconoscimento da parte delle cellule immunocompetenti dell'ospite.
Infine, un modo ulteriore per prevenire il rigetto è stato scoperto quasi casualmente quando, indagando sull'andamento dei trapianti, si osservò che in pazienti che prima del trapianto avevano ricevuto trasfusioni l'organo trapiantato aveva una sopravvivenza prolungata. Il meccanismo dell'azione favorevole delle trasfusioni non è stato ancora chiarito; esso però sembra dipendere dal riconoscimento di qualche struttura dei globuli bianchi del donatore controllata dal sistema HLA e non presente nel ricevente. Infatti non esercitano questa azione le trasfusioni di soli globuli rossi (private dei leucociti), o quelle provenienti da un fratello del ricevente identico a questi per il sistema HLA. Fra le varie ipotesi formulate per spiegare tale effetto la più probabile sembra quella secondo cui le trasfusioni stimolano la produzione di cellule appartenenti a una particolare sottopopolazione linfocitaria, quella dei linfociti ‛T-soppressori': tali cellule avrebbero la capacità di sopprimere, almeno in parte, la reazione di rigetto del trapianto. Qualunque sia il suo esatto meccanismo protettivo, l'efficacia dimostrata da questa pratica ha fatto sì che quasi nessun trapianto venga oggi eseguito prima che il ricevente sia sottoposto a una o più trasfusioni di sangue.
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