Trapianto
Quando una parte dell'Altro diviene parte del Sé
Le implicazioni psicologiche dei trapianti d'organo
di Carlo Umberto Casciani e Marco Zanasi
3 febbraio
Il neozelandese Clint Hallam, il primo paziente su cui era stato praticato questo tipo di intervento, si fa amputare la mano che gli era stata trapiantata nel settembre 1998. Hallam ha motivato la sua richiesta affermando di non essersi mai potuto abituare alla nuova mano che continuava a sentire come 'estranea'. In effetti a interventi chirurgici complessi quali quelli rappresentati dai trapianti si accompagnano non solo sostanziali problematiche di tipo biomedico, ma anche rilevanti connotazioni psicologiche, che riguardano sia il ricevente sia le famiglie dei donatori sia, infine, gli operatori sanitari.
La modifica dell'autorappresentazione
La tecnica dei trapianti ha rappresentato una notevolissima conquista scientifica, restituendo speranza dove prima vi era spesso solo sofferenza, invalidità e rassegnata attesa della morte, ma, nel contempo, ha dato vita a inattesi problemi psicologici e morali che costituiscono una nuova frontiera di studio per gli specialisti e una sfida per la società. Per mezzo dei trapianti, le chimere sono scese tra noi dal mondo del mito, richiedendo alla nostra specie nuove e inedite risposte. Per la prima volta nella storia dell'uomo è possibile violare la barriera che separa il Sé dall'Altro e agire sulla nostra più profonda essenza di corpi abitati da menti.
La prima conseguenza di ciò è che il trapiantato deve fronteggiare una modificazione della propria rappresentazione di Sé, che ha profonde ricadute sul successivo iter del post-trapianto. La consapevolezza di noi stessi, della nostra corporeità, della nostra unicità di esseri viventi in relazione ad altri viventi, della nostra similarità e contemporanea profonda diversità rispetto ad altri non è, infatti, un dato scontato. Anche se ci sembra di identificarci automaticamente con il nostro Sé, di 'essere' il nostro corpo, in realtà la rappresentazione di noi stessi, l'immagine del nostro corpo, è il frutto di un lungo processo evolutivo che comincia verso i due anni di età e si conclude circa nel quinto anno di vita. All'inizio della vita il neonato non avverte il corpo come una struttura unica, separata dal resto del mondo, ma lo sente solo attraverso le sensazioni fisiche ed emotive del piacere/dispiacere, della nutrizione, del succhiare, dell'essere accudito, toccato; queste sensazioni vengono sperimentate in modo frammentario e non come provenienti da una stessa fonte. Solo quando queste sensazioni diffuse e parcellari vengono riunite in un tutto unitario il bambino può sentirsi 'un corpo', una struttura materiale unica e indivisibile che è il fondamento della propria identità. La riunificazione di questi dati percettivi è il frutto di un processo psicologico che costruisce, all'interno della nostra mente, uno schema specifico: questo costituisce la rappresentazione, l'immagine di noi stessi in quanto creature fisiche, indipendenti e dotate di continuità nel tempo.
Da un punto di vista psicologico noi non 'abbiamo' un corpo, ma piuttosto 'abitiamo' il nostro corpo, o per meglio dire 'siamo' il nostro corpo. Questa rappresentazione interna del corpo non è una mera trasposizione dall'esterno dei dati sensoriali del nostro corpo fisico, ma piuttosto il frutto di una combinazione di immagini interne e raffigurazioni fisiche la cui stabilità è essenziale per il mantenimento della continuità dell'Io. Noi non ci rappresentiamo come ci vedono gli altri, la rappresentazione mentale di noi stessi ha ben poco di oggettivo, intrisa come è di contenuti che hanno a che fare con il nostro mondo immaginario e fantastico; basti pensare al senso di stupore e di estraneità che ci dà sentire la nostra voce registrata, o vederci su uno schermo televisivo ripresi da una telecamera. L'immagine del corpo equivale al quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire al modo in cui il corpo appare a noi stessi. Ed è questo schema di rappresentazione unico e assolutamente specifico che costituisce l'interfaccia e il tramite con il mondo esterno.
Questa premessa è importante per renderci conto di quali e quanti contenuti psicologici sono riversati nella nostra rappresentazione personale e, in definitiva, nella nostra identità che, come detto, si fonda imprescindibilmente sul fatto che noi siamo un corpo. Il trapianto comporta una modificazione di questa immagine personale, su cui è stata costruita l'identità, e quindi coinvolge profondamente anche il fondamento stesso della personalità.
La presenza di un organo estraneo all'interno del corpo implica un'alterazione della autorappresentazione e del senso di identità, con conseguenti implicazioni di carattere psicopatologico, che possono andare da ansia, incertezza, depressione dell'umore fino a gravi alterazioni psichiche, quale la depersonalizzazione, o psicosi.
La psicologia del ricevente
Subire un trapianto suscita numerose fantasie che, se non riconosciute, possono costituire una grave interferenza sul successivo decorso della storia clinica del soggetto. Verosimilmente, la prima fantasia che viene a essere attivata è quella della predazione: ricevere un organo significa essere immersi in un'antinomia caratterizzata dalla feroce logica del mors tua vita mea che, nel migliore dei casi, presuppone una mutilazione (anche se volontaria) del donatore, nel peggiore è imprescindibile dalla morte del donatore stesso.
Solitamente la donazione è letta in una chiave morale, come espressione di sentimenti di bontà e altruismo, ma ciò rappresenta un'interpretazione frettolosa e superficiale che testimonia la difficoltà di affrontare le dinamiche inconsce sottostanti, con il loro carico di aspetti penosi e inaccettabili. Ciò è dimostrato dalla generalizzata, ed eufemistica, definizione di donatore, estesa anche a quelle situazioni in cui la volontarietà del donare è inesistente, ma si dovrebbe parlare più correttamente di prelievo da cadavere. Appare evidente, in questa ridefinizione 'buonista', l'unanime e condivisa necessità di difendersi dalle fantasie di morte che l'espianto evoca.
I progressi della medicina hanno creato un monstrum quale il cadavere a cuore battente che, al di là dell'apparente accettazione razionale, risulta inconcepibile per la parte più profonda della psiche: noi non riusciamo a considerare realmente morto ciò che appare ancora dotato di vita, caldo e respirante; a livello della mente inconscia, regolata da antichissimi schemi, l'espianto è indistinguibile da un'uccisione. Il soggetto trapiantato si deve cimentare con il fatto che la donazione è collegata a una morte che spesso non si ha né il tempo, né la capacità socioculturale di riconoscere e accettare. Naturalmente il trapiantato non è certamente responsabile della morte del donatore, ma non vi è dubbio che fantasie di colpa, di avidità, simili a quelle che si osservano nei parenti di persone decedute e che sono note come 'sindrome del sopravvissuto', giochino un ruolo molto importante nella successiva alterazione dell'immagine di Sé.
Importante è poi considerare l'impatto emotivo che certe tipologie di organi trapiantati possono suscitare nel soggetto; il trapianto di cuore rappresenta forse il più significativo di questi aspetti. Nonostante sia noto a tutti che il cuore non è altro che una pompa muscolare, quest'organo è da sempre simbolicamente rappresentato come sede delle emozioni, dell'amore e del coraggio; nel caso di un trapianto cardiaco è impossibile non considerare questi aspetti. Avere il cuore di un altro può provocare nel ricevente profonde alterazioni del corredo simbolico e del modo di rappresentarsi: è nota dalla letteratura una serie di profonde alterazioni psicopatologiche nei trapiantati di cuore: ansietà, depressione, labilità emozionale, disadattamento sociale, difficoltà sessuali, fino ad arrivare all'instaurarsi di quadri francamente psicopatologici, quali delirio e psicosi. Di nuovo sono in gioco, in maniera esasperata, quei sottili, e inconsci, aspetti che rimandano all'idea dell'unità di Sé e della rappresentazione del proprio corpo. Come dicevamo, la rappresentazione che abbiamo di noi stessi è intimamente legata a quella del nostro corpo: ricevere un organo così intriso di aspetti simbolici potenti e universalmente condivisi come il cuore può essere vissuto come un attentato alla nostra unicità e come una sostituzione della nostra personalità.
Accanto a questo senso di perdita affettiva trapela, dall'analisi psicologica dei soggetti trapiantati, anche l'inconscia fantasia cannibalica di avere rubato magicamente al donatore parti della personalità. Questi timori cannibalici, di vampirizzazione del donatore, sono legati all'aporia insanabile (per la psiche inconscia) dell'avere dentro di sé qualcosa che è contemporaneamente vivo, perché pulsa in noi, e non vivo, perché proviene da un cadavere. Da questa aporia provengono fantasie inconsce, ma non per questo meno potenti, caratterizzate dal corredo di rappresentazioni simboliche connesse con la morte, la putrefazione, la dissoluzione, che spesso, nelle situazioni più gravi, si combinano con sensazioni deliranti di un parassita che entra nel proprio corpo e può in qualche modo divorare i pensieri e la personalità.
Una problematica particolare, anche se strettamente connessa alla rappresentazione del Sé, riguarda il trapianto di cervello (meglio si dovrebbe dire trapianto di corpo). Nonostante le immense difficoltà tecniche, la fattibilità del trapianto cefalico-cerebrale nell'uomo è una realtà tecnica potenziale. Il quesito importante è se la donazione consentirebbe la continuità assoluta della persona che riceve il trapianto con il suo corredo mnemonico, storico e affettivo. Questo appare ben lungi dall'essere scontato: infatti la nostra identità non si basa soltanto sui dati immagazzinati nelle aree di memoria del cervello; si sa che numerose sostanze generate nel corpo influiscono in maniera capitale sul funzionamento del cervello e quindi su tutto il comportamento della persona, a partire da quello psichico. Corpo e cervello sono indissolubilmente legati in un'unità olistica, nell'elaborazione del comportamento e del pensiero; da ciò deriva che, qualora si arrivasse realmente alla possibilità tecnica del trapianto cerebrale, si dovrebbe tenere presente una realtà che sembra già decisiva, per una sua inammissibilità morale: lo sconvolgimento gravissimo che si verrebbe a determinare nel senso della propria identità, con conseguenze incalcolabilmente gravi su tutta la vita successiva della persona sotto ogni aspetto e a ogni livello. L'uomo, in quanto persona, è una totalità unificata, che non può essere ridotta a una macchina composta di pezzi.
Questi aspetti devono essere attentamente considerati nella preparazione al trapianto per evitare sensazioni di estraneità con la parte trapiantata, responsabili di gravi conseguenze, quali i casi di transessuali che, dopo l'intervento demolitore dell'organo sessuale indesiderato, arrivano al suicidio, poiché l'unità della personalità non corrisponde all'immagine del corpo, o il recente caso del soggetto che è giunto a farsi amputare la mano trapiantata, percepita come un parassita di cui liberarsi.
Un altro aspetto molto importante da prendere in considerazione riguarda gli atteggiamenti psicologici nelle fasi che precedono il trapianto. A seconda delle caratteristiche della personalità del ricevente, si possono avere aspettative inflazionate e irrealistiche che saranno di ostacolo nell'affrontare le procedure e le conseguenze del trapianto. Altrettanto negativi saranno anche gli atteggiamenti opposti, quali la minimizzazione e la negazione, che depotenziano gli investimenti affettivi sull''evento' trapianto, riducendo l'impegno del paziente.
Le persone che subiscono un trapianto hanno alle spalle una cronica e invalidante patologia, che ha costantemente minacciato la loro vita e il loro sistema di relazioni. È ben noto quanto condizioni di cronicità e di patologia comportino modificazioni dell'assetto psicologico e relazionale, con conseguente costituzione di equilibri profondamente disturbati ma molto stabili; ciò è tanto più vero quanto più le patologie sono antiche e debilitanti. In genere i rapporti tra i soggetti malati e le persone significative sono caratterizzati da dinamiche, a volte neanche troppo inconsce, di tipo manipolativo, sadomasochista e intessute di sensi di colpa, rabbia e altri sentimenti inesprimibili. Il trapianto 'irrompe' in questi assetti relazionali portando a un improvviso cambiamento di quelle che si potrebbero definire le 'ragioni di scambio' della persona che subisce il trapianto. Questa brusca modificazione può comportare, in parallelo con il miglioramento (o addirittura la risoluzione) della condizione patologica, una catastrofe emotiva, con incapacità da parte del soggetto trapiantato, e del suo entourage, di ricostituire su nuove basi le loro relazioni. Se una vita intera è stata fondata sulla sofferenza, la delega, la macchina salvavita ecc., sarà ben difficile, se non impossibile, affrancarsi in pochi giorni o settimane dal mondo della dipendenza ed entrare in quello dell'autonomia e della responsabilità. Infatti, il trapianto non provoca solo, come già detto, una modificazione del proprio schema corporeo o dell'immagine del Sé, ma anche una profonda e improvvisa modificazione della propria rappresentazione di soggetto 'malato', con tutto il corredo di dinamiche di dipendenza dall'esterno e di impotenza.
Non a caso si accennava prima alle 'ragioni di scambio' perché paradossalmente proprio le situazioni contrassegnate da estrema dipendenza, quali le malattie croniche, sono in realtà, all'opposto, caratterizzate dal potere estremo che il soggetto malato, giocando sui sensi di colpa dell'essere sani, ha nei confronti dell'altro. È nota l'ambivalenza che caratterizza il rapporto tra sofferenti e sani, dove alla compassione si mescolano, in egual misura, la rabbia e la reciproca dipendenza (in una continua oscillazione tra iperinvestimento e anestesia emotiva); tutto questo, che costituiva spesso l'unico stile di vita concepibile prima dell'intervento, viene a essere bruscamente ridimensionato, se non cancellato, dalla 'restituzione' del trapiantato al mondo dei sani. Molte personalità costruite sulla malattia e sulla deresponsabilizzazione che la malattia comporta, trovano difficile, se non impossibile, recuperare lo spazio di piena responsabilità personale e sociale che la guarigione comporta, con tutto il corteo di scelte e decisioni che, nella condizione di malato, era possibile delegare agli altri.
Perdere il ruolo di malato (terribile, ma anche sottilmente rassicurante nella sua esplicita ammissione) significa, nella fantasia del trapiantato, essere 'gettati' in un mondo ostile dove si è valutati per quello che si è e non perché si è malati. Naturalmente questo non riguarda solo il soggetto trapiantato, ma anche le persone a lui vicine che devono riadattarsi a questa nuova situazione. L'accettazione della guarigione è spesso molto difficile, in quanto significa la necessità di dover modificare l'immagine dell'altro e ridiscutere ruoli, gerarchie e poteri all'interno del gruppo relazionale. Se non viene accettato, tutto ciò può tradursi in un'inconscia, ma non per questo meno efficace, opposizione al cambiamento, percepito come pericoloso e incontrollabile, e in un'attiva ricerca di un recupero regressivo del sistema di relazioni pre-trapianto, ricacciando il soggetto 'guarito' nel limbo della malattia.
Queste componenti psicologiche, se non riconosciute, sono alla base delle difficoltà di questi pazienti a seguire un rigoroso programma terapeutico e riabilitativo dopo il trapianto: le resistenze ai programmi, l'ostilità verso i curanti, la scarsa compliance sono l'espressione di inconsapevoli sabotaggi del trapianto nel tentativo inconscio di recuperare lo status (e il potere) di malato. Alle stesse conseguenze possono condurre le fantasie irrealistiche e gli iperinvestimenti nei confronti del trapianto (da parte del paziente e della sua cerchia), visto come evento miracoloso e risolutorio nei confronti della patologia cronica. La condizione del trapiantato determina certamente un notevole miglioramento delle aspettative e della qualità della vita, ma si accompagna comunque a una serie di pratiche mediche che comportano fatica, impegno, spesso effetti collaterali spiacevoli e che, di solito, hanno le stesse caratteristiche di cronicità della malattia stessa.
Altrettanto deludente, rispetto ad attese irrealistiche, può essere la scoperta traumatica che il trapianto non ha fornito la perfetta restitutio ad integrum tanto sognata, ma solo una parziale riparazione del danno invalidante, come per es. nel trapianto di mano, in cui la funzionalità dell'organo trapiantato è certamente molto lontana da quella di un arto normale e deve, per di più, essere raggiunta a costo di pesanti e prolungati esercizi riabilitativi. Anche in questo caso, se le aspettative irrealistiche non sono attentamente valutate e corrette, la successiva delusione potrebbe determinare l'instaurarsi di dinamiche depressive, con conseguenti gravi ricadute sull'accettazione del programma terapeutico post-trapianto.
Le implicazioni psicologiche dei trapianti hanno conseguenze importanti anche sul piano strettamente fisico. Il trapianto d'organo rappresenta per il paziente trapiantato un compito di straordinario impegno che agisce come uno stimolo intenso (stressor), con ricadute a cascata nella sua vita emotiva e sociale. È noto, infatti, che, quando uno stressor si presenta alla coscienza umana, può generare una 'risposta da stress', esprimendosi fenomenologicamente come un'alterazione del sistema immunitario e dell'asse ipotalamo-gonadi.
Con il termine stress si indica genericamente la risposta funzionale con la quale l'organismo reagisce a uno stimolo, più o meno violento, di qualsiasi natura esso sia (microbica, tossica, termica, emozionale ecc.), quando viene direttamente o indirettamente percepito come minaccioso per la vita o per l'incolumità fisica e individuale. Si tratta anche di una vera e propria reazione di adattamento che l'organismo attua nel momento in cui variano le condizioni di vita ambientali. Importante è che lo stress può originarsi anche per 'come' gli avvenimenti esterni vengono interpretati dall'individuo; inoltre, se lo stress è reiterato ed esageratamente presente, si passa da una condizione adattiva positiva che prepara ad affrontare disagi o pericoli a una vera e propria reazione patologica.
Il trapianto, con il lungo periodo di attesa che lo precede e i defatiganti protocolli terapeutici post-trapianto, rappresenta certamente un evento stressante intenso e protratto. L'organismo reagisce a queste reiterate e continue iperstimolazioni psicologiche con modificazioni a livello dei centri nervosi superiori, quali modificazioni neurotrasmettitoriali ed endocrino-metaboliche che interferiscono con l'equilibrio psicofisico; tale reazione si concretizza in disturbi funzionali (disturbo post-traumatico da stress, disturbo di adattamento) e organici (malattie psicosomatiche) di interesse prettamente psichiatrico.
Da tutte queste modificazioni anatomo-funzionali deriva una serie di modificazioni dell'organismo che globalmente si può denominare 'risposta ergotropa' (iperstimolazione della sostanza reticolare centroencefalica con aumento dell'attenzione e della reattività agli stimoli, pronta immissione in circolo di catecolamine ad azione lipolitica e inotropa cardiaca con subitaneo rialzo glicemico determinato dai glicocorticoidi, ridistribuzione del circolo ematico con prevalenza irrorativa muscolare, encefalica e cardiaca rispetto al sistema splancnico generale, aumento della pressione arteriosa, aumento della frequenza del respiro con miglioramento dell'ematosi) e che ha il chiaro significato finalistico di preparare l'individuo all'azione. Lo stress cronico infatti induce modificazioni metaboliche persistenti, che possono essere viste come precursori di malattia e successivamente, con l'instaurarsi di una disfunzionalità, come vere e proprie patologie.
La famiglia del donatore
È molto importante valutare le dinamiche inconsapevoli che si attivano nei familiari dei donatori, anche se questo aspetto di solito è poco considerato. Se da un lato donare l'organo di un parente è un modo per far sopravvivere qualcosa del morto, questo coincide necessariamente con la fine dell'apparenza della vita (che il cadavere a cuore battente sembra ancora conservare) e con la rinuncia a ogni speranza. Ogni donazione presuppone un lutto: parziale, sotto forma di una mutilazione, nel caso della donazione tra viventi, assoluto nel caso della donazione da cadavere.
La decisione sulla donazione è legata a un evento drammatico (la morte del congiunto, di solito un soggetto giovane morto inaspettatamente) con cui la cerchia parentale si deve confrontare in tempi ristretti e sotto la pressione di richieste esplicite e implicite di grande forza. Spesso nelle famiglie dei donatori si possono strutturare fantasie di 'riparazione' della morte attraverso la donazione, di capacità di 'ridare la vita', di 'sopravvivenza' del congiunto nel nuovo individuo-chimera rappresentato dal ricevente. Queste fantasie da un lato consentono un parziale compenso della lacerazione emotiva provocata dalla morte di un familiare, ma dall'altro a volte non permettono la realistica accettazione della perdita e la ricostruzione di un nuovo equilibrio familiare.
L'incapacità a elaborare il lutto e ad accettare la perdita possono così dare luogo, nei parenti dei donatori, alla cosiddetta 'sindrome del segugio'. Si tratta di uno stato di sofferenza psichica che coinvolge alcune persone che hanno subito la perdita di un familiare del quale hanno donato gli organi e che manifestano il desiderio irresistibile di conoscere l'identità del trapiantato. Di solito i familiari interessati sono i genitori, in particolare le madri, che rimangono in una fase di rifiuto e di permanenza nel lutto estremamente costosa sul piano psicologico.
La donazione da parte del gruppo parentale del 'donatore cadavere' è comunque una scelta difficile, condizionata dall'evento emozionale. Come si diceva, generalmente il donatore è deceduto per cause improvvise e il parente che deve consentire il prelievo degli organi (di solito il genitore) non ha avuto il tempo, non solo di elaborare il lutto, ma spesso neanche di rendersi conto della morte di un congiunto il cui cuore comunque 'batte'. Il cuore che batte è sinonimo di vita per chi non conosce la definizione di morte cerebrale: la cattiva informazione, che esalta gli eventi di risveglio improvviso dal coma senza specificarne il grado e omettendo che l'individuo non era cerebralmente morto, consente e potenzia l'equivoco.
Il donatore vivente
Implicazioni psicologiche diverse, ma non meno importanti, riguardano le donazioni da vivente. In questi casi solitamente il donatore è un parente, la madre o uno stretto consanguineo che deve affrontare le paure e le angosce connesse all'operazione di espianto e le limitazioni fisiche conseguenti alla donazione. Dalla stretta parentela può derivare in questi casi la sensazione di un obbligo morale, di un atto dovuto, che rischia di interferire pesantemente sulla libertà della decisione, sminuendone la componente di libero atto volontario. Questo comporta il pericolo che la scelta di donare il proprio organo diventi un 'agito' non sufficientemente meditato, con implicazioni psicopatologiche facilmente cronicizzabili, quale la 'ruminazione depressiva'. Nel caso di donazioni da viventi non parenti (coniuge) vanno considerati i meccanismi relazionali in gioco: il donatore è ovviamente depositario di uno straordinario potere nei confronti del ricevente e questo può far nascere (o amplificarle se preesistenti) dinamiche di manipolazione, per lo più di stampo sadomasochistico, potenzialmente distruttive per la vita della coppia.
Nel caso del donatore che vende un organo saranno prevalenti sentimenti di rabbia, depressione e colpa che interferiranno pesantemente con la risoluzione del 'lutto da donazione', tanto più considerando che in questi casi sono assenti quegli aspetti eticamente validi e socialmente riconosciuti che permettono uno sbocco che renda possibile la sublimazione.
È chiaro però, fatte queste precisazioni, che la donazione rientra in uno degli aspetti fondanti della nostra specie: l'altruismo caratteristica della specie umana. Secondo la letteratura più recente, proprio l'altruismo, sotto forma di donazione spontanea (condivisione del cibo), è stato alla base del processo di ominazione e dello sviluppo della cooperazione fino alla creazione della società organizzata. La donazione di per sé è strettamente connessa al sacrificio, tematica che, insieme all'altruismo, permea la storia, il pensiero, i miti e le fantasie della nostra specie; basti pensare che il Cristianesimo si fonda sull'idea della donazione e del sacrificio per amore dell'uomo.
La straordinaria importanza che questi temi (sacrificio e donazione) hanno per l'uomo è rispecchiata nei miti del passato e nelle varie religioni, che sono dominati da temi collegati alla generosità e al sacrificio. La donazione è comunque collegata a un 'passaggio di fase', a un cambiamento creativo, a una rottura con l'ordine precedente. Le grandi figure eroiche (spesso semidivine) intervengono nel mondo tramite il sacrificio personale e l'altruismo (Prometeo, Marduk, Decio Mure ecc.) e ogni volta che l'uomo dona, cerca e ricrea in sé stesso quel mondo mitico che è parte integrante del proprio essere. Questi riferimenti al mito si spiegano se consideriamo che questo rappresenta una via maestra per la comprensione della psiche profonda: miti, teogonie, concezioni religiose sono la trasposizione su un piano esterno di immagini primordiali prodotte da Homo sapiens come peculiare carattere specie-specifico. Nell'uomo, infatti, come scoperto da C.G. Jung, esistono delle strutture psichiche funzionali, omologabili agli istinti degli animali, che sono vere e proprie strutture a priori della mente (archetipi junghiani) che, tramite le immagini simboliche, governano e rappresentano i temi fondamentali dell'esistenza umana. Donare un organo esprime il livello più alto del sacrificio, ravvicinando il donatore alle figure mitiche che sono l'emblema del sacrificio e, primo fra tutti, a Cristo.
Implicazioni bioetiche
Naturalmente tutte queste complesse dinamiche in gioco non lasciano immune il curante; il medico deve non solo fronteggiare e riconoscere gli aspetti psicologici evocati dall''evento' trapianto nel soggetto ricevente e nei suoi familiari, ma anche diventare consapevole della propria risonanza emotiva nei confronti di quegli stessi aspetti. Il medico, come ha detto H.G. Gadamer, è un 'guaritore ferito', nel senso che è lui stesso portatore di quelle parti malate che cura nell'altro; di solito nella scelta della professione medica giocano profondamente tentativi di riparazione delle proprie personali angosce di fronte alla morte e alla malattia: curare l'altro significa fantasticamente essere in grado di curare anche sé stessi. Se questa antinomia del 'guaritore ferito' non viene riconosciuta e profondamente introiettata, verrà vissuta solo la parte del guaritore, in cui il medico diventa una sorta di demiurgo della guarigione, possessore delle tecniche e della conoscenza, ma prigioniero di una narcisistica difesa dalla sofferenza dell'altro.
Solo l'accettazione delle proprie profonde paure e angosce nei confronti della malattia e della morte consentirà al medico di accompagnare il malato nel suo viaggio nella sofferenza, senza iperinvestimenti onnipotenti o negazioni ciniche. Se ciò non accade, prevarrà una concezione della medicina come espressione di potere e assolutezza, che sarà vissuta dal malato in maniera molto ambivalente o che addirittura potrà portare a una complessa strutturazione di rapporti irrazionali e magici che lo condurranno a rapportarsi con la medicina (e il medico) in maniera alienata. Tipico, in tal senso, è il caso di quei pazienti che fanno un uso strumentale delle definizioni diagnostiche, trasformandole in parole magiche cui aggrapparsi per vivere qualcosa che è dentro di loro, ma che paradossalmente non gli appartiene e il cui dominio è demandato alla scienza. Altre volte, il fatto di non potersi sentire protagonista della propria guarigione provoca una reazione dura da parte del paziente, che instaura con il medico una sorta di inconscia sfida tra la sua capacità di malattia e l'abilità del guaritore.
Ritornando ai problemi più strettamente legati al trapianto, giova ricordare l'importanza che, a intervento avvenuto, il paziente affronti il riconoscimento della propria identità, in una situazione che è in veloce (e profonda) trasformazione e nella necessità di correlarsi a questa in maniera assolutamente nuova. In tale situazione sarebbe importante che il medico (ma anche altro personale) operasse attivamente in questa trasformazione secondo i criteri cui abbiamo accennato, e cioè con la consapevolezza delle problematiche in atto all'interno e all'esterno del paziente, offrendo la possibilità di trovare un'uscita alle sicure crisi che compaiono sulla strada della guarigione, non soltanto con prescrizioni meccaniche, ma anche con una profonda dialettica, scaturita dalla conoscenza della malattia che si sta tentando di superare.
Non sarà inutile a questo punto ricordare che il trapianto impone anche alcune profonde riflessioni di carattere bioetico che vanno attentamente considerate. Per prima cosa si deve ricordare che la vita è un valore indisponibile: sia che si affronti dal punto di vista laico, sia sul piano religioso, la vita è un mistero che ha una sua sacralità e una sua trascendenza. La vita è la proprietà più profonda dell'uomo e ne costituisce fondamento e causa efficiente. Da ciò deriva che la vita va considerata un bene 'indisponibile' in senso assoluto, sia per l'individuo sia per la società; anzi il contratto sociale si basa proprio sul rispetto di questa legge fondamentale. Per quanto riguarda la complessa tematica dei trapianti, ne consegue la rinuncia a voler disporre autonomamente della vita e quindi anche la 'non disponibilità' del proprio corpo, se non per un bene maggiore del corpo stesso (mutilazione di parti del corpo per il bene della totalità dell'organismo). Se ciò appare pacificamente condivisibile per quanto riguarda i trapianti autoplastici (trapianto di tessuti da una parte all'altra del corpo, anche per ovviare a problemi estetico-correttivi), diversa è la situazione per quanto concerne i trapianti omoplastici (rene, cuore, pancreas ecc.). In questi casi è imprescindibile il rispetto di condizioni fondamentali che discendono dal concetto basilare dell'indisponibilità della vita.
Ciò è valido soprattutto nelle donazioni da vivente: ogni donazione presuppone un lutto parziale, sotto forma di una mutilazione, ed è importante e imprescindibile che il donatore non subisca danni sostanziali e irreparabili alla propria salute. Altro aspetto importante riguarda la tutela dell'identità della persona: come già detto, sono piuttosto frequenti conseguenze di carattere psicopatologico nei pazienti sottoposti a trapianti cardiaci: deliri, psicosi, ansietà sono quasi sempre registrabili con maggiore o minore intensità, tale da richiedere la figura dello psichiatra e dello psicologo nelle varie fasi dell'intervento. Il mutamento dell'immagine corporea ha gravi conseguenze nell'identità psicologica della persona; è necessario considerare attentamente questo dato al fine di minimizzare le ricadute negative che si possono produrre sull''unità' della persona e sul vissuto del proprio posto nel mondo.
È importante evitare, sempre nel rispetto della dignità dell'altro, un temerario sperimentalismo: il trapianto si può accettare a condizione che risulti l'unico rimedio valido e abbia un'alta possibilità di riuscita. La decisione per il trapianto deve essere nell'esclusivo interesse del bene del paziente, anche nei casi di persone con autonomia diminuita o menomata, il che esige che venga garantita la sicurezza contro danni o abusi a coloro che sono in situazioni di dipendenza o di vulnerabilità.
Ne consegue che è necessario rispettare una proporzionalità fra costi e benefìci, anche alla luce della facile emergenza di aspettative irrealistiche e delle fantasie di riparazione magica nella mente dei soggetti in attesa di trapianto. Inoltre, la selezione delle persone da trapiantare e in lista d'attesa deve avvenire in modo tale che i costi e i benefìci siano equamente distribuiti; nell'includere soggetti vulnerabili e bambini, devono essere osservate con particolare rigore le procedure per la protezione dei loro diritti e del loro benessere.
È infine indispensabile porre particolare cura nell'ottenere un consenso informato come rispetto dell'autonomia del paziente. Proprio a causa delle dinamiche inconsce ampiamente riferite, il paziente in attesa di trapianto ha spesso una scarsa percezione della realtà del trapianto, dei suoi costi (certi) e dei benefici (possibili), tendendo a minimizzare la sofferenza e ad amplificare i risultati. Tutto ciò certamente richiede da parte dell'équipe medica un'attenta valutazione della corretta conoscenza delle procedure e degli obiettivi dell'intervento da parte del paziente. Per ogni protocollo di trapianto l'équipe medica deve ottenere il consenso informato del paziente o, nel caso di un soggetto incapace di acconsentire, il consenso per procura di un suo rappresentante legale. Nel caso di trapianti da donatore vivente, l'équipe deve dare al potenziale donatore tutte le informazioni relative alle conseguenze fisiche e psicologiche della donazione e accertarsi
che non esistano possibilità di manipolazione, inganno o coercizione, anche se non direttamente e volontariamente praticati, ma semplicemente come conseguenza di pressione ambientale oppure di aspettativa inconscia.
Infine è importante il rispetto del 'testamento biologico': la donazione post mortem dei propri organi spesso passa attraverso il testamento biologico, o living will, che è la dichiarazione fatta da una persona, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali (eventualmente con testimoni e di fronte a un notaio), in cui si specificano le condizioni entro cui essa dovrà essere trattata nel caso in cui si trovasse in uno stato agonico senza speranza di guarigione. La valutazione morale di simili documenti dipende sia dalle condizioni esterne generali entro cui si svolge il processo di agonia, sia dalle condizioni poste nel documento stesso, sia, infine, dalle condizioni di validità giuridica che una comunità politica intende dare a simili documenti. La propagazione di queste dichiarazioni scritte, anche da parte di organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, dovrebbe quindi avere solo lo scopo di facilitare la donazione degli organi.
È necessario infine considerare i problemi che i soggetti sottoposti a trapianto devono affrontare nel loro rapporto con il mondo esterno. Il trapiantato, su un piano giuridico e sociale, è in una sorta di limbo, nei confronti sia della struttura ospedaliera e assistenziale (centro medico, medici di base ecc.), sia degli altri aspetti del vivere sociale con i quali viene in contatto (luoghi di lavoro, diritti assistenziali e pensionistici, vita familiare, vita associativa ecc.). Non più invalido, ma non del tutto sano, il trapiantato è situato in una zona di confine in cui da un lato non gli viene più riconosciuto il ruolo (e i relativi ausili) di soggetto bisognoso, ma, dall'altro, non è considerato a pieno titolo un cittadino produttivo e autonomo. Ciò comporta che, mentre la persona trapiantata dovrebbe avere la possibilità di compiere, in tutta tranquillità, quelle scelte che la possono inserire in una vita attiva, nella realtà quotidiana esistono forti spinte dirette (più o meno volontariamente) alla permanenza del trapiantato in una zona di riserva, nella quale la sua condizione sia fortemente sottolineata anche attraverso paradossi negativi, quali, per es., problemi di relazioni con le strutture ospedaliere e assistenziali, di riconoscimento giuridico, di possibilità di attività sociale ecc. Il trapiantato è ancora un soggetto giuridico recente, spesso non contemplato o recepito dalle normative, addirittura (e paradossalmente di più quando il trapianto riesce appieno e produce un organismo perfettamente funzionante) a volte vissuto come uno strano oggetto dalla difficile collocazione.
Aspetti medici e biologici
Terminologia
In biologia e in medicina si definisce trapianto il trasferimento di un tessuto o di un organo da una regione all'altra dello stesso organismo o da un organismo all'altro della stessa specie o di specie diversa. Come donatore e ricevente si indicano rispettivamente l'organismo che dà e quello che riceve l'organo o il tessuto da asportare e ricollocare in altra sede. L'organo può essere prelevato da un soggetto deceduto, oppure da un soggetto vivo del gruppo parentale diretto (consanguineo) o non (non consanguineo). Il trapianto prevede l'inserimento dell'organo nel ricevente mediante la confezione di collegamenti vascolari e si distingue quindi dall'innesto, nel quale i tessuti provenienti da un donatore vengono inseriti nel ricevente senza la ricostruzione della loro vascolarizzazione. Quando il donatore è della stessa specie del ricevente si parla di allotrapianto o omotrapianto; in caso contrario di xenotrapianto. Si denomina autotrapianto il trapianto di un organo nello stesso ricevente dopo la sua temporanea rimozione dall'organismo per eseguire l'asportazione di un processo neoplastico (rene, fegato) o la riparazione di una lesione (per es., stenosi dell'arteria renale). Si parla infine di trapianto ortotopico ed eterotopico in relazione alla sede di impianto, rispettivamente uguale o differente da quella fisiologica.
Cenni storici
Il termine trapianto fu coniato nel 18° secolo da J. Hunter, ma accenni a pratiche di trasferimento di organi o tessuti da un organismo a un altro si ritrovano in testi assai più antichi: nella mitologia, nelle leggende dei primissimi secoli dopo Cristo (trapianto di un arto a opera dei santi Cosma e Damiano) e in diversi tipi di repertori (innesti di cute, per es., sono descritti in manoscritti indiani del 5° secolo d.C.).
Nel 1597 G. Tagliacozzo realizzò per primo un autoinnesto di cute, inaugurando una metodica che si diffuse ampiamente, con progressivi affinamenti di tecniche e di conoscenze. Nel 1881 W. Macewen realizzò con successo un allotrapianto di osso. Da allora, grazie anche al progressivo perfezionamento delle tecniche chirurgiche (suture arteriose: J.B. Murphy, A. Carrel, C.C. Guthrie) e a numerosi tentativi sull'animale (il primo a opera di E. Ullman, 1902) e sull'uomo, si è giunti all'odierno impiego del trapianto come alternativa terapeutica efficace in molteplici situazioni altrimenti incompatibili con la sopravvivenza.
Negli anni Cinquanta J.E. Murray mise a punto la manipolazione del sistema immunitario per i trapiantati renali non consanguinei con il donatore. Nel 1963 a Denver (Colorado) T.E. Starzl eseguì il primo trapianto di fegato. A coronamento di studi e tentativi effettuati da numerosi ricercatori sin dal 1905, nel 1967 a Città del Capo Ch. Barnard realizzò il primo trapianto di cuore.
Parallelamente allo sviluppo delle metodiche chirurgiche, si assistette all'evoluzione di concetti e tecniche essenziali per il successo dei trapianti: il rigetto, la sua natura immunologica e i presidi dei quali si può disporre per combatterlo. K. Landsteiner, che nel 1900 scoprì il sistema AB0 dei gruppi sanguigni, dimostrò l'importanza della compatibilità fra donatore e ospite fornendo così un importante stimolo a successive ricerche. Inoltre, nel 1913 illustrò l'ipotesi che oltre agli antigeni eritrocitari esistessero antigeni tessutali importanti ai fini della compatibilità dei trapianti. Nel 1936 P. Gorer giunse alla dimostrazione dell'esistenza nel topo di un gruppo di antigeni, denominati MHC (Major histocompatibility complex, complesso maggiore di istocompatibilità), la cui compatibilità fra donatore e ricevente è fondamentale nell'attecchimento del trapianto di cute. Nel 1944 P.B. Medawar dimostrò sperimentalmente la natura immunologica del rigetto, per i caratteri di specificità e memoria che lo caratterizzano. Il sistema MHC fu descritto anche nell'uomo nel 1965 da J. Dausset e J.J. van Rood; oggi sappiamo che è costituito da una serie di geni localizzati in corrispondenza del braccio corto del cromosoma 6. Nel 1978 da J. Borel e R.Y. Calne fu introdotta nella terapia per il controllo di rigetto del trapianto la ciclosporina, farmaco con attività immunosoppressiva che ha aumentato la sopravvivenza dei pazienti trapiantati.
Nella seconda metà del 20° secolo i trapianti hanno presentato una progressiva evoluzione, da trattamento sperimentale a terapia di elezione in presenza di insufficienza cronica terminale di uno o più organi, pur rimanendo ancora in fase di applicazione clinica limitata per quanto riguarda la chirurgia sostitutiva del pancreas e dell'intestino tenue.
Legislazione
Il problema del trapianto presenta aspetti diversi a seconda che avvenga tra due persone vive o a seguito di prelievo da cadavere. Nel primo caso l'ostacolo è costituito dall'art. 5 del codice civile, il quale, in attuazione del principio secondo cui il consenso dell'avente diritto è giuridicamente rilevante solo in relazione a diritti disponibili, vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume. Per superare tale ostacolo, la legge nr. 458 del 26 giugno 1967 ha espressamente previsto la deroga all'articolo predetto, ammettendo la disposizione a titolo gratuito del rene ai fini del trapianto tra persone viventi: la deroga è consentita ai genitori, ai figli, ai fratelli maggiorenni del paziente nonché ad altri parenti e donatori estranei nel caso che non vi siano i consanguinei predetti o che nessuno di essi sia idoneo o disponibile. Nel marzo 2001 un decreto legge ha autorizzato anche i trapianti di fegato da donatore vivente; l'autorizzazione ha la durata provvisoria di un anno ed è estesa ai 16 centri italiani nei quali viene già effettuato il trapianto da donatore cadavere.
È comunemente definito trapianto anche il prelievo, con successiva infusione, di midollo osseo per innesto in individui della stessa specie, pur se con caratteristiche diverse da quelle del ricevente (trapianto allogenico). In realtà tale intervento non è assimilabile a un trapianto vero e proprio, dal momento che non cagiona una diminuzione permanente dell'integrità fisica del soggetto, poiché il tessuto è in grado di rigenerarsi; per tale motivo esso è stato regolato unitamente alle emotrasfusioni nella legge nr. 107 del 4 maggio 1990, la quale consente il prelievo di cellule staminali, midollari e periferiche a scopo di infusione per allotrapianto e autotrapianto nello stesso soggetto o in un soggetto diverso. Tale prelievo può essere eseguito anche su un soggetto minorenne, previo consenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore o del giudice tutelare.
Il prelievo e il trapianto di organi o tessuti possono essere effettuati solo in centri specializzati, istituti universitari e ospedali autorizzati. L'opera di mediazione nella donazione di organi o tessuti, con o senza scopo di lucro, è punita con la reclusione e con una sanzione amministrativa; se il fatto è commesso da persona che esercita la professione sanitaria, alla condanna segue l'interdizione, perpetua o temporanea, dall'esercizio della professione.
Per il trapianto di organi prelevati da cadaveri, la legge nr. 644 del 2 dicembre 1975 ha consentito l'espianto di tutti gli organi a eccezione dell'encefalo e delle gonadi. Al riguardo le difficoltà da superare sono collegate sia all'esistenza di un consenso manifestato dal soggetto donatore in vita o dai parenti dopo la morte, sia alla necessità di utilizzare organi ancora vitali senza pregiudicare un sicuro accertamento della morte. Per quanto riguarda il primo aspetto, mentre la legge nr. 235 del 3 aprile 1957 richiedeva un'esplicita autorizzazione del soggetto, la legge nr. 644 del 1975 aveva riconosciuto l'ammissibilità del prelievo, purché il disponente non avesse esplicitamente negato il proprio consenso o non vi fosse opposizione dei familiari. Attualmente, la legge nr. 91 del 1° aprile 1999 stabilisce che "i cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte e sono informati che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione"; per i soggetti minori di età la dichiarazione di volontà in ordine alla donazione è manifestata dai genitori esercenti la potestà.
Per il secondo aspetto, anche l'accertamento della condizione di 'morte cerebrale', che è definitiva e irreversibile, è stato sancito dalla legge nr. 644 del 1975 e dal successivo regolamento nr. 409 del 16 giugno 1977, che richiedevano un periodo di osservazione di 12 ore da parte di una commissione medica. Il dibattito scaturito nel corso degli anni ha comportato la discussione e la successiva approvazione della legge nr. 578 del 29 dicembre 1993, il cui art. 1 ribadisce: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Nei soggetti affetti da lesioni encefaliche sottoposti a misure rianimatorie la morte ha luogo "quando si verifica la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo", accertata "da un collegio medico nominato dalla direzione sanitaria, composto da un medico legale o, in mancanza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomo-patologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un medico neurofisiopatologo o, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia. I componenti del collegio medico sono dipendenti di strutture sanitarie pubbliche". Nella stessa legge notevoli innovazioni sono state introdotte (art. 3) relativamente all'obbligo da parte del "medico della struttura sanitaria" di segnalare immediatamente tutti i casi di presunta morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie "alla direzione sanitaria, che è tenuta a convocare prontamente il collegio medico". Il successivo decreto del Ministero della Sanità nr. 582 del 22 agosto 1994 richiede (art. 3), per l'accertamento di morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie, "la contemporanea presenza delle seguenti condizioni: a) stato di incoscienza; b) assenza di riflesso corneale, di riflesso fotomotore, di riflesso oculocefalico e oculovestibolare, di reazioni a stimoli dolorifici portati nel territorio d'innervazione del trigemino, di riflesso carenale e respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale fino al raggiungimento di ipercapnia accertata da 60 mmHg con pH ematico minore di 7,40; c) silenzio elettrico cerebrale; d) assenza di flusso cerebrale preventivamente documentata". Queste condizioni devono essere simultaneamente presenti "per almeno tre volte, all'inizio, alla metà e alla fine del periodo di osservazione" che, in base all'art. 4, non deve essere inferiore a 6 ore per gli adulti e i bambini di età superiore a cinque anni, dodici ore per i bambini di età compresa tra uno e cinque anni e ventiquattro ore nei bambini di età inferiore a un anno.
Tipologie di trapianti di organi
Trapianto di rene
Il trapianto di rene è stato effettuato per la prima volta tra gemelli monocoriali a Boston nel 1954 da J.E. Murray mediante una tecnica messa a punto dal chirurgo parigino R. Kuss, e realizzata successivamente in tutto il mondo, utilizzando donatori viventi e cadaveri, in una serie crescente di casi. I soli fattori in grado di precludere il trapianto di rene sono la presenza di neoplasie maligne o di infezioni sistemiche in atto. Controindicazioni relative sono considerate l'età del ricevente superiore a 60-65 anni e alcune patologie renali soggette a recidiva (per es., la nefropatia diabetica).
Il trapianto è in pratica la terapia di elezione nei pazienti affetti da uremia terminale di qualsiasi eziopatogenesi e dovrebbe essere effettuato il più precocemente possibile, per prevenire lo stress psicologico e i numerosi effetti collaterali della dialisi, cui si aggiungono in età pediatrica o neonatale alcune difficoltà tecniche e un marcato ritardo dell'accrescimento. Si comprende quindi il ruolo del trapianto renale da donatore vivente, consanguineo e non, quale procedura terapeutica complementare al trapianto da donatore cadavere, il cui numero è ancora insufficiente in rapporto al fabbisogno. I risultati del trapianto renale da donatore vivente, peraltro, sono superiori a quelli ottenibili con donatori cadaveri, in quanto l'assenza della fase anossica elimina la comparsa di necrosi tubulare acuta, elemento che può favorire l'innesco della reazione di rigetto, e permette inoltre l'immediata somministrazione di ciclosporina, farmaco potenziamente nefrotossico, con conseguente diminuzione degli episodi di rigetto. Il rischio per il donatore vivente è molto limitato per quanto riguarda la morbilità perioperatoria e a distanza di tempo, mentre il rischio di mortalità è pressoché nullo. Grazie all'efficacia della terapia immunosoppressiva, con l'impiego della ciclosporina non è più necessaria una completa istocompatibilità.
Per quanto riguarda i risultati a distanza, si riporta una sopravvivenza dell'organo a 10 anni intorno al 65% per il trapianto da cadavere con una sufficiente compatibilità tra donatore e ricevente e una sopravvivenza significativamente superiore per quello da vivente.
Trapianto di pancreas e innesto di insule pancreatiche
Il trapianto di pancreas, eseguito per la prima volta da W. Kellog e R. Lilley a Minneapolis nel 1966 con la finalità di prevenire la progressione di alcune gravi complicanze microangiopatiche del diabete giovanile insulinodipendente, quali la retinopatia, è stato caratterizzato da una progressiva evoluzione che ha portato a ottenere una sopravvivenza dell'organo trapiantato superiore all'80% a 1 anno e del 65% a 5 anni.
Poiché generalmente il trapianto di pancreas viene effettuato in fase di uremia secondaria a nefropatia diabetica, esso è spesso associato con trapianto di rene. Tuttavia il miglioramento dei risultati e il progressivo diminuire sia dei rischi sia degli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva hanno indotto a effettuare in questi ultimi anni un crescente numero di trapianti isolati di pancreas. In alcuni casi infine è stato effettuato con successo il trapianto segmentario della coda del pancreas da donatore vivente consanguineo (usualmente un genitore).
Nel corso degli ultimi anni è stato effettuato, in alcuni centri e con applicazione clinica limitata, l'innesto di insule pancreatiche che vengono generalmente iniettate nel circolo portale del ricevente: in casi di diabete insulinodipendente con associata insufficienza renale o epatica trova indicazione il trapianto combinato di insule e, rispettivamente, di rene o fegato.
Trapianto di fegato
T.E. Starzl, il chirurgo che effettuò il primo trapianto di fegato a Denver nel 1963, ottenne il primo successo clinico nel 1967. Tuttavia solo negli anni Ottanta, grazie a numerosi perfezionamenti sia della tecnica chirurgica sia della terapia immunosoppressiva, l'intervento ha cominciato a essere praticato sistematicamente.
Le indicazioni al trapianto di fegato si sono progressivamente allargate alla maggior parte delle patologie epatiche sia dell'età pediatrica sia di quella adulta: le principali sono costituite dalle differenti forme di insufficienza epatica cronica, dai deficit congeniti di enzimi la cui sintesi avviene a livello epatico, dall'insufficienza epatica acuta fulminante di origine virale, tossica o da farmaci, e dalla patologia neoplastica. Le patologie che precludono il trapianto di fegato sono in pratica limitate alle malattie sistemiche e ai tumori epatici o delle vie biliari con metastasi locali e a distanza, mentre alcune complicanze del paziente in lista di attesa per trapianto, come l'emorragia da rottura di varici esofagee e gastriche e l'ascite intrattabile associata a insufficienza respiratoria e/o renale, non rappresentano oggi un elemento di esclusione temporanea dal programma di trapianto.
Il primo intervento di trapianto di fegato in Italia è stato eseguito nel 1982, mentre è del marzo 2001 il primo trapianto italiano da donatore vivente, che è stato effettuato presso l'ospedale Niguarda di Milano da un'équipe guidata dal prof. D. Forti, con l'autorizzazione straordinaria del ministro della Sanità. In genere nel nostro paese la maggior parte dei pazienti viene sottoposta a trapianto per cirrosi postepatite B, B-delta o C, una patologia particolarmente diffusa nell'area mediterranea. I migliori risultati, in termini di sopravvivenza a distanza e di completa riabilitazione, vengono ottenuti nei casi caratterizzati da bassa replicazione virale.
Poiché la funzione del fegato è costituita da un numero elevato di complesse reazioni biochimiche che possono essere svolte solamente dalle cellule epatiche (epatociti), destano interesse gli studi volti all'ottenimento di sistemi 'ibridi' di sostegno dell'attività epatica, costituiti da una struttura inerte che funge da supporto per cellule epatiche di origine umana o anche animale. Una possibilità terapeutica è rappresentata anche dal trapianto ausiliario di fegato, in modo da fornire un supporto al fegato nativo almeno finché questo non abbia superato il danno tossico o infettivo.
I trapianti in età pediatrica rappresentano il 20% dell'esperienza globale europea, e di questi circa 1/3 è stato effettuato in pazienti di età compresa tra 0 e 2 anni; le principali indicazioni sono costituite dall'atresia e da altre forme di blocco delle vie biliari, dall'insufficienza epatica acuta, dalle malattie metaboliche e solo raramente dalle dilatazioni congenite delle vie biliari.
I risultati a distanza di tale tipo di trapianto sono nettamente migliorati: la sopravvivenza del paziente ha raggiunto il 90% a 1 anno e il 75% a 5 anni.
Trapianto di intestino e trapianto multiviscerale
Le tecniche chirurgiche del trapianto intestinale e multiviscerale sono state messe a punto su animali rispettivamente da R. Lilley nel 1959 e da T.E. Starzl nel 1960; la prima applicazione clinica ha avuto luogo nel 1964 a Boston. Tuttavia, i primi successi del trapianto nel trattamento delle sindromi da malassorbimento enterico associate a insufficienza epatica terminale sono stati ottenuti solo nel 1987 a Pittsburgh in due pazienti pediatrici sottoposti a trapianto multiviscerale (fegato, pancreas, duodeno, digiuno e ileo) e nel 1990 presso l'Università dell'Ontario orientale, dove sono stati effettuati alcuni trapianti di fegato e intestino. Successivamente il gruppo di Pittsburgh, adottando protocolli innovativi di terapia immunosoppressiva, ha ottenuto soddisfacenti risultati funzionali con il trapianto isolato di intestino. Da allora in tutto il mondo in più di 30 centri sono stati effettuati sia trapianti isolati di intestino, sia trapianti di fegato e intestino, sia trapianti multiviscerali. In Europa il primo trapianto multiviscerale è stato eseguito nel febbraio 2001 presso il Policlinico di Modena dall'équipe del prof. A. Pinna. I chirurghi hanno trapiantato a una donna di 29 anni tutto l'apparato intestinale tranne il fegato, e cioè lo stomaco, il duodeno, il pancreas e l'intestino.
Il trapianto di intestino trova la sua principale indicazione nel trattamento della sindrome da intestino corto, quale si definisce la riduzione al di sotto di 20 cm della lunghezza del tratto enterico funzionale, dovuta a compromissione della vascolarizzazione intestinale, anomalie neuroendocrine e malfunzionamento intestinale primitivo. Ben più numerosi sono i casi di patologie neoplastiche che potrebbero trarre giovamento dai trapianti multiviscerali: tuttavia l'elevata incidenza di recidive nei casi di voluminosi carcinomi epatocellulari e di tumori del pancreas, della colecisti o del colon con interessamento epatico secondario suggerisce oggi di escludere queste patologie dalle indicazioni.
Benché i risultati del trapianto intestinale e multiviscerale siano ancora gravati da una non trascurabile morbosità e mortalità perioperatoria e da un'elevata incidenza di malassorbimento enterico, in particolar modo in quelli pediatrici in cui i pazienti frequentemente non si sono mai alimentati per via naturale, attualmente la sopravvivenza a 1 anno è superiore al 60% e quella a 5 anni raggiunge il 40% nel trapianto isolato di intestino o di fegato-intestino. Risultati inferiori sono invece riportati nel trapianto multiviscerale.
Trapianto di cuore
Il trapianto di cuore, effettuato per la prima volta nell'uomo il 3 dicembre 1967 a Città del Capo da Ch. Barnard, diede inizio a un periodo di intensa attività clinica e di ricerca nel settore, tanto che alla fine del 1968 erano stati eseguiti in tutto il mondo oltre 100 trapianti cardiaci. I risultati non ottimali comportarono successivamente una progressiva diminuzione degli interventi effettuati, mentre un nuovo impulso derivò nel 1981 dall'introduzione della biopsia miocardica per la diagnosi di rigetto e della ciclosporina come base della terapia immunosoppressiva.
Costituiscono indicazione all'intervento le forme più gravi di insufficienza cardiaca secondarie a miocardiopatia idiopatica (50%), arteriopatia coronarica (40%), valvulopatie (5%) o ad altra patologia (5%). La notevole esperienza acquisita in numerosi centri nel corso degli anni fa sì che la tecnica chirurgica del trapianto ortotopico di cuore sia ben definita in tutti i suoi aspetti, mentre altrettanto non può dirsi per quello eterotopico, eseguito finora in pochi casi. D'altra parte i pazienti con elevate resistenze a livello dell'arteria polmonare, che in passato venivano sottoposti a questo tipo di intervento, sono attualmente trattati con maggiore successo mediante il trapianto di cuore e polmoni. La sopravvivenza a 1 anno è passata dal 48% nel periodo 1980-1984 all'81% nell'intervallo 1981-1984, e quella a 5 anni è aumentata rispettivamente dal 26% al 69%. In Italia il primo trapianto di cuore nell'adulto è stato eseguito nel novembre 1985 a Padova, mentre il primo trapianto pediatrico di cuore è stato effettuato presso l'Università di Roma 'La Sapienza' nel dicembre dello stesso anno.
Trapianto di polmone
Un notevole intervallo temporale è intercorso tra il primo trapianto di polmone, effettuato da J. Hardy nel 1963, e il definitivo successo clinico, ottenuto il 7 novembre 1983 a Toronto da J.D. Cooper. Due anni prima, nel 1981, B. Reitz aveva eseguito a Stanford il primo trapianto di cuore e polmoni; successivamente, nel 1990, V.A. Starnes ha realizzato il primo trapianto di un lobo polmonare utilizzando un donatore vivente. In Italia il primo trapianto di polmone è stato eseguito all'Università di Roma 'La Sapienza' nel gennaio 1991; da allora sono stati eseguiti in Italia circa 300 trapianti di polmone.
Il trapianto di polmone singolo trova indicazione in caso di fibrosi polmonare idiopatica, enfisema polmonare oppure ipertensione polmonare primitiva o secondaria, mentre le forme più gravi di queste patologie e le infezioni polmonari bilaterali, quali bronchiectasie e fibrosi cistica, possono essere trattate con successo mediante il trapianto di polmone doppio e, nei rari casi di concomitante insufficienza cardiaca, con quello di cuore e polmoni. La sopravvivenza a 1 anno dei pazienti dopo trapianto di polmone sia singolo sia doppio è di circa l'80%, e quella a 5 anni superiore al 60%. Gli attuali risultati derivano da una notevole riduzione della mortalità perioperatoria, legata a una migliore selezione dei riceventi, alla riduzione delle complicanze infettive, specialmente virali, e a una migliore prevenzione e a un trattamento più efficace del rigetto acuto. Il rigetto cronico rappresenta tuttora la principale causa di mortalità a distanza del paziente trapiantato, sotto la forma clinica della cosiddetta 'sindrome da bronchiolite obliterante', di cui eziopatogenesi, fisiopatologia e conseguente trattamento sono attualmente oggetto di studi clinico-sperimentali.
Trapianto di midollo osseo
Alcune condizioni cliniche riguardanti neoplasie oppure pazienti con malattie delle cellule staminali linfoemopoietiche rendono proponibile il trapianto di midollo osseo. Questo tipo di approccio viene considerato in termini immunologici con caratteristiche particolari rispetto ad altri tipi di trapianti che utilizzano organi o tessuti parenchimatosi (rene, pancreas, cuore), in quanto il midollo osseo dell'adulto è una fonte di cellule staminali pluripotenti, condizione che lo distingue biologicamente rispetto agli altri organi nelle procedure di risposta immunitaria. Nel caso del trapianto midollare vanno considerati alcuni elementi relativi al condizionamento del ricevente e propri della risposta del donatore. Infatti, oltre alla selezione del donatore per l'istocompatibiltà, il ricevente non deve essere messo in condizione di rispondere mediante un trattamento immunosoppressivo da attuare con uso di chemioterapici e terapia radiante. Dopo l'infusione le cellule staminali trapiantate devono collocarsi autonomamente in siti o nicchie midollari dove trovano il microambiente adatto alla loro evoluzione; se tale circostanza non si verifica completamente, dopo il trapianto non avviene l'attecchimento. Basta una minima residua risposta immunitaria del ricevente perché si determini un immediato rigetto. Se le cellule staminali persistono, dopo tre settimane circa si osserva la ripopolazione del midollo del ricevente con la comparsa di elementi della serie rossa e bianca. Superata questa fase critica, durante la quale il paziente ha gravi rischi di contrarre infezioni o di emorragie, si stabilizza un quadro biologico che include numerosi linfociti T. Ora si osserva un fenomeno contrario a quanto avviene nel trapianto di organi: sono le cellule trapiantate che attuano un rigetto nei confronti dei tessuti dell'ospite. Di questo rigetto si classificano una forma acuta, con grave necrosi degli epiteli, a evoluzione potenzialmente fatale, e una cronica. Nel corso del tempo, per l'instaurarsi di un grave danno funzionale, anche la forma cronica può causare la morte. Entrambe le forme vengono trattate con terapia immunosoppressiva. Un altro effetto non desiderato descritto in corso di trapianto di midollo osseo è costituito dall'instaurarsi di un'immunodeficienza, con la possibilità che compaiano fenomeni autoimmunitari. Non esiste una spiegazione univoca di questo problema, dovuto probabilmente a un ridotto repertorio di linfociti T che non compensa completamente lo stato biologico sopra descritto. Inoltre è possibile l'associarsi di una vera forma di soppressione naturalmente indotta, con fenomeni che inibiscono lo sviluppo di cellule immunocompetenti.
Trapianto di mano
Il primo intervento di trapianto di mano con esito positivo è stato effettuato nel 1998 presso l'ospedale Herriot di Lione; dell'équipe chirurgica faceva parte anche l'italiano Marco Lanzetta. Un analogo tentativo era già stato compiuto negli anni Sessanta in Ecuador, ma senza alcun successo. La complessità di questo tipo di intervento risiede soprattutto nella rigenerazione dei nervi, che è quella che consente il recupero della sensibilità e della mobilità, ma i risultati finora raggiunti fanno ben sperare che, con il miglioramento delle tecniche, il trapianto di mano possa addirittura diventare una valida alternativa alla ricostruzione. L'intervento di trapianto viene infatti eseguito in condizioni ideali, mentre nelle ricostruzioni conseguenti ad amputazioni traumatiche i tessuti, i vasi e i nervi sono danneggiati e l'operazione viene effettuata d'urgenza, con prospettive di recupero non sempre ottimali. Il principale ostacolo all'applicazione su larga scala di questo tipo di trapianti resta tuttavia il forte rischio connesso alla terapia immunosoppressiva, indispensabile per prevenire il rigetto. Le parti trapiantate hanno infatti una struttura composita che aumenta notevolmente il pericolo di una reazione; la cute, in particolare, per la sua complessità e la sua ricchezza in cellule dendritiche, è il tessuto più immunogeno dell'organismo.
Xenotrapianto
Una possibile alternativa all'inadeguata disponibilità di donatori cadaveri è costituita dallo xenotrapianto, cioè dall'impiego di organi prelevati a esseri viventi di una specie diversa da quella del ricevente. Il primo xenotrapianto di rene da scimpanzé è stato eseguito negli Stati Uniti nel 1963 a New Orleans; il primo in Europa nel 1966 all'Università di Roma 'La Sapienza': l'organo, prelevato a uno scimpanzé di 53 kg, che sopravvisse per molti anni al prelievo, venne immediatamente trapiantato con successo in un paziente uremico diciannovenne dello stesso peso; l'intervento ebbe tuttavia esito negativo a causa di complicazioni conseguenti alla terapia immunosoppressiva.
Poiché gli scimpanzé corrono pericolo di estinzione, si è successivamente preferito fare ricorso ad altre specie, quali i babbuini, che però presentano notevoli differenze di tipo immunologico con l'uomo; tali fattori, nonostante l'aggressiva terapia antirigetto, hanno contribuito a ridurre la sopravvivenza nello xenotrapianto di cuore effettuato nel 1984 a Loma Linda (in California, vicino a San Bernardino) e nei due xenotrapianti di fegato realizzati tra il 1992 e il 1993 a Pittsburgh. D'altra parte i primati sono difficilmente reperibili, presentano un costo elevato, scarsa adattabilità alla stabulazione e alla riproduzione in cattività e rischio di trasmissione di zoonosi, mentre le ridotte dimensioni di alcuni organi, quali il cuore, ne precludono il trapianto in pazienti umani adulti. Per sopperire a tali problemi, molti studiosi ritengono sia necessario utilizzare come donatori per gli xenotrapianti altri animali. Tra questi i suini, presentando strutture anatomiche, dimensioni degli organi interni nonché caratteristiche fisiologiche e metaboliche molto simili a quelle umane, potrebbero costituire la scelta più opportuna.
Tuttavia, lo xenotrapianto discordante, cioè tra organismi viventi notevolmente diversi dal punto di vista filogenetico, quali il maiale e l'uomo, comporta fenomeni di rigetto iperacuto su base umorale, mediato da anticorpi preformati, con attivazione del sistema del complemento e necrosi cellulare, che si osservano d'altra parte, sia pure in maniera più limitata, anche negli xenotrapianti concordanti, come tra scimpanzé e uomo, e non sono controllabili mediante gli attuali trattamenti antirigetto. Minore importanza riveste invece la compatibilità tra il gruppo sanguigno del suino donatore (generalmente A o 0) e quello del ricevente. Validi presupposti teorici permettono di ritenere che gli organi dei suini transgenici, una volta trapiantati in soggetti umani, risulterebbero protetti dalla risposta immunologica umorale; l'attivazione dei linfociti T potrebbe essere inibita con un trattamento farmacologico analogo a quello utilizzato nei trapianti da donatori umani. Studi preclinici in pazienti sottoposti a trapianti di organi solidi indicherebbero inoltre l'opportunità dell'impiego di nuovi farmaci ad azione immunosoppressiva.
È necessario approfondire le conoscenze sul ruolo del complemento del plasma sanguigno nel rigetto iperacuto al fine di giungere alla realizzazione di una linea di suini transgenici modificati geneticamente, in modo da costituire una fonte alternativa di cellule e di organi solidi a scopo di xenotrapianto.
Considerazioni conclusive
Gli indiscutibili successi registrati, in un arco di tempo relativamente limitato, nel campo dei trapianti d'organo non devono indurre a trascurare difficoltà e problemi ancora non completamente risolti, tra i quali il più importante è rappresentato, insieme alla cosiddetta 'patologia cronica del trapianto', dall'insufficiente numero di organi disponibili, che costituisce un fattore limitante l'ulteriore diffusione della chirurgia sostitutiva. Inoltre sarebbe particolarmente utile poter prolungare la conservazione ipotermica degli organi solidi, in modo da effettuare i trapianti secondo un'ottimale compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e realizzare un più efficace interscambio d'organi.
In un prossimo futuro la terapia genica potrebbe offrire la possibilità di trattare prima dell'intervento l'organo, umano o animale, da trapiantare: ciò permetterebbe al vettore di penetrare il sito di azione e consentirebbe di evitare nel contempo la risposta immunologica che normalmente si verifica nei confronti del vettore stesso, quando questo viene somministrato per via endovenosa.
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Naturalmente l'impossibilità di sospendere la terapia immunosoppressiva, non ancora del tutto scevra di effetti collaterali anche seri, quali una maggiore incidenza di infezioni e tumori maligni, influenza in modo negativo la qualità di vita dei trapiantati. A tale proposito una linea di ricerca che appare molto promettente è lo studio del 'microchimerismo', cioè della colonizzazione degli organi del ricevente da parte di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore. Questo fenomeno è stato osservato in alcuni pazienti sottoposti negli anni Sessanta e Settanta a trapianto di rene o di fegato. Il trapianto contemporaneo dallo stesso donatore del midollo osseo e del fegato o di un altro organo solido potrebbe infatti indurre nel ricevente un'analoga forma di parziale tolleranza immunologica, che renderebbe possibile la riduzione o addirittura l'eliminazione della terapia immunosoppressiva, senza incorrere in fenomeni di rigetto. Negli ultimi anni grande risonanza ha avuto lo studio di particolari cellule, dette staminali: sono cellule che non hanno ancora terminato il loro percorso differenziativo e che possono quindi partecipare allo sviluppo di diversi tessuti; oltre che negli embrioni, esse sono presenti in un certo numero in ogni individuo adulto (per es., nel midollo osseo). Queste cellule, coltivate in vitro e sottoposte a opportuni stimoli, possono modificare il loro percorso di differenziamento; da qui l'ipotesi di accesso a nuove terapie di notevole interesse, come la ricostituzione di organi o tessuti danneggiati o mal funzionanti effettuata trapiantando nel paziente cellule staminali derivabili dai suoi stessi tessuti e verso le quali non vi sarebbe quindi alcuna reazione di rigetto.
In conclusione si deve sottolineare che la maggior parte dei pazienti sottoposti a trapianto d'organo presenta un notevole miglioramento della qualità della vita, tale da consentire il pieno reinserimento nell'attività lavorativa e di relazione, e soprattutto di riacquistare l'omeostasi ormonale, senza alcun rischio di patologie nella donna in caso di gravidanza. Infatti numerose donne sottoposte a trapianto di organi, quali il rene o il fegato, hanno felicemente portato a termine una o più gravidanze senza conseguenze dannose per la madre o il figlio.
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