Trapianto
In biologia e in medicina si definisce trapianto il trasferimento di un tessuto o di un organo da una regione all'altra dello stesso organismo o da un organismo all'altro della stessa specie o di specie diversa. Con donatore e ospite (o ricevente) si indicano rispettivamente l'organismo che dà e quello che riceve l'organo o il tessuto da asportare e ricollocare in altra sede. L'organo può essere prelevato da un soggetto deceduto (donatore cadavere), oppure da un soggetto vivo (donatore vivente) del gruppo parentale diretto (consanguineo) o non (non consanguineo). Il trapianto prevede l'inserimento dell'organo nel ricevente mediante la confezione di anastomosi vascolari e si distingue quindi dall'innesto, nel quale i tessuti provenienti da un donatore vengono inseriti nel ricevente senza la ricostruzione della loro vascolarizzazione. Quando il donatore è della stessa specie del ricevente si parla di allotrapianto o omotrapianto; in caso contrario di xenotrapianto. Si denomina autotrapianto il trapianto di un organo nello stesso ricevente dopo la sua temporanea rimozione dall'organismo per eseguire con chirurgia di banco l'asportazione di un processo neoplastico (rene, fegato) o la riparazione di una lesione (per es. stenosi dell'arteria renale). Si parla infine di trapianto ortotopico ed eterotopico in relazione alla sede di impianto, rispettivamente uguale o differente da quella fisiologica.
Accenni al trapianto di organi o tessuti si ritrovano nella mitologia, nelle leggende dei primissimi secoli dopo Cristo (trapianto di un arto a opera dei santi Cosma e Damiano) e in repertori diversi (innesti di cute in manoscritti indiani del 5° secolo d.C.). Nel 1597 G. Tagliacozzo realizzò per primo un autoinnesto di cute e da allora questa metodica si diffuse ampiamente con progressivi affinamenti di tecniche e di conoscenze. Nel secolo 18° J. Hunter coniò il termine trapianto. Nel 1881 W. Macewen realizzò con successo un allotrapianto di osso. Da allora, grazie anche all'affinamento di tecniche chirurgiche (suture arteriose: J.B. Murphy, A. Carrel, C.C. Guthrie) e a numerosi tentativi sull'animale (il primo a opera di E. Ullman, 1902) e sull'uomo (nel primo allotrapianto di rene da cadavere a opera di Y.Y. Voronoij, nel 1933, il ricevente sopravvisse tre giorni; nel 1950 R. Lawler eseguì lo stesso tipo di trapianto e il ricevente sopravvisse sette giorni; nel 1951 vennero eseguiti in Francia otto trapianti di rene prelevato da consanguinei viventi e nel 1954 J.E. Murray e collaboratori eseguirono il primo trapianto di rene fra gemelli monocoriali con sopravvivenza di otto anni), si è giunti all'odierno impiego del trapianto come alternativa terapeutica efficace in molteplici situazioni altrimenti incompatibili con la sopravvivenza. Negli anni Cinquanta Murray mise a punto la manipolazione del sistema immunitario di trapiantati renali non consanguinei con il donatore mediante l'impiego dell'irradiazione linfatica totale seguita dal trapianto di midollo. Nel 1963 a Denver (Colorado) T.E. Starlz eseguì il primo trapianto di fegato. A coronamento di studi e tentativi effettuati da numerosi ricercatori sin dal 1905, nel 1967 a Città del Capo Ch.N. Barnard realizzò il primo trapianto di cuore. Parallelamente allo sviluppo delle metodiche chirurgiche, si assistette all'evoluzione di concetti e tecniche essenziali per il successo del trapianto: il rigetto, la sua natura immunologica e i presidi dei quali si può disporre per combatterlo. K. Landsteiner, che nel 1900 scoprì il sistema AB0 dei gruppi sanguigni, dimostrò l'importanza della compatibilità fra donatore e ospite fornendo così un importante stimolo a successive ricerche. Inoltre, nel 1913 illustrò l'ipotesi che oltre agli antigeni eritrocitari esistessero antigeni tessutali importanti ai fini della compatibilità dei trapianti. Nel 1936 P. Gorer giunse alla dimostrazione nel topo dell'esistenza di un gruppo di antigeni, codificati da geni localizzati in un'area cromosomica (il complesso maggiore di istocompatibilità; v. oltre), la cui compatibilità fra donatore e ricevente è fondamentale nell'attecchimento del trapianto di cute. Nel 1944 P.B. Medawar dimostrò sperimentalmente la natura immunologica del rigetto, per i caratteri di specificità e memoria che lo caratterizzano. Il sistema maggiore di istocompatibilità fu descritto anche nell'uomo nel 1965 da J. Dausset e J.J. van Rood. Nel 1978 da J. Borel e R.Y. Calne fu introdotta nella terapia del trapianto la ciclosporina, che è un farmaco con attività immunosoppressiva che ha aumentato la sopravvivenza dei pazienti trapiantati. Nell'arco degli ultimi 40 anni del 20° secolo, i trapianti hanno presentato una progressiva evoluzione, da trattamento sperimentale a terapia di elezione in presenza di insufficienza cronica terminale di uno o più organi, pur rimanendo ancora in fase di applicazione clinica limitata per quanto riguarda la chirurgia sostitutiva del pancreas e dell'intestino tenue.
l. Elementi di immunologia Le differenze individuali alla base del fenomeno del rigetto dell'organo trapiantato derivano dal complesso maggiore di istocompatibilità (MHC, Major histocompatibility complex), costituito da una serie di geni localizzati in corrispondenza del braccio corto del cromosoma 6, che codificano la sintesi di alcune glicoproteine di membrana. Queste ultime si dividono in due differenti sottogruppi: il primo corrisponde agli antigeni di classe I, denominati HLA (Human leukocyte antigen) A, B e C, presenti su tutte le cellule mononucleate e costituiti da una catena pesante di 45 kDa legata in modo covalente alla β-2-microglobulina; il secondo è costituito dagli antigeni di classe II, che sono eterodimeri costituiti da una catena α, il cui peso molecolare è compreso tra 29 e 34 kDa, e da una subunità β (25-28 kDa). Questi ultimi prendono il nome di HLA-DR, DQ e DP, e sono presenti solo sulla superficie di macrofagi, linfociti B e T attivati, cellule endoteliali e, in alcuni casi, cellule epiteliali. Entrambe queste classi di antigeni partecipano all'attivazione immunologica cui sono dovuti i fenomeni di rigetto, e costituiscono il bersaglio per le cellule citotossiche (HLA-A, B e C) o per i linfociti T helper (HLA-DR, DQ e DP); esistono inoltre antigeni del cosiddetto sistema minore di compatibilità, i quali sono alla base delle manifestazioni di rigetto che si possono verificare, per es., anche nel trapianto di rene da vivente tra fratelli HLA identici. La reazione immunologica di rigetto viene scatenata dagli antigeni specifici di istocompatibilità del donatore che, attraverso una serie di eventi molto complessi, vengono riconosciuti come estranei dal ricevente, il cui sistema immunitario reagisce fino a distruggere l'organo trapiantato. In pratica ogni individuo è caratterizzato da due complessi di geni che codificano gli antigeni HLA, definiti aplotipi, ereditati rispettivamente dal padre e dalla madre. Quindi ogni genitore condividerà un aplotipo con il figlio o la figlia, mentre questi ultimi avranno una probabilità del 50% di avere un aplotipo in comune tra di loro, e del 25% di condividerli entrambi (o nessuno dei due). Il riconoscimento degli antigeni del donatore da parte dei linfociti T del ricevente viene definito allorecognition o alloresponse. Si parla di direct allorecognition quando i recettori dei linfociti T riconoscono molecole MHC del donatore ancora intatte, con generazione di linfociti T citotossici CD8+ e manifestazioni di rigetto acuto. Nella indirect allorecognition, alla base del potenziamento sia del rigetto acuto sia del rigetto cronico, i recettori di linfociti CD4+ helper riconoscono allopeptidi MHC del donatore dopo che sono stati processati e presentati dalle cosiddette cellule presentanti l'antigene (APC, Antigen presenting cells) del ricevente. Il rigetto viene classificato in: 1) rigetto iperacuto, che avviene immediatamente o entro pochi minuti dalla rivascolarizzazione dell'organo trapiantato; l'esame istopatologico rivela una diffusa coagulazione intravascolare; il substrato immunologico è rappresentato da anticorpi preformati che agiscono in maniera rapida provocando un danno irreversibile; 2) rigetto acuto precoce o accelerato, che si verifica nel caso che sussista una presensibilizzazione del ricevente, per cui l'organo trapiantato può inizialmente funzionare in modo ottimale, ma presenta rapidamente un deterioramento della sua funzionalità; 3) rigetto acuto cellulare, che è la forma di rigetto più tipica e frequente, controllata nella maggior parte dei casi dalla terapia immunosoppressiva; l'aspetto istologico di questo tipo di reazione è inizialmente rappresentato da un'infiltrazione perivascolare di cellule linfoblastiche, mentre negli stadi più avanzati si osserva anche infiltrazione interstiziale, edema, necrosi e passaggio perivascolare di cellule (alla base del rigetto acuto si distinguono varie fasi: una prima fase di riconoscimento ed elaborazione degli antigeni estranei da parte dei linfociti T del ricevente; una seconda fase di attivazione, in cui diverse sottopopolazioni cellulari, prevalentemente appartenenti ai linfociti T, attivano i linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi e di mediatori e la proliferazione di cellule killer, e in cui anche i macrofagi vengono attivati; una terza fase di distruzione, in cui le cellule T del ricevente in fase attiva attaccano, attraverso i loro prodotti, il tessuto del trapianto); 4) rigetto cronico, che in genere inizia nel corso del primo anno dopo il trapianto, come espressione di un evento immunologico subclinico o non completamente risolto, ed è secondario alla lenta produzione di anticorpi umorali che agiscono sulle pareti dei vasi provocando fenomeni di iperplasia con progressiva ostruzione del lume vasale. Mentre una perfetta compatibilità HLA sembra associata a un miglior risultato del trapianto di rene, non sono state ancora raggiunte conclusioni definitive al riguardo per quanto concerne il trapianto di altri organi, quali il fegato e il cuore. Infatti la necessità di limitare al massimo i tempi di ischemia, insieme al minor numero dei pazienti in lista di attesa rispetto a quelli del rene, non dà la possibilità, nel caso del trapianto di fegato o di quello di organi toracici, di effettuare il trapianto in base alla tipizzazione tessutale donatore-ricevente. In tutti i casi è invece indispensabile la negatività del cross-match diretto, cioè l'assenza di reattività tra il siero del ricevente e i linfociti del donatore. Infatti la presenza di anticorpi preformati comporta l'insorgenza del rigetto iperacuto, con conseguente danneggiamento irreversibile dell'organo trapiantato, non appena questo viene rivascolarizzato.
Solamente alcuni farmaci si sono dimostrati fino a oggi efficaci per la prevenzione e il trattamento del rigetto nel trapianto di organi. Tra questi, l'azatioprina è un derivato della 6-mercaptopurina, che all'interno dell'organismo viene metabolizzato, formando il corrispondente ribonucleotide. Quest'ultimo presenta una notevole somiglianza strutturale con l'inosina monofosfato, bloccando l'attività enzimatica che comporta la sintesi di adenosina e guanosina monofosfato e quindi di acidi nucleici. L'azatioprina agisce in maniera più efficace quando è maggiore la sintesi di acidi nucleici, inibendo la differenziazione e la proliferazione dei linfociti T e B attivati. I suoi effetti collaterali più importanti sono rappresentati dalla leucopenia marcata con conseguente aumento di rischi di infezioni e dalla epatotossicità. La deplezione linfocitaria può essere indotta nel ricevente mediante la somministrazione di steroidi surrenalici, che agiscono inducendo la migrazione dei linfociti T circolanti dal sangue ai tessuti linfatici, determinando inoltre una più modesta ridistribuzione dei linfociti B, oltre a una riduzione della funzionalità dei macrofagi e della sintesi di linfochine. Notevoli sono tuttavia gli effetti collaterali, quali ipertensione, alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico, osteoporosi e insorgenza di cataratta, elementi questi che hanno condizionato fino a un recente passato la qualità di vita e la sopravvivenza a lungo termine del paziente trapiantato. Anche l'impiego di radiazioni ionizzanti, soprattutto sotto forma di irradiazione linfatica totale, può ridurre le popolazioni linfocitarie. A tale scopo viene tuttavia più frequentemente utilizzata la somministrazione di globuline antilinfocitarie (ALG, Antilymphocytic globulin), efficaci sia per la profilassi sia per la terapia del rigetto. Buoni risultati sono stati ottenuti clinicamente anche grazie a un anticorpo monoclonale OKT3, che si lega al recettore CD3, caratteristico dei linfociti T maturi, la cui attività risulta depressa. Sono attualmente in corso di studio nuove classi di anticorpi monoclonali (anti-CD4, -CD8 e altri). I farmaci che sono stati descritti, impiegati in diverse associazioni tra di loro, hanno rappresentato sino alla fine degli anni Settanta del 20° secolo gli elementi fondamentali della terapia immunosoppressiva, denominata 'terapia convenzionale'. La scoperta della ciclosporina, capostipite di una nuova generazione di farmaci, che agiscono in misura maggiore sui linfociti T, prevenendone l'attivazione da parte dell'IL-2 (interleuchina 2) oppure, se il fenomeno si è già verificato, bloccando i linfociti T e impedendo loro di sintetizzare e secernere IL-2, ha significativamente migliorato i risultati del trapianto di rene, pancreas, fegato, cuore, e ha reso applicabili clinicamente quelli di polmone e di intestino. Ha inoltre permesso di aumentare la percentuale di successo dei ritrapianti e di effettuare il trapianto di fegato per insufficienza epatica fulminante anche in caso di incompatibilità di gruppo AB0 tra donatore e ricevente. Anche la ciclosporina, come l'FK 506 e le altre molecole ad azione immunosoppressiva, non è tuttavia priva di effetti collaterali, quali epatotossicità, ipertensione arteriosa, neurotossicità e nefrotossicità, anche se la maggior parte di essi sono dose dipendenti. Il perfezionamento dei protocolli immunosoppressivi ha ridotto l'incidenza del rigetto e nello stesso tempo di complicanze infettive dopo trapianto d'organo. Non è stato tuttavia ancora risolto il problema delle infezioni opportunistiche, causate cioè da microrganismi quali Protozoi (Pneumocystis carinii), miceti (soprattutto Candida albicans e Aspergillus fumigatus) e virus (in particolar modo Cytomegalovirus) che normalmente non sono patogeni, ma lo divengono nei soggetti con diminuite difese immunitarie. Per quanto riguarda gli episodi di rigetto, questi sono diagnosticati sulla base del quadro clinico, dei parametri di funzionalità dell'organo trapiantato, degli esami strumentali, ma soprattutto grazie all'utilizzazione routinaria del controllo citologico mediante agoaspirato, facendo ricorso nei casi dubbi all'agobiopsia. Il trattamento del rigetto comporta uno o più cicli di terapia steroidea endovenosa ad alti dosaggi, utilizzando nei casi resistenti ALG o OKT3.
È noto che il prelievo degli organi solidi viene generalmente effettuato in donatori cadaveri il cui cuore è ancora battente, in condizioni quindi di 'morte cerebrale', che è definitiva e irreversibile. L'accertamento di questa condizione è stato sancito per la prima volta in Italia dalla legge nr. 644 del 2 dicembre 1975 e dal successivo regolamento nr. 409 del 16 giugno 1977, che richiedevano un periodo di osservazione di 12 ore da parte di una Commissione medica. Il dibattito scaturito nel corso degli anni ha comportato la discussione e la successiva approvazione della legge nr. 578 del 29 dicembre 1993, il cui art. 1 ribadisce: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Nei soggetti affetti da lesioni encefaliche sottoposti a misure rianimatorie la morte ha luogo "quando si verifica la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo", accertata "da un collegio medico nominato dalla direzione sanitaria, composto da un medico legale o, in mancanza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomopatologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un medico neurofisiopatologo oppure, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia. I componenti del collegio medico sono dipendenti di strutture sanitarie pubbliche". Il legislatore introduce notevoli innovazioni, quali (art. 3) l'obbligo da parte del "medico della struttura sanitaria" di segnalare immediatamente tutti i casi di presunta morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie "alla direzione sanitaria, che è tenuta a convocare prontamente il collegio medico". Il decreto del Ministero della Sanità nr. 582 del 22 agosto 1994 richiede (art. 3), per l'accertamento di morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie, "la contemporanea presenza delle seguenti condizioni: a) stato di incoscienza; b) assenza di riflesso corneale, di riflesso fotomotore, di riflesso oculocefalico e oculovestibolare, di reazioni a stimoli dolorifici portati nel territorio d'innervazione del trigemino, di riflesso carenale e respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale fino al raggiungimento di ipercapnia accertata da 60 mmHg con pH ematico minore di 7,40; c) silenzio elettrico cerebrale; d) assenza di flusso cerebrale preventivamente documentata". È necessario che queste condizioni siano simultaneamente presenti "per almeno tre volte, all'inizio, alla metà e alla fine del periodo di osservazione" che, in base all'art. 4, non deve essere inferiore a 6 ore per gli adulti e i bambini di più di 5 anni, 12 ore per i bambini di età tra 1 e 5 anni e 24 ore nei bambini di età inferiore a 1 anno. Prima dell'inizio dell'osservazione è compito del medico di turno in rianimazione escludere la presenza di patologie trasmissibili al ricevente, facendo eseguire uno screening batteriologico, virologico e micologico completo. Non possono essere considerati donatori pazienti in morte cerebrale affetti da neoplasie (con la sola eccezione dei tumori cerebrali a esclusiva localizzazione intracranica) o sieropositivi per il virus dell'immunodeficienza acquisita oppure dell'epatite C; organi di donatori clinicamente guariti da una pregressa epatite B, in assenza di replicazione virale, possono essere utilizzati, assegnandoli possibilmente a soggetti positivi per l'antigene Australia (HbSAg, Hepatitis B surface antigen). L'idoneità al prelievo di rene, pancreas, fegato, cuore, polmoni ecc. viene posta dai responsabili delle varie squadre chirurgiche, sulla base degli accertamenti ematochimici, emogasanalitici e strumentali (radiografia del torace, ecocardiogramma, ecografia addominale) effettuati nel potenziale donatore: spesso la decisione finale viene presa dopo l'ispezione chirurgica e l'eventuale perfusione degli organi da trapiantare. Riguardo al consenso all'espianto degli organi, in alcune nazioni europee, per es. la Francia, la legge ha introdotto il principio del 'consenso presunto' o del 'silenzio-assenso', in base al quale si effettuano le operazioni di prelievo, una volta accertata la condizione di morte cerebrale, in tutti i pazienti deceduti in ospedale i quali non abbiano mai espresso in vita volontà contraria alla donazione. In Italia, invece, ove non vi sia l'esplicita autorizzazione da parte del donatore, al prelievo possono opporsi i familiari. Si definisce prelievo multiorgano il prelievo contemporaneo di più organi toracici e addominali dallo stesso donatore cadavere. Il prelievo di organi toracici prevede l'apertura della cavità toracica mediante una sternotomia mediana, l'incisione del sacco pericardico, l'isolamento delle strutture cardiache e dell'arteria polmonare seguita dalla perfusione attraverso il bulbo aortico con soluzione cardioplegica (che arresta il cuore) e attraverso l'arteria polmonare con soluzioni cristalloidi o colloidi; si procede infine all'estrazione separata del cuore e dei due polmoni. Il prelievo degli organi addominali è stato realizzato secondo due modalità, la prima caratterizzata da una dissezione anatomica a cuore battente delle strutture vascolari dei differenti organi e dalla loro successiva perfusione in situ (tecnica standard), e la seconda, denominata fast perfusion, che prevede l'immediata perfusione degli organi, una volta aperte la cavità toracica e addominale e la loro successiva asportazione, preceduta da una dissezione, anche se limitata, dei distretti vascolari di competenza, successivamente completata mediante chirurgia di banco. La tecnica standard, applicata quando le condizioni emodinamiche del donatore sono stabili, permette una più agevole identificazione di eventuali anomalie anatomiche, mentre la fast perfusion, indicata in presenza di un donatore cadavere nel quale si verifichi un'improvvisa grave ipotensione all'inizio del prelievo o durante un intervento eseguito con tecnica standard, pur presentando il vantaggio di ridurre i tempi dell'intervento, comporta il rischio di determinare lesioni di strutture vascolari, particolarmente in presenza di anomalie anatomiche.
L'induzione dell'ipotermia, che costituisce il cardine della conservazione degli organi solidi e della loro successiva ripresa funzionale dopo trapianto, è ottenuta mediante la rapida perfusione in vivo con particolari soluzioni cristalloidi o colloidi, che può essere eventualmente associata all'infusione di farmaci vasodilatatori allo scopo di prevenire l'insorgenza di fenomeni di vasospasmo. Tuttavia, l'ipotermia comporta anche una serie di effetti indesiderati, inducendo in particolare un edema cellulare, conseguente all'inibizione della pompa ionica di membrana che normalmente, consumando adenosintrifosfato, mantiene una bassa concentrazione intracellulare di sodio e una elevata di potassio. Per questo motivo, tutte le soluzioni per la perfusione ipotermica contengono sostanze che, innalzandone fino a 400-440 mOsm/l l'osmolarità, contribuiscono a ridurre l'insorgenza dell'edema cellulare; si tratta in genere di anioni (fosfato, solfato, glicerofosfato, gluconato, lattobionato e citrato) o di zuccheri (glucosio, mannitolo, sucrosio e raffinosio). I due tipi di soluzioni più frequentemente impiegate per uso clinico sono la soluzione di Collins (cristalloide) e la soluzione UW dell'Università di Wisconsin (colloide). La soluzione di Collins viene utilizzata su larga scala da molti anni, anche se la sua formulazione ha subito notevoli cambiamenti a partire dal 1969 (Collins C1-C4); attualmente viene definita Eurocollins e si differenzia dalle versioni precedenti per l'assenza di magnesio. È caratterizzata da una notevole osmolarità (circa 375 mOsm/l), ottenuta grazie all'aggiunta di glucosio, e da una concentrazione elettrolitica di tipo intracellulare, cioè elevata in potassio e bassa in sodio. La soluzione UW è stata messa a punto negli anni Ottanta del 20° secolo da F. Belzer e i suoi collaboratori. Nella sua composizione rientrano il gluconato, anione impermeabilizzante deputato alla prevenzione del rigonfiamento cellulare, il glutatione, che dovrebbe impedire il danno da lipoperossidazione e da radicali liberi dell'ossigeno, e infine sia adenina sia ribosio, quali precursori dell'ATP. Viene preferita alla Eurocollins, nella maggior parte dei centri, per la conservazione di fegato e pancreas poiché consente tempi di conservazione di questi organi sino a 10-12 ore per il pancreas, 18 ore per il fegato e 24 ore per il rene; è stata impiegata anche per la preservazione in ipotermia dell'intestino tenue, del cuore e dei polmoni. Inoltre, per la perfusione e la conservazione in ipotermia di fegato, rene e pancreas è stata messa a punto la soluzione Celsior, inizialmente proposta per il prelievo del cuore, che si è dimostrata efficace nel prevenire il sovraccarico di calcio; ha una notevole attività antiossidante e buffering, garantita da glutatione, istidina e mannitolo ed è caratterizzata da una viscosità notevolmente inferiore, che facilita l'omogenea perfusione degli organi addominali.
a) Trapianto di rene. Il trapianto di rene è stato effettuato per la prima volta tra gemelli monocoriali a Boston nel 1954 da J.E. Murray mediante una tecnica chirurgica messa a punto dal chirurgo parigino R. Kuss, e realizzata successivamente in tutto il mondo, utilizzando donatori viventi e cadaveri, in una serie crescente di casi. Gli unici fattori in grado di precludere il trapianto di rene sono la presenza di neoplasie maligne o di infezioni sistemiche in atto. Controindicazioni relative sono considerate l'età del ricevente superiore a 60-65 anni e alcune patologie renali che possono recidivare con una frequenza variabile dopo il trapianto, quali la nefropatia diabetica, la glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo I e II, la glomerulosclerosi focale e segmentaria, la nefropatia da immunoglobulina A (IgA), la sindrome uremico-emolitica e la porpora di Schönlein-Henoch. Il trapianto è in pratica la terapia di elezione nei pazienti affetti da uremia terminale di qualsiasi eziopatogenesi e dovrebbe essere effettuato il più precocemente possibile, per prevenire lo stress psicologico e i numerosi effetti collaterali della dialisi, cui si aggiungono in età pediatrica o neonatale alcune difficoltà tecniche e il marcato ritardo dell'accrescimento. Si comprende quindi il ruolo del trapianto renale da donatore vivente, consanguineo e non, quale procedura terapeutica complementare al trapianto da donatore cadavere, il cui numero è ancora insufficiente in rapporto al fabbisogno. I risultati del trapianto da donatore vivente sono superiori a quelli da donatore cadavere, in quanto l'assenza della fase anossica elimina la comparsa di necrosi tubulare acuta, elemento aspecifico nel favorire l'innesco della reazione di rigetto, permettendo inoltre l'immediata somministrazione di ciclosporina, farmaco potenziamente nefrotossico, con conseguente diminuzione degli episodi di rigetto. Il rischio per il donatore vivente è molto limitato per quanto riguarda la morbilità perioperatoria e a distanza di tempo, mentre il rischio di mortalità è pressoché nullo. Nel prelievo di rene da donatore vivente viene adottata un'incisione lombotomica sulla XI costa, che può essere resecata, prolungata anteriormente in basso parallelamente al muscolo retto addominale. Si procede quindi all'incisione della capsula adiposa, con lussazione completa del rene, e all'isolamento dell'uretere dal polo inferiore del rene sino all'incrocio con i vasi iliaci omolaterali. Viene successivamente preparata la vena cava inferiore con lo sbocco della vena renale in caso di prelievo del rene destro; quando l'intervento ha luogo a sinistra, si effettua la legatura e sezione della vena surrenale inferiore, della vena spermatica e, se presente, dell'arcata venosa azygos-lombare. Si isola quindi l'arteria renale nella sua porzione retrocavale a destra e all'origine dell'aorta a sinistra, previa sezione tra legature dell'arteria surrenalica inferiore. L'uretere viene sezionato a livello dei vasi iliaci e il moncone distale viene legato. L'arteria renale viene clampata e sezionata; altrettanto si fa per la vena renale, a destra asportata con un patch di vena cava e a sinistra sezionata a livello del margine aortico. La breccia cavale o il moncone distale della vena renale del donatore vengono suturati in continua con monofilamento 5-0, mentre il moncone prossimale dell'arteria renale si lega con un punto transfisso. Per quanto concerne la tecnica di trapianto sia da donatore vivente sia da cadavere, la via d'accesso è rappresentata da una incisione cutanea parainguinale a livello della fossa iliaca. Lo scollamento retroperitoneale consente di esporre e preparare i vasi iliaci; in questa fase occorre legare accuratamente i vasi linfatici per prevenire l'insorgenza del linfocele. Se l'organo da trapiantare presenta un'arteria renale singola, quest'ultima viene anastomizzata terminoterminalmente all'arteria ipogastrica, qualora si esegua un trapianto di rene da vivente. Se, invece, l'organo è stato prelevato da un donatore cadavere, ed è stato quindi possibile asportare un patch di aorta, l'anastomosi viene effettuata terminolateralmente con l'arteria iliaca esterna o con l'iliaca comune, a seconda della profondità del campo operatorio e della lunghezza dell'arteria renale, in modo da evitarne inginocchiamenti dopo la chiusura della ferita chirurgica. Numerose sono le tecniche attuabili in caso di arterie renali multiple, quando non si disponga di un adeguato patch di aorta, come nel caso del trapianto di un rene prelevato da un donatore vivente. Si può eseguire l'anastomosi terminoterminale tra l'arteria renale doppia e la biforcazione dell'arteria ipogastrica, l'anastomosi terminoterminale tra il ramo principale dell'arteria renale e l'arteria ipogastrica e tra un'arteria polare inferiore e l'arteria epigastrica inferiore, l'anastomosi terminoterminale tra arteria renale e arteria ipogastrica e quella terminolaterale tra un'arteria polare superiore o inferiore e il tronco principale dell'arteria ipogastrica, oppure l'anastomosi terminoterminale tra l'arteria renale e l'ipogastrica dopo aver anastomizzato terminolateralmente un'arteria polare sulla parete della stessa arteria renale. Fattori limitanti l'effettuazione di tali approcci chirurgici sono rappresentati dalla discrepanza del calibro dei vasi tra donatore e ricevente e dalla non rara osservazione in quest'ultimo di alterazioni della parete vasale. Sulla base di queste considerazioni la presenza bilaterale di arterie renali multiple rappresenta presso molti centri una controindicazione alla donazione di rene da vivente. Tuttavia in questi casi, durante la chirurgia di banco in ipotermia, si può effettuare con materiale monofilamento 7-0 l'anastomosi delle arterie renali a un patch di teflon, successivamente connesso mediante una sutura continua 5-0 all'arteria iliaca del ricevente. Questo approccio chirurgico si è rivelato valido anche in caso di trapianto in pazienti pediatrici di reni prelevati da donatori viventi adulti e nel trapianto di rene da cadavere in presenza di lesioni aterosclerotiche dell'aorta con interessamento degli osti delle arterie renali o per reimpiantare arterie polari accidentalmente danneggiate in fase di prelievo. La vena renale del trapianto viene usualmente anastomizzata terminolateralmente con la vena iliaca esterna del ricevente. Se il rene del donatore presenta due vene renali dello stesso calibro, entrambe vengono suturate sull'asse venoso iliaco, mentre vene accessorie di piccolo calibro vengono usualmente legate senza alcuna alterazione del drenaggio venoso. La via escretrice viene ricostruita preferenzialmente eseguendo un'ureteroneocistostomia secondo la tecnica di Gregoir-Lich la quale, pur garantendo un adeguato meccanismo antireflusso, è di esecuzione più rapida rispetto al metodo di Politano-Leadbetter, che prevede un'ampia apertura della parete vescicale e la tunnellizzazione sottomucosa dell'uretere, di difficile esecuzione in presenza di una vescica con infiammazione cronica. L'anastomosi dell'uretere del ricevente con l'uretere o la pelvi del donatore viene generalmente effettuata solo in alcuni casi di reintervento per necrosi dell'uretere del rene trapiantato. In relazione all'efficacia della terapia immunosoppressiva, con l'impiego della ciclosporina non è più necessaria una completa istocompatibilità, anche se rimane fondamentale che il ricevente non presenti anticorpi attivi contro i linfociti del donatore (cross-match diretto negativo). Per quanto riguarda i risultati a distanza, si riporta una sopravvivenza attuariale dell'organo a 10 anni intorno al 65% per il trapianto da cadavere con una sufficiente compatibilità tra donatore e ricevente e una sopravvivenza significativamente superiore per quello da vivente.
b) Trapianto di pancreas e innesto di insule pancreatiche. Il trapianto di pancreas, eseguito per la prima volta da W. Kellog e R. Lilley a Minneapolis nel 1966 con la finalità di prevenire la progressione di alcune gravi complicanze microangiopatiche del diabete giovanile insulinodipendente, quali la retinopatia, è stato caratterizzato da una progressiva evoluzione che ha portato a ottenere una sopravvivenza a 1 anno dal trapianto superiore all'80% e a 5 anni del 65%. I due aspetti peculiari che hanno condizionato la tecnica chirurgica da adottare possono essere individuati nella scelta della sede del trapianto e nel trattamento della secrezione esocrina. Va considerato inoltre che generalmente il trapianto di pancreas viene effettuato in fase di uremia secondaria a nefropatia diabetica e pertanto è associato con trapianto di rene; il miglioramento dei risultati e il progressivo diminuire sia dei rischi sia degli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva hanno indotto a effettuare in questi ultimi anni un crescente numero di trapianti isolati di pancreas. In alcuni casi infine è stato effettuato con successo il trapianto segmentario della coda del pancreas da donatore vivente consanguineo (usualmente un genitore), senza rischi sostanziali, correlabili con la procedura di prelievo. Per quanto riguarda la sede, l'intervento può essere effettuato posizionando il segmento corpo-coda del pancreas in fossa iliaca dopo preparazione dei vasi iliaci per via extraperitoneale, come avviene per il trapianto di rene, e anastomizzando agli stessi l'arteria e la vena splenica del trapianto oppure all'interno della cavità addominale a livello dello sfondato di Douglas o in posizione paratopica, anastomizzando i vasi del donatore in terminolaterale ai vasi splenici del ricevente. Quest'ultima metodica, se da un lato presenta maggiori problemi tecnici rispetto alle altre prima descritte, consente tuttavia l'increzione insulinica direttamente nell'albero portale. In relazione al trattamento della secrezione esocrina le tecniche che oggi vengono usualmente impiegate sono fondamentalmente due: l'occlusione del dotto di Wirsung mediante differenti tipi di sostanze (neoprene, polysoprene, prolamina, silicone, cianoacrilato) che presentano la caratteristica di solidificare al pH alcalino tipico della secrezione pancreatica; il drenaggio del dotto di Wirsung in intestino o vescica. Attualmente, molti gruppi sono favorevoli al drenaggio del dotto di Wirsung in vescica, trapiantando il pancreas in toto con bottone duodenale, oppure con segmento di duodeno comprendente lo sbocco della papilla di Vater. Tutte le tecniche non sono peraltro scevre da complicanze. In particolare, nel trapianto segmentario di pancreas con occlusione del dotto di Wirsung non sono rare le fistole pancreatiche, e il numero delle insule non sempre è sufficiente per un corretto e completo controllo ormonometabolico; incerto è inoltre il ruolo della fibrosi, la quale fa seguito all'occlusione del dotto pancreatico, nel determinare un eventuale insuccesso tardivo del trapianto. Le complicanze legate alla tecnica del trapianto in toto con wirsungcistostomia sono principalmente rappresentate dalle fistole vescicali, dalle infezioni, da episodi di grave acidosi e dalle erosioni della mucosa uretrale e vescicale. Il drenaggio enterico comporta d'altra parte un non trascurabile rischio di fistole, deiscenze anastomotiche e pancreatiti. Anche in questi trapianti la ciclosporina costituisce il cardine della terapia immunosoppressiva, in associazione con steroidi, azatioprina e siero antilinfocitario (ALG) oppure anticorpi monoclonali (OKT3); la diagnosi di sospetto di rigetto viene stabilita mediante la determinazione dei livelli ematici di insulina, peptide C e amilasi e il dosaggio delle amilasi nel succo pancreatico, e deve essere confermata attraverso la biopsia pancreatica ecoguidata. Nel corso degli ultimi anni è stato effettuato, in alcuni centri e con applicazione clinica limitata, l'innesto di insule pancreatiche che vengono generalmente iniettate nel circolo portale del ricevente: in casi di diabete insulinodipendente con associata insufficienza renale o epatica trova indicazione il trapianto combinato di insule e, rispettivamente, di rene o fegato. Questo approccio terapeutico può essere praticato sia inserendo le insule mediante metodiche radiologiche poco invasive nella vena porta sia mettendo a punto una tecnica per l'immunoprotezione di insule umane altamente purificate all'interno di microcapsule di alginato di polilisina del diametro di 700 μm, rendendo superflua la terapia antirigetto. Speciali protesi contenenti le microcapsule vengono interposte tra la vena ascellare e quella femorale nel circolo ematico di pazienti diabetici, con dimostrazione di produzione di insulina dopo l'innesto. Tuttavia, i risultati a distanza, in termini di correzione dell'alterazione metabolica senza somministrazione esogena di insulina, non sono ancora soddisfacenti, in quanto attendono ancora una risoluzione alle numerose problematiche, quali la resa inadeguata delle metodiche di isolamento, la purificazione e conservazione delle insule e la possibilità di danneggiamento di queste ultime a causa degli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva o per fenomeni di autoimmunità.
c) Trapianto di fegato. Il primo trapianto di fegato fu effettuato nel 1963 a Denver da T.E. Starzl; lo stesso chirurgo ottenne il primo successo clinico quattro anni dopo, nel 1967. Solo negli anni Ottanta, però, grazie a numerosi perfezionamenti sia della tecnica chirurgica sia della terapia immunosoppressiva, l'intervento ha avuto una diffusione sempre maggiore. Le principali indicazioni al trapianto di fegato sono costituite dalle differenti forme di insufficienza epatica cronica, dai deficit congeniti di enzimi la cui sintesi avviene a livello epatico, dall'insufficienza epatica acuta fulminante di origine virale, tossica o da farmaci, e dalla patologia neoplastica. Le patologie che precludono il trapianto di fegato sono in pratica limitate alle malattie sistemiche e ai tumori epatici o delle vie biliari con metastasi locoregionali e a distanza, mentre alcune complicanze del paziente in lista di attesa per trapianto, come l'emorragia recidivante dopo scleroterapia da rottura di varici esofagee e gastriche e l'ascite intrattabile associata a insufficienza respiratoria e/o renale, non rappresentano oggi un elemento di esclusione temporanea dal programma di trapianto: in questa particolare categoria di pazienti vi è un rischio elevato sia di una derivazione chirurgica portosistemica sia di una sostituzione epatica in urgenza, ma attualmente è possibile trattare le complicanze dell'ipertensione effettuando per via non invasiva un'anastomosi tra il circolo portale e quello sistemico mediante una metodica detta TIPS (Transjugular intrahepatic porto-systemic shunt). Il primo trapianto di fegato in Italia è stato eseguito nel 1982. In genere, nel nostro paese la maggior parte dei pazienti viene sottoposta a trapianto per cirrosi postepatite B, B-delta o C, una patologia particolarmente diffusa nell'area mediterranea. I migliori risultati, in termini di sopravvivenza a distanza e di completa riabilitazione, si ottengono in casi a bassa replicazione virale, valutata con la ricerca del DNA virale mediante PCR (Polymerase chain reaction), e in fase di relativo compenso (Child-Pugh score B). La profilassi nei confronti del virus dell'epatite B viene effettuata attualmente con la somministrazione di un elevato dosaggio di gammaglobuline iperimmuni, che inizia durante la fase anepatica e deve proseguire a lungo per mantenere un elevato titolo anticorpale e ridurre la reinfezione del fegato trapiantato. Tale complicanza, dopo trapianto per cirrosi da virus C correlata, è tuttora di difficile prevenzione e presenta un'evoluzione variabile dalle forme subcliniche stabili alle forme fulminanti e a quelle a evoluzione progressiva sino a cirrosi; la somministrazione di interferon-α, talvolta associata a ribavirina, costituisce l'unica possibilità di prevenirla in maniera relativamente efficace. La cirrosi alcolica non rappresenta oggi una controindicazione al trapianto, anche se in questi casi è indispensabile prima dell'intervento un'accurata valutazione neuropsichiatrica e un efficace trattamento riabilitativo. Nelle malattie a impronta colestatica, quali la cirrosi biliare primitiva e la colangite sclerosante, il trapianto di fegato è indicato quando la bilirubinemia supera in percentuale i 6 mg o presenta un improvviso, significativo rialzo dei suoi valori ematici e il prurito diventa intrattabile; la valutazione preoperatoria in caso di colangite sclerosante deve includere una colangiografia retrograda con prelievi citologici, in quanto questa patologia è frequentemente associata alla degenerazione neoplastica delle vie biliari, e una colonscopia per escludere alterazioni neoplastiche della mucosa colica. La sostituzione epatica viene attualmente effettuata anche nell'insufficienza epatica fulminante su base infettiva o tossica. Questi ultimi quadri morbosi pongono tuttavia problemi relativi al momento in cui eseguire il trapianto poiché, nonostante l'elaborazione di svariati indici prognostici (bilirubinemia superiore in percentuale a 20 mg, protrombina superiore a 30 s, encefalopatia in stadio III evolutiva), è tuttora difficile determinare se il danno epatico è irreversibile o se sia preferibile continuare il trattamento conservativo, purtroppo caratterizzato da una scarsa efficacia. La funzione del fegato è notoriamente costituita da un numero elevato di complesse reazioni biochimiche che possono essere svolte solamente dagli epatociti: destano quindi interesse gli studi volti all'ottenimento di sistemi 'ibridi' di sostegno dell'attività epatica. Essi sono costituiti da una struttura inerte che funge da supporto per cellule epatiche di origine umana o anche animale. Una possibilità terapeutica è rappresentata anche dal trapianto ausiliario di fegato, in modo da poter fornire un supporto al fegato nativo almeno finché questo non abbia superato il danno tossico o infettivo. Per quanto riguarda la patologia neoplastica, le tecniche chirurgiche di resezione epatica, quando attuabili, rappresentano il trattamento di elezione per i tumori epatici primitivi a qualsiasi stadio, insorti su fegato sano. D'altra parte, la non trascurabile morbilità e mortalità perioperatoria associata a interventi di chirurgia resettiva maggiore effettuati in pazienti cirrotici in classe B o C di Child-Pugh e/o la possibile natura multifocale delle lesioni neoplastiche pongono l'indicazione al trapianto di fegato; è però tuttora in fase di valutazione il suo ruolo in presenza di lesioni non resecabili multiple o singole di voluminose dimensioni sia su fegato sano sia su cirrosi per il potenziale rischio di recidiva neoplastica, legato principalmente alla terapia immunosoppressiva. I trapianti in età pediatrica rappresentano il 20% dell'esperienza globale europea, e di questi circa 1/3 è stato effettuato in pazienti di età compresa tra 0 e 2 anni; le principali indicazioni sono costituite dall'atresia delle vie biliari, dalle altre forme di colestasi, dall'insufficienza epatica acuta, dalle malattie metaboliche e, solo raramente, dalle dilatazioni congenite delle vie biliari. Per quanto riguarda la malattia di Caroli e più in generale le malformazioni cistiche intraepatiche o intra- ed extraepatiche, le forme a localizzazione lobare possono essere sottoposte a chirurgia resettiva, mentre quelle diffuse richiedono il trapianto di fegato per eliminare focolai settici e prevenire la degenerazione neoplastica delle cisti. Nell'ambito della tecnica chirurgica un'importante innovazione è costituita dal trapianto segmentario di fegato, che comporta una fase resettiva durante la chirurgia di banco e il successivo utilizzo dei segmenti epatici destri (5°, 6°, 7° e 8°) o sinistri (2°, 3° ed eventualmente 4°) in presenza di notevole discrepanza di dimensioni tra il donatore e il ricevente. Recentemente tale metodica è stata sostituita da quella dello split liver che prevede l'impiego di due emifegati da uno stesso donatore in due distinti riceventi. In questi casi la sopravvivenza globale del paziente è, rispettivamente, del 79% e del 67%, contro l'82% dopo trapianto full size; la maggiore mortalità dopo split liver transplantation deve essere attribuita alle più accentuate difficoltà tecniche, che si riflettono in un'incidenza superiore di complicanze, soprattutto biliari (27%). L'esperienza acquisita con questo tipo di chirurgia ha consentito nella seconda metà degli anni Ottanta del 20° secolo di effettuare il trapianto di fegato da donatore vivente; ciò ha permesso di iniziare alcuni programmi di chirurgia epatica sostitutiva in paesi, come il Giappone, in cui non è ancora legalizzato l'utilizzo di donatori cadaveri. La sopravvivenza a distanza nei riceventi raggiunge il 90%; l'asportazione del lobo sinistro del fegato o, come si preferisce fare attualmente, del 2° e 3° segmento epatico, comporta per il donatore rischi sovrapponibili a quelli di una resezione epatica maggiore, quali una mortalità teorica dell'1% e una morbosità del 5%. Per quanto riguarda le tecniche di reimpianto del fegato dopo l'epatectomia del ricevente, oltre alla tecnica standard descritta da Starzl negli anni Sessanta, è stata messa a punto in questi ultimi anni, inizialmente nel trapianto pediatrico e successivamente nell'adulto, la cosiddetta tecnica di piggyback che prevede il mantenimento della vena cava retroepatica dopo epatectomia. Questa tecnica presenta il vantaggio di non impiegare lo shunt venoso tra il distretto cavale inferiore e superiore, e di prevenire lesioni iatrogene del nervo frenico che, in alcune casistiche, hanno reso necessaria nel periodo postoperatorio una prolungata ventilazione meccanica. Da quanto esposto si evince come le indicazioni al trapianto di fegato si siano progressivamente allargate alla maggior parte delle patologie epatiche sia dell'età pediatrica sia di quella adulta, mentre si sono sempre più ridotte le controindicazioni legate all'età o alle condizioni cliniche del potenziale ricevente e sono migliorati i risultati a distanza: la sopravvivenza attuariale del paziente trapiantato ha raggiunto il 90% a 1 anno e il 75% a 5 anni.
d) Trapianto di intestino e trapianto multiviscerale. Le tecniche chirurgiche del trapianto intestinale e multiviscerale sono state messe a punto nel cane rispettivamente da Lilley nel 1959 e da Starzl nel 1960; la prima applicazione clinica ha avuto luogo nel 1964 a Boston. Tuttavia, i primi successi nel trattamento con il trapianto delle sindromi da malassorbimento enterico associate a insufficienza epatica terminale sono stati ottenuti nel 1987 a Pittsburgh in due pazienti pediatrici sottoposti a trapianto multiviscerale (fegato, pancreas, duodeno, digiuno e ileo) e nel 1990 presso l'Università dell'Ontario orientale, dove sono stati effettuati alcuni trapianti di fegato e intestino. Successivamente il gruppo di Pittsburgh, adottando protocolli innovativi di terapia immunosoppressiva con l'impiego dell'FK 506 come farmaco di base, ha ottenuto soddisfacenti risultati funzionali con il trapianto isolato di intestino. Da allora in tutto il mondo più di 30 centri hanno effettuato, secondo il registro dei trapianti di intestino a cura dell'università dell'Ontario orientale, oltre 110 trapianti isolati di intestino, oltre 100 trapianti di fegato e intestino e più di 30 trapianti multiviscerali. La scelta delle tecniche chirurgiche - intestino isolato, trapianto combinato di fegato e intestino, cluster operation (trapianto di fegato e pancreas in blocco) e trapianto multiviscerale (trapianto in blocco di fegato, pancreas, intestino tenue e in alcuni casi anche di stomaco e/o colon) - che sono state adottate in questi anni è stata in particolar modo condizionata dalla patologia del paziente, anche se si sono progressivamente sviluppate varianti di una stessa tipologia di tecnica con la finalità tanto di ridurre le complicanze chirurgiche quanto di migliorare lo stato metabolico e nutrizionale dopo il trapianto. Il trapianto di intestino trova la sua principale indicazione nel trattamento della sindrome da intestino corto, quale si definisce la riduzione al di sotto di 20 cm della lunghezza del tratto enterico funzionale, dovuta a compromissione della vascolarizzazione intestinale, anomalie neuroendocrine e malfunzionamento intestinale primitivo. Numerosi casi di patologie neoplastiche potrebbero trarre giovamento dai trapianti multiviscerali, ma l'elevata incidenza di recidive neoplastiche nei casi di voluminosi carcinomi epatocellulari e di tumori del pancreas, della colecisti o del colon con interessamento epatico secondario suggerisce oggi di escludere queste patologie dalle indicazioni ai trapianti cluster o multiviscerali. Questi interventi dovrebbero essere limitati a pazienti con neoplasie neuroendocrine localizzate alla loggia sovramesocolica o ai rari casi di sindrome di Gardner con tumori desmoidi che compromettono la vascolarizzazione degli organi addominali. Nel trapianto isolato di intestino, se si eccettuano le difficoltà legate alla sindrome aderenziale secondaria ai pregressi interventi chirurgici, la fase demolitiva non presenta particolari difficoltà, essendo limitata, nella maggior parte dei casi, all'asportazione del segmento di intestino residuo. Nel trapianto combinato di fegato e intestino è invece associata l'epatectomia del ricevente secondo la tecnica standard. La rimozione degli organi nativi costituisce invece una delle fasi più delicate del trapianto multiviscerale a causa dell'ampia eviscerazione necessaria a ottenere la radicalità chirurgica. La fase demolitiva, che precede gli interventi di trapianto multiviscerale nonché di cluster operation, usualmente adottati in presenza di una patologia neoplastica primitiva o secondaria, comprende l'esposizione completa dell'asse aortocavale mediante derotazione intestinale e scollamento splenopancreatico e colico sinistro, l'isolamento del tripode celiaco e dell'arteria mesenterica superiore e infine la 'lussazione' del fegato, previa sezione dei legamenti sospensori. Per quanto riguarda la tecnica chirurgica di reimpianto occorre distinguere tre fasi principali, che includono la rivascolarizzazione arteriosa tra il distretto vascolare dell'organo trapiantato e l'aorta del ricevente, il drenaggio venoso nel circolo portale e la ricostruzione del transito intestinale. In quest'ultima fase almeno una delle estremità dell'intestino trapiantato viene anastomizzata alla cute, per consentirne un più facile controllo bioptico, procedura questa che ha comportato un sensibile miglioramento dei risultati; il transito intestinale viene generalmente ricostituito dopo 6 mesi. La confezione di una gastro- o digiunostomia, in previsione della prolungata alimentazione enterale post-trapianto, e la appendicectomia sono le ultime fasi dell'intervento. Benché i risultati del trapianto intestinale e multiviscerali siano ancora gravati da una non trascurabile morbosità e mortalità perioperatoria nonché da un'elevata incidenza di malassorbimento enterico, in particolar modo nei trapianti pediatrici in cui i pazienti frequentemente non si sono mai alimentati per via naturale, attualmente la sopravvivenza a 1 anno è superiore al 60% e quella a 5 anni raggiunge il 40% nel trapianto isolato di intestino o di fegato-intestino. Risultati inferiori sono, invece, riportati nel trapianto multiviscerale e nella cluster operation a causa della recidiva neoplastica.
e) Trapianto di cuore. Il 3 dicembre 1967 a Città del Capo Ch. Barnard effettuò per la prima volta il trapianto di cuore umano, dando inizio a un periodo di intensa attività clinica e di ricerca, tanto che alla fine del 1968 erano stati eseguiti in tutto il mondo oltre 100 trapianti cardiaci. I risultati non ottimali comportarono in seguito una progressiva diminuzione degli interventi effettuati, mentre un nuovo impulso derivò nel 1981 dall'introduzione della biopsia miocardica per la diagnosi di rigetto e della ciclosporina come base della terapia immunosoppressiva. Costituiscono indicazione all'intervento le forme più gravi di insufficienza cardiaca (classe IV secondo la New York heart association), secondarie a miocardiopatia idiopatica (50%), arteriopatia coronarica (40%), valvulopatie (5%) o ad altra patologia (5%). La notevole esperienza acquisita in numerosi centri nel corso degli anni fa sì che la tecnica chirurgica del trapianto ortotopico di cuore sia ben definita in tutti i suoi aspetti, mentre altrettanto non può dirsi per quello eterotopico, eseguito finora in pochi casi. D'altra parte, i pazienti con elevate resistenze a livello dell'arteria polmonare, che in passato venivano sottoposti a questo tipo di intervento, sono attualmente trattati con maggiore successo mediante il trapianto di cuore e polmoni. In entrambi i casi il paziente viene sottoposto a sternotomia mediana, seguita dall'apertura del sacco pericardico, dall'isolamento delle strutture cardiache e dall'instaurazione della circolazione extracorporea. In caso di trapianto eterotopico, il cuore del donatore è affiancato a quello del ricevente, cui viene connesso con anastomosi a livello degli atri destro e sinistro; l'aorta e l'arteria polmonare del donatore sono suturate terminolateralmente con le corrispondenti strutture del ricevente. La sopravvivenza attuariale a 1 anno è passata dal 48% nel periodo fino al 1980 all'81% nell'intervallo 1981-1984, e quella a 5 anni è aumentata rispettivamente dal 26% al 69%. In Italia il primo trapianto di cuore nell'adulto è stato eseguito nel novembre 1985 a Padova, mentre il primo trapianto pediatrico di cuore è stato effettuato presso l'Università di Roma 'La Sapienza' nel dicembre dello stesso anno. Purtroppo numerosi pazienti in lista di attesa muoiono prima del trapianto, e per limitare questi decessi molti centri sono divenuti meno selettivi nella scelta dei donatori, giungendo a prelevare cuori con lesioni valvolari o delle arterie coronariche, che vengono riparate in fase di chirurgia di banco. Inoltre, sono state messe a punto protesi per sostenere la funzione del ventricolo destro o sinistro del cuore o di entrambi, in attesa dell'organo da trapiantare. Le difficoltà tecniche legate all'azionamento di queste apparecchiature mediante aria compressa hanno indotto a mettere a punto protesi cardiache alimentate da energia elettrica, quali il Novacor, che è stato utilizzato anche in Italia come bridge al trapianto cardiaco o addirittura per sostituire definitivamente la funzione del ventricolo sinistro (v. organo, Organi artificiali).
f) Trapianto di polmone. Molto tempo è intercorso tra il primo trapianto di polmone, effettuato da J. Hardy nel 1963, e il definitivo successo clinico, ottenuto il 7 novembre del 1983 a Toronto da J.D. Cooper. Due anni prima, nel 1981, B. Reitz aveva eseguito a Stanford il primo trapianto di cuore e polmoni; successivamente, nel 1990, V.A. Starnes ha realizzato il primo trapianto di un lobo polmonare utilizzando un donatore vivente. In Italia il primo trapianto di polmone è stato eseguito all'Università di Roma 'La Sapienza' nel gennaio 1991; da allora sono stati eseguiti in Italia circa 300 trapianti di polmone. Il trapianto di polmone singolo trova indicazione in caso di fibrosi polmonare idiopatica, enfisema polmonare oppure ipertensione polmonare primitiva o secondaria (sindrome di Eisenmenger), mentre le forme più gravi di queste patologie e le infezioni polmonari bilaterali, quali bronchiectasie e fibrosi cistica, possono essere trattate con successo mediante il trapianto di polmone doppio e, nei rari casi di concomitante insufficienza cardiaca, con quello di cuore e polmoni. La sopravvivenza attuariale a 1 anno dei pazienti dopo trapianto di polmone sia singolo sia doppio è di circa l'80%, e quella a 5 anni superiore al 60%. La notevole riduzione della mortalità perioperatoria è legata a una migliore selezione dei riceventi, alla riduzione delle complicanze infettive, specialmente virali, a una migliore prevenzione e a un trattamento più efficace del rigetto acuto. Il rigetto cronico rappresenta tuttora la principale causa di mortalità a distanza del paziente trapiantato, sotto la forma clinica della 'sindrome da bronchiolite obliterante' la cui eziopatogenesi, fisiopatologia e conseguente trattamento sono attualmente oggetto di studi clinico-sperimentali.
Una possibile alternativa all'inadeguata disponibilità di donatori cadaveri è costituita dallo xenotrapianto, cioè dall'utilizzo di organi prelevati a esseri viventi di una specie diversa da quella del ricevente. Il primo xenotrapianto di rene da scimpanzé è stato eseguito negli Stati Uniti nel 1963 a New Orleans; il primo in Europa nel 1966 all'Università di Roma 'La Sapienza': l'organo, prelevato a uno scimpanzé di 53 kg, che sopravvisse per molti anni al prelievo, venne immediatamente trapiantato con successo in un paziente uremico diciannovenne dello stesso peso il quale, nonostante il trattamento dialitico con frequenza bisettimanale, presentava un rapido deterioramento delle condizioni cliniche. Fu osservata un'adeguata ripresa della diuresi e della funzione depuratoria renale; tuttavia, la mancanza di un'efficace terapia antirigetto alternativa, quale quella in uso corrente oggi, rese necessaria la somministrazione di elevate dosi di steroidi alla quale conseguì la perforazione di un'ulcera peptica. Dopo l'intervento chirurgico di affondamento e sutura della lesione, eseguito con successo, si instaurò una peritonite a lento decorso che portò a morte il ricevente in trentunesima giornata postoperatoria. La funzione renale si mantenne ottimale fino al decesso e l'esame istologico e ultrastrutturale post mortem del rene trapiantato ne dimostrò la perfetta integrità morfologica. Poiché gli scimpanzé corrono pericolo di estinzione, si è successivamente preferito far ricorso ad altre specie, quali i babbuini, che però presentano notevoli differenze di tipo immunologico con l'uomo; tali fattori, nonostante l'aggressiva terapia antirigetto, hanno contribuito a ridurre la sopravvivenza nello xenotrapianto di cuore effettuato nel 1984 a Loma Linda (California) e nei due xenotrapianti di fegato realizzati tra il 1992 e il 1993 a Pittsburgh. D'altra parte i Primati sono difficilmente reperibili, presentano un costo elevato, scarsa adattabilità alla stabulazione e alla riproduzione in cattività e rischio di trasmissione di zoonosi, mentre le ridotte dimensioni precludono il trapianto di alcuni organi, quali il cuore, in pazienti umani adulti. Per sopperire a tali problemi, molti studiosi ritengono sia necessario utilizzare come donatori per gli xenotrapianti altri animali, che abbiano oltre tutto minore rilevanza emotiva. Tra questi i suini, presentando strutture anatomiche, dimensioni degli organi interni nonché caratteristiche fisiologiche e metaboliche molto simili a quelle umane, potrebbero costituire la scelta più opportuna. Tuttavia lo xenotrapianto discordante, cioè tra organismi viventi notevolmente diversi dal punto di vista filogenetico, quali il maiale e l'uomo, comporta fenomeni di rigetto iperacuto su base umorale, mediato da anticorpi preformati, con attivazione del sistema del complemento e necrosi cellulare, che si osservano d'altra parte, sia pure in maniera più limitata, anche negli xenotrapianti concordanti, come tra scimpanzé e uomo, e non sono controllabili mediante gli attuali trattamenti antirigetto. È possibile rimuovere nel ricevente prima del trapianto gli anticorpi preformati nei confronti del donatore, ma essi tendono comunque a riformarsi in breve tempo, nonostante alte dosi di farmaci ad azione immunosoppressiva. Minore importanza riveste invece la compatibilità tra il gruppo sanguigno del suino donatore (generalmente A o 0) e quello del ricevente. Validi presupposti teorici permettono di ritenere che gli organi dei suini transgenici per inibitori di membrana del complemento umano, quali DAF (Decay accelerating factor), MCP (Membrane cofactor protein) e CD59, una volta trapiantati in soggetti umani, risulterebbero protetti dalla risposta immunologica umorale; l'attivazione dei linfociti T potrebbe essere inibita con un trattamento farmacologico analogo a quello utilizzato nei trapianti da donatori umani e basato sulla somministrazione di ciclosporina, azatioprina, steroidi e anticorpi monoclonali anti-CD3. Studi preclinici in pazienti sottoposti a trapianti di organi solidi indicherebbero inoltre l'opportunità dell'impiego di nuovi farmaci ad azione immunosoppressiva, quali FK 506, rapamicina e brequinar. È necessario approfondire le conoscenze sul ruolo del complemento nel rigetto iperacuto al fine di giungere alla realizzazione di una linea di suini transgenici modificati geneticamente, attraverso l'inserimento nel DNA dei geni umani del DAF, dell'MCP e del CD59, in modo da costituire una fonte alternativa di cellule e di organi solidi a scopo di xenotrapianto.
Gli indiscutibili successi registrati, in un arco di tempo relativamente limitato, nel campo dei trapianti d'organo non devono indurre a trascurare le difficoltà e i problemi ancora non completamente risolti, tra i quali il più importante è rappresentato, insieme alla 'patologia cronica del trapianto', dall'insufficiente numero di organi disponibili, che costituisce un fattore limitante per l'ulteriore diffusione della chirurgia sostitutiva. Inoltre sarebbe particolarmente utile poter prolungare la conservazione ipotermica degli organi solidi, in modo da effettuare i trapianti secondo un'ottimale compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e realizzare un più efficace interscambio d'organi (organ sharing). In un prossimo futuro la terapia genica potrebbe offrire la possibilità di trattare prima dell'intervento l'organo, sia umano sia animale, da trapiantare, permettendo al vettore virale di penetrare il sito di azione ed evitando nel contempo la risposta immunologica che normalmente si verifica nei confronti del vettore stesso, quando questo viene somministrato mediante via endovenosa. Naturalmente l'impossibilità di sospendere la terapia immunosoppressiva, non ancora del tutto scevra di effetti collaterali anche seri, quali una maggiore incidenza di infezioni e tumori maligni, influenza negativamente la qualità di vita dei trapiantati. A tale proposito una linea di ricerca che appare particolarmente promettente è lo studio del 'microchimerismo', cioè della colonizzazione degli organi del ricevente da parte di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore. Questo fenomeno è stato recentemente osservato in alcuni pazienti sottoposti negli anni Sessanta e Settanta a trapianto di rene o di fegato. Il trapianto contemporaneo dallo stesso donatore del midollo osseo e del fegato o di un altro organo solido potrebbe infatti indurre nel ricevente un'analoga forma di parziale tolleranza immunologica, che renderebbe possibile la riduzione o addirittura l'eliminazione della terapia immunosoppressiva, senza incorrere in fenomeni di rigetto. In conclusione, si deve sottolineare che non solo casi selezionati ma la maggior parte dei pazienti sottoposti a trapianto d'organo presentano un notevole miglioramento della qualità di vita, tale da consentire il pieno reinserimento nell'attività lavorativa e di relazione, e soprattutto di riacquistare l'omeostasi ormonale, senza alcun rischio di patologie nella donna in caso di gravidanza. Infatti numerose donne sottoposte a trapianto di organi, quali il rene o il fegato, hanno felicemente portato a termine una o più gravidanze senza conseguenze dannose per la madre o per il figlio. Aspetti psicologici e sociali Il trapianto d'organo, che rappresenta una delle maggiori conquiste della medicina, ha un interesse che sconfina dalla scienza medica, spingendosi nel campo del diritto morale e delle scienze sociali in genere, proprio per le scelte e le decisioni che ne derivano. Anche la chirurgia, con il trapianto, arriva a superare la visione individualista che le è propria: non viene riconosciuto il merito del trapianto al chirurgo, cioè a un unico operatore. Infatti esso richiede un lavoro di équipe che coinvolge aspetti multidisciplinari, dal settore immunologico a quello internistico. La problematica posta dal trapianto d'organo ha visto sin dall'inizio coinvolti teologi, moralisti, giuristi e legislatori, e grazie al contributo di ciascuno la legislazione, nel corso degli anni, ha subito diverse modifiche. Per meglio rispondere ai pazienti in attesa di trapianto, la legge deve semplificare al massimo le procedure del prelievo e del trapianto, tutelando però al contempo i principi giuridici e morali fondamentali, il diritto alla salute e all'integrità del donatore vivente, la libertà del paziente di affidarsi alle cure del sanitario di sua scelta. Non esiste trapianto d'organo se non vi è donazione (tranne nel caso di trasferimento di un organo da una sede all'altra nello stesso corpo). La donazione quindi implica il concetto di espianto, prelievo dell'organo dal soggetto donatore (cadavere o vivente) che verrà poi trasferito nel soggetto malato (ricevente). La donazione d'organo è un principio sociale che dovrebbe essere considerato un dovere morale di solidarietà. Nella società laica e non, tale atto è necessario perché permette a chi è in attesa di trapianto la possibilità di ripristinare la sua integrità non solo organica ma anche nella vita di relazione. Donare un organo, parte di sé, esprime sentimenti di generosità e amore per il prossimo che toccano i più elevati livelli di significato etico che l'uomo conosca. L'educare la società e indurre l'individuo a considerare la donazione come un atto implicito è compito di chi definisce le priorità sociali nel programmare l'informazione. Tutte le principali confessioni religiose sono favorevoli al prelievo di organo. Tutti però si trovano d'accordo nella necessità che la donazione sia comunque una libera scelta e non una costrizione. L'altruismo è caratteristica della specie umana. Secondo la letteratura più recente, proprio l'altruismo, sotto forma di donazione spontanea (condivisione del cibo), è stato alla base del processo di ominazione e dello sviluppo della cooperazione fino alla creazione della società organizzata. Il trapianto ha per la prima volta reso possibile realizzare l'atto di donazione volontaria e di condivisione assoluta di parte di sé (o del proprio congiunto), causando problemi nuovi e non facilmente affrontabili sul piano sociale e psicologico. La donazione di per sé è strettamente connessa al sacrificio, tematica che, insieme all'altruismo, permea la storia, il pensiero, i miti e le fantasie della nostra specie; basti pensare al cristianesimo che si fonda sull'idea della donazione e del sacrificio per amore dell'uomo. La straordinaria importanza che questi temi (sacrificio e donazione) hanno per l'uomo è rispecchiata nei miti del passato e nelle varie religioni, che sono dominati da temi correlati alla generosità e al sacrificio. La donazione è comunque collegata a un 'passaggio di fase', a un cambiamento creativo, a una rottura con l'ordine precedente. Le grandi figure eroiche (spesso semidivine) intervengono nel mondo tramite il sacrificio personale e l'altruismo (Prometeo, Marduk, Decio Mure ecc.), e ogni volta che l'uomo dona cerca e ricrea in sé stesso quel mondo mitico che è parte integrante del proprio essere. Questi riferimenti al mito sono facilmente spiegabili se consideriamo che questo rappresenta una via maestra per la comprensione della psiche profonda: miti, teogonie, concezioni religiose sono la trasposizione su un piano esterno di immagini primordiali prodotte da Homo sapiens come peculiare carattere specie-specifico. Nell'uomo, infatti, come afferma C.G. Jung, esistono delle strutture psichiche funzionali, omologabili agli istinti degli animali, che sono vere e proprie strutture a priori della mente ('archetipi') le quali, tramite le immagini simboliche, governano e rappresentano i temi fondamentali dell'esistenza umana. La donazione di un organo rappresenta l'espressione del livello più alto del sacrificio ravvicinando il donatore alle figure mitiche che sono l'emblema del sacrificio, e, prima fra tutte, a Cristo. I progressi della medicina hanno creato un monstrum quale il cadavere a cuore battente, con cui la cerchia parentale si deve confrontare in tempi ristretti e sotto la pressione di richieste esplicite e implicite di grande forza. Pertanto la donazione d'organo, se da un lato si muove all'interno di strutture concettuali preesistenti e consuete, si deve però dall'altro cimentare con la novità consistente nel fatto che, nel caso del donatore cadavere, la donazione stessa è collegata a una morte che spesso non si ha né il tempo né la capacità socioculturale di riconoscere e accettare. In altre parole, se da un lato donare l'organo di un parente è un modo per far sopravvivere qualcosa del morto, dall'altro questo coincide necessariamente con la fine dell'apparenza della vita (che il cadavere a cuore battente sembra ancora conservare) e con la conseguente rinuncia a ogni speranza. Naturalmente tutto questo parlare di altruismo non deve far dimenticare le determinanti inconsce che si attivano nella donazione da vivente e in quella da cadavere. Entrambe presuppongono un lutto, parziale (sotto forma di una mutilazione) nella donazione tra viventi, assoluto nella donazione da cadavere. Le due situazioni presentano analogie, ma anche differenze. In entrambi i casi si attivano fantasie di potenza ('ridare la vita'), che possono contribuire a rendere più difficile il processo di elaborazione del lutto, nella donazione da cadavere, oppure una corretta valutazione dell'atto (pur sempre una grave mutilazione), nella donazione da vivo a vivo. Per quanto riguarda la donazione da cadavere sono presenti fantasie di sopravvivenza, di riparazione della morte, di immortalità che, sebbene consentano un parziale compenso della lacerazione emotiva provocata dalla morte di un familiare, a volte non permettono la realistica accettazione della perdita e la ricostruzione di un nuovo equilibrio familiare. Infatti la donazione da parte del gruppo parentale del donatore cadavere è una scelta difficile condizionata dall'evento emozionale. Generalmente il donatore, deceduto per cause improvvise, è un soggetto giovane. È necessario che il parente che deve consentire il prelievo degli organi abbia elaborato il lutto per la morte di un congiunto il cui cuore comunque non si è fermato. Il cuore che batte è sinonimo di vita per chi non conosce la definizione di morte cerebrale. La cattiva informazione, che esalta gli eventi di risveglio improvviso dal coma senza specificarne il grado e omettendo che in quei casi l'individuo non è cerebralmente morto, consentono e potenziano l'equivoco. Invece donazioni di organi che avvengono dopo eventi che hanno suscitato particolare interesse nella gente riescono a incrementare il consenso alla donazione. Nel caso della donazione da vivente solitamente il donatore è un parente, la madre o uno stretto consanguineo, che deve affrontare le paure e le angosce connesse all'operazione di espianto e le limitazioni fisiche conseguenti alla donazione. Dalla stretta parentela può derivare in questi casi la sensazione di un obbligo morale, di un atto dovuto, che rischia di interferire pesantemente sulla libertà della decisione sminuendone la componente di libero atto volontario. Questo comporta il pericolo che la scelta di donare il proprio organo diventi un 'agito' non sufficientemente meditato, con implicazioni psicopatologiche facilmente cronicizzabili del tipo 'ruminazione depressiva'. Se la donazione da vivente proviene da un non consanguineo, in genere coniuge, si devono considerare i meccanismi relazionali in gioco: il donatore è ovviamente depositario di uno straordinario potere nei confronti del ricevente, e questo può far nascere (o amplificare se preesistenti) dinamiche di manipolazione, potenzialmente distruttive per la vita della coppia. Nel caso del donatore che vende un organo trovandosi in stato di necessità economica, saranno prevalenti sentimenti di rabbia, depressione, colpa che interferiranno in misura notevole con la risoluzione del 'lutto da donazione', tanto più considerando che in questi casi sono assenti quegli aspetti eticamente validi e socialmente riconosciuti che permettono uno sbocco sublimatorio. Restano poi da considerare le implicazioni psicologiche del fatto di ricevere un organo estraneo. Ogni individuo ha una sua integrità biologica che viene mantenuta mediante il sistema di riconoscimento dei propri costituenti. Infatti sulle membrane delle singole cellule vi sono specifiche strutture (antigeni) che regolano il riconoscimento di strutture diverse, non permettendo quindi commistioni di cellule, tessuti, organi non appartenenti all'individuo stesso. Nel caso di mancato riconoscimento s'innescano meccanismi di difesa dell'integrità (immunologici) definiti come rigetto, che attaccano l'ospite non riconosciuto. Affinché il trapianto d'organo possa attecchire deve essere controllato il sistema di riconoscimento di estraneità. La ricerca medica ha permesso di reperire mezzi chimici e fisici che inattivano il sistema deputato alla difesa contro le aggressioni esterne, esponendo però l'individuo ai rischi di una ridotta capacità di reazione alle infezioni o addirittura ai tumori. Tutto ciò può essere riportato sulla psiche. Come l'organismo è un insieme di funzioni che si sviluppano sulla base di particolari strutture secondo diversi livelli di organizzazione anatomofunzionale, così la psiche è un insieme di comportamenti integrati tra loro. È comunemente accettato che stimoli fisici possono provocare risposte cosiddette psicologiche, e che stimoli cosiddetti psicologici possono provocare risposte somatiche. Pertanto l'organismo-psiche risponde a diversi stimoli integrando le unità funzionali tra loro così che 'somatico' e 'psicologico' non risultano due realtà ma un sistema integrato. Quindi nel ricevere l'organo l'individuo altera la sua integrità non solo biologica ma anche psichica. L'organo diventa però l'elemento che permette di ripristinare il comportamento mancante o deviato dall'assenza di funzione, e l'individuo lo riconosce indispensabile. A questo punto cerca una nuova omeostasi, ovvero un nuovo equilibrio di funzioni, creando nell'integrazione delle sue funzioni una stabilità interiore. La presenza di un organo estraneo all'interno del corpo implica un'alterazione dell'autorappresentazione e del senso di identità: ciascun individuo ha uno schema di rappresentazione del proprio Sé unico e assolutamente specifico, che costituisce l'interfaccia e il tramite con il mondo esterno. Tale schema di rappresentazione del Sé risulta composto da una combinazione di immagini interne e di raffigurazioni fisiche, la cui stabilità è essenziale per il mantenimento della continuità dell'Io. Il trapianto di un organo può comportare una modificazione di queste rappresentazioni interne (simile a ciò che si osserva per es., nelle mutilazioni, nelle ustioni sfiguranti, nelle malattie dermatologiche ecc.), che si traduce in un'alterazione più o meno grave dei propri sistemi di riferimento e di relazione con il mondo. Nel caso di trapianto da cadavere si possono inoltre ipotizzare sentimenti di depressione e colpa del tipo 'sindrome del sopravvissuto', spesso complicate da implicazioni e suggestioni etiche provenienti dall'esterno. I riceventi da vivente dovranno infine confrontarsi con le dinamiche di potere-manipolazione di tipo sadomasochistico già accennate in precedenza. Di grande rilievo sono anche le fantasie e gli atteggiamenti nelle fasi che precedono il trapianto. A seconda delle caratteristiche personologiche del ricevente si possono osservare aspettative 'gonfiate' e irrealistiche che saranno di ostacolo nell'affrontare le procedure e le conseguenze del trapianto. Altrettanto negativi sono anche atteggiamenti opposti del tipo minimizzazione e negazione che depotenziano gli investimenti affettivi nell'evento trapianto riducendo la partecipazione e l'impegno del paziente. Queste fantasie si riflettono anche nei comportamenti che il paziente in attesa di trapianto può avere riguardo alla donazione e che si possono dividere in due tipologie fondamentali: comportamento passivo, con attesa rassegnata, rinuncia, fantasie di delega, rabbia; comportamento attivo, con integrazione o promozione di associazioni di pazienti che incoraggiano l'educazione alla donazione e che sollecitano le autorità a perseguire l'obiettivo della incentivazione alla donazione. È anche comportamento attivo di tipo individualista quello del paziente che persegue comunque lo scopo del trapianto, fino a comprare quando possibile (trapianto di rene) l'organo da un soggetto sano non consanguineo in quei paesi nei quali è legalmente permesso (per es. l'India). Il paziente affetto dalla patologia d'organo, a causa della sofferenza fisica, sopravvive esaltando, soprattutto nell'ambito familiare, il suo egocentrismo, la rassegnazione, la negazione e il distacco emotivo, condizionando quindi l'ambiente in cui vive. Ripristinando la funzione dell'organo malato attraverso la donazione, la vita per il paziente acquista un nuovo significato: ormai è libero dalla patologia cronica che lo affligge. Il gruppo parentale si avvale anch'esso di questa nuova situazione. La donazione permette quindi una restituzione di significato alla vita in cui a volte è difficile adattarsi e a volte ci si adatta al prezzo di una sterilità emotiva spesso altrettanto distruttiva quanto la malattia fisica. Ricevere un organo è la testimonianza che in questo orizzonte personale così inaridito dalla sofferenza vi è la possibilità di un atto di liberalità assoluta che rompa la soffocante assenza di senso e di speranza causata dalla malattia. La donazione quindi, oltre alla restituzione della salute e dell'efficienza fisica, porta a un recupero e a un arricchimento di un mondo emozionale da cui il malato progressivamente si era estraniato. Queste riflessioni mostrano come il trapianto d'organo comporti conseguenze e implicazioni che vanno al di là degli aspetti meramente fisiologici. Una corretta valutazione delle dinamiche psicologiche in gioco e, se necessario, l'intervento dello specialista, possono certamente aiutare il soggetto trapiantato e la sua cerchia familiare a sostenere il confronto con un impegno difficile, quale un trapianto d'organo certamente rappresenta.
bibl.: c. casciani, Il trapianto d'organo: problemi giuridici e morali, in Diritto alla vita, diritto alla morte, Atti del Congresso: Roma, 5 maggio 1983, "Quaderni ISIS"; r. cortesini, e. renna molajoni, Fondamenti dei trapianti d'organo, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1987; g.m. danovitch, Handbook of kidney transplantation, Philadelphia, Williams and Wilkins, 20003; g. gabbard, Psychodynamic psychiatry in chimical practice, Washington, APA Press, 1990 (trad. it. Milano, Cortina, 1992); p.j. morris, Problems facing the society today, "Transplantation Proceedings", 1987, 19, pp. 16-19; j.e. murray, Human organ transplantation: background and consequences, "Science", 1992, 256, pp. 1411-16; e. smeraldi, I disturbi dell'umore, Milano, Edi-Ermes, 1993; t.e. starzl, r. shapiro, r.l. simmons, Atlas of organ transplantation, New York, Gower Medical Publishing, 1992; Transplantation surgery, ed. J.L.R. Forsythe, London, Saunders, 1997.