Abstract
Il trasferimento d’azienda, o di suo ramo, è vicenda che involge in via diretta sia l’impresa sia i suoi lavoratori. La disciplina di questo fenomeno è essenzialmente rappresentata dall’art. 2112 c.c. e dall’art. 47 l. 29.12.1990, n. 428, disciplina che è stata fortemente influenzata dal diritto comunitario (dir. 77/187/CE e dir. 98/50/CE dir. 2001/23/CE). Da una parte, è previsto un obbligo a carico del datore di lavoro di informazione e consultazione dei sindacati e, dall’altra, sono sanciti i diritti che i prestatori conservano nell’ambito di tale procedura negoziale.
L’art. 2112 c.c. (novellato prima dall'art. 47 l. 29.12.1990, n. 428 e poi dal d.lgs. 2.2.2001, n. 18, in attuazione della dir. 2001/23/CE, infine dall’art. 32 d.lgs. 10.9.2003, n. 276) detta una tutela per i lavoratori in caso di modifica soggettiva del datore di lavoro. La disposizione introduce una apposita nozione di trasferimento di azienda (art. 2112, co. 5, c.c.): nella formulazione originaria dell’art. 2112 c.c. si faceva generico riferimento all’«azienda», con conseguente rinvio alla nozione dettata dall’art. 2555 c.c.; con il d.lgs. n. 18/2001 l’azienda è stata definita, ai soli fini e per gli effetti di cui all’art. 2112 c.c., come «un’attività economica organizzata», mentre il ramo d’azienda come «l’articolazione funzionalmente autonomo di un’attività economica organizzata». Il d.lgs. n. 276/2003 ha, poi, soppresso la previsione secondo cui la parte di azienda (il ramo) trasferita doveva essere «preesistente» e conservare «nel trasferimento la propria identità», consentendo che l’articolazione aziendale autonoma sia «identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento». La giurisprudenza ha evidenziato (Cass., 2.3.2012, n. 3301) che la funzione garantistica nei confronti dei lavoratori assegnata dalla norma comporta l’accoglimento di una nozione estensiva del trasferimento di azienda, la quale ricomprende in esso tutte le ipotesi di trasferimento anche di una singola attività di impresa, sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo, anche quindi in assenza del trasferimento di significativi beni patrimoniali, materiali o immateriali (Cass., 2.7.2002, n. 10701; Cass., 17.3.2009, n. 6452; Cass., 12.10.2011, n. 20980; Cass., 14.10.2011, n. 21282; Cass., 7.12.2015, n. 24804; nonché, per la giurisprudenza UE, C. giust., 6.9.2011, C-108/10, Scattolon). La disciplina di cui all'art. 2112 c.c., postula che il complesso organizzato dei beni dell'impresa – nella sua identità obiettiva – sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e quello che subentra nella gestione. Il trasferimento d'azienda è pertanto configurabile anche in ipotesi di successione nell'appalto di un servizio, sempre che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa (Cass.,12.4.2016, n. 7121; Cass., 20.10.2015, n. 21220; Cass., 16.5.2013, n. 11918; Cass., 23.7.2012, n. 12771; Cass.,13.4.2011, n. 8460; Cass., 15.10.2010, n. 21278; Cass.,10.3.2009, n. 5708; Cass., 8.10.2007, n. 21023). La cessione può avere ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze (know how) che siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti ed idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili, realizzandosi comunque una successione legale del contratto di lavoro – e non un'ipotesi di mera cessione – che non abbisogna del consenso del contraente ceduto ex art. 1406 c.c., (cfr., Cass., 28.4.2014, n. 9361; Cass., 16.6.2014, n. 13617; Cass., 6.4.2016, n. 6693; Cass., 12.4.2016, n. 7121; nonché Cass.,11.5.2016, n. 9682; Cass., 20.5.2016, nn.10540, 10541 e 10542; Cass., 24.5.2016, n. 10730; Cass., 31.5.2016, nn. 11247 e 11248, tutte concernenti la cessione di personale addetto a servizi di telefonia con esclusione degli strumenti informatici utilizzati presso l’operatore telefonico cedente). È peraltro illegittimo il trasferimento di una rete di lavoratori la cui attività venga modificata dal cessionario, attenuandone l’originario know how (Cass., 24.1.2018, n. 1769). Non osta alla configurabilità del trasferimento d'azienda la mancanza di un fine di lucro, purché sussista un'organizzazione di mezzi produttivi idonei a fornire un prodotto o un servizio obiettivamente caratterizzati ed economicamente valutabili quanto meno sotto il profilo dei mezzi di produzione e delle prestazioni lavorative necessarie per il loro conseguimento (Cass., 2.8.2002, n. 11622; Cass., 7.4.2010, n. 8262; Cass., 4.9.2012, n.14821; Cass., 7.12.2017, n. 2942). Ove ricorrano le altre condizioni (continuità nell'esercizio dell'attività imprenditoriale restando immutato il complesso organizzato dei beni dell'impresa e l'oggetto di quest'ultima) l'applicabilità della disciplina prescinde dall'esistenza di un rapporto contrattuale tra l'imprenditore uscente e quello subentrante (Cass., 27.12.1999, n. 14568; per l’applicabilità della disposizione nel caso di continuazione dell'attività aziendale a seguito di successione ereditaria Cass., 26.7.2001, n. 10260; Cass., 22.12.2005, n. 28381; così, nei contratti di franchising e di locazione commerciale dell'immobile sede dell'attività Cass., 27.2.1998, n. 2200; per le ipotesi di liquidazione coatta amministrativa di una banca con subentro di altro istituto di credito Cass., 23.6.2001, n. 8617; per il caso di trasferimento di agenzia di assicurazione in gestione libera Cass., 5.4.1995, n. 3974 e Cass., 3.6.1998, n. 5466; per l'ipotesi di subentro nell'appalto di servizi pubblici Cass., 13.1.2005, n. 493; Cass. n. 11918/2013; Cass., 15.3.2017, n. 6770; Cass., 19.5.2017, n. 12720). L'applicazione dell'art. 2112 c.c. non è stata esclusa (Cass., 21.8.2015, n. 17063), con riferimento all'attività dell'agente di assicurazioni in gestione libera, nell'ipotesi in cui il trasferimento di azienda abbia avuto luogo in due fasi, connesse tra loro, costituite dalla revoca del mandato da parte del preponente e dalla retrocessione a quest'ultimo del complesso dei beni aziendali organizzato per la gestione dell'agenzia e dal successivo trasferimento di esso, da parte dello stesso preponente, a nuovi agenti. In caso di fusione per incorporazione – i dipendenti transitati alla società incorporante sono soggetti al contratto collettivo applicabile presso la suddetta società, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, potendo trovare applicazione l'originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso l'incorporante i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva (Cass., 29.9.2015, n. 19303). In deroga all’art. 2112 c.c., in caso di trasferimento di impresa assoggettata a procedura concorsuale, l’impresa subentrante può concordare un trattamento peggiorativo per i lavoratori (Cass., 19.1.2018, n. 1383), La validità della cessione dell’azienda non è condizionata alla prognosi della continuità dell’attività produttiva (Cass., 14.3.2018, n. 6184).
Sia prima, sia dopo le modifiche apportate dall'art. 47, l. n. 428/1990, la giurisprudenza di legittimità escludeva l'applicazione dell'art. 2112 c.c. quando il trasferimento non derivasse da attività negoziale dei privati, ma avvenisse in forza di provvedimento amministrativo (tra le tante Cass., 25.1.1999, n. 672 e 25.7.2000, n. 9764) essendo mal conciliabili gli interessi di natura pubblicistica con gli obblighi posti a carico del cessionario di continuazione del rapporto e di mantenimento del trattamento economico e normativo dei lavoratori. Questo orientamento è stato riconsiderato dai giudici di legittimità alla luce delle interpretazioni della direttiva del 1977 fornite dalla Corte di giustizia. Attualmente è principio consolidato quello per cui l'art. 2112 c.c. è applicabile anche nelle ipotesi in cui il trasferimento dell'azienda non derivi da un contratto fra cedente e cessionario, bensì da atto autoritativo della pubblica amministrazione. La Suprema Corte (Cass.mn. 21023/2007, Cass., 22.10.2007, n. 22067) ha affermato che in forza del principio dell'immediata applicabilità nell'ordinamento interno dell'interpretazione del diritto comunitario fornita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (C. giust., 19.5.1992, C-29/91, Redmond Stichting; C. giust., 14.9.2000, C-343/98, Collino e Chiappero; C. giust., 26.9.2000, C-175/99, Mayeur; C. giust., 25.1.2001, C-172/99, Liikenne), l'art. 2112 c.c. è applicabile anche nelle ipotesi in cui il trasferimento dell'azienda derivi da atto autoritativo della p.a. Parimenti, le sentenze della Cassazione (Cass., 30.11.2009, n. 25235; Cass. n. 21278/2010; Cass. n. 8460/2011; Cass. n. 24804/2015 hanno ritenuto applicabile l’art. 2112 c.c. anche nei casi in cui il trasferimento dell'azienda non derivi dall'esistenza di un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della p.a., con conseguente diritto dei dipendenti dell'impresa cedente alla continuazione del rapporto di lavoro subordinato con l'impresa subentrante, purché si accerti l'esistenza di una cessione di elementi materiali significativi tra le due imprese.
Non si dubita, alla stregua dell'art. 31 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che l'art. 2112 c.c. si applichi anche in caso di trasferimento di attività nell'ambito della p.a. (Cass., 10.1.2018, n. 341 con riguardo al passaggio di personale dal Comune ad imprese private o consortili). In caso di effettivo passaggio di attività dall'uno all'altro organo della pubblica amministrazione, la disposizione interna appare più favorevole ai lavoratori rispetto a quanto previsto dalla disciplina comunitaria, dal momento che la dir. n. 23/2001 pur lasciando immutata la previsione dell'art. 1 di quella precedente del 1977 (ossia trasferimento « in seguito a cessione contrattuale o a fusione ») ha poi aggiunto, a seguito delle modifiche apportate dalla dir. 98/50/CE, art. 1, lett. c), che « la presente direttiva si applica alle imprese pubbliche o private che esercitano un'attività economica, che perseguano o meno uno scopo di lucro » precisando però che « Una riorganizzazione amministrativa di enti amministrativi pubblici o il trasferimento di funzioni amministrative tra enti amministrativi pubblici, non costituisce trasferimento ai sensi della presente direttiva ». Pertanto, la pubblica amministrazione ha mano libera nei casi in cui voglia trasferire attività e funzioni al suo interno purché il trasferimento abbia ad oggetto solo attività comportanti l’esercizio di pubblici poteri o, comunque, attività di natura economica con carattere meramente accessorio (C. giust., 15.10.1996, C-298/94, Henke). Diversamente, nel caso di esercizio di un’attività economica da parte della p.a., si applica la direttiva comunitaria (C. giust., 26.11.2015, C-509/14, Adif). Quanto agli effetti del trasferimento sulla posizione dei lavoratori che seguono l'attività trasferita ad una diversa struttura pubblica, nel caso di passaggio di lavoratori da un'amministrazione ad altra, ovvero nell'ipotesi di mutamento di posizione all'interno della stessa amministrazione con assegnazione a settori diversi da quelli di provenienza, dev'essere assicurata la continuità giuridica del rapporto e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l'ente o il settore di destinazione, opera secondo la regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti, al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti a seguito del trasferimento (Cass., ord., 8.3.2016, n. 4545; Cass., 31.7.2017, n. 19039). Nel caso di passaggio da un’amministrazione ad un’altra è assicurata – in mancanza di disposizioni speciali – la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento del trattamento economico, secondo quanto risulta argomentando dall’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001 (Cass.,19.11.2010, n. 23474; Cass., 2.3.2011, n. 5097; Cass.,15.10.2013, n. 23366; Cass., 6.6.2017, n. 13994). Il criterio generale del riassorbimento opera in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti dell’Amministrazione di arrivo e non con riferimento a singole voci che compongono tale trattamento economico, in quanto solo il primo sistema di riassorbimento, è conforme al principio di cui all'art. 36 Cost., come costantemente interpretato dalla giurisprudenza costituzionale (v. C. cost., 6.12.1979, n. 141; C. cost., 22.11.2002, n. 470; C. cost., 2.12.2005, n. 434). Infatti, nell'ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa p.a, l'eventuale diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base normativa, in difetto della quale l'Amministrazione, ai sensi del d.lgs. n. 165/2001, art. 45, co. 2, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass., 2.3.2011, n. 5097). In applicazione di tale principio sono state decise le procedure di mobilità riguardanti i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (con riguardo alle condizioni di viaggio di cui il dipendente abbia usufruito anteriormente al trasferimento, Cass., S.U., 21.6.2010, n. 14898 e, successivamente, Cass., 21.7.2010, n. 17094; Cass., 16.9.2011, n. 8950; Cass. ord., 17.10.2012, n. 17815; Cass. ord., 7.3.2012, n. 3604; Cass., 9.12.2013, n. 27449; Cass., 3.2.2015, n. 1914), i dipendenti del Ministero del Lavoro (con riferimento all'indennità di amministrazione, Cass., 14.5.2014, n. 10417; Cass., 24.11.2014, n. 24950; Cass., 30.5.2016, n. 11123), i dipendenti dell’Inadel (con riguardo alla conservazione dell'assegno di garanzia Cass. n. 23366/2013), i dipendenti dell’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (Cass., S.U., 19.4.2012, n. 6106; Cass., 8.7.2016, n. 14037).
La delicatezza della materia è stata dimostrata da numerosi casi pratici in cui si è constatato che, attraverso la cessione del ramo d'azienda, con esternalizzazione di singoli servizi, era possibile espellere consistenti quote di personale senza dover ricorrere alle procedure di riduzione del personale. Il legislatore è quindi intervenuto più volte: il d.lgs. n. 18/2001 (l. delega 21.12.1999, n. 526), ha descritto il ramo di azienda come « parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità». Successivamente l’art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 (l. delega 14.2.2003, n. 30), ha previsto che « Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento ».
Su detta disposizione si è acceso un ampio dibattito in dottrina (Boscati), perché con l'espressione «articolazione funzionalmente autonoma» si riassumerebbero le condizioni - di carattere produttivo, gestionale ed organizzativo - necessarie perché il ramo d'azienda possa avere una vita propria e sia così separabile dal complesso aziendale generale. Secondo una diversa impostazione, viceversa, i dati identificativi della fattispecie sarebbero costituiti certamente dalla coesione organizzativa e funzionale dei beni e dei rapporti giuridici necessari all'esercizio dell'attività economica organizzata, ma non necessariamente dall'autonomia gestionale, amministrativa e commerciale, poiché in questo caso non è in gioco la tutela del consumatore (Santoro Passarelli). L’attuale testo normativo consente di rilevare, da parte di alcuni autori, che rientra in tale definizione anche il trasferimento di una parte dell’azienda che non abbia una «preesistente» autonomia funzionale, ma sia stata creata ad hoc («identificata») al fine del suo trasferimento, unendo singoli beni e rapporti precedentemente non organizzati in modo autonomo tra loro. E ciò non risulterebbe in contrasto con la disciplina comunitaria (C. giust., 6.3.2014, C-458/12, Amatori), poiché quest’ultima non impedisce agli Stati membri di applicare le disposizioni di recepimento della dir. n. 23/2001 a trasferimenti di entità economiche prive di una preesistente autonomia funzionale (Proia, Maresca). Dubbi di conformità rispetto la direttiva comunitaria sono, invece, sollevati da altri autori, che richiamano il passo della normativa comunitaria (art. 1, lett. b) ove è previsto che l’entità economica oggetto del trasferimento «conserva la propria identità» (Vallebona). Già prima del d.lgs. n. 18/2001 la necessaria preesistenza del ramo aziendale era ricavata, dalla giurisprudenza, in via interpretativa (Cass., 16.10.2006, n. 22125 e Cass., 8.8.2007, n. 1734), richiedendosi un complesso di beni che oggettivamente si presentasse quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi, con esclusione, quindi, della possibilità che l'unificazione di un complesso di beni. La giurisprudenza quindi esclude la configurabilità del ramo d’azienda nei casi di strutture create appositamente per il trasferimento e come tale identificate nel negozio traslativo (Cass., 30.3.2012, n. 5117; Cass., 30.1.2013, n. 2151; Cass., 25.9.2013, n. 21917; Cass., 30.4.2014, n. 9461; Cass., 6.5.2014, n. 9640; Cass., 9.5.2014, n. 10128; Cass.,14.5.2014, n. 11832; Cass.,12.8.2014, n. 17901; Cass. n. 11247/2016, concernente la cessione di personale addetto a servizi di telefonia con esclusione degli strumenti informatici utilizzati presso l’operatore telefonico cedente, Cass., 31.7.2017, n. 9034). Se quindi manca la preesistenza del ramo – che può ricavarsi da un riferimento della dir. n. 23/2001 ad una «entità economica che conserva la propria identità» nonché dalla l. delega n. 30/2003, considerando che essa prevede la sussistenza del requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al momento del suo trasferimento – non è configurabile un trasferimento d’azienda e, quindi, occorre il consenso dei lavoratori per il passaggio alle dipendenze del subentrante. Il requisito della preesistenza del ramo e dell'autonomia funzionale nella previsione si integrano quindi reciprocamente, nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell'ambito dell'impresa cedente anteriormente alla cessione. La disposizione legittima anche la cessione di un ramo «dematerializzato» o «leggero» dell'impresa, ovvero nel quale il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, quando però il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato di un particolare know how, e cioè di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio (Cass. n. 7121/2016; Cass. n. 21917/2013; Cass., 7.3.2013, n. 5678; Cass., 26.1.2012, n. 1085, Cass., 3.7.2009, n. 15690). Il ramo ceduto dev'essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato (in tal senso in particolare v. Cass. n. 5425/2015 e Cass. n. 25229/2015) ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato. Va poi chiarita la distinzione tra cessione del ramo d'azienda e appalto di servizi: la esternalizzazione, che altro non è se non una tecnica di dismissione di segmenti dell'attività produttiva, può essere realizzata o attraverso la cessione del ramo d'azienda, ovvero attraverso il conferimento di un appalto di servizi, onde sorge il problema di segnare i limiti di demarcazione tra i due istituti connotati da diverse soglie di tutela per i lavoratori implicati. Il criterio di distinzione più immediato è quello per cui solo nella cessione del ramo d'azienda vi è il passaggio delle strutture aziendali dal cedente al cessionario, mentre per l'appalto di opere o servizi, all'interno dello stabilimento non vi è alcun passaggio né di mezzi e quindi neppure di uomini, ma l'appaltatore assume, con organizzazione dei mezzi necessari, gestione a proprio rischio, e soprattutto con proprio personale, il compimento di un'opera o servizio all'interno dell'azienda. Il cd. outsourcing può dunque concretizzarsi con contratti di appalto oppure con trasferimento d'azienda, che va escluso a fronte della stipulazione di un contratto di appalto di servizi ed in mancanza di prova di un intento elusivo comune alle parti (Cass., 2.10.2006, n. 21287). Si noti che l'art. 29, co. 3, del d.lgs. n. 276/2003, come novellato dall’art. 30 della l. comunitaria (l. 7.7.2016, n. 122) esclude l'applicazione della disciplina dettata dall'art. 2112 c.c. in tema di trasferimento di azienda, o di parte d’azienda, qualora il nuovo appaltatore sia dotato di una propria struttura organizzativa ed operativa e siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d'impresa. La norma tenta di rispondere alla procedura di infrazione comunitaria (caso EU Pilot 7622/15/EMPL) pur facendo salvo il principio per cui la successione di appalti e il trasferimento di azienda costituiscono due fattispecie distinte e, come tali, meritevoli di regole differenti.
In ordine alle garanzie di continuità fornite dal cessionario, si è affermato che l’art. 2112 c.c. non contiene un precetto che vieti, ove siano in atto situazioni che possano condurre agli esiti regolati dalla legge, di cedere l'azienda, ovvero di cederla solo a condizione che non sussistano elementi tali da rendere inevitabili quegli esiti. Conseguentemente, non è in frode alla legge, né concluso per motivo illecito il contratto di cessione dell'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro (Cass., 20.3.2013, n. 6969; Cass. ord., 27.10.2015, n. 21915; Cass., 8.1.2016, n. 164).
Il passaggio al cessionario è condizionato al fatto che il rapporto di lavoro presso l'azienda ceduta sia in atto prima della cessione. Ed infatti con la sentenza del 6.3.2015, n. 4598, la Corte di Cassazione ha affermato che l'art. 2112, co. 2, c.c., che prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda, sicché non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 2560 c.c. che contempla, in generale la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori (nello stesso senso Cass., 29.3.2010, n. 7517). Si è affermato ancora che, in caso di licenziamento del lavoratore in occasione del trasferimento d'azienda e di immediata sua riassunzione, il datore di lavoro deve provare, in modo univoco e rigoroso, la sussistenza di una disdetta intimata con un anticipo tale che il termine di preavviso si esaurisca e il rapporto si risolva prima del trasferimento dell'azienda, nonché la mancanza di qualsiasi intento fraudolento (Cass., 23.8.2000, n. 11272; Cass., 27.3.2013, n. 7665). Il trasferimento al cessionario si attua anche ove il rapporto con il cedente sia in atto de iure anche se non de facto: non preclude la continuazione del rapporto di lavoro con l'acquirente il licenziamento che sia stato intimato oralmente dall'impresa cedente prima della cessione, trattandosi di recesso nullo, e quindi improduttivo di effetti (Cass., 16.12.2014, n. 26401). Del pari, l'effetto estintivo del licenziamento annullabile è un effetto del tutto precario, idoneo ad essere travolto fra le parti dalla pronunzia di annullamento con la conseguenza che il rapporto di lavoro ripristinato fra le parti originarie si trasferisce al cessionario (Cass.,12.4.2010, n. 8641; Cass., 8.3.2011, n. 5507; Cass., 28.2.2012, n. 3041; Cass., 21.2.2014, n. 4130; Cass. n. 26401/2014).
Quanto al mantenimento dei diritti maturati dal lavoratore anteriormente al trasferimento, la disposizione prevede che il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. In particolare, con riguardo agli scatti di anzianità, l’orientamento ormai consolidato della S.C. (Cass., 5.6.2013, n. 14208; Cass., 25.11.2014, n. 25021; Cass., 20.5.2015, n. 10385; Cass., 20.11.2015, n. 23795) ha precisato che il riconoscimento, in favore dei lavoratori dell'azienda ceduta, dell'anzianità maturata presso il cedente non implica che il cessionario debba corrispondere gli scatti in riferimento a tale anzianità, ove presso il datore di lavoro precedente non esistesse il diritto a percepire gli scatti periodici di anzianità essendo questi dovuti solo a partire dal periodo lavorativo regolato dalla contrattazione applicata presso il cessionario.
È stato affermato (Cass. n. 19303/2015) che l'inquadramento conseguito da un dirigente all'interno di una struttura produttiva non può essere trasposto meccanicamente all'interno di una struttura, anche del medesimo settore, di dimensioni diverse, e presso cui sia applicato un differente contratto collettivo, atteso che, ai fini del corretto inquadramento, rilevano elementi di carattere quantitativo, come il numero dei dipendenti diretti o il volume degli affari trattati. La S.C. ha confermato, tra l'altro, il principio, secondo cui l'art. 2112 c.c. comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con l'applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro ed applicazione del contratto collettivo dell’azienda subentrante, anche se più sfavorevole.
Si è confermato (Cass. n. 4598/2015, Cass. n. 7517/2010) che la disciplina posta dal co. 2 dell'art. 2112 c.c., che prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda, con la conseguenza che non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 2560 c.c. che contempla, in generale la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori. Le sentenze si ispirano al principio più volte riconosciuto, secondo cui la disciplina di cui all'art. 2112 c.c è espressione del generale principio dell'inerenza del rapporto di lavoro al complesso aziendale, a cui resta legato in tutti i casi in cui questo, restando immutato nella sua struttura, cambi titolare, mentre tale inerenza viene sicuramente meno ove il rapporto stesso non sia in atto al momento della cessione. Con riguardo al pagamento del trattamento di fine rapporto, Cass., 22.9.2011, n. 19291 ha ritenuto che il diritto matura progressivamente in ragione dell'accantonamento annuale, mentre soltanto l'esigibilità del credito è rinviata al momento della cessazione del rapporto, e anche la relativa prescrizione può decorrere da tale data. Conseguentemente, «in caso di trasferimento d'azienda e di prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario ex art. 2112 c.c. il datore di lavoro cedente è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro successivo al trasferimento stesso, al pagamento delle quote di t.f.r. maturate fino alla data del trasferimento d'azienda e per tale credito del lavoratore sussiste il vincolo di solidarietà tra cedente e cessionario previsto dall'art. 2112, co. 2, c.c.
Invece unico obbligato al trattamento di fine rapporto, quanto alla quota di t.f.r. maturata nel periodo del rapporto successivo al trasferimento d'azienda, è il datore di lavoro cessionario» (nello stesso senso Cass., 4.5.2013, n. 11479; Cass., 11.9.2013, n. 20837; Cass. n. 164/2016). La tesi sull'obbligo solidale di cedente e cessionario in relazione anche ai contributi previdenziali, quale onere accessorio rispetto a quella retributivo, è stata disattesa dalla giurisprudenza successiva (Cass., 3.4.2002, n. 4726; Cass., 24.2.2016, n. 3646), con cui si è ritenuto che i debiti contratti dall'alienante nei confronti degli istituti previdenziali per l'omesso versamento dei contributi, esistenti al momento del trasferimento, costituendo debiti inerenti all'esercizio dell'impresa, restano soggetti alla disciplina di cui all'art. 2560 c.c, e non dell'art. 2112 c.c., sia perché la solidarietà prevista da quest'ultima disposizione è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non è estesa ai crediti di terzi, sia perché il lavoratore non ha diritti di credito verso il datore per l'omesso versamento dei contributi obbligatori.
In tema di licenziamento, orientamento consolidato della S.C. afferma che il preavviso di licenziamento non ha efficacia reale, bensì obbligatoria (Cass., 4.11.2010, n. 22443; Cass., 7.6.2012, n. 9195; Cass., 19.12.2013, n. 28429; Cass., 22.3.2016, n. 5578), con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva. Ne consegue che, in caso di trasferimento di azienda, ove il cedente receda dal rapporto per giustificato motivo, l'effetto estintivo si produce immediatamente, senza che sia ipotizzabile il trasferimento del rapporto al cessionario. Il trasferimento di azienda non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che questo abbia fondamento nella struttura aziendale, e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (il principio è stato confermato altresì da Cass., 24.2.2012, n. 2887). Quanto all'onere di impugnazione del licenziamento intimato dal cedente, Cass., 16.10.2013, n. 23533, ha affermato che la dichiarazione di volontà, espressa con l'atto unilaterale di recesso, si perfeziona con la sola emissione e a tale momento occorre risalire per valutare la capacità e volontà del dichiarante. Conseguentemente, il cessionario dell'azienda subentra in tutti i rapporti dell'azienda ceduta nello stato in cui si trovano, ivi compreso il rapporto caratterizzato da un licenziamento intimato dal cedente, con onere, per il lavoratore, di impugnare il recesso nei sessanta giorni per evitare di incorrere nella decadenza di cui all'art. 6 della l. 15.7.1966, n. 604.
Quanto poi al licenziamento da parte del cedente con immediata riassunzione da parte del cessionario, ai fini della infrazionabilità dell'indennità di anzianità, Cass., 23.7.2012, n. 12771 ha ritenuto che anche nell'ipotesi di trasferimento di azienda il licenziamento del lavoratore da parte dell'alienante, seguito dalla sua immediata riassunzione ad opera dell'acquirente, senza alcuna interruzione dell'attività lavorativa, deve presumersi in violazione del diritto del lavoratore medesimo all'infrazionabilità dell'indennità di anzianità. Siffatta presunzione di continuità, tuttavia, può essere superata in presenza di una causa lecita di cessazione del rapporto di lavoro.
Quanto al contratto collettivo applicabile ai dipendenti ceduti, di cui al co. 3 dell’art. 2112 c.c., è orientamento consolidato quello secondo cui ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa cessionaria si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo; in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente, ed in tutto, da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se contenga condizioni peggiorative per i lavoratori rispetto alla prima (Cass., 4.2.2008, n. 2609; Cass., 11.3.2010, n. 5882; Cass. n. 19303/2015; Cass., 19.4.2016, n. 7717). In particolare, con la sentenza n. 5882/2010 si è affermato che l'uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell'uso aziendale, a norma dell'art. 2077, co. 2, c.c.
Secondo orientamento ormai consolidato della S.C. (Cass., 13.2.2013, n. 3357; Cass., 17.7.2015, n. 15050) il mancato adempimento dell'obbligo di informazione del sindacato (Informazione e consultazione [dir. lav. interno]), ex art. 47, l. n. 428/1990, costituisce comportamento che viola l'interesse del destinatario delle informazioni, ossia del sindacato, ed è pertanto, sussistendone i presupposti, configurabile come condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28, l. 20.5.1970, n. 300, ma non incide sulla validità del negozio traslativo, non potendosi configurare l'osservanza delle suddette procedure sindacali alla stregua di un presupposto di legittimità (e quindi di un requisito di validità) del negozio di trasferimento ». Il mancato adempimento dell'obbligo di informazione costituisce comportamento contrario ai principi di correttezza e di buona fede, il cui inadempimento rileva come condotta antisindacale, mentre i lavoratori, avendo un interesse di fatto al rispetto degli obblighi di comunicazione, non sono legittimati a far valere la carenza o la falsità delle informazioni. Con riguardo al contenuto della comunicazione alle organizzazioni sindacali, la S.C. ha ritenuto che vanno inoltrati – oltre alla data del trasferimento, alle conseguenze per i lavoratori e alle eventuali misure nei confronti degli stessi – i motivi della cessione, con esclusione delle ragioni giustificatrici della decisione, assolvendo la suddetta comunicazione a sole finalità informative, allo scopo di consentire alle organizzazioni sindacali di scegliere se richiedere o meno l'esame congiunto e, in caso positivo, di parteciparvi in modo informato (Cass., 13.2.2013, n. 3537). In ordine ai destinatari, la comunicazione prevista dall'art. 47, co. 1, della l. n. 428/1990, anteriormente alla modifica apportata con il d.lgs. n. 18/2001, va effettuata, se presenti, alle rappresentanze sindacali costituite ai sensi dell'art. 19 l. n. 300/1970 e alle relative associazioni di categoria e, se non presenti, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, mentre a seguito dell'intervenuta modifica normativa, sono destinatarie della comunicazione le RSU o le RSA costituite ai sensi dell'art. 19 st. lav. nelle unità produttive interessate dal trasferimento e i sindacati di categoria che hanno stipulato – o che abbiano partecipato alle relative trattative – un contratto collettivo «normativo» applicato nelle medesime unità produttive, e, in mancanza, i sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi (Cass., 21.10.2015, n. 21430). La natura innovativa delle modifiche apportate dall'art. 2 d.lgs. n 18/2001, non consente di ritenere applicabili a fattispecie anteriori all'entrata in vigore della legge, la novella legislativa (principio già affermato, seppur implicitamente, da Cass., n. 9589/2005). Si è rilevato, inoltre, che l'art. 47, co. 5, della l. n. 428/1990, consente modificazioni peggiorative del trattamento dei lavoratori, in deroga all'art. 2112 c.c., allo scopo di conservare i livelli occupazionali, quando venga trasferita l'azienda di un'impresa insolvente, purché l'accordo collettivo idoneo a costituire norma derogatoria della fattispecie risulti essere stato concluso (non semplicemente configurandosi quale intesa generica da perfezionare in successivo accordo), altrimenti restando applicabile la disciplina legale non derogata (Cass., 22.12.2011, n. 19282; Cass., 4.11.2014, n. 23473).
La dir. n. 23/2001, con cui sono state abrogate sia la direttiva del 1977 che quella del 1998, non ha contenuti innovativi, ma mere finalità di sistemazione della disciplina. La Corte di giustizia, con numerose pronunzie, ha apportato precisazioni sulla interpretazione della direttiva del 1998 (avente portata innovativa rispetto a quella del 1977). Con riguardo alle pubbliche amministrazioni (destinatarie della direttiva in forza della novella del 1998), la Corte, con la sentenza nella causa C-509/14, ha precisato che la direttiva sul trasferimento di imprese si applica alle imprese pubbliche che esercitano un’attività economica (che persegua o meno uno scopo di lucro). La Corte, richiamando la sentenza 20.1.2011, C-463/09, Clece, ha affermato che la direttiva si applica ad una situazione in cui un’impresa pubblica, che aveva affidato ad un’altra impresa l’esecuzione di lavori, decida di porre termine al contratto che la vincolava a quest’ultima e di provvedere essa stessa a tali lavori. Nello stesso solco, la sentenza C. giust., 20.7.2017, C-416/16, Portimão Urbis, ha ribadito l’applicazione della direttiva anche ove le attività di un’impresa comunale siano trasferite in parte al Comune stesso in parte ad altra impresa comunale purché l’identità dell’impresa sia conservata dopo il trasferimento.
Con riguardo a nuova aggiudicazione di appalto (C. giust., 15.12.2005, C-32/04, Güney e C. giust., 15.12.2005, C-233/04, Görres; C. giust., 20.11.2003, C-340/01, Abler) la Corte ha affermato che il trasferimento dei mezzi di produzione ai fini di una gestione autonoma rappresenta solo un aspetto parziale, mentre la sussistenza o meno del trasferimento di impresa va valutato, ad opera del giudice nazionale, alla luce di una pluralità di fattori, tra cui il tipo di impresa, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di una eventuale sospensione di tali attività. Il carattere eminentemente immateriale dei beni trasferiti è stato ribadito anche con riguardo al passaggio di personale da un’agenzia di lavoro interinale ad un’altra (C-458/05).
Con la sentenza del 26.5.2005, n. 478, C-478/03, Celtec Ltd, la Corte di giustizia – premesso che per stabilire l'esistenza o meno di un trasferimento occorre valutare se l'entità in questione conservi la sua identità – ha precisato che i lavoratori legittimati a beneficiare della tutela accordata dalla direttiva devono essere individuati in un momento preciso dell'operazione di trasferimento e non rispetto a un lasso di tempo più o meno lungo in cui questa si svolge: sono oggetto di questa tutela i lavoratori occupati nell'entità interessata dal trasferimento, il cui contratto o il cui rapporto di lavoro è in corso alla « data del trasferimento», a differenza di coloro che in questa data non erano più dipendenti del cedente.
In tema di applicazione del contratto collettivo ai dipendenti ceduti, la Corte di giustizia (C. giust., 9.3.2006, C-499/04, Werhof) ha affermato che, qualora il contratto individuale di lavoro rinvii ad un contratto collettivo che vincola il cedente, il cessionario, che non è parte del contratto collettivo, non è vincolato da contratti collettivi successivi a quello in vigore al momento del trasferimento d'azienda (interpretazione “statica” della clausola” del contratto individuale).
Quanto alla salvaguardia dei diritti maturati presso il cedente, in caso di trasferimento di impresa da una persona giuridica di diritto privato verso lo Stato (C. giust., 11.11.2004, n. 425, C-425/02, Delahaye) ha, da una parte, rilevato che ove l'applicazione delle norme nazionali che disciplinano la situazione dei dipendenti dello Stato comporti la riduzione della retribuzione dei lavoratori interessati dal trasferimento, questa riduzione (quando è sostanziale) deve essere considerata come una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro a scapito dei lavoratori impedita dalla direttiva; ha, d’altra parte, precisato che non osta, in via di principio, che lo Stato, nuovo datore di lavoro, proceda ad una riduzione dell'importo della retribuzione dei lavoratori allo scopo di conformarsi alle vigenti norme nazionali relative ai pubblici dipendenti (Lavoro pubblico), purché il nuovo ordinamento sia interpretato coerentemente alla direttiva, nella specie tenendo conto dell'anzianità del lavoratore se le norme nazionali che disciplinano la situazione dei dipendenti dello Stato prendono in considerazione l'anzianità del dipendente statale per il calcolo della sua retribuzione. Nell'ipotesi in cui questo calcolo si risolva in una riduzione sostanziale della retribuzione dell'interessato, tale riduzione costituisce una modifica delle condizioni di lavoro a scapito dei lavoratori interessati dal trasferimento, di modo che la rescissione del loro contratto di lavoro per questo motivo deve essere considerata come dovuta alla responsabilità del datore di lavoro.
La Corte di giustizia si è, inoltre, occupata dell'applicabilità della direttiva in oggetto nel caso di un'operazione di “internalizzazione” (cd. insourcing) di attività (di pulizia di locali) precedentemente appaltata a soggetto terzo (C-463/09). In tal caso (e a differenza di una ipotesi simile decisa con sentenza 10.12.1998, cause riunite C-127/96, C-229/96 e C-74/97, H.Vidal SA – cause riunite) la Corte ha ritenuto che mancasse il requisito della identità dell'entità economica trasferita. Per poter stabilire se una entità conserva la propria identità, deve essere preso in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione, fra le quali rientrano, in particolare, il tipo di impresa o di stabilimento, la cessione o meno di elementi materiali (quali edifici e beni mobili), il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della parti più rilevante del personale ad opera del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, il grado di somiglianza delle attività esercitate prima e dopo la cessione, la durata di un'eventuale sospensione di tali attività. Anche un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un'attività comune può corrispondere ad un'entità economica che può conservare la propria identità ove il nuovo titolare non si limiti a proseguire l'impresa ma riassuma anche una parte essenziale (in termini di numero e di competenza), del personale specificamente destinato dal predecessore a tali compiti. Tutti gli elementi elencati vanno, comunque, considerati non isolatamente bensì nell'ambito di una considerazione complessiva.
Con riguardo alla nozione di ramo di azienda, la Corte di giustizia (C-458/12) ha richiamato i propri precedenti (facendo specifico riferimento alle sentenze: C. giust., 10.12.1998, C-27/96, C-229/96 e C-74/97 Hernandez Vidal; C. giust., 13.9.2007,C-458/05, Jouini; C. giust., 6.9.2011, C-108/10, Scattolon) ribadendo la necessità che l’entità trasferita disponga, anteriormente al trasferimento, di un’autonomia idonea a produrre in modo autosufficiente un servizio, in modo da conservare la propria identità. L’applicazione della direttiva presuppone la preesistente autonomia funzionale dell’entità economica da trasferire; sono, però, consentite forme più flessibili di trasferimento del ramo d’impresa (ossia anche in assenza di preesistenza del ramo) purché non venga meno lo scopo principale perseguito dalla direttiva, ossia la protezione dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore. Ai fini dell’autonomia funzionale per la Corte non conta come in concreto si atteggi il rapporto fra le parti – potendo queste anche avere la «stessa direzione», gli «stessi locali» ed essere «impegnate nell’esecuzione della medesima opera», appartenere al medesimo gruppo –, ma solo il fatto che siano formalmente distinte (negli stessi termini si era, peraltro, già espressa C. giust., 2.12.1999,C-234/98, Allen). La Corte di giustizia, con la sentenza del 9.9.2015, C-160/14, Ferreira da Silva, ha, inoltre, puntualizzato la nozione di «trasferimento di uno stabilimento» ai sensi dell’art. 1, par. 1, della dir. n. 23/2001. Il criterio decisivo è quello di accertare se «l’entità in questione conservi la propria identità, il che si desume in particolare dal proseguimento effettivo della gestione o della sua ripresa». Occorre prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano, in particolare, «il tipo di impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali quali gli edifici e i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno la maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tale attività; elementi che non possono essere valutati isolatamente bensì nel loro complesso». L’importanza da attribuire rispettivamente singoli criteri «varia necessariamente in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione di gestione utilizzati nell’impresa, nello stabilimento o nella parte di stabilimento di cui trattasi». L’elemento rilevante è il mantenimento non già della struttura organizzativa specifica bensì del nesso funzionale di interdipendenza e complementarietà tra i fattori di produzione trasferiti (C. giust., 12.2.2009,C-466/07, Klarenberg che sviluppa i principi già affermati con la sentenza C. giust., 6.10.1982, C-283/81, Cilfit). Con questa sentenza è stato altresì precisato che, per il giudice di ultima istanza (Corte di cassazione, Corte costituzionale, Consiglio di Stato), l’obbligo di adire la Corte di giustizia (previa valutazione della fondatezza del dubbio interpretativo) costituisce il principio, mentre la rinuncia ad adire la Corte l’eccezione, e ciò soprattutto a fronte di decisioni divergenti a livello nazionale in ordine alla nozione di trasferimento di uno stabilimento, al fine di eliminare il rischio di un’errata interpretazione del diritto comunitario.
Le sentenze C. giust., 30.4.2015, C-80/14 e C. giust., 13.5.2015, C-392/13 interpretando l’art. 1, par. 1, co.1, lett. a) della dir. 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, hanno precisato che “la nozione di «stabilimento» (che non è definita dalla direttiva) costituisce una nozione di diritto dell’Unione e non può definirsi mediante richiamo alle normative degli Stati membri, dovendo ricevere un’interpretazione autonoma e uniforme nell’ordinamento giuridico dell’Unione. In particolare, costituisce uno «stabilimento» nell’ambito di un’impresa, un’entità distinta, che presenta caratteristiche di permanenza e stabilità che è destinata ad effettuare una o più operazioni determinate e che dispone di un insieme di lavoratori nonché di strumenti tecnici e di una determinata struttura organizzativa che permette il compimento di tali operazioni, non dovendo necessariamente essere dotata di una qualsivoglia autonomia giuridica o economica, finanziaria, amministrativa o tecnologica.
Con la sentenza, Cass., 24.6.2008, n. 17151 si è affermato che in caso di trasferimento d'azienda si realizza una successione a titolo particolare nella generalità dei rapporti preesistenti dal cedente al cessionario; ne consegue che, ove rispetto ad uno dei rapporti sia pendente una controversia, il cessionario che sia intervenuto, ex art. 111, c.p.c., nel processo, accettando il contraddittorio sulle domande formulate verso il suo dante causa e svolgendo difese nel merito, assume la veste di parte processuale in qualità di titolare del diritto in contestazione e non quale terzo, non potendosi qualificare il suo intervento come adesivo dipendente. In ogni caso, ove un lavoratore, agendo in giudizio, affermi la persistenza del rapporto di lavoro in capo al cedente del ramo d'azienda, negando il rapporto con il cessionario, non sussiste litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., (Cass., 21.11.2012, n. 20422). In caso di prospettata illegittimità del licenziamento irrogato dall’impresa cedente prima del trasferimento, deve ritenersi sussistente la legittimazione passiva dell'impresa cessionaria (Cass. n. 26401/2014). La nullità della “vocatio in ius” della società cedente è sanata dalla costituzione in giudizio della cessionaria, operando la sanatoria indipendentemente dalla volontà del convenuto ed a prescindere dalle difese da esso svolte (Cass., 8.11.2017, n. 26473).
È principio consolidato che l’onere di allegare e provare l’insieme dei fatti integranti un trasferimento di ramo di azienda incombe sul datore di lavoro cedente che intenda avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c., trattandosi di eccezione al principio generale del necessario consenso del lavoratore (Cass., 6.3.2015, n. 4601; Cass. n. 11247/2016).
Fonti normative
Art. 2112 c.c.; art. 47 l. 29.12.1990, n. 428; dir. 77/187/CE; dir. 98/50/CE; dir. 2001/23/CE.
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