Abstract
Si intende qui analizzare le problematiche che ruotano intorno al delitto di trasferimento fraudolento di valori ex art. 512 bis c.p., a partire dalla struttura del reato necessariamente plurisoggettiva, soffermandosi sul duplice elemento finalistico che qualifica la condotta connotandone il disvalore e concludendo sui complessi rapporti con il nuovo delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p.
Il delitto di trasferimento fraudolento di valori, introdotto dalla l. 7.8.1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», è stato trasfuso senza modifiche dal d.lgs. 1/3/2018, n. 21 «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale», all’art. 512 bis c.p., tra i delitti contro l’economia; punisce con la reclusione da due a sei anni «chiunque attribuisce fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter del codice penale».
Il momento storico della sua introduzione, all’indomani delle eclatanti stragi del 1992, e il titolo della legge citata, laddove fa riferimento alla «criminalità mafiosa», lasciano intendere che l’intentio legis sia stata quella di contrastare in maniera più energica il fenomeno mafioso, colpendolo nel risultato finale dell’attività criminale: l’accumulo di capitali illeciti.
Per la verità, la lettera della disposizione, aprendosi genericamente con «chiunque», sembra aver presentato, sin dalla sua introduzione, un ambito di applicazione ben più ampio di quello ristretto alle vicende della criminalità organizzata di stampo mafioso. Invero, l’unico riferimento, seppur indiretto, al fenomeno mafioso era contenuto nelle «leggi in materia di misure di prevenzione patrimoniali» che, all’epoca dell’entrata in vigore della legge, si applicavano esclusivamente agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni» (art. 1, l. 31.5.1965, n. 575, recante «Disposizioni contro la mafia») ma che, con l’introduzione del codice antimafia, si applicano a tutti i soggetti destinatari delle misure di prevenzione personale, e quindi ai sospettati di crimini economici (cfr. artt. 1, 4, 16, d.lgs. 6.9.2011, n. 159) (cfr. Palazzi, M., I rapporti tra il delitto di autoriciclaggio e quello di trasferimento fraudolento di valori, in Mezzetti, E.-Piva, D., a cura di, Punire l’autoriciclaggio. Come, quando e perché?, Torino, 2016, 55 ss.).
La norma si inserisce all’interno di un vasto elenco di strumenti per il contrasto patrimoniale: nell’ambito della criminalità organizzata prima e, della criminalità economica poi. La voluntas legis è quella di colpire i capitali illeciti controllandone la circolazione (reati di riciclaggio), ovvero la concentrazione della ricchezza sproporzionata al reddito (sequestro e confisca) nei confronti di quei soggetti sospettati di appartenere ad organizzazioni mafiose, ovvero abitualmente dediti ai traffici delittuosi. È evidente la dimensione economica del delitto che, a fronte delle notevoli difficoltà di accertamento dovute alla capacità di intervento dei poteri criminali nel mondo dell’economia, anticipa la tutela mescolando prevenzione e repressione penale (cfr. Balsamo, A.-De Amicis, G., L’art. 12-quinquies della legge n. 356/1992 e la tutela del sistema economico contro le nuove strategie delle organizzazioni criminali: repressione penale “anticipata” e prospettive di collaborazione internazionale, in Cass. pen., 2005, 2075). Ciò che muove la criminalità organizzata è il desiderio di forti guadagni. L’ordinamento giuridico, attraverso strumenti di contrasto patrimoniale, deve migliorare la capacità di congelare, e quindi confiscare, i proventi del crimine. Sulla scorta di tali osservazioni e dallo studio attento della realtà criminale, in particolare mafiosa, si è considerato che i beni provento di delitto, nella prassi quotidiana, vengono trasferiti a terzi estranei al sodalizio, per poi subire varie fasi di ripulitura in ambito finanziario e ritornare alla destinazione iniziale: nel patrimonio della struttura criminale. La tutela, quindi, si incentra nel momento finale dell’accumulo di ricchezza illecita e, pertiene da un lato, al corretto funzionamento dell’ordine economico, dall’altro, al regolare funzionamento democratico delle istituzioni, vista la crescente cointeressenza tra potere politico e impresa criminale (cfr. Balsamo, A.-De Amicis, G., L’art. 12 quinquies, cit., 2082).
L’art. 512 bis c.p., ponendo a fondamento della fattispecie una operazione negoziale di natura simulatoria che si perfeziona tra colui che realizza l’intestazione fittizia e colui che consapevolmente ne accetta il ruolo, intende disciplinare un reato plurisoggettivo improprio o a punibilità circoscritta. Il legislatore, infatti, sanziona la condotta di chi, pur rimanendo l’effettivo titolare, fittiziamente attribuisce ad altri denaro, beni o altre utilità perseguendo determinate finalità illecite, senza però replicare la sanzione per l’intestatario, il cui consenso permette la necessaria relazione tra le due condotte; relazione, occorre ribadirlo, che delinea e cristallizza la tipicità, configurandone la lesione tipica. Il quesito che ci si pone è se, nel caso di specie, il partecipe necessario (non punito per scelta legislativa), sia assoggettabile, ove ne ricorrano i requisiti, alle norme in tema di concorso eventuale di persone (art. 110 ss. c.p.). Al riguardo, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere natura necessariamente concorsuale alla fattispecie definendo il reato a forma libera, nel senso che l’operazione negoziale potrà articolarsi secondo le più varie modalità esecutive, purchè l’effetto finale integri una situazione di apparente diversità tra la titolarità formale e la titolarità di fatto. Risulterebbe così punibile anche l’intestatario fittizio quale partecipe ai sensi dell’art. 110 c.p. alla realizzazione del negozio apparente (cfr. Cass. pen., sez. V, 12.2.2013, n. 18852; Cass. pen., sez. I, 28.2.2013, n. 14373; Cass. pen., sez. V, 20.3.2014, n. 13083; in tal senso, seppur con sfumature differenti, anche la prevalente dottrina: Mucciarelli, F., Commento all’art. 12 quinquies d.l. 8/6/1992 n. 306, in Legisl. pen., 1993, 160; Zanotti, M., Le disposizioni di cui all’art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito nella l. 356/1992 in materia di trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, in Corso, P.M.-Insolera, G.-Stortoni, L., a cura di, Mafia e criminalità organizzata, Torino, 1995, 876; Palazzi, M., I rapporti, cit., 71; Trapasso, M.T., La punibilità delle condotte autoriciclatorie, Napoli, 2017, 158).
Certamente l’organo giurisdizionale, anche a fronte di una norma connotata da uno scarso coefficiente di tipicità, ha inteso valorizzare la figura del destinatario dell’alienazione, qualificando la sua condotta concausa necessaria alla realizzazione del trasferimento simulato e quindi, soggetta alla efficacia estensiva dell’art. 110 c.p. Tutto ciò, però, trascura il discorso teorico che da sempre interessa gli studiosi «sulla dimensione plurisoggettiva quale modalità necessaria e perciò tipica, della fattispecie» (Maiello, V., Il delitto di trasferimento fraudolento di valori tra silenzi della dottrina e dis-orientamenti della giurisprudenza, in Indice pen., 2008, 216 ss.). A ben vedere, infatti, la migliore dottrina ha evidenziato la necessità di circoscrivere la categoria della plurisoggettività necessaria, a quelle condotte descritte in termini «di identità o in chiave di totale simmetria funzionale e parimenti punibili», dalle ipotesi soggettivamente complesse che presentano una tecnica descrittiva a forma vincolata, «una definizione rigida dei ruoli astrattamente ipotizzati», attraverso «una relazione non biunivoca tra le condotte dei soggetti»; per cui, seppur entrambi intranei alla fattispecie, solo alla condotta di uno di essi inerisce quell’elemento modale tipizzato che ne connota il disvalore formale e lo rende punibile (Zanotti, M., Reato plurisoggettivo, in Dig. pen., X, Torino, 1996, 332). È evidente che nei reati plurisoggettivi impropri o soggettivamente complessi, la funzione incriminatrice assolta dall’art. 110 c.p., trova un limite di operatività che gli deriva dal rispetto del principio di stretta legalità, a fronte di una disposizione che, «nel tipicizzare una operazione negoziale di natura simulatoria, attrae nella dimensione astratta di un giudizio di strumentalità necessario la condotta del fittizio intestatario», ponendola come «condizione indefettibile di ipotizzabilità del fatto espressamente punito», e tuttavia non la punisce espressamente (in tal senso Maiello, V., Il delitto, cit., 216).
Ove la scelta legislativa è quella di non punire il concorrente necessario, pensare in termini diversi significherebbe porsi in contraddizione con il principio di riserva di legge. Diversamente, per quei soggetti estranei alla operazione negoziale stricto sensu, che intervengono nell’agevolare il trasferimento, coadiuvando la materiale messa a disposizione dei beni a favore del terzo – si pensi al notaio che stipula il trasferimento simulato di un immobile, consapevole degli scopi che perseguono i contraenti –, potranno operare le norme sul concorso eventuale di persone, ricorrendone ovviamente gli elementi sia in termini di materialità che di dolo specifico (Mucciarelli, F., Commentario all’art. 12 quinquies, 158 ss.).
Con le dovute riserve, e in presenza della finalità specifica richiesta, potrebbe residuare, nei confronti dell’interposto, spazio di applicazione per il più grave reato di riciclaggio di cui all’art. 648 bis c.p., non potendo non incidere la condotta di trasferimento fraudolento di cui all’art. 512 bis c.p. con il fatto base descritto all’art. 648 bis c.p., e non operando nei confronti dell’interposto (non avendo concorso nella commissione del reato presupposto), la clausola di esclusione della punibilità prevista per i reati di riciclaggio.
Ogni indagine intorno ad una fattispecie di reato impone di tracciare la precisa definizione del fatto incriminato. Nella fattispecie in oggetto, la condotta tipica risulta integrata dal fatto di chi attribuisce ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità. Il comportamento descritto rinvia a nozioni che fanno riferimento alla tradizione civilistica. Per esempio, viene in rilievo, il contratto simulato dove si determina una scissione tra parte apparente e parte effettiva del rapporto; si pensi all’interposizione fittizia, dove il simulato acquirente è solo apparente titolare del diritto; in tal caso com’è noto l’accordo simulatorio intercorre tra tre soggetti: l’interposto (parte apparente del contratto), l’interponente (colui che non figura come parte contrattuale, ma nei cui confronti si producono gli effetti) e il terzo contraente la cui adesione all’accordo è elemento essenziale del fenomeno simulatorio. Può altresì parlarsi di negozio fiduciario, nel caso in cui, l’alienante trasferisce un diritto per uno scopo ulteriore che l’acquirente in forza del pactum fiduciae si obbliga a realizzare ritrasferendo il bene stesso al fiduciario o a un terzo. L’utilizzo di termini tecnicamente imprecisi quali ‘titolarità’ e ‘disponibilità’, sta a significare l’intenzione del legislatore penale di ricondurre nell’ambito della previsione normativa anche situazioni non inquadrabili in rigidi schemi civilistici (cfr. per tutti Mucciarelli, F., op. cit., 159; cfr., in giurisprudenza, Cass. pen., S.U., 27.2.2014, n. 25191). Ai fini penali, rileva, quindi, oltre la relazione giuridica significativa anche qualsiasi potere di fatto che realizzi comunque la creazione di una apparentia iuris diversa da quella effettiva in termini di titolarità o disponibilità del bene (cfr. Cass. pen., 30.9.2014, n. 52614).
A ben vedere, la ratio puniendi della norma, a fronte dell’ampiezza della previsione, deve sganciarsi dai formalismi civilistici e deve incentrarsi proprio sul carattere fittizio dell’operazione, elemento questo che connota la tipicità del fatto. Ciò intende significare che l’attribuzione della titolarità o disponibilità avviene con modalità essenzialmente ‘fraudolente’, come esattamente qualificate nella rubrica (cfr. Cass. pen., sez. V, 4.3.2014, n. 10271). In tal senso si configura quel raccordo necessario tra parametro oggettivo: trasferimento fittizio-fraudolento (che lascia invariato il rapporto tra il bene e il soggetto che ne aveva la titolarità), e il fine perseguito dall’agente, che consiste nell’ostacolare l’accertamento della reale disponibilità patrimoniale al fine di eludere le disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniale o in materia di contrabbando ovvero di agevolare la commissione dei reati di cui agli artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p.
La creazione di una situazione di apparente signoria sulla cosa ancora non raggiunge alcuna significatività in relazione alla norma penale, rendendosi indispensabile, per qualificare quella condotta come meritevole di assoggettamento a sanzione penale, che essa sia indirizzata/collegata allo scopo elusivo-agevolativo connesso alla repressione di fatti relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza (Mucciarelli, F., op. cit., 160). Dette finalità che rappresentano il profilo soggettivo della fattispecie, qualificano e selezionano il disvalore della condotta completandone la tipicità.
Come precedentemente illustrato, nella fattispecie oggetto di studio, la connotazione finalistica (dolo specifico) delinea il disvalore della condotta tipica. Trattasi quindi di reato di pericolo finalizzato al raggiungimento di un danno, la cui realizzazione non è necessaria per la consumazione del reato stesso. Tale finalità però, nel rispetto di un diritto penale dell’offesa, deve rapportarsi e riflettersi nella tipicità oggettiva traducendosi in elevato pericolo di avvio di un procedimento di prevenzione da un lato, ovvero dall’altro di probabile commissione di delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego (Maiello, V., op. cit., 211). L’inconsueta scelta legislativa di prevedere all’interno della norma un duplice dolo specifico fa si che la condotta presenti elementi diversificati a seconda della finalità prescelta dal soggetto attivo. Nella prima parte dell’attuale art. 512 bis c.p. acquista rilievo il comportamento di trasferimento fraudolento teso ad eludere la normativa in materia di misure di prevenzione patrimoniale. Onde evitare concezioni cd. soggettivistiche in tema di dolo specifico, è necessario chiarire preliminarmente i termini del legame tra intento elusivo e condotta interpositoria; la condotta fraudolenta cioè, deve essere improntata/funzionale alla elusione della normativa di prevenzione patrimoniale. Ciò comporta che la condotta può anche avere ad oggetto beni che non provengano necessariamente da delitto, ma la cui origine illecita sia riconducibile alla operatività della presunzione relativa scaturente dalla pericolosità sociale qualificata del soggetto nel cui interesse è stata realizzata l’intestazione fittizia (cfr. Cass. pen., sez. I, 9.11.2016, n. 17546). Non è nemmeno richiesto che la condotta sia posta in essere in pendenza dell’applicazione o della emanazione della misura di prevenzione patrimoniale, rilevando questa «come indice sintomatico della relativa finalità elusiva» (cfr. Cass. pen., sez. II, 14.7.2010, n. 29224; contra Maiello, V., op. cit., 211). Tuttavia va precisato che la condotta di intestazione fittizia per diventare fraudolenta, non può prescindere da un contenuto oggettivo chiaro: deve esprimere una capacità elusiva concreta in relazione all’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale (contra Cass. pen., sez. V, 6.4.2016, n. 40278). Cioè, come esattamente rilevato, tale condotta deve rivelare «la rintracciabilità dei presupposti applicativi di misure quali il sequestro e la confisca di prevenzione» consistenti nelle sproporzione ovvero nella derivazione illecita: «elementi di fatto dimostrativi della capacità elusiva dell’operazione» (così Brizzi, F., Il trasferimento fraudolento di beni tra sistema penale e sistema di prevenzione, in Arch. pen., 2014, n. 2, 5, in www.archiviopenale.it). È evidente quindi che il procedimento di prevenzione, seppur non ancora iniziato, debba contenere una elevata probabilità di verificazione, riflettendo così l’effetto elusivo e consentendo anche l’ineludibile accertamento in capo al soggetto attivo «della conoscenza della esistenza di una situazione obiettivamente rischiosa di ablazione coattiva dei suoi beni» (Maiello, V., op. cit., 211). La giurisprudenza, per la verità, seppur orientata a ritenere l’avvio del procedimento di prevenzione come un requisito da collocare nell’ambito di operatività del dolo specifico (Cass. pen., sez. II, 21.10.2014, n. 2483), non ha mancato recentemente di sottolineare la necessaria colleganza che deve sussistere tra procedimento di prevenzione e procedimento penale, viaggiando entrambi ‘su binari paralleli’ (Cass. pen., sez. II, 18.4.2014, inedita). Insomma, il delitto di intestazione fittizia, nella prima parte dell’art. 512 bis c.p., non può risolversi in una mera attività negoziale seppur simulata e contrassegnata da una particolare finalità elusiva, ma necessita, sul piano oggettivo, di requisiti ben definiti consistenti: nell’elevato pericolo dell’avvio del procedimento di prevenzione; nell’assenza di un giudicato di prevenzione contrario alla tesi della pubblica accusa; nella sussistenza di una pericolosità generica o qualificata in capo al soggetto attivo (Brizzi, F., Il trasferimento, cit., 9).
La seconda finalità prevista dall’art. 512 bis c.p., ovvero l’agevolazione alla commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego, va anch’essa esaminata in rapporto alla condotta simulatoria. L’endiadi che viene a formarsi pretende un rigoroso riscontro sul piano oggettivo degli elementi significativi idonei a semplificare/facilitare la commissione dei delitti succitati. Nonostante il silenzio della norma, costituisce requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 512 bis c.p. seconda parte, l’esistenza di un precedente delitto da cui provengono il denaro, i beni o le altre utilità che formeranno oggetto del negozio simulato. È necessario quindi, che il reato presupposto sia anteriore e quindi autonomo, rispetto alla commissione del delitto di trasferimento fraudolento costituendone un antecedente necessario ineludibile al fine della verifica circa l’attitudine della condotta a consumare le ipotesi criminose oggetto della specifica finalità. Non è d’altronde necessario, ai fini della configurazione del delitto di intestazione fittizia, né l’esatta individuazione, né l’accertamento giudiziale del delitto presupposto essendo sufficiente che lo stesso risulti astrattamente configurabile (Cass. pen., sez. II, 16.12.2015, n. 13448). È peraltro pacifico in giurisprudenza che il reato di intestazione fittizia a sua volta possa fungere da reato presupposto in relazione ai delitti di ricettazione, riciclaggio e reimpiego; tale reato infatti, proprio attraverso l’attribuzione fittizia, produce un autonomo profitto rispetto a quello derivante dal reato antecedente, che consiste nella «oggettiva facilitazione del godimento dei beni illecitamente acquisiti» (Cass. pen., sez. II ,14.7.2016, n. 33076; Cass. pen., sez. II, 5.10.2011, n. 39756).
È stato rilevato come nella norma di cui all’allora vigente art. 12 quinquies il mancato riferimento alla provenienza illecita dei beni e «la varietà dei presupposti richiamati dai contenuti del dolo specifico in questione», tra cui anche i delitti di ricettazione e reimpiego, permettono una estensione dei delitti presupposto anche a quelli colposi, diversamente da quanto previsto per il solo riciclaggio (Trapasso, M.T., La punibilità, cit., 152). Bisogna altresì evidenziare che la norma in questione non contemplando alcuna clausola di esclusione della punibilità (come invece previsto nelle ipotesi di cui agli artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p.), intende punire l’autore del reato presupposto qualora attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità dei proventi illeciti, al fine di agevolare un loro reinvestimento in attività produttive. Sul punto, seppur prima della introduzione della fattispecie di autoriciclaggio (art. 648 ter.1 c.p.), il massimo consesso a Sezioni Unite ha sottolineato che «l’assenza nell’art. 12-quinquies di una clausola di esclusione di responsabilità per l’autore dei reati che hanno determinato la produzione di illeciti proventi, consente di affermare che il soggetto attivo del reato può essere anche colui che ha commesso o ha concorso a realizzare il delitto presupposto, qualora abbia predisposto una situazione di apparenza giuridica e formale difforme dalla realtà» (Cass. pen., S.U., n. 25191/2014). Si evince quindi, che tale norma, fino alla introduzione della fattispecie di autoriciclaggio (art. 648 ter.1, c.p., introdotto con l. 15.12.2014, n. 186), costituiva insieme all’aggravante di cui al co. 6, art. 416 bis, c.p., l’unica forma di autoriciclaggio prevista nel nostro ordinamento. E ciò perché, mentre nei delitti di riciclaggio per scelta legislativa, l’intero disvalore del fatto si ritiene ricompreso nella punibilità del reato presupposto, nel delitto di intestazione fittizia, il legislatore ha inteso fornire uno strumento di contrasto patrimoniale più forte, orientato a reprimere le attività economiche illecite della criminalità mafiosa; cioè ha inteso colpire con maggior efficacia il quotidiano «inserimento di queste associazioni nei circuiti dell’economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante dai delitti» (Cass. pen., S.U., n. 25191/2014). Insomma, l’attività di riciclaggio per certi organismi criminali è fisiologica, configura una sorta di ‘progressione criminosa’, nel senso che, finalità ultima, è quella di penetrare i settori della vita economica, per poi influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza. Di qui la rivalutazione del reato di trasferimento fraudolento che, seppur costituisce condotta prodromica alla commissione di più gravi delitti, mantiene autonoma operatività e significatività oltre gli spazi delineati dalle fattispecie di riciclaggio (così Trapasso, M.T., op. cit., 148).
Con riferimento al momento consumativo, si è posto il delicato problema della natura permanente ovvero istantanea del delitto de quo, la cui soluzione comporta ricadute non indifferenti anche sul regime della prescrizione. Secondo un primo e più risalente orientamento, si tratterebbe di un reato permanente, in quanto la sua struttura consisterebbe nella creazione di una situazione di apparenza giuridica della titolarità o disponibilità del bene, nonché nel mantenimento consapevole e volontario di tale situazione. Quindi il ‘periodo consumativo’ durerebbe per tutto il tempo in cui lo stato antigiuridico viene fatto durare (Cass. pen., sez. III, 23.9.1993, n. 1665). Successivamente, cambiando radicalmente posizione, la Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che il trasferimento fraudolento di valori è «un reato istantaneo con effetti di natura permanente»; infatti, «una volta realizzata l’attribuzione fittizia, il delitto perviene alla sua consumazione, senza che possa assumere giuridica rilevanza la situazione (anti)giuridica conseguente al trasferimento» (Cass. pen., S.U., 28.2.2001, n. 8). In linea con quanto sostenuto dalle Sezioni Unite, la Cassazione, ribadendo la natura istantanea ad effetti permanenti dell’allora delitto di cui all’art. 12 quinquies, si è soffermata sulla natura giuridica delle plurime e distinte operazioni di attribuzioni fittizie di valori. L’organo nomofilattico dopo aver escluso rilevanza penale a quelle condotte di intestazione fittizia meramente passive, finalizzate al semplice mantenimento/godimento degli effetti permanenti del delitto, ha ritenuto la penale ed autonoma rilevanza del compimento di distinte operazioni societarie fittizie reiterate nel tempo (Cass. pen., sez. I, 16.6.2010, n. 1616); si pensi alla intestazione di quote a nuovi soci fittizi ovvero alla distribuzione di utili a soci occulti di una società preesistente. Ha quindi concluso nel senso che le intestazioni successive, sorrette dalla finalità elusiva, costituiscono «un più complesso schermo», idoneo al nascondimento della effettiva realtà criminale configurando distinti reati per i quali decorrono termini prescrizionali autonomi (cfr. Vanorio, F., L’applicabilità del delitto di trasferimento fraudolento di valori a plurime e consecutive condotte simulate: l’orientamento della Cassazione tra post-factum non punibile e “nuove” attribuzioni fittizie, in www.penalecontemporaneo.it, 29.11.2011, che ipotizza in tale ipotesi un reato in forma continuata).
L’art. 512 bis c.p. aprendo con la clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca più grave reato», intende delimitare l’ambito di operatività della fattispecie, rispetto a qualsiasi reato più grave in cui sia ascrivibile il medesimo fatto concreto. Come evidenziato dalle Sezioni Unite con riferimento all’allora vigente art. 12 quinquies (Cass. pen., S.U., n. 25191/2014), ratio della norma è quella di punire, se il fatto non costituisce più grave reato, l’autoriciclaggio dell’interponente che, in assenza di tale previsione, sarebbe andato impunito. L’introduzione del reato di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p., ad opera della l. n. 186/2014, e la mancanza di un dovuto coordinamento da parte del legislatore, hanno sollevato perplessità interpretative in ordine ai rapporti tra norme contigue, seppur presidiate dal principio di sussidiarietà. La norma di cui all’art. 648 ter.1 c.p., lasciando in vita gli artt. 648 bis e 648 ter c.p., ha inteso delimitare il privilegio di immunità per l’autoriciclaggio, intendendo punire quelle situazioni di impiego dei profitti illeciti in attività economiche/imprenditoriali, concretamente idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita dei beni che ne costituiscono l’oggetto; ostacolo da qualificarsi come elemento modale della condotta, e quindi evento del reato, assente invece nell’attuale art. 512 bis c.p. L’intendimento del legislatore di costruire l’art. 648 ter.1 c.p. come una fattispecie di danno, viene confermato dalla previsione della scriminante prevista al co. 4 che prevede la non punibilità del soggetto attivo, ove la destinazione dei beni sia in termini di mera utilità o godimento personale; ipotesi questa da intendersi come esclusione del tipo, seppur in rubrica ambiguamente definita come causa di non punibilità. È indubbio che detta scriminante, costituendo un elemento negativo del fatto tipico, avrà valenza per l’intero ordinamento giuridico, e non potrà non trovare applicazione anche nella ipotesi di autoriciclaggio così come tipizzata già nell’art. 12 quinquies ed ora nell’art. 512 bis c.p. (cfr. di recente in relazione al ‘passivo godimento personale’ nel reato di intestazione fittizia, Cass. pen., sez. II, 12.1.2017, n. 3935). Tuttavia i problemi di ordine sistematico si evidenziano dal confronto tra il delitto di trasferimento fraudolento di valori e le due diverse fattispecie di autoriciclaggio previste all’art. 648 ter.1 c.p., rispettivamente al co. 1, (punito da 2 a 8 anni) e al co. 2 (punito da 1 a 4 anni), a seconda della gravità della pena edittale prevista per il reato presupposto. È chiaro che in tali ipotesi la clausola di riserva di cui all’art. 512 bis c.p. potrà operare nel primo caso, risultando la fattispecie di autoriciclaggio più grave, ma non nel secondo caso (co. 2), che prevede una sanzione meno grave e autorizza l’applicazione in suddetta ipotesi dell’art. 512 bis c.p., salvo ipotizzare un concorso di reati (Palazzi, M., op. cit., 79). Va però sottolineato che l’art. 648 ter.1 c.p., anche nella ipotesi dove denuncia una minore offensività, pretende per il perfezionamento del reato un concreto ostacolo alla identificazione della provenienza illecita; ostacolo, vale ripeterlo, non richiesto nella condotta prodromica/strumentale della intestazione fittizia. Il difetto di attenzione del legislatore non ha consentito una attenta valutazione e conseguente coerente normazione tra fattispecie limitrofe in presenza di un rapporto di sussidiarietà, dando adito a contraddizioni nel testo di legge, nonché a contrasti interpretativi. La risposta in sede applicativa non si è fatta attendere. La Cassazione con una recentissima pronuncia (Cass. pen., sez. II, 12.1.2017, n. 3935) ha affermato il concorso tra intestazione fittizia ed autoriciclaggio dal momento che quest’ultima condotta «non presuppone né implica che l’autore di essa ponga in essere anche il trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivenienti dal reato presupposto». Sempre ad avviso della Corte, detto reato contiene un elemento ulteriore che lo distingue dal reato di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p., consistente nella presenza di un terzo soggetto, che dovrà rendersi artefice dell’autoriciclaggio. Inoltre, sottolinea l’organo nomofilattico, le due violazioni intervengono in momenti cronologicamente distinti a dimostrazione della loro diversità: l’autore del reato presupposto prima compie l’operazione di interposizione fittizia e successivamente darà luogo a quella di autoriciclaggio, senza la quale la condotta sarebbe sempre punibile solo per il reato di cui all’art. 12 quinquies, attuale art. 512 bis c.p. (cfr. Cass. pen. n. 3935/2017). Le conclusioni della Cassazione, seppure apprezzabili, non convincono. Ci sia consentita qualche breve osservazione. Come esattamente affermato dalla Corte costituzionale, il riferimento alla diversità strutturale tra norme ancora non è sufficiente per definire la diversità del fatto, dovendosi valutare l’identità riguardo alla sola «corrispondenza storico-naturalistica della configurazione del reato»; quindi, per escludere l’identità del fatto occorrerà prendere in considerazione solo un diverso evento materiale (C. cost., 31.5.2016, n. 100, § 8). Nel caso che ci interessa l’art. 512 bis c.p. disciplina una fattispecie sussidiaria/residuale, una norma di chiusura da applicarsi solo ove la condotta tenuta non implichi nessun altro grave reato. La norma principale (art. 648 ter.1 c.p.), a confronto con il reato di intestazione fittizia, intende reprimere una offesa più grave al medesimo bene giuridico: l’effettivo ostacolo alla tracciabilità dei beni illeciti attraverso l’impiego in attività economiche; ciò intende affermare una progressione della tutela che, proteggendo in maniera rafforzata lo stesso bene giuridico già tutelato dalla norma sussidiaria, consente un riscontro in termini di concorso apparente di norme. Infatti nel caso di specie, ad avviso di chi scrive, andrebbe escluso il concorso di reati, dal momento che, la sanzione da irrogare per la fattispecie di autoriciclaggio, preserva e ricomprende al suo interno anche gli interessi alla cui tutela l’art. 512 bis c.p. è adibito, risultando superflua una ulteriore applicazione in termini di pena (cfr. in tal senso con riferimento all’art. 323 c.p., Cass. pen., sez. VI, 28.2.2017, n. 13849).
Fonti normative
Art. 12 quinquies, l. 7.8.1992, n. 356; art. 512 bis c.p.; art. 1, l. 31.5.1965, n. 575; artt. 1, 4, 16, d.lgs. 6.9.2011, n. 159; artt. 648, 648 bis, 648 ter, 648 ter.1, c.p.
Bibliografia essenziale
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