Trasformazione delle cellule
di Renato Dulbecco
Trasformazione delle cellule
sommario: 1. Introduzione: a) trasformazione permanente e abortiva; b) il fenotipo delle cellule trasformate; pleiotropismo. 2. Trasformazione indotta da virus: a) virus trasformanti; b) sistemi modello; c) l'integrazione del provirus; d) localizzazione del provirus; e) la sequenza dei geni virali nel provirus integrato; f) speciali tipi di provirus; g) il DNA virale nella traformazione abortiva; h) ruolo dell'integrazione; i) i geni trasformanti; l) le proteine trasformanti; m) origine cellulare di una proteina trasformante; n) meccanismi della trasformazione indotta dai Virus. 3. Trasformazione da sostanze chimiche: a) i procancerogeni; b) gli enzimi attivanti; c) trasformazione da procancerogeni; d) condizioni sperimentali e trasformazione; e) cooperazione; f) il meccanismo della trasformazione chimica. 4. Proprietà speciali delle cellule trasformate: a) accrescimento in sospensione; b) accrescimento a bassa concentrazione di siero; c) moltipùcazione su uno strato confluente di cellule normali; d) alterazioni della struttura filamentosa interna delle cellule; e) effetto della trasformazione sulla differenziazione cellulare; f) immortalità. 5. Relazione trasformazione-cancro. 6. Alterazione chiave. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) Trasformazione permanente e abortiva
Il termine ‛trasformazione', riferito a cellule animali, indica un cambiamento di molte loro caratteristiche indotto da agenti oncogeni come virus, sostanze chimiche, o radiazioni. La trasformazione neoplastica, studiata in cellule coltivate in vitro, presenta molte somiglianze con il cancro che si sviluppa negli organismi animali: essa rappresenta un modello della malattia spontanea di facile realizzazione tecnica e dotato di grande potenziale sperimentale, così che attualmente è oggetto di intense ricerche. Prenderemo in esame successivamente le correlazioni tra cancro e trasformazione cellulare.
Nell'accezione più comune del termine, la trasformazione è permanente non solo nella cellula in cui avviene, ma in tutte quelle che derivano dalla sua moltiplicazione e che costituiscono un cosiddetto ‛clone'. In alcuni casi virus oncogeni determinano cambiamenti cellulari che persistono solo per poche generazioni: questo fenomeno è definito ‛trasformazione abortiva' (v. Stoker, 1968), perché, come vedremo, il suo meccanismo è simile a quello della trasformazione permanente. Nella trasformazione abortiva il clone che deriva dalla cellula trasformata è inizialmente tutto trasformato, ma espandendosi col passare del tempo, le cellule che lo compongono ritornano normali.
b) il fenotipo delle cellule trasformate; pleiotropismo
L'insieme delle caratteristiche cellulari, ossia il fenotipo delle cellule trasformate, può variare molto: la trasformazione è, infatti, una definizione operazionale, cioè il fenotipo delle cellule trasformate dipende in primo luogo dalle condizioni selettive che permettono di distinguere e, in genere, di isolare le cellule trasformate da quelle che non lo sono.
Quando una popolazione cellulare viene esposta a un agente trasformante, solo una piccola percentuale degli elementi che la compongono si modifica, mentre la maggior parte rimane normale. E necessario quindi selezionare e isolare le cellule trasformate, e ciò è possibile poiché esse sono meno esigenti delle cellule normali per quel che riguarda le condizioni di accrescimento. Le cellule trasformate possono infatti moltiplicarsi in condizioni proibitive per le cellule normali, per esempio in agar semisolido (le cellule normali crescono solo se adese a una superficie solida); oppure in presenza di una bassa concentrazione (circa 1%) di siero nel mezzo di coltura (molte cellule normali richiedono una concentrazione di circa il 10% di siero); o infine su uno strato di cellule normali, su cui altre cellule normali generalmente non crescono, dove danno luogo a colonie ben distinguibili, dette foci.
A seconda del metodo di selezione impiegato, le cellule trasformate possono differenziarsi fra loro per alcune proprietà, pur avendone molte altre in comune.
Caratteristica costante delle cellule trasformate, comunque si selezionino, è il pleiotropismo, cioè la loro diversificazione dagli elementi normali per un gran numero di proprietà. La trasformazione è sempre pleiotropica. Tra le variazioni di osservazione più frequente si ricordano: quelle della morfologia delle cellule o delle colonie da queste formate; l'abbreviazione di alcune catene polisaccaridiche presenti sulla superficie cellulare; l'assenza pressoché totale di una grande molecola proteica, la ‛fibronettina' (fibronectin), normalmente presente sulla membrana citoplasmatica nei punti di contatto con gli altri elementi; la frammentazione della struttura filamentosa interna, che determina forma e mobilità della cellula; infine la diminuzione dell'AMP ciclico, che in alcune cellule trasmette segnali di controllo dalla superficie cellulare al nucleo.
Tutte queste alterazioni contribuiscono in vario modo a modificare la trasmissione dei segnali regolatori esterni ai centri dove vengono sintetizzate le macromolecole cellulari. Nelle cellule normali i segnali, rappresentati da molecole esterne o da contatti con altre cellule, stimolano o rallentano la moltiplicazione, determinandone, in modo complesso e non ben conosciuto, l'entità e il ritmo. Nelle cellule trasformate i segnali o non vengono riconosciuti, perché la superficie cellulare è alterata, oppure non raggiungono i centri di sintesi, dato che non avviene la loro trasmissione lungo la struttura interna o la loro mediazione a opera di molecole come l'AMP ciclico.
È logico ritenere, quindi, che le cellule trasformate presentino un accrescimento la cui regolazione è alterata secondo modalità di volta in volta diverse, dipendenti dal metodo di selezione.
2. Trasformazione indotta da virus
a) Virus trasformanti
Il virus del sarcoma di Rous fu il primo di cui si riconobbe la capacità di trasformare in vitro i fibroblasti, ma successivamente si è accertato che molti altri virus della stessa famiglia sono in grado di operare la trasformazione di fibroblasti o di cellule emopoietiche. Questi virus, che nell'animale provocano lo sviluppo di sarcomi, linfomi e leucemie di vario tipo, vengono detti Retrovirus perché trasmettono l'informazione genetica in modo retrogrado, cioè dall'RNA al DNA, mentre in tutti gli altri casi l'informazione è trasmessa dal DNA all'RNA. Nei Retrovirus i virioni, cioè le particelle extracellulari, possiedono un genoma a RNA, mentre nelle cellule l'informazione virale è mantenuta da una copia del genoma costituita da DNA: quindi durante la sintesi di nuovi virioni il DNA del genoma virale viene trascritto in RNA (v. neoplastie: Oncologia sperimentale e sangue: Leucemie).
Recentemente si è osservato che anche virus di altre famiglie, con virioni a DNA, operano la trasformazione. Anzi, al contrario di ciò che si è osservato per i virus a RNA che, fatta eccezione per i Retrovirus, non trasformano nè provocano l'insorgenza di tumori, in quasi tutte le famiglie di virus a DNA esistono membri che inducono la trasformazione in vitro o tumori negli animali. Del resto, poiché anche il genoma dei Retrovirus a sede intracellulare è costituito da DNA, sembra ovvio ritenere che la trasformazione o l'induzione di tumori negli animali siano dipendenti dalle proprietà del DNA. Tra i virus a DNA più importanti per lo studio della trasformazione ricorderemo i Papovavirus, che comprendono i virus del polioma, del papilloma e l'SV40, gli Adenovirus, gli Herpesvirus.
Perché un virus trasformi le cellule è necessario che queste sopravvivano. I Retrovirus non determinano la morte cellulare, a differenza dei virus a DNA: questi ultimi possono quindi indurre la trasformazione soltanto se operano su cellule di certe specie in cui sono incapaci di esprimere le funzioni di tutti i propri geni, oppure se agiscono dopo essere stati parzialmente inattivati da agenti fisici o chimici o da mutazioni.
b) Sistemi modello
Il meccanismo della trasformazione virale è stato principalmente analizzato in virus semplici: i Retrovirus, come il virus del sarcoma di Rous che trasforma cellule di embrione di pollo, e i Papovavirus, virus a DNA, quali in particolare il virus del polioma e l'SV40, che trasformano cellule di Roditori. Si tratta di virus a genoma molto semplice, costituito soltanto da quattro geni, definiti da mutazioni con effetti diversi. Nonostante l'esiguo patrimonio genico questi virus elaborano più di quattro proteine, perché alcune delle proteine primarie vengono successivamente frammentate in proteine funzionali e perché un gene può specificare più di una proteina leggendo il codice genetico in fasi diverse durante la sintesi proteica.
Sia nei Retrovirus che nei Papovavirus un solo gene è necessario per la trasformazione. Gli altri geni sono indispensabili per la moltiplicazione virale, ad esempio per specificare le proteine dei virioni. Da ciò derivano due importanti conseguenze: la semplificazione dello studio del meccanismo della trasformazione, perché può essere limitato a un solo gene trasformante; la possibilità che virus incapaci di moltiplicarsi, perché dotati di geni non trasformanti, alterati trasformino ancora le cellule se i loro geni trasformanti sono intatti. Si tratta in quest'ultimo caso di virus difettivi che si moltiplicano soltanto in cellule infettate contemporaneamente anche da un virus normale dello stesso tipo in grado di sopperire alle funzioni di cui il virus trasformante è privo (helper).
c) L'integrazione del provirus
Volendo analizzare il meccanismo della trasformazione virale, il primo problema che si pone è quello della sua stabilità. Essa è spiegata dall'integrazione del DNA virale, cioè dalla sua inserzione nel DNA cellulare, mediante legami covalenti. Il DNA virale integrato, o provirus, si comporta sotto molti aspetti come un segmento di DNA cellulare: mantiene indefinitamente la sua posizione nel cromosoma in cui è inserito, e si replica come parte del cromosoma. La dimostrazione dell'esistenza di un provirus integrato nel DNA di cellule trasformate è basata sull'impiego di ‛sonde radioattive' specifiche per il DNA virale. Per i virus a DNA tali sonde si preparano a partire dal DNA virale: questo viene attaccato da endonucleasi che ne tagliano una catena a caso e, successivamente, sottoposto all'azione di un altro enzima, una DNA-polimerasi che agisce a livello dell'estremità creata da un taglio, allontanando la catena interrotta e sostituendola con una di DNA di nuova sintesi.
Per i Retrovirus si parte dall'RNA virale, che termina con una catena di acido poliadenilico: a questa viene appaiata una catena di acido politimidilico, che poi la transcriptasi inversa virale estende con la sintesi di una catena di DNA operata copiando quella dell'RNA originario. In entrambi i casi, se il processo di sintesi avviene in presenza di precursori marcati, si ottiene un DNA altamente radioattivo (108 o più disintegrazioni per minuto per microgrammo di DNA).
Per determinare se il DNA cellulare contenga DNA virale omologo a quello di una sonda, se ne prepara un ibrido con la sonda stessa. La formazione di DNA ibrido radioattivo svela la presenza di sequenze virali nel DNA cellulare. Il metodo ha una sensibilità eccezionale: consente di svelare anche una sola copia del DNA dei Papovavirus o dei Retrovirus, la cui lunghezza è soltanto un milionesimo di quella del DNA della cellula ospite.
Con questa tecnica si è dimostrato che in tutte le cellule trasformate da un virus è presente almeno una copia, talora incompleta, del DNA virale. Questa è unita al DNA cellulare da legami covalenti, come è stato accertato frazionando per ultracentrifugazione in gradiente di densità a pH alcalino il DNA di cellule trasformate; infatti, in ambiente alcalino, in cui si spezzano tutti i legami non covalenti del DNA, il DNA virale e quello cellulare rimangono associati (v. Sambrook e altri, 1968).
Il provirus integrato si può studiare in modo più approfondito usando particolari enzimi, le endonucleasi di restrizione, che tagliano sia il DNA virale sia quello cellulare a livello di punti specifici, contraddistinti da una speciale sequenza di basi, tipica per ciascun enzima. La sequenza è costituita da 5 o 6 basi e la sua frequenza, se le basi si susseguono a caso, è molto bassa.
In pratica si osserva che un piccolo DNA virale, come quello del virus del polioma che presenta circa 5.000 basi per catena, non è tagliato affatto da alcuni enzimi; altri lo interrompono in un punto solo, diverso per ciascun enzima, e molti lo frammentano in parecchi punti. Le zone in cui i differenti enzimi interrompono la catena del DNA virale servono da punti di riferimento.
Se il DNA è integrato, una endonucleasi di restrizione che tagli il DNA cellulare nelle vicinanze del provirus libera quest'ultimo dalla maggior parte del DNA della cellula ospite. Il provirus rimane così incluso in un segmento di DNA cellulare compreso tra i due punti di taglio enzimatico più vicini. Con il frazionamento elettroforetico seguito dall'ibridazione con sonde radioattive è poi possibile separare e identificare il segmento di DNA contenente il provirus e stabilirne la lunghezza (v. Botchan e altri, 1976). Studi compiuti su cellule trasformate di origine diversa hanno costantemente dimostrato che il provirus è sempre compreso in un segmento di DNA cellulare, cioè è sempre integrato.
d) Localizzazione del provirus
Se in due cloni di cellule trasformate indipendentemente l'integrazione di un provirus avviene nello stesso punto, le sequenze dei DNA cellulari che continuano il DNA virale sono identiche e i segmenti di DNA contenenti i due provirus hanno identica lunghezza. Se, per contro, le localizzazioni sono diverse, i due segmenti presentano lunghezze diverse. È quindi possibile stabilire, in base alla lunghezza del segmento di DNA che lo comprende, se il provirus si localizza sempre nello stesso punto del DNA cellulare.
Ricerche compiute con i Retrovirus e con i Papovavirus hanno dimostrato che i provirus non si localizzano in punti determinati costanti nel genoma dell'ospite: tra tutti i cloni cellulari trasformati indipendentemente che sono stati esaminati, infatti, non si sono ancora osservate due localizzazioni coincidenti. Questo risultato ha un importante significato biologico: è inverosimile che un provirus trasformi una cellula alterando, con la sua inserzione, un gene specifico. Infatti, in considerazione della loro molteplicità e della loro varietà, appare improbabile che i punti di integrazione corrispondano tutti a un unico gene, mentre è logico ritenere che siano distribuiti a caso nel genoma cellulare.
La possibilità di dimostrare in quali cromosomi delle cellule trasformate si localizzi il provirus ha confermato questa ipotesi (v. Croce, 1977). L'indagine è basata sulla tecnica della ibridizzazione cellulare: si provoca la fusione di una cellula umana trasformata da SV40 con una cellula normale di topo, e con la fusione dei nuclei, che a essa fa seguito, si ottiene un ibrido cellulare il cui corredo cromosomico è costituito dai cromosomi di entrambe le cellule originarie. Durante la moltiplicazione gli ibridi tendono a perdere i cromosomi umani; si ottengono così cloni cellulari che contengono tutti i cromosomi del topo e pochi cromosomi umani, talvolta uno solo. I vari cromosomi vengono riconosciuti e catalogati con metodi citologici molto delicati ed è così possibile stabilire quale cromosoma umano sia necessario perché gli ibridi rimangano trasformati. Queste indagini, sebbene poco numerose data la loro complessità, hanno consentito di dimostrare che il provirus SV40 si può localizzare in cromosomi diversi.
e) La sequenza dei geni virali nel pro virus integrato
Con l'impiego degli enzimi di restrizione si è riusciti a stabilire la sequenza dei geni virali nel provirus integrato: questa è risultata non costante nei provirus dei Papovavirus, costante invece in quelli dei Retrovirus. Da un punto di vista funzionale ciò non sorprende: la funzione del provirus dei Papovavirus è infatti limitata alla trasformazione cellulare, e perché questa si compia solo la metà circa del genoma virale deve essere ininterrotta. In questi virus, la metà del genoma che causa la trasformazione può funzionare in modo autonomo, perché la sua trascrizione in RNA (che è essenziale per il funzionamento) avviene indipendentemente da quella dell'altra metà. Invece il genoma di un Retrovirus è trascritto in un blocco unico, cominciando dall'estremità opposta a quella che contiene il gene responsabile per la trasformazione; perciò tale provirus può trasformare le cellule solo se le sue estremità coincidono con quelle del genoma presente nei virioni.
Il meccanismo d'inserzione del provirus dei Papovavirus e dei Retrovirus è in accordo con le diverse esigenze biologiche dei due tipi di virus. Infatti nei Papovavirus l'inserzione è il risultato di una ricombinazione tra una molecola ciclica di DNA virale e il DNA cellulare: per questa ricombinazione, che non richiede sequenze speciali, i diversi punti del DNA virale sembra si equivalgano. Invece il DNA dei Retrovirus è sintetizzato nelle cellule in forma lineare, che poi si ciclizza. Nella forma lineare un'estremità riproduce esattamente l'altra estremità (termini ripetitivi): sono appunto questi termini ripetitivi che causano l'inserzione con due ricombinazioni (v. Hughes e altri, 1978), in modo che tutto il genoma sia conservato. Questo tipo d'integrazione è una necessità per i Retrovirus, perché l'integrazione è uno stadio necessario della moltiplicazione virale, mentre non lo è per i Papovavirus.
f) Speciali tipi di provirus
Sebbene nei casi tipici le cellule trasformate da Retrovirus, da Papovavirus e da Adenovirus contengano una quota esigua di provirus integrati indipendentemente (da uno a una decina), in qualche caso si verificano situazioni particolari. L'eccezione più importante si osserva nelle cellule trasformate dall'herpesvirus di Epstein-Barr, che induce lo sviluppo del linfoma di Burkitt nei bambini (v. Kaschka-Dierich e altri, 1976; v. neoplasie: Oncologia sperimentale). Le cellule linfatiche trasformate danno luogo a colture permanenti, dette linee linfoblastoidi; nelle cellule di queste colture sono presenti due tipi di provirus, alcuni (pochi) integrati e molte forme cicliche non integrate localizzate nel nucleo, associate non covalentemente coi cromosomi (provirus episomici).
Un'altra variazione si osserva in cellule infettate da Papovavirus, nelle quali il virus, anche se limitatamente, può moltiplicarsi. Per esempio le cellule di ratto trasformate dal virus del polioma contengono di solito dieci o venti provirus attaccati l'uno all'altro in tandem, cioè ‛testa a coda' (provirus oligomerici), integrati come una unità (v. Birg e altri, 1979). I provirus oligomerici si riconoscono facilmente esponendo il DNA cellulare a un enzima di restrizione che operi un solo taglio nel DNA virale, in grado quindi di liberare segmenti di DNA virale non legati a DNA cellulare e lunghi quanto il DNA virale presente nei virioni; il risultato sarebbe lo stesso se le cellule contenessero molecole di DNA virale ciclico libero, non integrate. Si può accertare facilmente che le cellule non contengono tali molecole libere: perciò i segmenti di lunghezza unitaria debbono derivare da un provirus oligomerico.
g) il DNA virale nella trasformazione abortiva
Nella trasformazione abortiva indotta dal virus del polioma non si verifica integrazione. Il DNA virale si moltiplica limitatamente nelle cellule infette: inizialmente è presente in molte cellule dei doni derivati dalla moltiplicazione delle cellule infettate, ma poi le molecole non integrate vengono distrutte e le cellule ritornano tutte allo stato normale.
h) Ruolo dell'integrazione
Il ruolo dell'integrazione nella trasformazione è quello di mantenere permanentemente lo stato trasformato nella cellula infettata e in tutta la sua progenie. Per i Retrovirus l'integrazione è uno stadio obbligatorio del ciclo riproduttivo; per i virus oncogeni a DNA è invece un evento indipendente dal ciclo riproduttivo che si verifica, per esempio, anche in cellule in cui il virus non si moltiplica affatto. L'integrazione di questi DNA è probabilmente una conseguenza della loro presenza nel nucleo della cellula, dove la moltiplicazione virale avviene normalmente: in presenza di enzimi di ricombinazione, cellulari o virali, la ricombinazione col DNA cellulare o con altri DNA virali (per esempio tra quelli dell'SV40 e dell'Adenovirus) è inevitabile, anche se nessuno dei due DNA ha segmenti particolari per tale ricombinazione.
i) I geni trasformanti
L'ipotesi che l'integrazione virale di per sé possa determinare le alterazioni del fenotipo trasformato non è attualmente considerata verosimile, almeno nella maggioranza dei casi. Lo studio di mutanti virali ad attività trasformante, ad esempio quelli dipendenti dalla temperatura, sembra avvalorare fortemente questo modo di vedere. Infatti cellule trasformate da mutanti termodipendenti del virus del sarcoma di Rous presentano fenotipo trasformato a 35 °C, quando il gene è attivo, mentre hanno fenotipo normale a 40 °C, quando il gene è inattivo (v. Bishop, 1978). Tali mutazioni sono localizzate in una frazione del genoma virale ed è questo segmento che definisce il gene trasformante del virus.
l) Le proteine trasformanti
L'esistenza di mutazioni sensibili alla temperatura dimostra che la trasformazione è provocata dalla proteina specificata dal gene: solo una proteina alterata dalla mutazione, infatti, può subire un cambiamento di struttura tale che ne risulti abolita la funzione quando la temperatura s'innalza di appena 5 °C. Questa proteina trasformante controlla molte caratteristiche del fenotipo cellulare e la sua azione è diretta: infatti, se la temperatura d'incubazione di cellule trasformate da un mutante viene elevata bruscamente da 35 a 40 °C, il fenotipo da trasformato ritorna a normale in un ora circa, cioè in un tempo molto breve, anche in assenza di sintesi di nuove proteine (v. Ash e altri, 1976). Ciò prova che la funzione della proteina è pleiotropica come la trasformazione.
La proteina trasformante del virus di Rous è abbastanza ben caratterizzata: è stata isolata da cellule trasformate, ed è stata anche sintetizzata in vitro a partire da un RNA messaggero che contiene il gene trasformante. Ha peso molecolare 60.000, ed è indicata con la sigla P60.
Per quanto riguarda la funzione della proteina trasformante, sembra che si possa escluderne un'azione diretta sull'espressione dei geni in considerazione della sua localizzazione cellulare nel citoplasma e nella membrana cellulare, ma non nel nucleo. Una caratteristica interessante di questa proteina è quella di essere una proteinachinasi, in grado cioè di fosforilare altre proteine (v. Erikson e altri, 1979). Non è noto se l'azione trasformante della proteina sia dovuta a questa o a un'altra proprietà; in questo secondo caso la capacità fosforilante provocherebbe l'autofosforilazione della proteina stessa, onde regolarne l'attività. Risultati simili sono stati ottenuti con altri virus trasformanti.
Nei Papovavirus una delle proteine specificate dal gene trasformante, la P90, è nucleare e si lega fortemente al DNA, forse a punti in cui può iniziare la duplicazione del DNA, sia virale che cellulare. Questa proteina ha un ruolo nella trasformazione, ma piuttosto secondario. Un'altra proteina nota soltanto per il virus del polioma, la P60, ha forse il ruolo maggiore nella trasformazione; essa è presente nella membrana cellulare e funziona da proteinachinasi. Perciò in tutti i casi noti la trasformazione è causata da proteine che, sebbene diverse, risiedono nella membrana cellulare e hanno funzione di proteinachinasi.
m) Origine cellulare di una proteina trasformante
Il virus del sarcoma di Rous produce varianti che non trasformano, perché hanno perduto, in parte o completamente, il gene trasformante. Ciò permette di preparare sonde radioattive specifiche per il gene trasformante: il genoma trasformante, copiato come DNA radioattivo e poi frammentato, viene adsorbito al genoma non trasformante. I frammenti non adsorbiti corrispondono al gene trasformante. Usando questa sonda si è potuto stabilire che cellule normali, non infettate dal virus, contengono un gene molto simile a quello trasformante del virus (v. Spector e altri, 1978). Inoltre, con l'impiego di anticorpi contro la proteina trasformante P60, si è potuto dimostrare che nelle cellule normali è presente una proteina estremamente simile a questa, anche se non identica (v. Oppermann e altri, 1979). Il gene trasformante è quindi un gene cellulare. Il virus del sarcoma di Rous induce la trasformazione perché possiede questo gene, che presumibilmente ha incorporato quando era un retrovirus non trasformante e non oncogeno. Il virus, raro e accidentale, fu isolato da Peyton Rous durante le sue ricerche sul sarcoma del pollo; è stato cosi possibile coltivarlo e mantenerlo in laboratorio, evitando che scomparisse con la morte dell'animale ospite.
È certamente dimostrato che il virus di Rous è il prodotto della ricombinazione di un genoma virale con un gene cellulare (v. Wang e altri, 1978). Virus simili, infatti, sono stati ripetutamente isolati inoculando polli con varianti incapaci di trasformare, cui s'è precedentemente fatto cenno, che hanno perduto parte del gene trasformante. In questi animali si osservano di tanto in tanto sarcomi a localizzazione insolita, la cui comparsa segue di molto tempo l'inoculazione: ogni tumore contiene un virus trasformante che, come si può dimostrare, è costituito prevalentemente dal genoma del virus inoculato a cui si è aggiunta un'inserzione che completa il gene trasformante. Se però i polli vengono inoculati con un variante virale che ha perduto tutto il gene trasformante, non si sviluppano sarcomi: evidentemente la ricombinazione è molto più frequente se il genoma del virus e il gene cellulare hanno una parziale omologia. Il virus isolato da Rous si è probabilmente formato per una ricombinazione senza omologia, che è molto rara.
L'osservazione che cellule normali contengono un gene e una proteina trasformanti può lasciare perplessi, ed è ovvio chiedersi perché esse non si trasformino. Due sono le possibili spiegazioni: la prima è che le piccole differenze tra la proteina cellulare e quella virale siano essenziali, e che la proteina cellulare non sia trasformante; la seconda è basata sul fatto che le cellule trasformate contengono protema P60 in quantità cinquanta volte maggiore rispetto a quelle normali. Sulla base di osservazioni condotte sui topi, quest'ultima spiegazione sembra valida. Infatti il gene cellulare corrispondente al gene trasformante del virus del sarcoma murino è stato isolato come un clone nel DNA di un batteriofago. Risulta che questo gene cellulare, in tutto simile a quello virale (v. Jones e altri, 1980), è anche in grado di trasformare le cellule. Questi risultati hanno una notevole importanza per gli studi sulla trasformazione e sul cancro, perché inducono a ricercarne i meccanismi in alterazioni quantitative piuttosto che qualitative. Un'ipotesi quantitativa appare teoricamente valida: infatti, dato che il controllo dell'accrescimento cellulare dipende certamente dall'equilibrio di molti fattori contrastanti, è logico supporre che tale controllo vada perso se l'equilibrio subisce un notevole spostamento provocando come diretta conseguenza la comparsa di trasformazione o di cancro.
n) Meccanismi della trasformazione indotta dai Virus
I meccanismi della trasformazione indotta dai Virus sono molteplici. Mentre il virus del sarcoma di Rous è diventato trasformante dopo essersi completato con un gene cellulare che si è aggiunto al genoma necessario per la moltiplicazione virale, virus trasformanti di topi, gatti o scimmie hanno acquisito tale proprietà scambiando parte del proprio materiale genetico con il DNA cellulare. Tali virus sono infatti difettivi, perchè nello scambio hanno perso geni essenziali per la loro moltiplicazione e, con ogni probabilità, non hanno assunto tutti lo stesso gene trasformante cellulare: infatti l'analisi di frammenti integrati da virus diversi ha consentito di dimostrarne la differenza delle sequenze. In seguito alla perdita parziale dei geni corrispondenti, verificatasi all'atto della ricombinazione, tutti questi virus elaborano proteine che contengono informazioni virali e cellulari. Queste proteine sono cioè ibride, e, pur penetrando nella membrana cellulare, non possono esser utilizzate per la formazione di altri virioni. È possibile che l'accumulo di proteine alterate modifichi le funzioni della membrana cellulare, inducendo la trasformazione. Nei topi molte neoplasie indotte da retrovirus di un altro gruppo sono caratterizzate dalla presenza di ricombinanti di un virus infettante con un virus latente già presente nelle cellule come provirus ereditario (v. Hartley e altri, 1977). La neoplasia sarebbe dovuta al ricombinante: infatti nè l'uno nè l'altro dei virus che lo costituiscono sarebbe di per sé oncogeno. Anche in queste neoplasie una proteina virale alterata infiltra la membrana cellulare e potrebbe quindi essere l'agente della trasformazione. Però è anche possibile che la funzione primaria della ricombinazione sia di creare tipi virali nuovi, capaci di infettare speciali tipi cellulari in cui il virus può espletare un'azione oncogena.
3. Trasformazione da sostanze chimiche
a) I procancerogeni
Molte sostanze chimiche, come le ammine aromatiche, gli idrocarburi aromatici policiclici, le nitrosammine alifatiche, sono in grado di provocare la comparsa di tumori in animali. Alcune di queste sostanze possono reagire direttamente con macromolecole cellulari; molte altre invece, per esempio gli idrocarburi aromatici policiclici, divengono attive solo dopo essere state modificate chimicamente nell'organismo vivente e devono quindi essere considerate procancerogeni (v. Miller, 1970). Sebbene il derivato attivo di alcuni procancerogeni si formi senza l'intervento di enzimi cellulari, nella maggior parte dei casi si genera per via enzimatica. Gli enzimi responsabili hanno una funzione finale detossificante, ma alcune sostanze intermedie, a vita molto breve, formatesi nella sequenza di reazioni, sono molto reattive e alterano determinati gruppi chimici degli acidi nucleici e delle proteine. Per esempio il benzopirene, un idrocarburo aromatico policiclico che è tra i procancerogeni più diffusi, dopo l'attivazione enzimatica a opera del sistema di monossigenasi contenenti il citocromo P-450 localizzate nei microsomi, si lega al DNA e ad altre macromolecole cellulari.
b) Gli enzimi attivanti
Il sistema di monossigenasi ossida il benzopirene determinando la formazione di epossidi che provocano direttamente trasformazione e cancro. Si tratta di composti attivi fortemente mutageni, la cui azione può essere dimostrata in vari modi, ma specialmente impiegando stipiti batterici nei quali siano già state indotte mutazioni di vario tipo e la cui reversione alla norma, in seguito a una nuova mutazione, può essere osservata molto facilmente. I composti attivi vengono ulteriormente metabolizzati da altri enzimi, le idrasi, che ne riducono l'azione carcinogena o mutagena. Il sistema enzimatico che attiva i procancerogeni metabolizza numerosi substrati, inclusi molti farmaci e gli steroidi. Presente normalmente in molti tessuti animali, si sviluppa particolarmente dopo somministrazione di fenobarbitale o di 3-metilcolantrene, un procancerogeno appartenente alla stessa classe del benzopirene. Questi due ultimi composti inducono due diversi sistemi enzimatici: quello dovuto al fenobarbitale metabolizza un gran numero di sostanze, mentre quello indotto dal 3-metilcolantrene è attivo soprattutto sugli idrocarburi cancerogeni. È quindi evidente che il sistema che attiva i procancerogeni include enzimi diversi, il cui controllo è differente. Si tratta di un sistema complesso che, tra l'altro, è regolato anche da ormoni, come quelli sessuali, che possono incrementare l'attività enzimatica, aumentando cosi l'attività oncogena di alcune sostanze chimiche.
Nei topi il sistema di monossigenasi è differente nei diversi ceppi puri: ciò induce a ritenere che esso sia anche sotto controllo genetico. Di conseguenza individui diversi di una stessa specie sono più o meno sensibili all'azione di un procancerogeno, a seconda che il loro sistema enzimatico sia geneticamente molto o poco sviluppato. Il sistema attivante è sviluppato in modo diverso anche nei diversi tipi cellulari dello stesso organismo.
c) Trasformazione da procancerogeni
I procancerogeni che inducono neoplasie possono anche trasformare in vitro molti tipi diversi di cellule animali la cui trasformazione, come abbiamo già detto, è svelata dai cambiamenti delle loro proprietà.
Tuttavia è difficile riconoscere in vitro la trasformazione di cellule epiteliali, epatociti per esempio, impiegate in alcuni di questi esperimenti. Essa viene dimostrata per la capacità di produrre tumori che le cellule manifestano dopo essere state inoculate in animali singenetici.
Perché le cellule siano trasformate da procancerogeni devono possedere il sistema attivante. Gli elementi che ne sono privi possono essere trasformati se sono coltivati con altre cellule che possiedono il sistema attivo, oppure dopo l'aggiunta al mezzo di coltura di una preparazione di microsomi attivi. In tal modo sostanze attive prodotte al di fuori delle cellule che debbono essere trasformate ne possono raggiungere il DNA.
d) Condizioni sperimentali e trasformazione
La quota di cellule trasformate da una dose costante dello stesso cancerogeno varia moltissimo nelle diverse condizioni sperimentali; le variabili più importanti sembrano essere: 1) l'attività del sistema di monossigenasi, cui già s'è fatto cenno; 2) la specie animale da cui le cellule sono prelevate; 3) il tipo di coltura, se primaria (cioè derivante direttamente dall'animale), o secondaria (cioè trasferita in vitro almeno una volta), o linee permanenti divenute immortali; 4) la densità delle cellule durante l'esposizione al cancerogeno.
Specie cui appartengono le cellule. - L'importanza della specie risulta dall'osservazione che cellule umane sono sostanzialmente non trasformabili, mentre quelle di Roditori vengono trasformate molto facilmente. Le ragioni non sono chiare; tra l'altro, non sembra che le cellule umane siano carenti in monossigenasi. Si può forse supporre che la suscettibilità delle cellule alla trasformazione dipenda dalla durata della vita della specie cui appartengono: animali che hanno una vita media molto lunga, come l'uomo, debbono necessariamente essere dotati di difese più efficienti contro la trasformazione, che altrimenti ne accorcerebbe la vita.
Tipo di coltura. - L'importanza del tipo di coltura non è ben definita; sembra tuttavia che colture primarie siano più difficilmente trasformabili di quelle secondarie o di quelle di linee permanenti. La quota di cellule trasformate può variare da 10-5 per le colture primarie a 10-1 ÷ 10-2 per le altre. Per spiegare questa diversità è stata prospettata l'ipotesi che nelle colture primarie i geni siano tutti attivi, cosicché una mutazione recessiva allo stato eterozigote, cioè in uno solo dei due geni omologhi, non può essere espressa. Invece in colture mantenute in vitro per qualche tempo una percentuale sempre maggiore di geni, dipendente dal tempo di coltivazione, verrebbe inattivata da mutazioni o da alterazioni cromosomiche, e perciò una mutazione recessiva in un gene il cui omologo è diventato inattivo sarebbe facilmente espressa.
Concentrazione cellulare. - L'importanza della concentrazione cellulare durante l'esposizione all'agente oncogeno può essere correlata al processo di riparazione delle alterazioni del DNA causate dal cancerogeno. Se le cellule sono molto sparse, una loro elevata percentuale sarà in stato di crescita; in queste cellule il DNA si replicherà poco tempo dopo essere stato danneggiato dall'agente oncogeno, col risultato che il danno sarà fissato irreversibilmente nella progenie cellulare. Nelle colture a maggiore densità molte cellule non si moltiplicano: in queste la possibilità che i danni del DNA vengano riparati con uno dei molteplici metodi di cui sono dotate le cellule è di gran lunga maggiore.
È tuttavia possibile che questo effetto sia dovuto anche ad altri fenomeni. Per esempio, se le cellule in coltura sono capaci di differenziazione, anche se non evidente alla semplice osservazione, essa può esser favorita dalla interazione tra i diversi elementi ed essere quindi più marcata nelle colture più dense. Ma la differenziazione cellulare può arrestare la trasformazione, come risulta chiaramente, ad esempio, dallo studio dei teratocarcinomi dei topi, tumori sperimentali che originano da cellule totipotenti dell'embrione in fase precoce di sviluppo. Un teratocarcinoma è costituito in prevalenza da cellule indifferenziate molto maligne: queste, tuttavia, di tanto in tanto generano cellule variamente differenziate, epiteliali, nervose, ecc. che non sono più neoplastiche (v. Jacob, 1978). Evidentemente, se il gene alterato non si esprime più, cessa di causare l'alterazione delle cellule.
e) Cooperazione
Un aspetto interessante della trasformazione cellulare indotta da sostanze chimiche è la cooperazione con altri agenti. Cooperazione può aver luogo tra un procancerogeno e un retrovirus, oppure tra un procancerogeno e un promotore della trasformazione. Si designano come promotori sostanze che, prive di effetto trasformante quando agiscono isolatamente, sono tuttavia in grado di indurre la trasformazione se associate a un procancerogeno a sua volta in dose insufficiente per trasformare (v. Berenblum e Haran, 1955). I promotori più noti sono gli esteri del forbolo (v. Van Duuren, 1969).
Il meccanismo della cooperazione è probabilmente diverso nei due casi. I Retrovirus agirebbero diminuendo la capacità di riparare i danni indotti da agenti chimici nel DNA cellulare, oppure aumentando l'attività degli enzimi attivanti o modificando la differenziazione delle cellule. I promotori alterano la normale differenziazione delle cellule favorendo l'espressione di geni oncogeni la cui espressione dipende appunto dallo stato di differenziazione.
Queste cooperazioni sono di notevole interesse pratico. Per esempio, sostanze troppo diluite per esercitare da sole un'azione oncogena possono svolgerla, invece, se potenziate da altre, come si verifica per il benzopirene che, presente in modesta concentrazione nel fumo di sigaretta, viene fortemente potenziato da sostanze chimiche promotrici liberate dalla stessa combustione del tabacco. Ancora la cooperazione tra Retrovirus e composti chimici annulla la differenza tra retrovirus oncogeni e non oncogeni: infatti questi ultimi, cooperando con agenti chimici, acquistano una potenzialità oncogena.
f) Il meccanismo della trasformazione chimica
L'azione mutagena delle sostanze chimiche trasformanti induce a ritenere che la trasformazione sia conseguenza di mutazioni che avvengono dopo la fecondazione dell'uovo e che sono perciò dette somatiche. Non sono noti i geni interessati dalle mutazioni trasformanti: in via ipotetica si puo supporre che siano quelli preposti al controllo della sintesi di proteine trasformanti simili a quella del virus di Rous. Infatti, se il DNA estratto da cellule trasformate da agenti chimici è introdotto in cellule normali, ne può causare la trasformazione. Evidentemente questo DNA contiene geni trasformanti attivi. L'azione degli agenti chimici sarebbe perciò quella di attivare geni trasformanti latenti, forse dopo averne causato la traslocazione in parti attive del DNA cellulare.
4. Proprietà speciali delle cellule trasformate
Le proprietà peculiari delle cellule trasformate indicano che ne sono alterati molti meccanismi cellulari che regolano la moltiplicazione. Esamineremo alcune di queste proprietà in relazione al loro significato funzionale.
a) Accrescimento in sospensione
La tecnica usuale per coltivare cellule animali in vitro è la seguente: inizialmente si allestisce una sospensione cellulare, liberando le cellule dal tessuto con enzimi proteolitici e bloccando con chelanti gli ioni calcio che tendono a conservare i legami intercellulari. Le cellule vengono poi introdotte in capsule di Petri di vetro o di plastica, insieme a un mezzo liquido di coltura comprendente sali, glucosio, amminoacidi, vitamine, siero di sangue e, per certi tipi di cellule, ormoni o altre sostanze particolari. Le superfici di vetro e di plastica hanno atomi ionizzati con carica negativa, metallici e, rispettivamente, organici; le cellule, utilizzando le cariche negative fisse, si ancorano al fondo della capsula, vi si distendono e, dopo parecchie ore, cominciano a crescere e a moltiplicarsi. Se le stesse cellule vengono immesse in una capsula sprovvista di cariche negative non si attaccano, rimangono sferiche, non crescono nè si moltiplicano e infine muoiono.
Perché le cellule normali debbano ancorarsi e distendersi prima di iniziare l'accrescimento non è chiaro; è possibile che ciò sia in rapporto con lo stato delle strutture filamentose della cellula, il cosiddetto scheletro cellulare, che si organizza quando le cellule si ancorano.
Cellule trasformate, ottenute da elementi che necessitano di ancoraggio, ne possono fare a meno (v. Stoker e Macpherson, 1961); poste in una capsula per cellule normali, si attaccano e si distendono, ma possono crescere anche senza ancorarsi, cioè in sospensione. Tuttavia, sospese in un mezzo liquido, tendono ad attaccarsi l'una all'altra, cioè ad aggiutinarsi: ciò si può evitare impiegando mezzi di coltura semisolidi, ottenuti diluendo agar o metilcellulosa nelle soluzioni di coltura usuali. In questo modo le cellule risultano immobili, generalmente ben separate l'una dall'altra, e crescono e si moltiplicano sul posto. Gli elementi che derivano da un'unica cellula trasformata rimangono attaccati l'uno all'altro, formando una colonia sferica che si ingrandisce progressivamente e che raggiunge in dieci o quindici giorni il diametro di circa 1 millimetro (circa 105 cellule).
Questo comportamento particolare è molto utile per studi quantitativi: consente infatti di determinare agevolmente non solo il numero di cellule trasformate, che formano colonie macroscopiche, ma anche il numero di cellule non trasformate, che rimangono singole o al più formano piccole colonie con meno di 10 cellule, e infine il numero di cellule con trasformazione abortiva, che danno luogo a colonie di 10-100 cellule. Dal punto di vista sperimentale ogni colonia ha il vantaggio di essere un clone, cioè una popolazione geneticamente omogenea.
b) Accrescimento a bassa concentrazione di siero
Oltre al glucosio, agli amminoacidi e alle vitamine, tutte le cellule necessitano per riprodursi di fattori d'accrescimento più o meno specifici, contenuti nel siero che si aggiunge al mezzo di coltura. Questi comprendono il fibroblastic growth factor, necessario per i fibroblasti, e l'epidermal growth factor, fattore di accrescimento per fibroblasti e cellule epiteliali. Si è accertato empiricamente che molte cellule normali, anche se non tutte, richiedono elevate concentrazioni di siero o di fattori di accrescimento specifici per riprodursi attivamente; al contrario, le cellule trasformate necessitano degli stessi fattori in misura notevolmente inferiore. Le cause di questa differenza non sono note, probabilmente perché, sebbene si conoscano molte condizioni e numerose sostanze che modificano la velocità dell'accrescimento cellulare, sono ancora oscuri i meccanismi fondamentali che controllano la moltiplicazione delle cellule.
c) Moltiplicazione su uno strato confluente di cellule normali
Le cellule normali si moltiplicano rapidamente in coltura fino a formare uno strato continuo sul fondo della capsula di Petri: da questo momento la loro moltiplicazione rallenta progressivamente per poi cessare. L'arresto dell'accrescimento non è dovuto all'esaurimento del mezzo di coltura o dei fattori d'accrescimento, ma alla formazione di uno strato liquido immobilizzato in contatto con gli elementi cellulari, attraverso il quale i fattori di accrescimento del mezzo debbono diffondersi per raggiungere le cellule. Quando le cellule sono disposte l'una a contatto con l'altra, anche il liquido immobilizzato è in strato continuo e limita fortemente l'afflusso dei fattori d'accrescimento. Infatti, se si ‛ferisce' la coltura, allontanando una striscia di cellule, gli elementi ai margini dell'interruzione riprendono a moltiplicarsi: in tal modo si interrompe lo strato immobilizzato e le sostanze del mezzo possono raggiungere le cellule per convezione, mezzo più efficiente della diffusione. Le cellule trasformate sono molto meno sensibili di quelle normali a tale inibizione, probabilmente perché necessitano in minor misura di fattori d'accrescimento. Per questo motivo in una coltura le cellule che hanno subito la trasformazione continuano a crescere quando l'accrescimento di quelle normali si è ormai arrestato. In questo caso ogni cellula trasformata dà origine a una colonia (focus) che si estende sopra lo strato quiescente delle cellule non trasformate. Tali colonie sono ben riconoscibili e facilmente utilizzabili al pari di quelle che si sviluppano in agar.
d) Alterazioni della struttura filamentosa interna delle cellule
Tutte le cellule contengono un apparato locomotore interno costituito da microtubuli rigidi, ma altamente variabili, che rappresentano lo scheletro, e da filamenti contrattili, che funzionano da muscoli. I filamenti formano una rete estesa da un punto all'altro della cellula e particolarmente sviluppata in prossimità della superficie cellulare, dalla quale sono state isolate le due proteine contrattili del muscolo, l'actina e la miosina. Probabilmente il sistema locomotore cellulare assolve altre funzioni, oltre quelle meccaniche di rigidità e di movimento, dato che partecipa intimamente ai cambiamenti della cellula. Nelle cellule normali i filamenti, molto lunghi, formano un sistema notevolmente esteso cui sono ancorate numerose proteine, forse tutte quelle della superficie cellulare che attraversano la membrana raggiungendo il citoplasma, le quali risultano così limitate nella loro mobilità. Nelle cellule trasformate, invece, i filamenti sono frammentati e le proteine di superficie sono quindi molto più mobili. La maggiore mobilità delle proteine presenti alla superficie di cellule trasformate è stata dimostrata elegantemente dalle ricerche con le lectine. Queste sono proteine vegetali che si associano a molecole contenenti glicidi e che si legano simultaneamente a parecchie proteine della superficie cellulare. Se la cellula ha subito la trasformazione, le lectine legate alla sua superficie si raggruppano inizialmente in patches, formano poi una calotta (cap) che infine penetra entro la cellula. Invece se la cellula è normale, le molecole vegetali, pur legandosi alla sua superficie, non tendono ad aggregarsi tra loro. Da questo comportamento particolare deriva la capacità delle lectine di agglutinare cellule trasformate, ma non cellule normali. L'agglutinazione avviene quando molte molecole di lectina formano ponti multipli tra cellule contigue: ciò si verifica solo se le proteine che legano la lectina sono dotate di notevole mobilità e si possono quindi concentrare in aree ristrette delle superfici cellulari, cioè nei punti di contatto tra cellule. In altri termini, le lectine possono determinare un'alterazione della distribuzione delle proteine della superficie cellulare solamente nelle cellule trasformate, la cui struttura filamentosa interna è già alterata e le cui proteine di superficie sono molto più mobili.
L'intima relazione del sistema filamentoso con la superficie cellulare permette forse la trasmissione di segnali regolatori esterni ai centri di sintesi di macromolecole, contribuendo alla regolazione dell'accrescimento e della moltiplicazione cellulare.
e) Effetto della trasformazione sulla differenziazione cellulare
Alcune alterazioni delle cellule trasformate sono di particolare interesse, perché dimostrano che il regolare programma di espressione dei vari geni è alterato. Due ordini di rilievi convalidano questa constatazione. Innanzitutto nelle cellule trasformate è possibile osservare l'espressione di geni non espressi nelle cellule normali corrispondenti: per esempio, molte cellule trasformate producono enzimi proteolitici; altre sviluppano antigeni fetali normalmente presenti in cellule del feto ma non dell'adulto; infine alcune cellule tumorali di derivazione bronchiale sintetizzano ormoni che sono normalmente sintetizzati dalle paratiroidi o dalla placenta. D'altra parte il normale processo di differenziazione cellulare è spesso interrotto dalla trasformazione, come è particolarmente ben dimostrabile nella trasformazione virale di cellule ematopoietiche, di cui meglio si conosce l'evoluzione normale (v. Graffe Beug, 1978).
L'espressione dei geni è quindi alterata in diversi modi: geni repressi vengono derepressi, altri che dovrebbero essere attivi non lo sono. Non sembra che l'alterazione dell'espressione dei diversi geni risponda a una regola ben definita.
f) Immortalità
Un'altra caratteristica interessante delle cellule trasformate è l'immortalità: le loro colture si possono mantenere indefinitamente in stato di continua moltiplicazione. Probabilmente ciò avviene perché nelle colture di cellule trasformate vengono eliminati per selezione gli elementi che rallentano la velocità di moltiplicazione, mentre nelle colture di cellule normali questa selezione è molto meno efficiente.
5. Relazione trasformazione-cancro
Spesso, ma non sempre, le cellule trasformate crescono come cellule tumorali in un organismo singenetico, le cui difese immunitarie non sono in grado di distruggerle. Sapere quale alterazione specifica delle cellule trasformate permette l'accrescimento tumorale in un organismo sarebbe di notevole interesse, perché consentirebbe di far luce su uno degli aspetti del cancro. Purtroppo a nessuna delle alterazioni a noi note può essere attribuita questa proprietà: la produzione di enzimi proteolitici, l'assenza di fibronettina e la capacità di moltiplicarsi in sospensione sono, è vero, fenomeni più strettamente associati con la trasformazione tumorale, ma le eccezioni non sono rare.
Probabilmente la mancanza di una correlazione ben definita tra cancro e trasformazione è dovuta al fatto che ambedue i processi dipendono da molte proprietà cellulari, così che il significato di una data alterazione varia in rapporto con le altre presenti nella stessa cellula. Inoltre bisogna tener presente che, per lo più, la trasformazione e il cancro interessano cellule di tipo diverso: la trasformazione è stata studiata quasi esclusivamente in cellule mesenchimali, i cosiddetti fibroblasti, che facilmente possono essere coltivati in vitro; al contrario, le neoplasie, in particolare quelle meglio studiate e conosciute, originano per la maggior parte da cellule epiteliali, che non sono altrettanto ben coltivabili in vitro. Queste due classi di cellule differiscono in proprietà biologiche basilari: per esempio, la differenziazione e il controllo d'accrescimento delle cellule epiteliali hanno luogo in modo estremamente regolare a livello di piccoli gruppi di cellule e sulla base di segnali reciproci agenti a breve distanza, mentre nelle cellule mesenchimali non v'è una simile organizzazione.
Le somiglianze maggiori tra neoplasie e trasformazioni si osservano nel sistema emopoietico: sono state infatti dimostrate notevoli similitudini tra le cellule leucemiche prodotte in vitro e quelle presenti nell'animale.
6. Alterazione chiave
La molteplicità e la complessità dei fenotipi risultanti dalla trasformazione sembrano dipendere da un'unica alterazione chiave, a cui ne sono subordinate molte altre: ne è un esempio la trasformazione indotta dal virus del sarcoma di Rous determinata da una singola proteina. In via teorica, si ammette che diversi siano i meccanismi mediante i quali in una cellula da una sola alterazione iniziale può derivare un complesso di alterazioni. L'alterazione iniziale potrebbe verificarsi in una proteina preposta al controllo dell'espressione di molti geni cellulari, come probabilmente avviene nella differenziazione cellulare, oppure in una proteina della superficie cellulare. In questa seconda eventualità risulterebbero tra l'altro alterati: i sistemi di trasporto, che permettono l'entrata di sostanze nella cellula; la concentrazione dell'AMP ciclico, che controlla il funzionamento di molti enzimi; la connessione tra superficie e struttura cellulare intima, con conseguente disintegrazione della cellula. L'alterazione iniziale potrebbe infine interessare una proteina in grado di modificare altre proteine cellulari per fosforilazione o per acetilazione, modificandone la funzione, e in questo caso l'effetto fenotipico dipenderebbe dalle funzioni delle proteine modificate.
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