Trasformazioni e problemi del settore bancario
La crisi dell’estate del 2007
Nel primo decennio del 21° sec., l’evoluzione del settore bancario internazionale è stata caratterizzata dalla crisi finanziaria che ha avuto origine, a metà del 2007, nel mercato statunitense dei mutui subprime, e che è tuttora in corso.
Fra il 2001 e il 2005, il sistema economico internazionale ha goduto di abbondante liquidità e di tassi reali d’interesse molto bassi (quando non negativi). In quel periodo, l’economia mondiale è cresciuta a ritmi molto rapidi, e il tasso d’inflazione nei Paesi sviluppati si è mantenuto basso. Tale quadro macroeconomico si è però accompagnato all’accumularsi di pesanti squilibri nel mercato internazionale: crescenti disavanzi nella bilancia commerciale e nei bilanci pubblici e privati (in modo particolare degli Stati Uniti), compensati dai surplus e dai connessi trasferimenti di capitale dei Paesi in via di sviluppo con forti avanzi commerciali. Negli Stati Uniti (ma anche in alcuni Paesi europei), il conseguente allentamento dei vincoli di bilancio ha ulteriormente stimolato l’indebitamento delle famiglie per l’acquisto di beni durevoli di consumo, e in particolare di abitazioni, innescando una spirale fra incremento nei prezzi degli immobili, conseguente aumento nel valore delle garanzie collaterali e concessione dei relativi crediti.
Nello stesso periodo, anche il settore bancario internazionale (con la parziale eccezione di quello tedesco) ha subito profonde trasformazioni: è stato sottoposto a maggiore concorrenza nelle attività tradizionali, ma ha introdotto rilevanti innovazioni finanziarie, realizzando alti profitti. Inoltre, esso ha proseguito quei processi di consolidamento realizzati già a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti e nel corso degli anni Novanta in Europa. Tali processi non hanno riguardato solo aggregazioni fra banche commerciali, ossia fra banche specializzate nelle tradizionali attività retail (quelle rivolte ai consumatori o ai piccoli risparmiatori) o corporate (quelle rivolte alle imprese), ma anche acquisizioni, da parte di queste, di banche d’investimento o di intermediari non bancari. Di conseguenza, anche nei Paesi (quali quelli anglosassoni) privi di una tradizione di banca universale, le banche commerciali hanno progressivamente ampliato la gamma dei servizi finanziari offerti, fino a incorporare attività a elevato valore aggiunto, prima tipiche di altri intermediari finanziari. Nell’attuale decennio questa tendenza si è accelerata, dando anche origine a nuove banche specializzate, in risposta alla diminuita centralità e alla minore redditività delle tradizionali attività creditizie. La normativa ha accompagnato (Europa) o certificato (Stati Uniti) tali cambiamenti di mercato; l’assetto regolamentare, specie negli Stati Uniti, non ha saputo coglierne e controllarne l’evoluzione. Nel rinnovato settore bancario internazionale, l’introduzione dell’ICT (Information and Communication Technol-ogy) è stata complementare alle continue innovazioni finanziarie di prodotto. Grazie anche alla liquidità abbondante e ai bassi tassi reali d’interesse, si sono imposti nuovi strumenti finanziari opachi e con margini elevati, che hanno dato vita a segmenti di mercato non (o poco) regolamentati, e spesso caratterizzati da transazioni limitate (mercati ‘sottili’).
Nel corso dell’ultimo decennio, le innovazioni descritte hanno portato all’affermazione del cosiddetto modello originate to distribute (OTD), incentrato sulla cartolarizzazione dei crediti bancari (o di una loro parte) e sulla loro conseguente trasformazione in attività negoziabili, ma anche alla degenerazione di suoi tratti essenziali. Esito di tale degenerazione sono il drastico aumento nel mercato finanziario statunitense dei mutui subprime (quelli concessi a soggetti con basso reddito e bassa garanzia di solvibilità) e il conseguente incremento del loro tasso d’insolvenza, che nel giugno del 2007 hanno innescato la crisi bancaria in corso, e soprattutto il rapido e persistente diffondersi di questa crisi dal mercato statunitense dei mutui a molti intermediari finanziari che operano nelle aree economiche più sviluppate.
In quanto segue si mira, innanzitutto, a giustificare l’ultima affermazione. Questo farà emergere la gravità assunta dalla crisi bancaria fin dall’ultimo trimestre del 2007, e l’incapacità di cogliere le novità e di prevenire i conseguenti ‘fallimenti’ del mercato finanziario da parte delle autorità di regolamentazione e dei responsabili di politica economica, soprattutto negli Stati Uniti. Il richiamo alle vicende che hanno caratterizzato l’ultimo quadrimestre del 2008 mostrerà in particolare che le pur necessarie operazioni monetarie di breve termine, volte ad arginare i drenaggi di liquidità, e gli interventi statali ad hoc, volti a evitare fallimenti sistemici del settore bancario, non sono bastati ad attenuare la crisi finanziaria e a limitarne l’impatto recessivo sull’economia globale. Dal settembre del 2008, i fallimenti della regolamentazione e degli interventi statali discrezionali hanno spinto al varo di piani più articolati in tutte le principali aree economiche. Di fronte all’estendersi della crisi, non si tratta di ripristinare modelli passati, ma di ridare fiducia agli attori di mercato e di adeguare le regole alle sempre più rapide innovazioni finanziarie.
Alle radici della crisi attuale
L’evoluzione del settore bancario statunitense e internazionale verificatasi negli ultimi due decenni, ha dapprima indebolito e poi cancellato quella funzione di regolazione del mercato che, in linea di principio, era stata svolta dalle banche mediante la loro tipica attività di finanziamento in un’economia caratterizzata da incertezza circa il futuro e da asimmetria d’informazione fra mutuatari e mutuanti. Per usare la terminologia di Joseph A. Schumpeter (Das Wesen des Geldes, 1970, cap. VII), nel selezionare e nel finanziare i loro clienti le banche hanno adempiuto a un ruolo di ‘contabilità sociale’ che è stato essenziale per l’ordinato funzionamento del sistema economico; e, per usare la più moderna terminologia di Joseph E. Stiglitz e Andrew Weiss (Banks as social accountants and screening devices for the allocation of credit, NBER working paper 2710, 1984), questo ruolo ha attenuato le asimmetrie d’informazione, e ha così ridotto la probabilità di fallimenti del mercato.
La tradizionale attività creditizia implica che, finanziando un’impresa o una famiglia, una banca subordini la realizzazione dei propri profitti attesi non solo ai termini del contratto di debito (tassi d’interesse, garanzie collaterali ecc.), ma soprattutto alla solvibilità dei mutuatari. Per massimizzare i propri profitti effettivi, la banca deve quindi raccogliere informazioni accurate rispetto ai potenziali mutuatari, e deve selezionare e finanziare quelli con una solvibilità adeguata ai termini dei relativi contratti di debito. Ne deriva che le banche hanno convenienza a dotarsi di ‘tecnologie d’informazione’ più efficienti rispetto a quelle degli altri attori dei mercati finanziari. Tali tecnologie consistono sia in sofisticati modelli di screening, basati sui dati economici oggettivi dei mutuatari (hard information), sia in ‘rapporti di lunga durata’, che producono informazioni più specifiche e informali (soft information), anche se queste possono degenerare in legami monopolistici. Il vantaggio informativo e l’allocazione dei prestiti delle banche sono considerati ‘conoscenza comune’ nei mercati finanziari. Il finanziamento dei mutuatari rappresenta pertanto un ‘segnale’ che diffonde informazioni, credibili e prive di costo, per gli altri attori di mercato. Ecco perché la tradizionale attività bancaria va trattata come un’efficace istituzione di (auto)regolazione dell’economia: essa riduce le asimmetrie informative, accresce la reciproca fiducia fra i mutuatari, rende meno costose le loro transazioni, abbassa le probabilità di fallimento dei mercati.
Queste funzioni di (auto)regolazione sono state gradualmente erose da due fattori. Innanzitutto, nell’ultimo ventennio l’attività creditizia più tradizionale ha generato quote decrescenti dei profitti bancari, in quanto è stata sottoposta a un’intensa pressione concorrenziale ed è stata colpita dai bassi tassi d’interesse. Hanno invece assunto un peso sempre più rilevante le attività di corporate finance e di investment banking (nei confronti delle imprese), e le funzioni di gestione o amministrazione del risparmio (nei confronti delle famiglie). Di conseguenza, se le aggregazioni e l’ampliamento dei servizi offerti ai singoli clienti hanno reso ancora più conveniente il ricorso a sofisticate tecnologie d’informazione da parte delle banche, i segnali emessi dai crediti bancari sono diventati meno affidabili per gli altri attori di mercato. Nel nuovo contesto, la scelta bancaria di finanziare una data impresa o una data famiglia non è solo imputabile a una valutazione di adeguatezza circa la solvibilità del mutuatario, ma anche all’obiettivo di acquisire vantaggi competitivi per l’offerta allo stesso mutuatario di servizi finanziari più sofisticati e con più alto valore aggiunto; il che può rendere conveniente un credito che di per sé risulta troppo rischioso.
Il fatto che l’allocazione dei crediti possa essere condizionata da fattori ritenuti indipendenti (o addirittura contrastanti) rispetto a un informato ed efficace screening dei potenziali clienti, ‘sporca’ ma non annulla i segnali emessi dalle singole banche, anche perché gli altri attori di mercato non hanno a disposizione fonti migliori di informazione. La novità che ha finito per azzerare l’affidabilità di questi segnali, e ha in questo modo compromesso il ruolo di regolatore di mercato svolto dal settore bancario, è stata il secondo fattore da esaminare: la diffusione e, soprattutto, la degenerazione del modello OTD.
Nella forma pura di questo modello, una parte dei crediti concessi da una banca può essere trasformata in titoli negoziabili mediante la costituzione nel mercato di un ‘veicolo’ speciale (special purpose vehicle, SPV), che acquista tali crediti a prezzi scontati rispetto ai loro valori contrattuali e che – essendo sostanzialmente privo di capitale – si finanzia con l’emissione di obbligazioni di ammontare e durata equivalenti. Questa modalità di cartolarizzazione va però soggetta a limiti. Ogni operazione riguarda, di solito, un portafoglio di prestiti che viene suddiviso in tranche a rischio decrescente di insolvenza; e i sottoscrittori delle diverse tranche si addossano le conseguenti possibili perdite. La banca originante tende a trattenere in bilancio la tranche più rischiosa. I potenziali acquirenti delle successive tranche ancora ad alto rischio dispongono di minori informazioni riguardo alla qualità del portafoglio cartolarizzato e, nonostante l’assunzione della tranche più rischiosa da parte della banca originante, diffidano dei suoi segnali. Può in questo modo innescarsi un meccanismo tipico di situazioni con asimmetrie d’informazione fra venditori e acquirenti: un elevato sconto nei prezzi di domanda (underpricing), che pesa sulle condizioni di emissione delle obbligazioni. Se tale meccanismo porta a prezzi di acquisto delle tranche intermedie del portafoglio che sono inferiori ai più bassi prezzi di offerta delle banche originanti, si ha di conseguenza un fallimento del mercato delle cartolarizzazioni. Le banche non possono alleggerire i loro bilanci di una parte dello stock di crediti in essere, riducendo in proporzione i loro obblighi patrimoniali e aumentando così i loro rendimenti attesi; il mercato è impossibilitato ad assorbire i rischi di credito (o una parte di essi), ripartendoli fra una più ampia platea di attori.
La degenerazione del modello OTD, avvenuta nel decennio in corso senza incontrare significativi vincoli regolamentari, ha rovesciato per qualche tempo il meccanismo dell’underpricing, ma al costo di distorcere il funzionamento dei mercati finanziari e di trasferire rischi abnormi sui risparmiatori. Primo: per ridurre la rischiosità attribuita dai potenziali acquirenti alle prime tranche dei portafogli cartolarizzati non detenute dalla banca originante, si è proceduto alla combinazione di tranche di rischio diverso in nuovi portafogli. In questo modo le conseguenti obbligazioni strutturate hanno ulteriormente accresciuto il grado di diversificazione e – sotto l’ipotesi (poi rivelatasi arbitraria) di rischi indipendenti – hanno migliorato la qualità dello strumento finanziario offerto. Secondo: tale modalità di cartolarizzazione ha rafforzato e distorto il ruolo delle agenzie di rating. Queste ultime hanno comunicato ai loro clienti i criteri di valutazione della rischiosità dei prodotti strutturati e hanno, così, indicato come combinare i sottostanti con rischio eterogeneo in modo da ottenere la famosa AAA, o comunque una valutazione di affidabilità. Terzo: sono stati creati nuovi veicoli per la cartolarizzazione e la strutturazione dei crediti bancari (structured invest-ment vehicles, SIV; conduits, C) che, oltre a essere sostanzialmente privi di capitale, a differenza dei tradizionali SPV hanno emesso titoli con scadenza più breve rispetto ai loro sottostanti.
Simili innovazioni sono state giustificate con l’esigenza di massimizzare la diversificazione dei rischi nei mercati finanziari. Di fatto, come conferma il maggior grado d’insolvenza dei crediti cartolarizzati rispetto ad altri crediti di rischio analogo, esse hanno spinto le banche a minimizzare lo screening dei propri mutuatari; inoltre, come sta a testimoniare – a metà del 2007 – l’abnorme quota di prodotti strutturati con tripla A presenti nel mercato statunitense, esse hanno permesso alle banche originanti e agli acquirenti delle tranches cartolarizzate (banche d’investimento, hedge funds, le stesse banche commerciali) di occultare il rischio e di lucrare ampi differenziali fra i tassi d’interesse sui prestiti originari e quelli sui derivati con elevato rating; infine, come indica la stessa evoluzione della crisi e l’alta percentuale di ABS (Asset Backed Securities) rimasta nei bilanci delle banche e di altri intermediari, esse hanno cercato di diversificare rischi in realtà correlati, e non sono riuscite ad accrescere l’efficienza del settore finanziario (Duffie 2008; Greenlaw, Hatzius, Kashyap, Shin 2008).
Questa degenerazione del modello OTD ha permesso alle banche d’investimento e a molte banche commerciali di massimizzare i guadagni di breve termine, aggirando la regolamentazione e scaricando rischi correlati sui risparmiatori; essa ha inoltre portato alla moltiplicazione di titoli strutturati sempre più complessi e opachi, scambiati in segmenti di mercato sempre più ‘sottili’. Ciò ha ulteriormente allentato i legami fra rischiosità del credito bancario originario, prezzi di mercato dei conseguenti titoli e convenienza della cartolarizzazione.
Lo scoppio della crisi
Per cogliere la dinamica dell’attuale crisi del settore bancario internazionale, non è sufficiente il precedente esame della degenerazione del modello OTD. Si tratta di precisare come l’aumento delle insolvenze in uno specifico segmento del mercato statunitense dei mutui (i subprime), pur se in espansione così rapida da raggiungere circa il 12% del totale di quel mercato all’inizio della crisi, abbia potuto causare nell’arco di venti mesi una crisi così vasta e profonda.
Il quadro macromonetario permissivo dei primi cinque anni del Duemila, pur aggravando gli squilibri strutturali dell’economia statunitense, ha spinto gli attori di mercato a sottovalutare i diversi rischi finanziari, e ha indotto le banche d’investimento e le nuove banche commerciali a sfruttare oltre ogni limite le opportunità speculative aperte dalle innovazioni finanziarie, per aggirare i vincoli alle cartolarizzazioni standard e fronteggiare il calo nei rendimenti delle attività creditizie tradizionali. Ancora nella prima metà del 2007, tali spinte sono state facilitate da una regolamentazione inadeguata che, almeno negli Stati Uniti, non aveva ancora attuato il passaggio a Basilea 2 e stava introducendo i principi contabili IAS (International Accounting Standards), fondati sul calcolo di varie poste di bilancio al fair value (mark to market o, in sua mancanza, mark to model). Il fatto è che negli Stati Uniti la regolamentazione vigente era molto fragile – quando non assente – rispetto alle attività di investment banking e a quelle di altri intermediari non bancari; e che, in Europa, la recentissima adozione di Basilea 2 non aveva ancora permesso di calibrare i nuovi requisiti patrimoniali e gli altri principi alle sempre più incidenti attività non tradizionali delle grandi banche commerciali. Inoltre, quasi ovunque la vigilanza dei mercati finanziari sottovalutava varie tipologie di rischio (in primis, il rischio di liquidità). Il campo si presentava, in questo modo, libero per comportamenti elusivi rispetto alle regole di mercato.
Ciò spiega perché l’esplosione nella concessione e nella cartolarizzazione dei mutui subprime e di altri crediti a rischio elevato si sia accompagnata a quell’uso opportunistico delle innovazioni sopra denunciato. Come si è già accennato, il processo si è spinto fino a un paradosso pregno di conflitti d’interesse: le banche originanti e le banche di investimento coinvolte nei processi di cartolarizzazione hanno mantenuto stretti e opachi legami con i relativi SIV e altri tipi di veicoli, non consolidandoli nei propri bilanci ma appropriandosi dei relativi guadagni, e garantendo rifinanziamenti nel caso (giudicato improbabile) di illiquidità. Al presentarsi delle prime crepe, gli smottamenti si sono così trasformati in una valanga, che in breve ha investito tutti i mercati finanziari.
Né i regolatori né gli attori di mercato sono apparsi consapevoli della fragilità della situazione fino a che il sistema della Federal reserve negli Stati Uniti (Fed) ha riportato i tassi di interesse di riferimento intorno al 5% (fra il 2005 e il 2006). Questo segnale di politica monetaria ha frenato l’aumento nei prezzi statunitensi delle case e la concessione di mutui subprime (2006); il che è bastato per causare incrementi nei tassi d’insolvenza di tali mutui e per innescare una spirale perversa in quel segmento di mercato e nei segmenti contigui di altri crediti ad alto rischio (prima metà del 2007). È così emerso che i prezzi degli strumenti derivati erano basati su una sistematica sottovalutazione dei rischi per almeno tre ragioni: l’infondata ipotesi che i vari rischi di controparte e di mercato fossero ampiamente diversificabili; l’errata convinzione che il valore delle garanzie collaterali non potesse subire cadute eccessive; l’uso di modelli di valutazione che erano inadatti a misurare le singole probabilità di insolvenza e – soprattutto – le correlazioni fra rischi in presenza di difficoltà sistemiche. All’inizio dell’estate 2007, le emissioni di strumenti derivati dalla cartolarizzazione dei mutui subprime e di altri crediti ad alto rischio hanno subito una diminuzione, e subito dopo si sono verificate flessioni nei mercati azionari. Ciò ha rallentato la dinamica dei consumi privati nel mercato statunitense, e ha condizionato la domanda di finanziamenti delle famiglie. Questi intoppi hanno reso palese che il settore bancario e altri intermediari, coinvolti nelle cartolarizzazioni e nella catena dei loro derivati, avevano utilizzato veicoli che non erano soggetti a criteri di adeguatezza patrimoniale e avevano operato con elevatissimi livelli di leverage, agendo in un vuoto di regolamentazione.
Nell’agosto del 2007, tali elementi di criticità sono sfociati in una crisi di fiducia che ha investito direttamente i mercati finanziari internazionali e ha generato gravi problemi di liquidità e di reperimento di fondi (Brunnermeier 2008).
Il venir meno della fiducia ha poi spinto gli attori di mercato a considerare le fragilità e i conflitti di interesse, fino ad allora negletti. La nuova consapevolezza ha esacerbato il crollo di fiducia e ha ulteriormente depresso la domanda degli strumenti finanziari, direttamente o indirettamente derivati dai mutui subprime, e di altri crediti ad alto rischio.
Il conseguente eccesso di offerta ha provocato l’illiquidità o una drastica riduzione dei prezzi di tali strumenti (anche se con valutazione AAA) e l’incremento dei margini richiesti per le varie operazioni di finanziamento e per le coperture assicurative. Prima della fine dell’estate del 2007, i vincoli di liquidità si sono poi estesi a strumenti derivati non correlati con i mercati statunitensi dei mutui e alla quasi generalità dei mercati finanziari. All’euforia che aveva caratterizzato il periodo che va dal 2003 al 2006 si sono sostituite una sopravvalutazione dei rischi finanziari e una fuga dei risparmiatori verso la liquidità. Le nuove banche commerciali internazionali e le banche d’investimento si sono in questo modo trovate strette in una morsa: nascondere nei loro bilanci attività quasi illiquide o eccessivamente svalutate, mascherando l’inadeguata capitalizzazione, oppure svendere queste attività (o una parte di esse), facendo emergere perdite tanto ingenti da rischiare il fallimento. Talvolta non vi è stata neppure la possibilità di scelta o di ricerca di una terza via, la ricapitalizzazione.
Il fatto è che, dall’autunno del 2007, il settore bancario internazionale è caduto nel circolo vizioso di una crisi di liquidità dei mercati e di una crisi nel reperimento di fondi, che hanno pesantemente inciso sui suoi equilibri patrimoniali, sulla sua profittabilità e sulla sua operatività. Le banche d’investimento e le nuove banche commerciali internazionali di conseguenza hanno dovuto assorbire o far emergere molti dei prodotti derivati dalla cartolarizzazione, e reinternalizzare parte dell’attività creditizia. Ciò spiega perché uno shock di portata tutto sommato circoscritta, qual è stato l’incremento nei tassi di insolvenza dei mutui statunitensi subprime nella primavera del 2007, abbia potuto innescare una così drastica caduta di fiducia nei rapporti fra banche e un così grave e opaco processo di deleveraging (Allen, Gale 2007; IMF 2008). Tali fenomeni sono stati poi aggravati dalla caduta dei mercati azionari e dalla necessità di tornare al rispetto delle regole di adeguatezza patrimoniale e di trasparenza contabile.
I primi interventi di policy
Le precedenti considerazioni indicano che la prima fase della crisi finanziaria, protrattasi fra l’agosto 2007 e il marzo 2008, si è incentrata su tre aspetti: un fallimento della regolamentazione, dovuto alla presenza e persistenza di arbitraggi fra segmenti regolati e non regolati dei mercati finanziari; una crisi di liquidità, emblematicamente rappresentata dagli abnormi divari fra i tassi a tre o a sei mesi nei mercati interbancari (v. il Libor, per quanto distorto verso il basso, e l’Euribor) e i corrispondenti tassi di policy nelle principali aree valutarie; conseguenti difficoltà di reperimento di nuovi fondi liquidi da destinare al settore bancario e ad altri intermediari finanziari. Pertanto la soluzione della prima fase della crisi avrebbe potuto basarsi, oltre che sull’adozione di nuove regole, su due interventi di più breve termine: liquidazione agli svalutati valori di mercato delle poste critiche ampiamente presenti nei bilanci bancari, così da ridare trasparenza alle transazioni; ricapitalizzazioni bancarie di entità sufficiente a compensare non soltanto le perdite che già erano emerse ma anche i futuri write off, e a ripristinare, così, condizioni di adeguatezza patrimoniale e la reciproca fiducia fra intermediari.
Fino al marzo del 2008 questa via diretta, che pure era stata o stava per essere parzialmente seguita da grandi banche di investimento e da nuove banche commerciali internazionali, non ha però potuto tradursi in soluzione di sistema. La caduta di fiducia comportava la sottovalutazione dei prezzi di un’ampia gamma di strumenti finanziari, anche non direttamente connessi alla catena dei derivati delle cartolarizzazioni di crediti ad alto rischio. Adeguati write off avrebbero, quindi, dilatato le perdite degli intermediari; e tali perdite avrebbero esacerbato la crisi di liquidità e minacciato la stessa stabilità del settore bancario, in quanto avrebbero difficilmente trovato compensazione in contestuali ricapitalizzazioni bancarie. La difficoltà di reperimento di fondi liquidi era soprattutto dovuta ai severi limiti posti dalla caduta di fiducia nei confronti di due usuali fonti di aumento di capitali: la parziale o totale acquisizione di una banca in difficoltà da parte di altri intermediari; l’acquisto di nuove azioni bancarie da parte dei vecchi proprietari o della platea dei risparmiatori. Per giunta, trovandosi in situazioni così critiche i vecchi azionisti avrebbero percepito ogni aumento di capitale come un’ulteriore perdita di valore per le loro quote; e i manager avrebbero con ogni probabilità interpretato l’operazione come un segnale di licenziamento.
Non a caso le non procrastinabili ricapitalizzazioni, attuate fra la fine del 2007 e i primi mesi del 2008 da grandi banche statunitensi ed europee (UBS, Barclays, Citigroup, Morgan Stanley, Merrill Lynch ecc.), sono state largamente sottoscritte da parte di specifici investitori internazionali poco interessati alla redditività di breve termine e – almeno fino a questo momento – passivi sul terreno della governance e della gestione: i fondi sovrani. Specie in quel periodo di elevati prezzi delle materie prime, i fondi sovrani, alimentati dagli ingenti surplus nelle bilance commerciali di Paesi petroliferi o in via di sviluppo, avrebbero avuto le disponibilità monetarie per sottoscrivere le ricapitalizzazioni richieste dal riequilibrio patrimoniale del settore bancario internazionale. Essendo spesso proprietà di Stati politicamente problematici, questi fondi non avrebbero però potuto diventare gli azionisti di maggioranza (anche relativa) di tutte le principali istituzioni finanziarie statunitensi ed europee senza causare la ridefinizione degli equilibri mondiali. Pertanto, a prescindere dalla valutazione data a una simile prospettiva di ‘statalizzazione sovranazionale’, nonostante l’ampio utilizzo bancario di strumenti ibridi di ricapitalizzazione (obbligazioni convertibili, azioni privilegiate ecc.), l’intervento dei fondi sovrani non ha potuto rappresentare la soluzione immediata per risolvere i problemi aperti dalla crisi finanziaria. D’altro canto, in quella fase nessun Paese ha preso in considerazione piani sistematici di riacquisto statale dei titoli illiquidi o di ricapitalizzazione statale degli intermediari finanziari in difficoltà.
Ciò spiega perché, dall’estate del 2007 all’estate del 2008, il contenimento della crisi sia stato largamente affidato alle autorità di politica monetaria delle principali aree valutarie (Fed; Banca centrale europea, BCE; Banca d’Inghilterra) e alle autorità di vigilanza dei sistemi bancari nazionali (inclusa la Fed). Le prime hanno assicurato ampi rifinanziamenti alle banche in difficoltà, attraverso prestiti di ultima istanza (discount window) e operazioni di mercato aperto; le seconde, d’intesa con i rispettivi governi, hanno proceduto al salvataggio discrezionale di banche che si trovavano sull’orlo del fallimento, con il fine dichiarato di evitare crisi sistemiche.
I preesistenti assetti hanno permesso alla BCE di assolvere al suo compito senza discontinuità istituzionali. La BCE ha continuato a utilizzare le abituali operazioni di mercato aperto con varie tipologie di banche, autorizzate a conferire un’ampia gamma di garanzie collaterali in cambio dei prestiti ottenuti; in risposta alla crisi, essa si è limitata ad accrescere l’ammontare dei finanziamenti, a ridurne gli oneri rispetto alla deteriorata qualità delle garanzie e – dopo qualche mese – a estenderne la durata temporale (fino a sei mesi). Dopo una prima fase di cautela (che ha fatto precipitare la crisi della banca Northern Rock), la Banca d’Inghilterra si è allineata alle strategie della BCE. La Fed ha invece dovuto introdurre innovazioni istituzionali (Bernanke 2008). Prima della crisi, negli Stati Uniti gran parte delle banche commerciali con problemi di liquidità erano ammesse alla sola discount window; le operazioni di mercato aperto erano riservate a primarie banche commerciali, e si basavano su garanzie collaterali molto liquide. Dall’agosto del 2007, la Fed ha così cercato di incentivare l’utilizzo della discount window, riducendo a un quarto il divario fra il tasso di sconto applicato e i tassi sui titoli federali, ed estendendo la durata dei finanziamenti (novanta giorni, rinnovabili su richiesta in condizioni di solvibilità). Dal dicembre del 2007, essa ha poi organizzato aste bimensili di finanziamenti per un ammontare predeterminato e per una durata di ventotto giorni (poi estesa a novanta giorni), riservate a un insieme definito ma ampio di banche commerciali autorizzate a conferire come copertura garanzie con gradi di liquidità inferiori a quelli previsti in precedenza per le primarie banche commerciali. Dal marzo del 2008, infine, la Fed ha riservato a primari intermediari ingenti operazioni di mercato aperto, in cambio di garanzie collaterali sempre più legate alla catena dei titoli derivati dalle cartolarizzazioni di crediti ad alto rischio.
Tali mutamenti, oltre a contribuire all’estensione delle competenze di vigilanza della Fed sulle banche d’investimento, hanno accresciuto la convergenza fra i canali utilizzati dalle banche centrali delle principali aree valutarie mondiali per immettere temporanea liquidità nel settore bancario. Peraltro, a differenza della BCE (che ha innalzato il tasso di riferimento ancora nel luglio del 2008, nonostante vari segnali di recessione dell’economia europea e il conseguente venir meno delle tensioni inflazionistiche), la Fed ha associato agli abbondanti rifinanziamenti una politica monetaria permissiva. Certo è che, facendo svanire la distinzione fra banche in situazione di insolvenza e di (temporanea) illiquidità e accettando come garanzie collaterali – ad arbitrari prezzi di policy – titoli strutturati del tutto illiquidi o molto svalutati, le banche centrali hanno alterato il funzionamento del mercato e hanno generato effetti di ‘rischio morale’. Pur se in palese contrasto con il rigore imposto dagli organismi internazionali ai Paesi asiatici durante la crisi degli anni Novanta, si è trattato di forzature giustificate dalla gravità della crisi in corso. I rimedi hanno però contenuto i sintomi senza curare la malattia. Essendo temporanei, i rifinanziamenti non hanno cancellato dai bilanci bancari né i titoli derivati da attività ad alto rischio né gli altri titoli svalutati dal mercato. Essi, dunque, non hanno inciso in profondità sulla crisi di fiducia e sulla connessa crisi di liquidità dei mercati, ma hanno aumentato il tasso di tesaurizzazione.
Il passaggio alla seconda fase della crisi
La gravità della malattia è confermata dal fatto che, negli Stati Uniti e in parte dell’Europa, la prima fase della crisi ha registrato numerosi fallimenti e quasi fallimenti bancari, che si sono manifestati anche nell’incremento dei margini sugli strumenti derivati di copertura (credit default swaps, CDS), e hanno portato a salvataggi pubblici più o meno dissimulati. Al di là dei casi delle banche inglesi (con l’esplicita nazionalizzazione della Northern Rock) e delle banche tedesche e svizzere, l’episodio più rilevante è quello della banca statunitense d’investimento Bear Stearns, che ha aperto la seconda fase della crisi finanziaria, poi conclusasi con il ricorso della Lehman Brothers alle procedure fallimentari previste dal cosiddetto Chapter 11 (settembre 2008; v. oltre). A metà marzo del 2008, per evitare che insuperabili difficoltà nel rinnovo dei debiti sfociassero nel fallimento della Bear Stearns e creassero incontrollabili effetti sistemici a causa delle estese connessioni di questa banca nei mercati non regolamentati, la Fed (d’intesa con il dipartimento del Tesoro) ha spinto la banca J.P. Morgan a effettuarne l’acquisizione, con tutti i debiti incorporati, a un prezzo puramente simbolico (anche dopo la sua revisione al rialzo). La ‘persuasione morale’ è stata peraltro sostanziata da due interventi: la concessione da parte della Fed di un credito alla J.P. Morgan di circa 29 miliardi di dollari, garantito da 30 miliardi di attività illiquide della Bear Stearns ormai incorporate nel bilancio dell’acquirente; la copertura da parte della Fed delle possibili perdite della Bear Stearns eccedenti il primo miliardo di dollari.
Probabilmente, il salvataggio della Bear Stearns era inevitabile. Certamente, però, esso avrebbe potuto fondarsi sulla definizione di poche e trasparenti regole ex ante anziché su un mascherato aiuto pubblico a una specifica banca privata; inoltre esso avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della Fed che, sebbene formalmente legittimata a finanziare un’ampia tipologia di attori di mercato dal Federal reserve act (sez. 13.3), non aveva alcuna responsabilità di vigilanza sulle banche d’investimento. Fatto è che tale salvataggio è stato salutato con generale favore perché – nel breve termine – è parso attenuare le tensioni nei mercati interbancari, rassicurare i risparmiatori e porre un freno alla caduta nei mercati azionari e obbligazionari. A partire dal giugno del 2008, i segnali negativi hanno però ripreso il sopravvento, spegnendo ogni illusione di graduale uscita dalla crisi. Prova ne siano i dati forniti dal Financial stability forum (FSF) all’inizio del settembre 2008: nonostante avesse ormai iscritto in bilancio perdite per circa 500 miliardi di dollari e attuato aumenti di capitale per circa 350 miliardi, il settore bancario internazionale nascondeva ancora molte attività ad alto rischio, e richiedeva ulteriori ricapitalizzazioni (almeno altri 350 miliardi) per soddisfare i requisiti di adeguatezza patrimoniale. Inoltre cresceva la preoccupazione per la qualità del nuovo capitale raccolto, sempre più basato su strumenti ibridi (Draghi 2008). Questa situazione ha portato a nuovi aumenti sia nei divari fra i tassi a tre o a sei mesi dei mercati interbancari e i corrispondenti tassi di policy delle principali aree valutarie, sia nei margini sui CDS. In una parola, essa ha mostrato chiaramente il persistere di una crisi di fiducia nei rapporti interni al settore bancario internazionale.
All’inizio del settembre 2008, la fragilità del quadro economico e l’esempio della Bear Stearns hanno reso inevitabili altri interventi pubblici ad hoc. Di particolare rilievo è stato il salvataggio della Fannie Mae e della Freddie Mac, ossia di due società private quotate ma ‘sponsorizzate’ dal governo statunitense, che detenevano o garantivano circa 5400 miliardi di dollari di mutui immobiliari.
I due colossi, pur potendosi finanziare a tasso agevolato grazie a un’implicita garanzia dello Stato al fine di comprare, strutturare e rivendere mutui di buona qualità, avevano sfruttato tale garanzia per operare con un elevato leverage e acquistare obbligazioni legate a mutui subprime o a crediti ad alto rischio. La conseguenza è stata che, nonostante la concessione di una più esplicita garanzia statale, dal luglio del 2008 le due società hanno incontrato crescenti difficoltà nel finanziarsi sul mercato e, quindi, nello svolgere la loro tradizionale attività e nel ripagare i loro debiti in scadenza. Il precipitare della situazione avrebbe causato, negli Stati Uniti, il crollo del mercato immobiliare e il fallimento di molte banche regionali impegnate nell’offerta di mutui e, a livello internazionale, la reazione incontrollabile dei creditori statali e istituzionali di Paesi in via di sviluppo più esposti nei confronti delle due società. L’8 settembre 2008, il dipartimento del Tesoro ha quindi sottoscritto azioni privilegiate senza diritti di voto e warrants delle due società per una quota proprietaria complessiva di quasi l’80%, esautorando di fatto i precedenti azionisti ma assicurando i creditori mediante il riacquisto o la copertura delle obbligazioni emesse dalle due società. Inoltre, queste ultime hanno avuto accesso a una linea di credito di breve termine e con bassi oneri finanziari fino alla fine del 2009. Come mostreremo successivamente (Gli interventi pubblici europei), nei mesi successivi tali impegni statali hanno comportato ulteriori esborsi.
Pochi giorni dopo la nazionalizzazione della Fannie Mae e della Freddie Mac, la Fed e il dipartimento del Tesoro hanno dovuto fronteggiare altre crisi bancarie, e in particolare le difficoltà di due delle quattro maggiori banche statunitensi d’investimento, la Lehman Brothers e la AIG, sfociate nel fallimento della prima e nel salvataggio della seconda. I due episodi hanno avuto la funzione di spartiacque fra la seconda e la terza fase della crisi finanziaria.
La terza fase della crisi: i fallimenti della regolamentazione
Il caso della Fannie Mae e della Freddie Mac, pur traendo origine da una distorta combinazione fra Stato e mercato finalizzata a un occultamento del debito pubblico e a garantire una rendita ai privati, ha segnato un ulteriore fallimento della regolamentazione. L’insostenibilità di interventi ad hoc in risposta alla crisi è però diventata palese in seguito alla forzata uscita dal mercato della Lehman Brothers e al successivo salvataggio della AIG.
Dall’inizio del 2008, la Lehman aveva dovuto procedere a pesanti write off e, nella seconda settimana di settembre, aveva subito una caduta borsistica così pesante da compromettere le ipotesi, già avviate, di nuova ricapitalizzazione privata e di dismissione di rami di attività. Fino al 13 settembre, la Lehman sembrava tuttavia contesa da due acquirenti: da una parte una cordata capeggiata dalla Bank of America (BOA), leader nel mercato statunitense dei depositi, e dall’altra la banca inglese Barclays. Viceversa, nel successivo fine settimana la BOA ha acquisito la Merrill Lynch con un premio del 70% rispetto alla sua ultima quotazione; e, dato il rifiuto della Barclays di procedere in mancanza di una garanzia pubblica sui crescenti debiti della potenziale preda, la Lehman non ha trovato né compratori privati né aiuti governativi, e ha dovuto quindi ricorrere a una procedura fallimentare prevista negli Stati Uniti (il citato Chapter 11).
È probabile che le autorità statunitensi abbiano scelto di ‘punire’ la grande banca d’investimento meno interconnessa con il mercato retail per segnalare ai propri regolati che nessuno era garantito contro l’eventualità del fallimento, e per arginare così gli effetti di rischio morale alimentati dai precedenti salvataggi. Fatto è che la forzata uscita della Lehman ha avuto un pesante impatto sistemico, che ha travolto i mercati finanziari mondiali per più di un mese. Le due rimanenti grandi banche d’investimento statunitensi (la Goldman Sachs e la Morgan Stanley) hanno dovuto fronteggiare crescenti difficoltà, tanto da accettare la trasformazione in banche commerciali e da sottomettersi alla relativa regolamentazione; il mercato interbancario è diventato ancora più illiquido, cosicché i relativi tassi d’interesse hanno raggiunto nuovi massimi; i rifinanziamenti, ottenuti dalle banche europee presso la BCE, hanno alimentato i depositi presso la stessa BCE (che hanno raggiunto il massimo storico) anziché i prestiti interbancari, nonostante i differenziali di rendimento; i margini nel mercato dei CDS sono aumentati, sebbene l’impatto diretto dell’insolvenza della Lehman su quel segmento sia stato limitato; le aspettative degli operatori nel settore immobiliare sono ulteriormente peggiorate e si è verificato il tracollo del mercato azionario e di quello dei corporate bonds; le tendenze recessive nelle economie avanzate si sono rafforzate; i risparmiatori statunitensi hanno riscattato in misura così massiccia le loro quote nei fondi monetari statunitensi, rei di detenere obbligazioni e carta commerciale della Lehman, da rendere necessario il varo di un intervento pubblico di garanzia.
Nella settimana successiva al fallimento della Lehman, è precipitata la situazione della AIG. Oltre a essere un leader del proprio settore tradizionale, la AIG deteneva una posizione dominante nel mercato internazionale dei CDS, sorti per offrire un’assicurazione sui crediti concessi, e trasformatisi in strumenti speculativi sulle probabilità di insolvenza dei debitori e in espedienti per mascherare la rischiosità degli attivi e ridurre così i requisiti patrimoniali delle banche. Di conseguenza, la AIG aveva spesso agito come un’investment bank o un hedge fund, e si trovava al centro di una ragnatela di rapporti ad alto rischio con moltissimi intermediari finanziari statunitensi ed europei.
È probabile che il fallimento della AIG avrebbe annullato gli effetti di buona parte degli aumenti di capitale effettuati dal settore bancario dalla fine del 2007, e avrebbe affossato il mercato finanziario europeo. Qui non s’intende, quindi, porre in dubbio l’opportunità del salvataggio pubblico di questa compagnia, ma la sua modalità. La Fed ha concesso alla AIG un prestito biennale di 85 miliardi di dollari al tasso dello 8,5% al di sopra del Libor, assumendo come garanzia tutte le attività della società destinate a essere parzialmente cedute; contestualmente, il dipartimento del Tesoro ha acquisito quasi l’80% delle quote azionarie della AIG. Il governo statunitense ha inoltre garantito un’apertura di credito pressoché illimitata alla Fed, in modo da evitare che la crescente concessione di prestiti coperti da attività di dubbio valore potesse comprometterne gli equilibri di bilancio. In tal modo, nonostante il Federal reserve act (v. supra: Il passaggio alla seconda fase della crisi), le autorità hanno leso almeno due regole. La Fed, che – seppure in ritardo – aveva esteso le proprie competenze alle banche d’investimento, è intervenuta su un attore di mercato estraneo alla sua vigilanza. Di fatto, ha poi finanziato l’acquisizione di quell’attore da parte del Tesoro, e ha accettato una dipendenza finanziaria dal governo, compromettendo così la separazione fra autorità di vigilanza e autorità politica.
Seguendo di pochi giorni la scelta di abbandonare la Lehman al suo destino, le forme del salvataggio della AIG hanno reso evidente – negli Stati Uniti – l’impossibilità di continuare a seguire una politica arbitraria del caso per caso. In Europa, le due vicende hanno invece reso evidente che i bilanci di molte banche britanniche e di alcune banche continentali accusavano leverages maggiori di quelli delle banche statunitensi, ed erano gravati da elevati costi di raccolta e dalla crescente rischiosità dei loro attivi. Fra la fine del settembre e i primi giorni dell’ottobre 2008, hanno sfiorato il fallimento il settore bancario islandese, le maggiori banche irlandesi, i più importanti gruppi bancari del Benelux, svariati intermediari britannici, alcune banche tedesche e francesi. Non è quindi sorprendente che sia negli Stati Uniti sia nei Paesi dell’Unione Europea si sia aperta una nuova fase della crisi (la terza), caratterizzata dai tentativi di varare sistematici piani pubblici d’intervento.
I programmi pubblici statunitensi
La prima mossa è stata del dipartimento del Tesoro che, a ridosso del salvataggio della AIG (19 settembre), ha presentato una stringata e preliminare formulazione di quello che sarebbe diventato il Troubled assets relief program (TARP). Dopo varie vicissitudini parlamentari, il TARP è stato infine varato il 3 ottobre 2008, nell’ambito dell’Emergency economic stabilization act, con una dotazione di 700 miliardi di dollari (250 subito disponibili, 100 nella disponibilità del Presidente e 350 subordinati all’approvazione del Congresso), da destinare all’acquisto, mediante ‘aste inverse’ (reverse auctions), delle attività ad alto rischio e illiquide che stavano minando le fondamenta del settore finanziario del Paese. Questa prima versione del TARP si è però rivelata ingestibile, per varie ragioni. Innanzitutto, pur vincolando temporalmente le attività acquistabili dal governo, essa non ne limitava con precisione né i tipi né gli emittenti. Inoltre, il ricorso alle aste inverse permetteva di ottenere un adeguato meccanismo di determinazione dei prezzi di equilibrio per quelle attività solo a condizione di raggrupparle in classi omogenee (Ausubel, Cramton 2008); ma la sconfinata tipologia di tali attività rendeva una simile classificazione pressoché impossibile, cosicché le aste avrebbero rischiato di fissare prezzi troppo bassi per talune attività, con incongrui aggravi per i bilanci di intermediari già in difficoltà, e prezzi troppo alti per altre attività, con eccessive assunzioni di rischi (non garantiti) da parte dello Stato. Infine, la pulizia dei bilanci degli intermediari statunitensi da queste attività avrebbe comportato esborsi eccedenti la dotazione finanziaria del programma e, in ogni caso, decisamente più elevati di quelli richiesti da un intervento alternativo: la ricapitalizzazione degli intermediari in difficoltà.
Anche a seguito delle iniziative intraprese dai Paesi dell’Unione Europea (v. oltre: Gli interventi pubblici europei), a metà ottobre il governo statunitense ha così deciso di utilizzare gran parte dei 350 miliardi disponibili del TARP per varare un nuovo intervento a favore delle banche che ne facessero richiesta: il Capital purchase program (CPP), incentrato sull’acquisto da parte del Tesoro di azioni privilegiate senza scadenza e senza diritti di voto – almeno per la gestione ordinaria – e sull’acquisto di warrants con un ammontare massimo di 25 miliardi di dollari per ogni intermediario. Gli intermediari hanno il diritto di rimborsare tali azioni a partire dal terzo anno o – prima di quella data – di sostituirle con una ricapitalizzazione privata con almeno il 25% di azioni ordinarie; nel frattempo, si impegnano a corrispondere al Tesoro un dividendo del 5% nei primi 5 anni e del 9% negli anni successivi. Inoltre, queste stesse banche devono accettare regole di governance: schemi di remunerazione e di incentivo non legati a rischi eccessivi, reversibilità dei bonus connessi a operazioni fallimentari, vincoli alle buonuscite per il top management. Grazie a deroghe normative, i regolatori autorizzano gli intermediari a computare le azioni privilegiate nel loro coefficiente Tier 1 –, ossia nel rapporto fra il patrimonio di base e le attività ponderate per il rischio. Una robusta moral suasion ha spinto nove fra i maggiori intermediari statunitensi (BOA, Merrill Lynch, J.P. Morgan, Citigroup, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of New York, State Street) ad accedere subito al CPP, per un totale di 125 miliardi di dollari. Dalla metà del novembre alla metà del dicembre 2008, hanno fatto ricorso al CPP altre 106 banche più piccole, per un impegno statale totale di 43,7 miliardi di dollari.
Al CPP è stato inoltre associato un intervento (il Systematically significant failing institutions program, SSFIP), privo del limite massimo di 25 miliardi per operazione, destinato – in forma obbligatoria – a intermediari sull’orlo del fallimento, incapaci di reperire fondi liquidi privati e con diretti o indiretti effetti di contagio. Si sono inoltre rafforzate le garanzie pubbliche sui depositi bancari, e si sono destinate risorse per l’attuazione di politiche di lungo termine di riduzione fiscale. Il SSFIP è stato utilizzato per modificare i termini del salvataggio statale della AIG, la quale, nelle settimane precedenti, si era rivelata incapace di far fronte agli impegni assunti mediante cessioni di rami d’azienda, e aveva ottenuto un nuovo prestito dalla Fed per 37,8 miliardi. Il Tesoro ha investito nella AIG 40 miliardi, sottoscrivendo nuove azioni privilegiate senza diritti di voto e con dividendo pari al 10%. Tale investimento ha così permesso di ridurre il primo prestito, concesso dalla Fed, da 85 a 60 miliardi, e di estenderlo a cinque anni con una riduzione del suo tasso al 3% sopra il Libor; inoltre, esso si è accompagnato a un ulteriore prestito di 22,5 miliardi da parte della Fed a favore di una nuova compagnia, parzialmente finanziata e garantita dalla AIG e destinata ad acquistare RMBS (Residential Mort-gage-Backed Securities) detenute dalla stessa AIG.
Dapprima, le iniziative esaminate sono parse tamponare il panico. La successiva reazione dei mercati finanziari è stata però negativa, in quanto il venir meno del promesso acquisto pubblico delle attività ad alto rischio ne ha ulteriormente accresciuto l’illiquidità. Così, nella settimana fra il 17 e il 21 novembre 2008, vi è stato un tracollo nella quotazione azionaria delle maggiori banche statunitensi. Di fronte a queste emergenze, e in particolare al rischio del fallimento della Citigroup, che avrebbe determinato il collasso dei mercati finanziari, alla fine del novembre 2008 il dipartimento del Tesoro, la Fed e l’ente preposto all’assicurazione dei depositi (Federal deposit insurance corporation, FDIC) hanno varato altri due programmi.
Il primo (Targeted investment program, TIP) è stato disegnato in funzione del salvataggio della Citigroup. Dopo aver scartato un intervento di sostanziale nazionalizzazione simile a quello della AIG, il TIP ha previsto per la Citigroup: un nuovo investimento da parte del Tesoro di 20 miliardi (finanziato dai fondi TARP) per l’acquisto di azioni privilegiate (con dividendo pari allo 8%) e di warrants; una garanzia pubblica sul 90% delle perdite, eccedenti la prima tranche di 29 miliardi, coperta per la seconda tranche di 5 miliardi da fondi TARP, per la terza tranche di 10 miliardi dalla FIDC e per la tranche rimanente dalla Fed. Po-sto che la Citigroup ha in bilancio più di 300 miliardi in titoli illiquidi, l’aspettativa è che tale garanzia pubblica abbia costi potenziali per circa 75 miliardi. A fronte di questi aiuti, la Citigroup è sottoposta ai vincoli nel trattamento del top management previsti dal TARP, e al pagamento di dividendi non superiori a 0,01 dollari per azione.
Il secondo programma (Term asset-backed securities loan facility, TALF) è stato varato dalla Fed e dal dipartimento del Tesoro. Esso è stato inizialmente finanziato con 20 miliardi, tratti dai precedenti piani statali di intervento, che dovrebbero permettere alla Fed una leva di 200 miliardi per finanziare, nei primi mesi del 2009, l’acquisto di ABS garantite da crediti a rischio elevato, e di crediti garantiti dall’agenzia federale per le piccole imprese (Small business administration). La Fed dovrebbe inoltre acquistare titoli garantiti dalla Fannie Mae e dalla Freddie Mac o da istituti analoghi (per una somma pari a 600 miliardi). Si è così rafforzato il coinvolgimento pubblico per il salvataggio della Fannie e della Freddie, le quali si sono dovute impegnare a un più drastico processo di riduzione delle ABS in portafoglio. In questo modo, le autorità statunitensi hanno cercato di allentare i vincoli di liquidità nei mercati finanziari e di sostenere il comparto immobiliare.
Gli interventi pubblici europei
Mentre il governo statunitense si dibatteva nella propria impotenza, ridefinendo ripetutamente i suoi piani d’intervento, dalla prima metà dell’ottobre 2008 l’Europa ha reagito al contagio del fallimento della Lehman coordinandosi su tre obiettivi: la tutela dei risparmiatori, la ricapitalizzazione statale degli intermediari e le garanzie pubbliche su parte delle attività illiquide e ad alto rischio. Dopo le prime reazioni nazionali o concordate solo fra Paesi contigui in risposta alle emergenze di grandi intermediari (per es. Dexia, Fortis, ING), le riunioni dell’Ecofin (7 ottobre) e dell’Eurogruppo (12 ottobre) hanno infatti definito principi comuni d’intervento. Si è innanzitutto stabilito che non si sarebbe lasciato fallire nessun intermediario che fosse in grado di produrre effetti contagio all’interno del mercato europeo; e che, a questo scopo, i singoli Stati avrebbero potuto acquistare attività finanziarie e garantire le passività bancarie non subordinate emesse fino alla fine del 2009 e con scadenza al più quinquennale. In particolare, si è estesa la garanzia pubblica sui depositi bancari a 50.000 euro o, come ha poi fatto la maggior parte dei Paesi europei, a 100.000. Si è inoltre introdotta la possibilità di acquisti statali di azioni privilegiate o di strumenti ibridi emessi da banche in situazione non problematica, al fine di sostenere i finanziamenti a favore dell’economia reale; si è aggiunto che, per limitare l’impatto distorsivo di tali aiuti pubblici, i singoli Stati avrebbero dovuto garantirne l’accesso a tutte le banche operanti nel mercato nazionale e avrebbero dovuto fissare condizioni fra loro omogenee e approvate dalla Commissione europea. Infine, anche per evitare un rafforzamento asimmetrico degli intermediari ricapitalizzati e connessi effetti anticoncorrenziali degli aiuti pubblici, si è caldeggiato un forte coordinamento fra autorità nazionali di vigilanza e di regolamentazione specie nel caso di intermediari transnazionali.
Diversamente da quanto auspicato da alcuni Paesi (in primis la Francia), questi principi condivisi non sono stati la premessa per varare un piano europeo, e non hanno di conseguenza impedito specificità nazionali (Barucci, Magno 2009). Tuttavia, data la modestia del bilancio dell’Unione Europea e l’organizzazione della vigilanza su base nazionale, l’ipotesi di emissioni obbligazionarie in euro volte a finanziare interventi comuni (anche se con imputazione nazionale ex post delle eventuali perdite) appariva un po’ velleitaria. Fatto è che, al G7 tenutosi a metà ottobre 2008, i due obiettivi europei di tutela dei risparmiatori e di ricapitalizzazione degli intermediari sono diventati le guidelines anche per gli interventi pubblici negli Stati Uniti e nell’area asiatica.
Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo che ha attuato piani organici di intervento, gestiti dal governo, dalla Banca d’Inghilterra e dall’autorità unica di vigilanza (Financial services authority, FSA). Dapprima esso ha rafforzato con una dotazione di 200 miliardi di sterline il programma di swap (con durata fino a tre anni) fra attività illiquide (iscritte nel bilancio degli intermediari con adeguata capitalizzazione) e titoli di Stato che era già stato lanciato nell’aprile del 2008. All’inizio dell’ottobre 2008, il Regno Unito ha poi varato tre nuovi programmi. Il Banking bill ha autorizzato le acquisizioni pubbliche di attività delle banche o di altri intermediari in grave difficoltà, sotto il vincolo di cedere tali attività sul mercato entro un anno, dopo le necessarie ristrutturazioni. Il Credit guarantee scheme (CGS) ha consentito al governo di offrire garanzie (per un massimo teorico di 250 miliardi) su un insieme di strumenti di debito delle sette maggiori banche e della più grande società di credito ipotecario, nonché di altri intermediari richiedenti con adeguata capitalizzazione o con concreta possibilità (pubblica o privata) di ricapitalizzazione; il costo delle garanzie è stato fissato dalla somma fra lo 0,5% e lo spread medio annuale sui CDS a cinque anni di ognuno degli intermediari coinvolti. Infine, il Piano di ricapitalizzazione ha autorizzato un ente, di proprietà del Tesoro, a sottoscrivere azioni privilegiate (con dividendo del 12%) o altre forme di nuovo capitale degli stessi intermediari, ammessi o ammissibili al CGS, per un ammontare massimo di 50 miliardi, nel caso di assenza di alternative private. Questo piano persegue il fine di rafforzare il Tier 1 del settore bancario e sostenere i finanziamenti all’economia reale. L’adesione a esso da parte degli intermediari, che è volontaria, pone vincoli di governance (specie in termini di retribuzioni del top management) e vieta il pagamento di dividendi sulle azioni in mano ai privati; dopo cinque anni, i beneficiari possono però decidere di riassorbire le azioni in mano pubblica. Le intenzioni del governo e della Banca d’Inghilterra erano di destinare subito 25 miliardi alla ricapitalizzazione delle sette maggiori banche e della più grande società di credito ipotecario. In realtà, si sono visti costretti a utilizzare ben 37 miliardi per i salvataggi della RBS (20 miliardi, allocati per tre quarti in azioni ordinarie e per un quarto in azioni privilegiate) e del nuovo gruppo nato dalla fusione fra la Lloyds TSB e la HBOS (17 miliardi). Le due operazioni hanno fissato intorno al 60% la quota statale nel capitale della RBS, e al 43% quella nel capitale del costituendo gruppo Lloyds-HBOS. Il conseguente tracollo nelle quotazioni di queste due banche ha spinto le altre tre più importanti a non aderire al piano. Così la Abbey ha preferito ricorrere al sostegno finanziario della sua banca controllante (la spagnola Santander), la HSBC ha deciso di non intervenire sul proprio patrimonio, e la Barclays ha riservato l’aumento di capitale per 5,8 miliardi a una parte dei suoi azionisti e ad altri investitori a essa collegati (un fondo sovrano e investitori privati del Qaṭar e di Abū Ẓabī), scatenando la reazione critica degli azionisti istituzionali esclusi. Peraltro, la Barclays ha utilizzato il CGS.
Anche l’Italia è stata sollecita nell’assumere iniziative legislative, tanto che fin dalla prima metà di ottobre ha varato due decreti legge per il sostegno pubblico dei gruppi bancari in difficoltà e per la concessione di garanzie statali su un ampio spettro di passività bancarie. Come nel caso della successiva iniziativa per la ricapitalizzazione statale dei maggiori gruppi bancari in situazione di solvenza e di piena operatività, tali decreti hanno tuttavia subito pesanti ritardi di realizzazione. All’inizio del 2009, nessuno degli interventi previsti si era ancora tradotto in un piano effettivo. Questo ritardo non ha però prodotto conseguenze negative sulla stabilità del settore bancario nazionale grazie al fatto che le banche italiane sono specializzate in attività tradizionali e hanno, quindi, avuto una minore esposizione ai titoli ad alto rischio e a bassa liquidità.
A metà dell’ottobre 2008, la Germania ha invece varato un fondo (Sonderfonds Finanzmarktstabilisierung, SoFFin) per realizzare interventi statali nel settore finanziario. Essa ha impegnato la somma teorica di 400 miliardi di euro come garanzia per i prestiti interbancari e per altre passività bancarie con scadenza massima a tre anni ed emesse entro il 2009; ma, fondandosi su un’aspettativa del 5% di default, ha iscritto effettivamente nel bilancio pubblico 20 miliardi. Ha poi destinato 5 miliardi all’acquisto di attività illiquide detenute dagli intermediari; e 80 miliardi per la sottoscrizione pubblica di azioni ordinarie o privilegiate o di strumenti ibridi con diritti sull’azionariato (facenti, comunque, parte del Tier 1). Gli intermediari che aderiscono alla ricapitalizzazione pubblica sono sottoposti a vincoli: i dividendi possono essere pagati soltanto allo Stato, le remunerazioni annue non devono eccedere i 500.000 euro lordi, le scelte strategiche devono comprendere progetti a favore delle piccolo-medie imprese. Nonostante tali restrizioni, molte banche hanno chiesto di accedere al programma di ricapitalizzazione: la Bayern LB (per 5,4 miliardi) è stata seguita, ai primi di novembre, dalla Commerzbank (8,2 miliardi per la sottoscrizione di azioni senza diritti di voto; 15 miliardi di garanzie pubbliche), dalla West LB e dalla HSH Nordbank. Il maggior impegno del governo tedesco, coadiuvato da un gruppo di banche, ha però riguardato il salvataggio della Hypo Real Estate, che ha ottenuto prestiti per un valore complessivo di circa 50 miliardi e garanzie per 60 miliardi.
L’altro grande Paese dell’Europa continentale che, intorno alla metà di ottobre, ha realizzato uno spettro di interventi in linea con le indicazioni dell’Unione Europea è stata la Francia. Lo Stato ha fornito una garanzia di 40 miliardi di euro sui titoli emessi da un ente statale (Société de prises de participation de l’État, SPPE) per poter ricapitalizzare banche in grave difficoltà (per es. Dexia). Inoltre, grazie a un impegno (teorico) di 320 miliardi, le autorità hanno assicurato una garanzia sulle nuove emissioni obbligazionarie degli intermediari finanziari. Infine, esse hanno allocato 10,5 miliardi per fornire una garanzia statale sui titoli, emessi dalla SPPE al fine di sottoscrivere obbligazioni ibride perpetue e con privilegi nel caso di fallimento, che le sei maggiori banche del Paese sono state invitate a emettere. Tali obbligazioni subordinate, che fanno parte del Tier 1 dell’intermediario, sono liquidabili dagli emittenti a partire dal quinto anno. Esse comportano sia la sottoscrizione di un codice etico sia, nei primi cinque anni, oneri fissi (determinati in base a vari parametri e pari, in media, al 4% al di sopra del rendimento dei titoli di Stato) e, negli anni successivi al quinto, oneri variabili.
Il coordinamento della policy
Grazie a interventi quali quelli descritti nel precedente paragrafo, i Paesi dell’Unione Europea hanno predisposto un’ancora di salvataggio per i loro intermediari sull’orlo del fallimento, e hanno spinto le loro maggiori banche in situazione non critica a rafforzare il grado di patrimonializzazione e, in particolare, il coefficiente Tier 1. Come si è già accennato, tale strategia ha influito sui piani statali di intervento degli altri Paesi economicamente avanzati. Del resto, pur senza incidere su persistenti differenze di fondo, si è verificato un raccordo ancora più rapido e stretto fra Paesi europei, Stati Uniti e Paesi asiatici sul terreno della gestione della liquidità e della politica monetaria, e su quello degli interventi di regolamentazione.
Il precipitare della crisi finanziaria dopo il fallimento della Lehman, che si è soprattutto manifestato con il verificarsi di picchi nei tassi overnight del mercato interbancario, ha spinto le autorità monetarie ad accrescere i rifinanziamenti agli intermediari e a rendere più permissive le politiche di tasso. Le principali banche centrali si sono coordinate per immettere subito ingenti flussi di liquidità nei mercati internazionali. La Fed ha intensificato ed esteso gli swaps fra i titoli di Stato nel suo portafoglio e le attività ad alto rischio, detenute dalle banche; la BCE ha modificato alcune regole, di modo che ogni operazione di rifinanziamento è stata effettuata a tassi fissi d’interesse e senza limiti di offerta. Inoltre, l’8 ottobre 2008, per la prima volta nella loro storia, tutte le banche centrali dei Paesi economicamente avanzati hanno deciso di abbassare simultaneamente di mezzo punto i tassi di riferimento. Il risultato è stato che alla metà di ottobre, nonostante il permanere di strozzature nella liquidità, vi è stato un primo allentamento delle tensioni sul mercato interbancario, con un significativo ribasso nel tasso Euribor a tre mesi. La discesa dei tassi di policy è proseguita nelle settimane successive. La Fed ha abbassato il proprio tasso di riferimento, a fine ottobre, allo 1% e, a metà dicembre, entro un corridoio compreso fra lo 0% e lo 0,25%; la BCE ha tagliato due volte il proprio tasso fra l’inizio di ottobre e l’inizio di novembre, portandolo al 3,25%, e lo ha ulteriormente abbassato al 2,50% all’inizio di dicembre.
D’altro canto, il precipitare della crisi ha spinto le autorità di politica economica e gli estensori delle regole contabili IAS negli Stati Uniti e nell’Unione Europea a rimuovere alcuni principi cardine della redazione degli attivi di bilancio al mark to market o al fair value, così da evitare che perdite bancarie al momento virtuali aggravassero i processi di deleveraging e causassero un’ulteriore caduta nel prezzo delle attività finanziarie ad alto rischio e a bassa liquidità. L’indubbia prociclicità del metodo del fair value avrebbe, infatti, aumentato la probabilità di una ‘deflazione da debito’, ossia l’innescarsi di un circolo vizioso fra vendita a basso prezzo di attività fortemente illiquide, perdite bancarie con caduta dei finanziamenti, diminuzione nel livello generale dei prezzi ed elevata propensione alla liquidità (I. Fisher, The debt-deflation theory of great depressions, «Econometrica», 1933, 1, pp. 337-57; Adrian, Shin 2008). L’acuirsi del deleveraging dopo il caso Lehman ha poi indotto le autorità di regolamentazione dei mercati finanziari a vietare temporaneamente le ‘vendite allo scoperto’ (short selling), così da evitare che queste ultime potessero alimentare speculazioni ribassiste in mercati azionari già in caduta e si concentrassero – specie a causa del principio del mark to market – sui titoli più liquidi.
Pur se comprensibili, le decisioni di rimuovere parzialmente i principi del mark to market e di vietare temporaneamente le vendite allo scoperto hanno rischiato di introdurre ulteriori elementi di distorsione nei flussi informativi e nel grado di trasparenza di mercati in grave difficoltà. Inoltre, dando legittimità a unilaterali cambiamenti delle regole, esse hanno incentivato comportamenti opportunistici, incidendo negativamente sulla già bassa fiducia degli investitori. Infine, la prima iniziativa sembra aver dimenticato che il principio del mark to market è uno strumento di misura e non costituisce la causa del fenomeno misurato; e non ci si è chiesto perché tale principio prociclico venga posto in discussione solo quando accentua le cadute di mercato e non anche quando trasforma le espansioni in ‘bolle’. La seconda iniziativa sembra invece aver dimenticato il fatto che le vendite allo scoperto, eliminando possibili asimmetrie fra rialzisti e ribassisti, rendono più completi i mercati finanziari e limitano il rischio di sistematici aumenti nel prezzo dei titoli.
Conclusioni
I tentativi statali di attuare programmi sistematici e le nuove regole introdotte rispetto al fair value e alle vendite allo scoperto, che hanno caratterizzato la terza fase della crisi finanziaria negli Stati Uniti e nei Paesi dell’Unione Europea, non sembrano essere stati risolutivi. In particolare: le generose ricapitalizzazioni statali dell’ultimo trimestre del 2008 hanno certamente contribuito ad allentare i vincoli di liquidità in alcuni segmenti di mercato e ad arginare la stretta creditizia, ma, se valutate in termini di riequilibrio dei bilanci degli intermediari, sono state parzialmente vanificate dalla progressiva svalutazione dei loro attivi e dalla caduta dei mercati azionari.
Come suggerito in più occasioni da Luigi Spaventa (2008), qualsiasi ricapitalizzazione statale rischia di essere inefficace se non si accompagna alla ‘pulizia’ di questi attivi mediante la fissazione di un pavimento al prezzo dei titoli problematici iscritti nei bilanci bancari. Ciò mette in luce un problema che dovrà essere affrontato, in via prioritaria, nei prossimi interventi di policy: l’emersione e la valutazione dei titoli problematici detenuti dalle banche e dagli altri intermediari statunitensi ed europei.
Vi è però un secondo problema di medio periodo, non riconducibile alla revisione dei principi contabili: la definizione di nuove regole che diminuiscano le probabilità del ripetersi di shock economici e sociali paragonabili a quello attuale. Il precedente esame delle trasformazioni che la crisi sta introducendo nel sistema bancario internazionale ha lasciato sullo sfondo tale problema. La giustificazione è che, al riguardo, vi è stato assai poco di concreto. Del resto la scelta di non procedere a una riforma della regolamentazione finanziaria nel pieno di una crisi così profonda è, per molti versi, condivisibile: nel breve termine, il varo di nuove regole potrebbe peggiorare l’andamento di mercati ancora sottoposti a forti tensioni e squilibri, innescando effetti a catena difficilmente prevedibili e controllabili. Basti considerare, al riguardo, l’esigenza largamente condivisa di imporre alle banche più severi vincoli di leverage. Se questa regola fosse introdotta immediatamente, essa aggraverebbe quei processi di disordinato deleveraging che hanno portato al precipitare della crisi e che ancora condizionano l’andamento dei prestiti bancari.
Le considerazioni appena svolte non significano che la discussione analitica e la predisposizione delle innovazioni regolamentari debbano essere rimandate al dopo crisi. Onde evitare che gli insegnamenti degli ultimi venti mesi vadano dispersi e che le risposte vengano sacrificate sull’altare della continuità, bisogna anzi saper utilizzare la persistenza della crisi finanziaria e reale per preparare in tempi brevi nuove regole, in modo da renderle operative al momento della ripresa economica. Il lavoro svolto da vari mesi dal FSF e le diverse iniziative varate di recente a livello europeo e statunitense mostrano che si sta facendo strada la consapevolezza di quanto sia urgente e necessario affrontare il problema di una rinnovata regolamentazione dei mercati finanziari. Non è difficile, infine, prevedere che si tratterà di uno degli argomenti cruciali di discussione nel 2009.
Risulta impossibile approfondire, in sede di conclusioni, un tema così rilevante e complesso. Sia quindi sufficiente sottolineare pochi punti. Come si è ribadito nei precedenti paragrafi, la degenerazione del modello OTD ha creato segmenti di mercato privi di regole, che hanno incentivato arbitraggi regolamentari; per giunta, essendo incapaci di cogliere le novità e trovandosi in una fase di passaggio verso nuovi modelli di regolamentazione (Basilea 2), le autorità di vigilanza non hanno saputo adattare a tali segmenti le norme prudenziali disponibili, e le altre autorità di regolamentazione non hanno saputo sanzionare i comportamenti devianti e le distorsioni di mercato. Ne deriva quindi l’esigenza di rendere più rapida, per il dopo crisi, la comprensione che le autorità di vigilanza e di regolamentazione hanno dell’impatto esercitato dalle innovazioni organizzative e di prodotto sul funzionamento dei mercati finanziari. Questo dovrebbe anche limitare la convenienza, per gli attori di mercato, di adottare comportamenti opportunistici simili a quelli che hanno innescato e dilatato la crisi in corso.
La prima esigenza sollecita il rafforzamento della macroregolamentazione: la crescente integrazione fra le varie tipologie di banche e fra i diversi segmenti di mercato e la maggiore correlazione dei relativi rischi rendono inefficaci, se non distorsivi, interventi di vigilanza o di regolamentazione riferiti ai soli effetti specifici e non anche a quelli aggregati. Un’efficiente macroregolamentazione richiede, però, almeno due condizioni: le autorità che agiscono a livello nazionale o in specifiche aree economiche non devono essere eccessivamente parcellizzate (come avviene oggi negli Stati Uniti o in alcuni Paesi dell’Europa continentale, compresa l’Italia); le loro attività vanno coordinate a livello internazionale.
Queste due condizioni sono cruciali anche per la microregolamentazione, che funge da essenziale complemento della macroregolamentazione. Inoltre, come sostenuto fin dalle prime raccomandazioni del FSF (2008), la normativa prudenziale, i compiti delle autorità di politica monetaria, la trasparenza bancaria, le forme di vigilanza, l’attività delle agenzie di rating non devono essere modellate sulla logica di una rincorsa fra innovazioni finanziarie e regole. Una logica del genere porrebbe i regolatori in una posizione di strutturale ritardo, e li condannerebbe a una continua e vana rincorsa. Si tratta, quindi, di definire un difficile e mutevole equilibrio fra norme e discrezionalità. Le autorità di vigilanza e di regolamentazione non vanno costrette ad applicare norme codificate (e inevitabilmente vecchie) in mercati che sono in rapido mutamento, perché ciò forzerebbe verso un ritorno al passato e la censura di ogni innovazione; esse non vanno neppure investite di poteri di tipo discrezionale, che spingerebbero verso una politica del ‘caso per caso’ inevitabilmente contraddittoria. La scommessa è invece di offrire ai regolatori uno spettro di strumenti rigorosi ma flessibili, che aiutino a comprendere, monitorare e verificare il funzionamento e l’evoluzione dei mercati.
Se la peggiore crisi finanziaria dopo quella degli anni Trenta sfociasse davvero in una regolamentazione più rigorosa, in intermediari finanziari più orientati a obiettivi di medio-lungo periodo e in mercati meno distorti, essa e la successiva recessione non si sarebbero verificate invano, perché potrebbero consegnarci sistemi economici meno squilibrati e rapporti sociali più equi.
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