Trasformismo
Il termine 'trasformismo' entrò nel linguaggio politico italiano tra la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire, con chiara connotazione polemica, la politica inaugurata in quel periodo dall'allora presidente del Consiglio Agostino Depretis. Per la verità il vocabolo traeva origine da un'espressione pronunciata dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella l'8 ottobre 1882, nell'imminenza delle prime elezioni politiche a suffragio 'allargato', che si sarebbero tenute di lì a due settimane. In risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui stipulati in campagna elettorale con la Destra di Marco Minghetti e lo accusavano di aver così snaturato il programma della Sinistra, Depretis si giustificava con una frase destinata a restare celebre: "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?" (cit. in Candeloro, 1970, p. 161).
Non era la prima volta che il presidente del Consiglio si esprimeva in questi termini. Esattamente sei anni prima, e sempre a Stradella, nel corso della campagna elettorale del 1876, Depretis aveva esplicitamente invocato "quella concordia, quella feconda trasformazione dei partiti" che sola avrebbe consentito la formazione di una "salda maggioranza". In quello stesso discorso, però, il leader della Sinistra aveva contraddittoriamente ricondotto la portata del suo appello entro i termini di quello che oggi definiremmo un accordo bipartisan, facendo riferimento alla "concordia delle due grandi parti politiche che devono alternarsi al potere" (cit. in De Mattei, 1941, p. 9). E del resto l'esito trionfale delle discusse elezioni del 1876 avrebbe garantito alla Sinistra una maggioranza non solo salda, ma addirittura schiacciante, rendendo superflua qualsiasi ipotesi di accordo con l'opposizione. Nel 1882, invece, ogni accenno all'alternanza era scomparso, mentre si dava per scontata la convergenza dei moderati sulle posizioni 'progressiste' che Depretis aveva sempre rivendicato come sue.
In realtà, da questo punto di vista, le parole del presidente del Consiglio contenevano una buona dose di insincerità. Che gli uomini della Destra moderata (o almeno quelli che si riconoscevano nelle posizioni di Minghetti) si fossero trasformati, o si stessero trasformando, in progressisti era affermazione quanto meno opinabile. Minghetti era lo stesso uomo politico che, poco meno di dieci anni prima (nel 1873), da capo del governo aveva proposto al Depretis allora capo dell'opposizione un accordo 'centrista' in tutto e per tutto simile a quello che poi si sarebbe realizzato a parti invertite nel 1882. Il leader della Sinistra, che pure non era alieno da simili prospettive e non era nemmeno nuovo a combinazioni politiche 'trasversali' (aveva fatto parte per due volte di governi a guida moderata), aveva allora rifiutato la proposta, privilegiando l'esigenza di tenere unita la sua parte politica in vista di una prossima ascesa al potere; e i fatti gli avrebbero dato ragione. La diversa scelta operata da Minghetti nel 1882 era motivata in parte dalle preoccupazioni suscitate dalla appena varata riforma elettorale circa la possibile irruzione nell'arena parlamentare di forze non legittimate (preoccupazioni comuni, come vedremo, a larga parte della Sinistra di governo), in parte dalla presa d'atto del carattere irreversibile della sconfitta subita con la cosiddetta 'rivoluzione parlamentare' del marzo 1876 e più ancora con le elezioni dell'ottobre di quell'anno: non era certo, dunque, il risultato di una significativa evoluzione politico-ideologica.
A subire un'evoluzione in senso opposto, e dunque in qualche misura a 'trasformarsi', erano stati piuttosto gli uomini della Sinistra moderata. Chiusasi, con la formazione nel maggio 1881 del quarto ministero Depretis, la parentesi progressista dei governi Cairoli, esauritasi, con l'approvazione della nuova legge elettorale, la stagione delle riforme, gli eredi della Sinistra risorgimentale apparivano soprattutto preoccupati di rafforzare le loro basi di consenso e di garantire al tempo stesso la solidità delle istituzioni nel segno di un liberalismo moderato non molto diverso, nella sostanza, da quello dei loro antichi rivali. Ad accentuare le loro preoccupazioni contribuivano da un lato le sempre più visibili manifestazioni di un nuovo dissenso politico e sociale (non solo di ispirazione radical-repubblicana, ma anche di matrice socialista) che stava trovando proprio allora nuove e più definite forme organizzative, dall'altro le possibili conseguenze della riforma elettorale che loro stessi avevano voluto e approvato dopo non pochi tentennamenti (v. Romanelli, 1988). Una riforma che, pur essendo ispirata a un prudente gradualismo (legare il suffragio al requisito dell'istruzione primaria significava diluire in tempi molto lunghi l'accesso alle urne del grosso della popolazione), accresceva di tre volte il corpo elettorale e soprattutto lo mutava dal punto di vista qualitativo, rendendolo meno controllabile e minacciando di favorire, accanto alla sinistra moderata, anche una sinistra estrema ben radicata in alcuni strati della piccola borghesia e delle nascenti élites operaie.
Furono soprattutto queste preoccupazioni a rendere necessaria e urgente, agli occhi dei moderati di ambo le parti, un'operazione politica volta a superare gli schieramenti tradizionali (i cui confini peraltro non erano mai stati nettamente segnati e da molti anni ormai si andavano facendo sempre più incerti) e a dar vita così a una nuova grande maggioranza 'centrista', teoricamente inattaccabile e capace dunque di garantire l''area della legittimità' (v. Sabbatucci, 1990) dalle possibili incursioni delle forze antisistema, fin allora neutralizzate dalla stessa ristrettezza del suffragio. L'operazione, destinata a rivelarsi irreversibile e a segnare nel lungo periodo la storia della politica italiana, si attuò in effetti già nella campagna elettorale del 1882: grazie anche al meccanismo dei collegi plurinominali introdotto dalla nuova legge (che in teoria avrebbe dovuto moralizzare e spersonalizzare i termini della competizione), numerosi furono i casi di accordi fra Destra e Sinistra sul nome di uno o più candidati. La consacrazione ufficiale della nuova maggioranza si ebbe però nel maggio 1883, con la formazione del quinto ministero Depretis, ufficialmente appoggiato da una parte cospicua della vecchia Destra.
Non si trattò, peraltro, di un'operazione indolore. Anche a prescindere dalle accese polemiche che essa suscitò, soprattutto a sinistra (e dalle quali ebbe origine la stessa parola 'trasformismo'), l'alleanza Depretis-Minghetti accelerò in primo luogo il processo di individuazione e di separazione di una sinistra 'radicale' (che in realtà esisteva già da alcuni anni, ma non si poneva in netta soluzione di continuità con le componenti progressiste della Sinistra di governo). In secondo luogo provocò all'interno della stessa maggioranza una vasta dissidenza raccolta attorno a cinque fra i personaggi più prestigiosi della Sinistra storica: Crispi, Nicotera, Cairoli, Zanardelli e Baccarini. In realtà, nonostante la sua non trascurabile consistenza parlamentare, la cosiddetta 'pentarchia' non assunse mai il ruolo e la figura di una nuova ed efficiente opposizione: i suoi leaders erano infatti divisi da forti rivalità (Crispi faceva parte per se stesso e i progressisti settentrionali, Cairoli, Zanardelli e Baccarini, non avevano nulla in comune con un personaggio discusso come Nicotera) e tutt'altro che determinati a costituire un solido fronte comune in vista di un'alternativa di governo. Alternativa che sfumò definitivamente con l'ingresso (aprile 1887) di Crispi e Zanardelli nell'ottavo e ultimo ministero Depretis.
La fine del trasformismo 'storico' viene comunemente fatta coincidere con la morte di Agostino Depretis (luglio 1887) e con l'ascesa di Francesco Crispi alla Presidenza del Consiglio. E in effetti, da allora, la stessa espressione 'trasformismo' uscì dal linguaggio politico corrente. In realtà, pur tenendo conto delle cospicue differenze fra i due statisti, quanto meno nello stile di governo, proprio la successione 'interna' di Crispi, che ereditò dal suo predecessore sia la compagine ministeriale sia la maggioranza parlamentare, segnò la definitiva affermazione del modello trasformista in senso lato: di un modello, cioè, caratterizzato dalla presenza di una 'grande maggioranza' mobile e plastica, pronta a spezzarsi e a ricomporsi attorno alla figura di singoli leaders, non fondata su precise pregiudiziali di programma, ma ugualmente capace di monopolizzare l'area della legittimità costituzionale (e dunque di bloccare sul nascere qualsiasi alternativa di governo), relegando le opposizioni ai lati estremi e simmetrici dello schieramento parlamentare.
L'operazione politica avviata da Depretis nell'autunno 1882 aveva, come si è visto, scopi evidenti di stabilizzazione. Ciò non toglie che, almeno nelle intenzioni del suo principale promotore, essa si iscrivesse in una logica e in una cultura di segno positivista e moderatamente progressista. L'accenno di Depretis alla "trasformazione" non solo alludeva a una tendenza ormai in atto da molti anni, che mirava al superamento delle vecchie divisioni nel nome degli interessi nazionali (e vedeva infatti il continuo proliferare di 'centri-sinistri', di 'terzi partiti', di 'sinistre giovani' e via elencando), ma rinviava anche a un contesto lessicale e culturale in cui il termine 'trasformazione' (così come 'evoluzione') acquistava una connotazione implicitamente positiva (v. Bollati, 1983, p. XI).
Questa connotazione risultò capovolta nel passaggio al derivato 'trasformismo' che divenne subito sinonimo di politica senza principî, di amoralità, di sostanziale corruzione. Uno slittamento semantico comune a molti termini del linguaggio politico, in particolare al coevo 'opportunismo', calco del francese opportunisme, parola coniata per indicare una politica sostanzialmente analoga, sia nella pratica sia nelle motivazioni, a quella avviata in Italia da Depretis. Sembra che all'origine del termine vi fosse un riferimento all'abilità dei Gambetta e dei Ferry nello sfruttare le 'opportunità' a loro disposizione: il sostantivo 'opportunità' era dunque usato in senso positivo, mentre i derivati 'opportunismo' e 'opportunista' acquistarono subito, nel linguaggio degli oppositori radicali, il significato spregiativo che tuttora conservano.
Se 'opportunismo' è diventato un termine universale - ricorrente soprattutto nel linguaggio e negli schemi mentali del movimento operaio - quella di 'trasformismo' è invece rimasta una categoria tipicamente italiana. Una categoria che non solo è stata usata come chiave di lettura dell'intera storia politica unitaria (il che, come vedremo, è, almeno in parte, legittimo), ma addirittura, anche in analisi recenti e raffinate (v. Altan, 1989), è stata assunta a elemento cardine del carattere nazionale: il trasformismo come vizio italico, come segno di un'inclinazione, maturata attraverso i secoli, a non prendere troppo sul serio fedi e ideologie, ma anche, in positivo, come manifestazione di uno speciale talento applicato alla capacità di adattamento e di sopravvivenza. Italiano era del resto il più famoso trasformista di tutti i tempi: quel Leopoldo Fregoli, attore livornese nato nel 1867 e morto nel 1936, la cui specialità consisteva nel cambiare abito e trucco con prodigiosa rapidità. Il suo lungo e indiscusso successo sulle scene di mezzo mondo contribuì certamente alla fortuna del vocabolo e anche alla piegatura semantica che lo identificava in buona sostanza con l'abitudine a mutar casacca con disinvoltura: donde l'uso improprio dei termini trasformismo e trasformista in riferimento al passaggio di uomini o gruppi politici da uno schieramento all'altro.
L'interpretazione morale, o moralista, del trasformismo traeva in verità alimento da alcuni dati reali, relativi ai caratteri assunti dalla pratica di governo e dalla lotta politica in Italia dopo la svolta del 18821883. Il venir meno di ogni discriminante ideologica e programmatica fra i due maggiori schieramenti in campo (ossia la fine di quel sia pur imperfetto modello bipolare che aveva caratterizzato la scena parlamentare italiana nel primo ventennio postunitario) ebbe come effetti un visibile degrado del dibattito politico all'interno della 'grande maggioranza' costituzionale e il trasferimento delle funzioni proprie dell'opposizione a forze non pienamente legittimate (l'estrema radicale, repubblicana e poi socialista) oppure a gruppi eterogenei o marginali, pronti peraltro a rientrare alla prima occasione nel gioco delle combinazioni ministeriali (la pentarchia o l'ala più dura della vecchia Destra). La necessità per l'esecutivo - non più sorretto da una maggioranza in qualche modo precostituita - di costruirsi la sua base di consenso giorno per giorno, mediando fra gruppi di pressione e interessi locali, non giovò certamente alla qualità dell'azione di governo né alla trasparenza dei processi decisionali. La combinazione fra queste maggioranze e un apparato statale fortemente accentrato - elemento essenziale, quest'ultimo, della "formula trasformistica" (v. Vivarelli, 1991, vol. II, pp. 64-71) - esaltava l'intreccio triangolare fra i singoli deputati, il governo e una pubblica amministrazione da sempre poco portata a interpretare il suo ruolo in modo imparziale.
Questi fenomeni, che peraltro furono solo esaltati e non creati dalla prassi trasformistica (l'uso disinvolto degli apparati pubblici, ad esempio, era parte essenziale della pratica di governo della Destra storica), non vanno però considerati, in un'ottica essenzialmente deprecatoria, solo in quanto manifestazioni di malcostume e fomite di corruzione; né tanto meno possono essere ricondotti a un presunto carattere nazionale (categoria, quest'ultima, sfuggente quant'altre mai e già fortemente criticata da Croce). Essi erano invece la conseguenza di un determinato assetto istituzionale e il risultato di alcune precise scelte politiche. Scelte sicuramente opinabili e forse non coraggiose, ma non prive di motivazioni serie: in quel periodo la fedeltà alle istituzioni delle forze escluse dall'area della legittimità (estrema sinistra da un lato, cattolici dall'altro) era tutt'altro che scontata; e l'Italia, unificata da appena un ventennio, aveva un disperato bisogno di rispettabilità anche internazionale (il 1882 è non solo l'anno della riforma elettorale, ma anche quello della Triplice alleanza). Dunque, ciò che spingeva i moderati di ambo le parti a far blocco al centro era non tanto una smodata brama di potere, quanto un eccesso di prudenza. In altri termini, il trasformismo non nasceva da una connaturata inclinazione al compromesso dei politici italiani, ma era il portato della debolezza originaria dello Stato unitario, della fragilità delle istituzioni e della cronica esiguità delle loro basi di consenso. Non era il prodotto di un carattere nazionale, ma la risposta, forse sbagliata, a un problema reale.
Inteso in questo senso ampio, il trasformismo non fu, e non è, certamente un fenomeno solo italiano. Le sue origini si possono rintracciare nella teoria e nella pratica del juste milieu guizotiano ai tempi della Monarchia di luglio: un modello, questo, a cui, pur dandone un'interpretazione dinamica, si era già esplicitamente ispirato Cavour nel promuovere la politica del 'connubio'. A livello di teoria costituzionale, il trasformismo trovava una sorta di giustificazione preventiva nelle opere del giurista svizzero Johann Kaspar Bluntschli, autore nel 1869 di un fortunato trattato di politica in cui si sosteneva tra l'altro la necessità dell'unione fra i partiti medi, ossia conservatori e liberali, al fine di impedire la prevalenza di quelli estremi (reazionari e radicali) nella conduzione dello Stato. Tradotta negli anni settanta dell'Ottocento in Francia e in Italia, apprezzata e citata, non a caso, da Marco Minghetti (v., 1881), l'opera di Bluntschli esercitò una forte influenza in tutta Europa (v. Pombeni, 1994, p. 110) e fornì ulteriori argomenti ai sostenitori del governo di coalizione come alternativa al modello bipartitico tipico dei paesi anglosassoni (ma in verità non sempre funzionante in quel periodo nemmeno in Gran Bretagna).
Il principale campo di applicazione di queste teorie - e il più importante precedente del trasformismo depretisiano - va sicuramente individuato nella Francia degli esordi della Terza Repubblica: la cui nascita stessa - a partire dalla tribolata approvazione da parte dell'Assemblea Nazionale delle lois constitutionelles nel 1875 - si dovette a un accordo fra i 'centri' (monarchici orleanisti e repubblicani moderati), e la cui intera vita sarebbe stata poi segnata dal rapido succedersi di instabili governi di coalizione. La storia politica della Francia repubblicana conobbe, è vero, un dinamismo più pronunciato rispetto a quella dell'Italia liberale e consentì persino un blando simulacro di alternanza fra coalizioni a prevalenza conservatrice e alleanze a tinta progressista (si trattava però, appunto, di un simulacro, in quanto l'alternanza era dovuta più agli spostamenti dei gruppi in Parlamento che non ai verdetti elettorali). Ma i due sistemi politici funzionavano in modo molto simile. Analoghe erano, in primo luogo, le cause di fondo che, nei due paesi, facevano apparire praticamente obbligata la via dell'unione dei centri e che, riferendosi all'esigenza di tutelare le istituzioni dagli attacchi delle forze politiche estremiste (anche se in Francia le istituzioni da difendere e da consolidare erano quelle repubblicane), rinviavano implicitamente all'assenza, o all'insufficienza, di un patto originario largamente condiviso, di un quadro di legittimità comunemente accettato. Analoghe, nella sostanza, erano anche le conseguenze pratiche del modello adottato: mobilità delle maggioranze, instabilità degli esecutivi, scarsa trasparenza dei processi decisionali, corruzione politica favorita dall'assenza di quel fondamentale correttivo che è rappresentato dall'alternanza di governo per via elettorale (o dalla semplice possibilità che essa si verifichi).
In questo senso, il trasformismo italiano non merita né il giudizio assolutorio formulato nella sua Storia d'Italia da Benedetto Croce (v., 1928), il quale giungeva a negare al concetto ogni dignità di categoria politica, né le definizioni severe che, sulla scorta delle polemiche democratiche di fine Ottocento, ne hanno dato alcuni fra i maggiori esponenti della storiografia di questo dopoguerra: sia quelli di formazione marxista (v. Carocci, 1956 e 1992; v. Candeloro, 1970), che ne hanno messo in rilievo soprattutto i risvolti conservatori e immobilisti, sia quelli di formazione salveminiana (v. Vivarelli, 1991), che hanno insistito sui suoi effetti deleteri sul costume politico e sulla funzionalità delle istituzioni. In particolare, in un'ottica di comparazione con altre coeve esperienze europee, sembra eccessivo il giudizio formulato da Carocci (v., 1992, p. 10), uno dei più autorevoli studiosi del trasformismo: "una sottospecie degenerata della maggioranza di centro alla francese". È forse più corretto parlare della versione italiana - né particolarmente corrotta né specialmente virtuosa - di un modello di governo, e di sistema politico, affermatosi in molti regimi parlamentari europei del tardo Ottocento (non solo in Italia e in Francia) in alternativa a quello tendenzialmente bipartitico sviluppatosi nei paesi anglosassoni.
La notevole fortuna incontrata da questo modello va ricondotta in primo luogo alla lentezza e alla difficoltà del processo di impianto sul continente delle istituzioni parlamentari e, in prospettiva, di quel sistema che oggi siamo soliti definire 'democrazia liberale'. Il problema, infatti, non sussisteva nemmeno nei regimi autoritari, o semiautoritari, dell'Europa centrale, dove i governi potevano in qualche misura prescindere dall'appoggio delle assemblee rappresentative. Là dove, invece, la sorte del potere esecutivo era in vario modo collegata alle manifestazioni della volontà popolare, tanto più se espresse attraverso forme di suffragio allargato o universale, l'esigenza di proteggere le maggioranze parlamentari dalla possibile prevalenza delle tendenze estremiste si imponeva come prioritaria. Soprattutto nei paesi - ed erano i più - in cui erano ampie le fratture politico-ideologiche (o anche religiose o etnico-linguistiche, si veda il caso del Belgio), forte l'eredità dei conflitti passati e debole il consenso alle istituzioni, la competizione bipolare propria del modello anglosassone appariva troppo pericolosa, in quanto era ritenuta, a torto o a ragione, capace di rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture preesistenti e di offrire più larghi spazi di intervento alle forze della rivoluzione e a quelle della reazione assolutistica.
Nati, come si è visto, per rispondere a un'esigenza legittima, in una fase in cui le istituzioni liberaldemocratiche stavano muovendo in molti paesi i loro primi passi, i sistemi lato sensu trasformistici mostrarono nel tempo una spiccata tendenza all'autoperpetuazione. Le grandi maggioranze centriste tendevano infatti fatalmente a usurarsi e, contraddicendo allo scopo originario per cui erano sorte, lasciavano spazi sempre più larghi, sulle loro ali estreme, allo sviluppo di opposizioni 'irresponsabili', la cui crescita, a sua volta, serviva a ribadire l'esigenza di far blocco al centro. Il sistema sopravviveva ammettendo nell'area della legittimità singole componenti delle opposizioni, che, nel momento in cui si costituzionalizzavano, venivano però sostituite da nuove forze radicali. Il ricambio avveniva dunque attraverso meccanismi di cooptazione e di esclusione, mai mediante un fisiologico processo di alternanza per via elettorale: il che certo non giovava né alla funzionalità del sistema né alla sua moralità.
Questo schema di funzionamento - che facilmente può sfociare nel modello del "multipartitismo polarizzato" descritto da Giovanni Sartori (v., 1982) - è tipico di tutti i sistemi politici originariamente fondati sul blocco al centro con esclusione delle estreme. Ma proprio in Italia, paese d'origine del trasformismo storico, esso ha trovato le applicazioni più integrali e più sistematiche: tanto da informare di sé, pur nell'alternarsi delle leggi elettorali e degli assetti istituzionali, oltre un secolo di storia politica del paese.
Se il trasformismo inteso in senso etico (o addirittura come dato antropologico) ha un significato soprattutto polemico, e non aiuta molto a capire la storia italiana, il trasformismo inteso nel senso 'sistemico' appena descritto si rivela invece una chiave utile per leggere la vicenda politica nazionale in un'ottica di lungo periodo (v. Sabbatucci, 1990; v. Salvadori, 1994). Nel caso italiano, infatti, alla naturale tendenza del sistema all'autoperpetuazione, si aggiunse l'anomala persistenza di quei fattori di debolezza del tessuto politico-istituzionale (forti contrasti ideologici e ampie fratture sociali, carenza di valori generalmente condivisi, presenza di agguerrite opposizioni antisistema) che abbiamo visto essere all'origine della tendenza a far blocco al centro.
Secondo molti studiosi (v. Mack Smith, 1959; v. Maranini, 1967; v. Galli, 1975), la connotazione trasformistica del sistema politico italiano risalirebbe addirittura al periodo preunitario, più precisamente al "connubio" fra "centro-destro" e "centro-sinistro" promosso da Cavour e Rattazzi nel 1852 in sede di Parlamento subalpino. In realtà, anche a prescindere dalla valenza patriottica e progressiva di quell'operazione - valenza vigorosamente sottolineata da Rosario Romeo (v., 1977, t. 2, pp. 59-80) -, va ricordato che essa era chiaramente legata a una precisa strategia politica (l'alleanza fra la monarchia sabauda e il movimento liberale-nazionale) e che, a unità raggiunta (grazie anche all'autoesclusione dalla vita politica di cattolici intransigenti e legittimisti), il Parlamento italiano riassunse una configurazione tendenzialmente bipolare, imperniata sulla divisione fra liberali moderati e liberali progressisti.
L'operazione varata trent'anni dopo da Depretis, svincolata da ogni chiara opzione programmatica, ebbe invece un carattere irreversibile. La grande maggioranza da essa creata non solo occupava saldamente il centro dello schieramento politico, ma coincideva, almeno in teoria, con l'area della legittimità costituzionale e dunque non ammetteva alternative che non fossero traumatiche. Per rompere quello schema, la classe dirigente liberale avrebbe dovuto dividersi secondo una netta linea di separazione fra conservatori e progressisti: il che, però, non poteva fare se non a prezzo di far entrare nel gioco politico (in funzione determinante e non solo subalterna) le forze cattoliche e socialiste, la cui lealtà nei confronti delle istituzioni continuava a essere quanto meno dubbia. Nei primi anni del secolo parve, per la verità, che Giolitti e Sonnino si presentassero come i possibili leaders, in ambito liberale, di due schieramenti alternativi, ispirati a programmi contrapposti. In realtà Giolitti e Sonnino, come avevano fatto prima di loro Crispi e Rudinì, usavano i loro programmi per proporsi come capi non già di due maggioranze diverse, ma della stessa 'grande maggioranza' liberale, occasionalmente allargata a questo o a quello spezzone delle forze già escluse dall'area della legittimità. Paradossalmente, fu il 'conservatore' Sonnino a portare per la prima volta i radicali al governo, mentre fu il 'progressista' Giolitti a promuovere, sia pur in forme graduali e coperte, i primi tentativi di inserimento dei cattolici nel quadro istituzionale dello Stato liberale.
Il sistema fondato sulla grande maggioranza superò bene la prova del suffragio 'quasi universale' maschile (grazie anche all'escamotage del patto Gentiloni, che permise alla classe dirigente di utilizzare a suo vantaggio almeno una parte del voto cattolico). E sopravvisse persino alla gravissima spaccatura apertasi nell'area liberale sulla questione dell'intervento nella grande guerra: la frattura tra interventisti e neutralisti si manifestò a livello di schieramenti parlamentari solo alla fine del 1917 (senza peraltro esercitare un'influenza di rilievo nella formazione delle maggioranze governative) e si chiuse definitivamente nella primavera-estate del 1920, con la formazione dell'ultimo ministero Giolitti.
A quel punto, però, il sistema era già entrato in crisi, non per i contrasti interni alla maggioranza costituzionale, ma per l'improvviso venir meno di quella maggioranza in seguito all'esito traumatico delle elezioni del novembre 1919: esito spiegabile a sua volta con la concomitanza di una gravissima emergenza politico-sociale (quella del 'biennio rosso' 1919-1920) e di una riforma elettorale (la rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista) che sconvolgeva d'un colpo il collaudato sistema di rapporti fra eletti ed elettori su cui il personale politico liberale aveva costruito le sue fortune.
La perdita dell'autosufficienza da parte della classe dirigente di matrice risorgimentale non costituiva però la premessa di un nuovo sistema, alternativo al vecchio. Al contrario, la presenza minacciosa in Parlamento di una fortissima opposizione antisistema (i 156 deputati di un Partito socialista schierato su una linea di radicale rifiuto delle istituzioni) obbligava tutte le altre forze a confluire in una stessa maggioranza per dare al paese un qualsivoglia governo; in particolare costringeva la variegata galassia liberal-democratica a cercare la collaborazione di un partito cattolico ormai strutturatosi in moderna formazione di massa ed emancipatosi dalle logiche subalterne del clerico-moderatismo d'anteguerra. Le ultime maggioranze parlamentari dell'età liberale furono dunque anch'esse trasformiste in senso lato: nel senso cioè che erano prive di alternative, non avevano una connotazione programmatica precisa ed erano guidate da una logica di mera sopravvivenza. Quelle maggioranze, però, non potevano più disporre di alcuni degli strumenti classici del vecchio trasformismo (il rapporto personale, non mediato dalle strutture partitiche, fra il capo del governo e i singoli deputati, il legame fra il deputato e il suo collegio); e mancavano di quel minimo di omogeneità che la comune matrice liberal-risorgimentale aveva bene o male assicurato alle maggioranze prebelliche: causa non ultima, questa, del collasso funzionale dell'intero sistema e della conseguente ascesa al governo di Mussolini.
Lo stesso Mussolini, peraltro, dopo aver fondato il suo primo esperimento di governo sulla preesistente maggioranza liberal-popolare, si fece promotore di una riforma elettorale che prevedeva, come condizione per il successo del fronte governativo, la concentrazione di tutte le forze autenticamente 'nazionali' in un unico 'listone'. Quella realizzata con la legge Acerbo del 1923 e poi con le elezioni del 1924 fu certamente molto più che una semplice operazione trasformista: fu la premessa necessaria per l'instaurazione di una dittatura monopartitica. Essa fu però grandemente facilitata da una tradizione politica che considerava normale la concentrazione di tutte le forze 'sane' in un unico blocco (e anche da una cultura giuspubblicistica che vedeva nel parlamento più un'articolazione del potere statale che un'espressione della pluralità dei soggetti operanti nella società). Questa tendenza di fondo non mutò nella sostanza nemmeno dopo la caduta del fascismo e la riconquista delle libertà democratiche. A guerra conclusa, parve naturale che i partiti che avevano guidato la lotta di liberazione (o almeno i maggiori fra di essi) continuassero a governare insieme il paese. Quando, nel 1947, la coalizione tripartita si ruppe per iniziativa di De Gasperi, le sinistre furono espulse non solo dal governo, ma anche da una ridefinita area della legittimità, entro la quale sarebbero poi state riammesse in tempi e modi diversi (i socialisti col centrosinistra, i comunisti con la solidarietà nazionale), contestualmente al loro ingresso nelle maggioranze governative: senza mai assumere dunque la figura del polo alternativo in un quadro di opposizione costituzionale.
Leggere la storia politica repubblicana nella sola chiave della continuità col vecchio trasformismo sarebbe riduttivo, oltre che scorretto. Il modello originario si fondava, come si è visto, su maggioranze mobili costruite giorno per giorno attraverso gli accordi con i singoli deputati o con i gruppi di interesse locali: il tutto in assenza di schieramenti partitici e di gruppi parlamentari fortemente strutturati. Quello della 'democrazia dei partiti' attuato in età repubblicana (e già parzialmente sperimentato negli anni successivi alla prima guerra mondiale) era invece un modello rigido, i cui equilibri erano in larga parte predeterminati in base alle intese di vertice fra le segreterie. La rigidità del sistema e la solidità delle maggioranze da esso espresse risultavano però attenuate a causa della frammentazione partitica, favorita dalla legge elettorale proporzionale, e delle divisioni interne alle formazioni politiche maggiori: ragion per cui, nella pratica, la vita dei governi era legata a un complicato gioco di mediazioni fra partiti e correnti che aveva qualche punto di contatto con quello messo in atto dai leaders parlamentari dell'Italia prefascista. Restava poi, come costante immutabile, la sostanziale inamovibilità delle coalizioni di governo, instabili e conflittuali ma inattaccabili per via elettorale, e suscettibili di cambiamento solo attraverso meccanismi di cooptazione e di esclusione.
La 'rivoluzione maggioritaria' dei primi anni novanta - segnata soprattutto dall'esito vittorioso del referendum del 1993 sull'elezione del Senato - ha avuto per obiettivo proprio la rottura di questo modello e l'avvento di una democrazia bipolare di stampo anglosassone. Il tempo dirà se e in quale misura l'obiettivo sia stato raggiunto. È certo comunque che le resistenze soggettive e gli ostacoli oggettivi con cui si è dovuto misurare il processo di transizione verso un modello compiuto di democrazia dell'alternanza vanno in larga parte attribuiti all'eredità del trasformismo: inteso come scelta di sistema e non come mera espressione di un costume politico, come prodotto non tanto di una irresistibile vocazione al compromesso, quanto piuttosto di una scarsa propensione a riconoscersi in un quadro di regole e di valori condivisi.
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