Trasporti
Trasporti terrestri, di Giovanni Agnelli
Trasporti marittimi, di Ugo Marchese
Trasporti aerei, di Giuseppe Gabrielli
Trasporti terrestri
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. L'automobile: a) premessa; b) l'evoluzione tecnica. 3. Gli autoveicoli industriali: a) lo sviluppo dell'autocarro e dell'autobus; b) i dati quantitativi; c) i veicoli speciali. 4. La ferrovia: a) la storia; b) il materiale rotabile; c) l'infrastruttura. 5. I problemi dei trasporti terrestri: a) la sicurezza; b) la protezione dell'ambiente; c) la regolamentazione. □ 6. I trasporti e la città: a) introduzione; b) i primi tram; c) le metropolitane; d) il caos urbano; e) le città satellite; f) città e aeroporto. 7. Il futuro: a) prospettive generali; b) il futuro dell'automobile; c) l'evoluzione tecnologica del veicolo industriale; d) il futuro della ferrovia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'evoluzione degli atteggiamenti umani trova nel bisogno di mobilità una delle sue più antiche motivazioni. Tale bisogno coinvolge dapprima la singola persona, e si proietta successivamente sul mondo esterno, sulle cose, sugli altri: si muta in ‛trasporto'.
Il trasporto, dalle origini della storia umana fino ai primi anni del sec. XIX, è stato affidato sulla terra alla trazione animale (v. fig. 1), sull'acqua ai remi e alle vele. Ma già nel sec. XVI appaiono i primi esemplari di rotaie, costruite dapprima solo in legno e poi munite anche di rinforzi metallici. Solo alla fine del XVIII secolo la rotaia sarà costruita in ghisa e successivamente in ferro, fino a raggiungere la composizione attuale. Nel XIX secolo l'uomo cerca per la prima volta di usare la propria forza per muoversi più rapidamente e inventa il velocifero, che in seguito si trasformerà in bicicletta. Nello stesso secolo si scoprono nuove forme di energia, che determinano una rivoluzione destinata a cambiare le abitudini sociali dell'uomo e perfino l'aspetto del paesaggio. La macchina a vapore apre nuovi orizzonti alla navigazione marittima, ma soprattutto determina lo sviluppo del trasporto ferroviario; l'elettricità indica all'uomo, nel campo delle comunicazioni, la via di un progresso nemmeno immaginabile nel secolo precedente. Dalla sintesi del motore a vapore e della strada ferrata ha origine la locomozione terrestre meccanizzata, e fin quando non appaiono motori più leggeri o meno ingombranti, verso la fine del XIX secolo, la ferrovia mantiene l'esclusiva assoluta dei trasporti terrestri a trazione non animale. L'epoca del monopolio ferroviario vede un rapidissimo sviluppo del sistema: dai 40.000 km di strada ferrata esistenti nel 1850 si passa a 100.000 nel 1860 e a 1 milione nel 1900. Nel solo decennio 1880-1890 ne sono costruiti in media 25.000 km all'anno, poco meno di quanti se ne realizzeranno in circa 30 anni, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi! Questo sviluppo rapidissimo spinge a opere collaterali grandiose e quasi impensabili per quei tempi: i grandi trafori alpini (Frejus, Gottardo, Arlberg), i grandissimi ponti di S. Lorenzo in Canada, di Brooklyn a New York, ecc. La diffusione delle ferrovie in tutto il mondo e il collegamento delle diverse reti favoriscono inoltre i primi accordi di unificazione e di standardizzazione internazionali, in un'epoca in cui in altri campi della tecnica non si conosce nemmeno il significato di queste parole. La ferrovia diviene in tal modo uno dei simboli più evidenti dell'evoluzione socioeconomica del XIX secolo, favorendo inoltre gli insediamenti umani lungo direttrici diverse dalle vie di comunicazione naturali, permettendo lo sfruttamento di risorse altrimenti poco accessibili, facilitando gli scambi commerciali e la specializzazione produttiva delle diverse aree. Ma già sul finire del secolo, e nel giro di pochi anni, sia il motore elettrico (v. fig. 2) sia quello a combustione interna si presentano come alternative al pesante e ingombrante motore a vapore. Entrambi i tipi di motori, potendo essere costruiti in unità di piccole dimensioni e di poco peso, con potenza unitaria relativamente elevata, consentono la costruzione di veicoli automotori singoli, in contrasto col sistema convenzionale della potente locomotiva destinata a trainare una lunga colonna di materiale rimorchiato. L'importanza sociale della ferrovia è comunque ancora incontrastata e ai primi del Novecento si hanno frequenti nazionalizzazioni: nel 1902 in Svizzera, nel 1905 in Italia, nel 1906 in Giappone, nel 1913 in Belgio.
Gli eventi bellici della prima guerra mondiale danno però una spinta decisiva allo sviluppo dei trasporti su strada e contemporaneamente un grave colpo al sistema ferroviario; accanto agli imponenti trasporti militari effettuati mediante treni, altri servizi importanti sono resi dagli autocarri. Alcuni di essi divengono dei veri e propri eroi di guerra: in Italia il FIAT 18 BL (v. fig. 3) e il 15 TER, lo SPA e il Bianchi, in Francia il Panhard e il Renault, negli Stati Uniti il Ford. La riconversione produttiva postbellica, come spesso accade, utilizza il know-how acquisito e lo riversa nel campo degli autoveicoli adibiti a uso civile. Nel 1920 gli autoveicoli circolanti nel mondo sono già il milioni ed effettuano il 25% dei trasporti di persone e merci.
Sotto il profilo della flessibilità del servizio, gli autoveicoli per trasporto merci completano la rivoluzione avviata dalla ferrovia, riducendo sensibilmente l'importanza di alcuni vincoli limitanti la scelta delle localizzazioni produttive e fornendo maggiori possibilità di sviluppo anche a quelle aree che non dispongono di fattori della produzione in loco e che non sono toccate dalla ferrovia. Anche i veicoli adibiti al trasporto di persone - gli autobus - ricevono nel dopoguerra un potente incremento al loro sviluppo e alla organizzazione della loro rete, che già prima della guerra era largamente diffusa: in Italia, nel 1912, gli autobus servivano i più sperduti paesini delle Alpi, degli Appennini e delle Isole.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale la ferrovia possedeva in campo mondiale una rete di 1.336.000 km, ma d'altra parte circolavano 45 milioni di autoveicoli, che effettuavano il 35% dei trasporti terrestri.
Notevoli innovazioni erano già state introdotte negli Stati Uniti, a partire dagli anni venti, anche nel settore delle macchine movimento terra, che costituiscono un potente aiuto alla costruzione di strade, gallerie, viadotti, ecc. La meccanizzazione e la motorizzazione entreranno sempre più nell'agricoltura degli Stati Uniti e, dopo la seconda guerra mondiale, anche in quella europea, determinando notevoli riconversioni produttive e spostamenti di mano d'opera, e persino sfavorendo o favorendo, secondo i casi, i tipi di insediamenti umani, accentrati o sparsi su grandi aree.
Nel periodo di ricostruzione postbellico, in taluni paesi d'Europa, in Italia particolarmente, si ha una prima motorizzazione minore della popolazione e alle piccole vetture economiche si affianca il motor-scooter (v. fig. 4). Più tardi si diffonderà il ciclomotore.
Ma la vera protagonista del XX secolo, non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello socioculturale, è l'automobile, il cui uso e la cui diffusione cambiano notevolmente i costumi e gli atteggiamenti delle società occidentali. Nata dapprima come prodotto artigianale, intorno al 1910 l'automobile cominciò a essere oggetto di ricerche sistematiche da parte di ingegneri e tecnici. Dopo un periodo di competizione con l'auto elettrica, quella a benzina ebbe il sopravvento. Con il famoso modello T (v. fig. 5) Henry Ford diede l'avvio alla grande produzione di serie e mise sul mercato oltre 15 milioni di vetture dal 1908 al 1927; nel 1926 ne fabbricava 700.000 in più di tutte le altre fabbriche americane messe insieme. Dopo la prima guerra mondiale nasceva anche in Europa la produzione in grandi serie, soprattutto di vetture utilitarie. In Italia prima la FIAT Balilla e poi la 500 Topolino (v. fig. 6) ebbero la più grande diffusione.
Dopo la seconda guerra la ripresa industriale diede luogo a un impetuoso sviluppo della produzione di massa, fino all'inizio degli anni settanta e l'automobile fu il principale ‛motore' del progresso tecnologico ed economico. La produzione mondiale di vetture continuò a crescere per raggiungere nel 1973 circa 30 milioni di unità. Attualmente nel mondo circolano oltre 400 milioni di autoveicoli; in Italia oltre 20 milioni, di cui 18 milioni e 600 mila sono vetture. Ma già agli inizi degli anni settanta l'automobile sembrava entrare in una fase di relativa crisi, sia come fatto culturale sia come fatto economico. Da una parte era criticata l'organizzazione della produzione, dall'altra l'uso stesso dell'automobile nelle sue forme esasperate era additato come una distorsione sociale. Il suo ruolo centrale nella società convogliava sull'automobile molte tensioni generate dall'assetto sociale complessivo. Le gravi carenze di programmazione e di governo del territorio (inquinamento, difficoltà della circolazione, distorsione dei consumi individuali, ecc.) trovavano la loro cassa di risonanza nell'automobile.
A interrompere la tendenza verso una produzione più elevata intervenne anche la crisi monetaria internazionale, con i paurosi deficit delle bilance dei pagamenti dei paesi trasformatori e, in Italia, con l'inflazione galoppante alimentata dagli enormi deficit dei bilanci degli enti pubblici e delle pubbliche aziende. Scioperi e disordini nelle fabbriche, assenteismo e aumento dei salari causarono la riduzione della produttività e l'aumento del costo del prodotto. L'industria italiana non fu più in grado di soddisfare la richiesta del mercato interno e questo si aprì alle automobili straniere. A peggiorare la situazione si aggiunse la crisi del petrolio e delle materie prime, che sconvolse l'equilibrio fra consumi energetici e produzione durato un trentennio. In 8 anni il prezzo del petrolio greggio è raddoppiato, raggiungendo il tetto di 34 dollari al barile. La produzione mondiale di autoveicoli ha avuto un calo notevole, da circa 40 a 37 milioni di unità; quella delle vetture da 30 a 28 milioni. A questa situazione l'industria automobilistica ha reagito con la riduzione del consumo di energia sia nella fabbricazione sia nell'uso delle automobili. Si sa che l'energia consumata per passeggero trasportato è, per le vetture, la più elevata fra tutti i mezzi di trasporto stradali. Perciò i modelli più recenti sono il risultato di una vasta e approfondita ricerca orientata verso la riduzione del consumo. Questo fatto e la prospettiva di fonti di energia alternative hanno interrotto, sia pure temporaneamente, la crescita del prezzo del petrolio.
L'automobile ha dimostrato di possedere una singolare capacità di mobilitare - attraverso la sua produzione o il suo uso - un volume finanziario considerevole e di promuovere una gamma molto vasta e diversificata di attività: di agire, insomma, in modo rilevante sullo sviluppo, fino a caratterizzare una determinata fase di crescita di un paese. Basti considerare che le autostrade in servizio in Italia hanno raggiunto nel 1982 lo sviluppo di 6.020 km. Negli Stati Uniti, che sono la nazione a più alta motorizzazione, l'industria dei trasporti su strada assorbe approssimativamente il 17% del Prodotto Nazionale Lordo e dà lavoro a circa 13 milioni di persone, se si considerano insieme la costruzione, la distribuzione, l'assistenza e l'uso degli autoveicoli. L'uso dell'autovettura privata incide da solo per il 13% sull'ammontare totale dei consumi privati. In Italia si calcola che il numero di persone che svolgono un'attività legata all'automobile si aggiri sui 2 milioni (dal 1977 al 1982 è calato approssimativamente da 2.100.000 a 1.900.000). In prima approssimazione, per 100 persone occupate nelle case costruttrici di autoveicoli e rimorchi, 225 lavorano ‛a monte', per assicurare le forniture di materiali e componenti, e 500 ‛a valle' della produzione (rete commerciale, officine di riparazione, autorimesse, noleggi, autisti). Altre 125 svolgono servizi accessori (personale della motorizzazione, polizia stradale e vigili, distributori di combustibili, scuole guida, ACI, parcheggi, esattori, assicurazioni, ecc.).
Ma l'automobile con la sua industria non è stata e non è solamente un fatto economico, sia pure di dimensione macroscopica: avendo trovato il suo ambiente naturale di sviluppo anche nella città, si è in definitiva trasformata da semplice ‛macchina' da trasporto a mezzo indispensabile di comunicazione. Per la sua diffusione l'automobile è un fatto culturale complesso, contradditorio, ricco di aspetti positivi e negativi, in cui si specchia in buona misura la società industriale del XX secolo. Si può dire che il nostro secolo è il secolo dell'automobile, sia sul piano sociale sia su quello individuale. Sul piano sociale ha dato l'avvio all'organizzazione scientifica del lavoro, che, basata sulla parcellizzazione del lavoro individuale e sulla sua ripetitività, trovò la sua prima applicazione pratica nelle fabbriche Ford con la catena di montaggio. I principî della concezione di F. W. Taylor si sono poi allargati, ma col passare del tempo la concezione puramente economicistica dell'uomo (il salario come unico incentivo al lavoro) su cui si basavano ha finito per far entrare in crisi l'organizzazione aziendale.
Con l'abnorme aumento del numero dei lavoratori negli stabilimenti si creavano le condizioni per contrasti politici e sindacali. Sebbene, con l'introduzione nelle fabbriche delle macchine in trasferta e di sistemi automatici nella lavorazione delle parti, il lavoro fosse meno pesante, le maestranze - il cui grado di istruzione e la cui combattività andavano man mano aumentando - si dimostravano sempre più insoddisfatte. La dequalificazione, la monotonia, la ripetitività, di cui la catena di montaggio era l'emblema più vistoso, erano ancora fonte di contrasti sociali, resi più acuti dalla crisi economica, accentuata in Italia da una più grave inflazione. Da parte di sociologi e psicologi si sottolineava peraltro il ruolo dell'attività lavorativa come insostituibile mezzo di valorizzazione del sè e come importante tramite di relazioni sociali. In questa situazione l'industria, particolarmente in Italia, cercò di rispondere con diverse correzioni (ricomposizione del numero delle mansioni, arricchimento qualitativo del lavoro, rotazione periodica), rivelatesi peraltro insufficienti. Dopo il periodo di crescita del numero degli occupati nelle officine e negli uffici, conseguenza di una assillante evoluzione sociale, è stato necessario ricorrere a gravi provvedimenti per ridurre gli organici, con lo scopo di riportare la produttività a valori accettabili e metter fine all'assenteismo e ai disordini negli stabilimenti (la produttività alla FIAT è passata da 14,5 vetture per addetto nel 1979 a 21,5 nel 1982).
Stiamo ora assistendo a una situazione di accanita concorrenza internazionale, che impone di orientare l'innovazione e la ricerca verso la riduzione dei consumi e dei costi di produzione. Così alla richiesta di migliori condizioni di lavoro si accompagna quella di maggior produttività e flessibilità degli impianti; l'automazione computerizzata è applicata alle operazioni di assemblaggio e al controllo di qualità; la cibernetica e la robotizzazione stanno cambiando il panorama delle officine di produzione delle automobili. Per far fronte agli investimenti in nuovi impianti e per ammortizzare le spese di ricerca e di sviluppo, nasce la necessità di concentrazioni produttive che permettano di mantenere livelli di produzione tali da contenere la lievitazione dei costi. Così marche già prestigiose perdono la loro indipendenza e spariscono come enti a sé stanti. Nel 1982 solo otto gruppi industriali nel mondo hanno prodotto più di 1 milione di vetture; di essi tre, tutti europei, sono l'effetto di concentrazioni industriali. Intanto vincoli sempre più limitativi sorgono nella normativa internazionale. In Italia il costo di esercizio delle automobili è cresciuto nel 1982 in media del 30% rispetto all'anno precedente, in conseguenza soprattutto di una pressione fiscale che pesa sul prezzo del combustibile come sugli autoveicoli.
Tutti questi fattori indicano un progressivo attenuarsi della fase di sviluppo incontrastato dell'automobile privata, almeno nelle nazioni più altamente industrializzate dell'Occidente, mentre nei paesi cosiddetti ‛emergenti' sembra ancora possibile per questo mezzo di trasporto un ruolo economico trainante. In Europa, in Nordamerica e in Giappone si sta aprendo un periodo di maggiore diversificazione sia nei sistemi, sia nei mezzi di trasporto terrestri; per questi ultimi si prevedono ulteriori perfezionamenti dei mezzi già esistenti (l'aerotreno munito di reattori d'aereo, la sospensione magnetica, il motore lineare, ecc.). Nel caso dei sistemi di trasporto sembra possibile una prospettiva di maggiore innovazione, specialmente nelle megalopoli e nelle grandi aree urbane in genere. Le tendenze attuali delle ricerche in questo campo mirano a rendere integrate, e non concorrenziali, la rete ferroviaria, la metropolitana e la rete autofilotranviaria, mediante rapidi e facili collegamenti fra le loro stazioni. Fra l'uso privato del mezzo privato e l'uso collettivo del mezzo pubblico si potrebbe far strada un altro concetto, che è quello dell'uso collettivo del mezzo privato. Si tratterebbe di mettere a disposizione del pubblico un certo numero di automobili, da utilizzare con schede speciali e secondo determinate modalità. Un sistema, questo, adatto all'uso dell'energia elettrica. Il problema della mobilità, singola e di massa, peserà inoltre sulle nuove progettazioni urbanistiche, sia di singoli quartieri sia di nuove città, in misura maggiore che nel passato.
In definitiva, i programmi che le forze politiche e sociali delle varie nazioni faranno, per migliorare la qualità della vita nei rispettivi paesi, dovranno tener conto del fatto che se la libertà è una componente fondamentale della qualità della vita, la mobilità è a sua volta una condizione essenziale della libertà. Assicurare la massima mobilità possibile, sia pure nei limiti che impone il vivere in società, è anche una scelta politica di democrazia.
2. L'automobile
a) Premessa
Le prime automobili con motore a benzina videro la luce verso il 1890. Erano, e tali rimasero per molti anni, veicoli assai semplici, costruiti con mezzi artigianali, dotati di pochi organi essenziali e di una carrozzeria pressoché uguale a quella delle vetture a cavalli (v. fig. 7). Solo intorno al 1910 la loro struttura e concezione cominciò a essere fatta oggetto di una revisione profonda alle intuizioni dei pionieri si sostituirono programmi di ricerca e sviluppo cui partecipavano ingegneri e scienziati, e si andò così perfezionando l'indispensabile tecnologia applicata. Mentre in Europa ingegneri e costruttori, sollecitati dal ruolo rivoluzionario del veicolo a motore nel progresso economico e civile della collettività, si dedicavano a risolvere i grandi problemi tecnici relativi al perfezionamento dell'automobile, negli Stati Uniti si cominciarono a studiare e sviluppare anche i metodi di produzione su larga scala, che a quell'epoca erano impensabili nei paesi industrializzati del vecchio continente. Per questo motivo l'industria europea dell'automobile nacque in ritardo rispetto a quella mondiale. Punto di avvio fu la creazione di piccole macchine utilitarie, sia in Italia (FIAT Balilla e, in seguito, FIAT 500) che in Francia, Germania e Gran Bretagna. Comunque soltanto dopo l'ultimo conflitto mondiale maturarono le condizioni per far sorgere anche in Europa stabilimenti capaci di produrre elevati quantitativi di automobili, sia pure profondamente diverse da quelle americane. Queste ultime, grazie alla grande disponibilità di petrolio e di materie prime degli Stati Uniti, all'elevato reddito medio dei cittadini e alle enormi distanze nei collegamenti stradali e autostradali, andarono configurandosi su uno standard di grandi dimensioni, di peso elevato, con motori di grossa cilindrata. Le vetture europee, invece, dovendo fare i conti con bilanci e possibilità assai più limitati e con legislazioni fiscali molto severe, furono fatte più piccole e più leggere, sobrie nei consumi di carburante, pur vantando spiccate doti di brillantezza.
Oggi in Italia una persona su tre possiede l'automobile rapporto di poco inferiore a quello degli altri maggiori paesi europei -, mentre negli Stati Uniti la densità è di una vettura ogni due abitanti. Va però rilevato che, a partire dal 1970, la curva dello sviluppo industriale, valutato sulla base del numero di veicoli fabbricati annualmente, ha cominciato a manifestare quasi ovunque un rallentamento nel tasso di incremento, indice sicuro di una vicina saturazione dei mercati, per cui i costruttori hanno cominciato a interessarsi attivamente delle aree prima trascurate o non ancora in grado di attuare una motorizzazione di massa.
Malgrado la notevole concentrazione aziendale e la tendenza verso la produzione di massa, esistono però alcune aziende (Ferrari, Lotus, Maserati, Porsche, ecc.) che costruiscono con metodi quasi artigianali vetture d'avanguardia dalle elevatissime prestazioni, ma inevitabilmente di prezzo accessibile a pochi.
b) L'evoluzione tecnica
Il primo grande passo sulla via del progresso si può considerare l'applicazione dei freni sulle ruote anteriori. Già dal 1910 alcuni costruttori (Isotta-Fraschini, Peugeot) li avevano adottati con successo, ma solo a partire dal 1924 questo sistema si generalizzò; grazie ad esso l'automobile diveniva un mezzo di trasporto notevolmente più sicuro: la distanza di arresto si riduceva di circa il 60%. Sempre nel 1924 la Chrysler introduceva nelle vetture di serie il comando idraulico dei freni, migliorandone ulteriormente l'efficienza e la sicurezza. Un altro progresso risolutivo fu l'applicazione dell'avviamento elettrico, brevettato da Charles Kettering della General Motors, che consenti all'automobile di diventare accessibile anche al pubblico femminile.
È dunque nel periodo tra le due guerre che l'automobile compì un'evoluzione fondamentale alla quale hanno non poco contribuito: lo studio teorico dei cicli termodinamici e del cinematismo biella-manovella, adottato universalmente per trasformare in rotativo il moto alternativo degli stantuffi; le ricerche sperimentali sulla combustione e le teorie ideate per spiegare il fenomeno sotto i suoi molteplici aspetti; lo studio della fluidodinamica. Gli specialisti dei motori e degli idrocarburi approfondirono inoltre la conoscenza del fenomeno della detonazione e studiarono i mezzi per evitarla o per ridurne gli effetti.
Sotto l'impulso delle competizioni sportive, furono escogitati sistemi per incrementare quanto più possibile l'introduzione della miscela combustibile nei cilindri - adottando grandi valvole comandate da due alberi a camme in testa e camere di combustione ad alto rendimento - nonché per raggiungere velocità di rotazione dei motori sempre più elevate e quindi più elevate potenze. Dai 6-7 CV per litro del 1905 si passò ai 60 CV per litro nel 1923. In questo stesso anno, con un motore da corsa sovralimentato da un compressore, la FIAT raggiungeva i 76 CV per litro e qualche anno dopo, con la 806 corsa, i 125 CV per litro. Altre novità furono i sincronizzatori nel cambio di velocità, i servofreni e una quantità di piccoli perfezionamenti che resero la vettura più affidabile e più sicura. In quel periodo cominciò tra l'altro a diffondersi la sospensione a ruote indipendenti per il treno anteriore. Le prime vetture con ruote anteriori indipendenti furono in Francia la Sizaire Frères e la Cottin Desguettes, in Italia la Lancia. Ma anche in Germania e negli Stati Uniti il nuovo sistema veniva introdotto e si diffondeva rapidamente. Nel 1922 la Lancia costruiva la prima vettura a carrozzeria autoportante con ruote anteriori indipendenti: la Lambda (v. fig. 8). Più tardi, nel 1932, la stessa Lancia, per prima, metteva sul mercato una vettura con carrozzeria interamente metallica formata di pannelli imbutiti e saldati.
La trazione sulle ruote anteriori faceva la prima apparizione su alcuni modelli in Francia e in Germania. A partire dal 1930 la tenuta di strada e le sospensioni cominciarono a diventare oggetto di studi approfonditi: anche in questo campo si fecero notevoli passi avanti.
Nel 1939 fu la volta della prima trasmissione automatica, ideata dalla General Motors con il sistema Hydromatic. Ma già da alcuni anni in Europa, dove le vetture erano di minore cilindrata, erano stati studiati cambi automatici di tipo meccanico, per evitare la dispersione di potenza dei sistemi idraulici. Ricordiamo i cambi graduali Sensaud de Lavaud, francese, e Hayes, inglese, e il cambio a ingranaggi epicicloidali con freni magnetici del francese Cotal, che, sebbene geniali, non ebbero fortuna a causa della scarsa affidabilità e del costo eccessivo. Comunque già nel 1930 la Daimler aveva adottato l'accoppiamento idraulico di tipo Fottinger, tedesco, che è tuttora alla base di tutti i cambi automatici con convertitore idraulico.
La necessità di fabbricazione in grande serie con metodi di costruzione e montaggio a catena indusse i costruttori europei ad abbandonare la carrozzeria con ossatura in legno a favore della struttura completamente in lamiera di acciaio. In un periodo relativamente breve furono così abbandonati i telai e la carrozzeria divenne autoportante: le parti meccaniche vennero cioè collegate direttamente alla carrozzeria, col vantaggio di ridurre il peso e i costi di produzione. In America i costruttori continuarono invece per molti anni a mantenere nelle loro grandi vetture il telaio separato dalla carrozzeria. Questo permetteva infatti di cambiare anche frequentemente il modello di carrozzeria senza intervenire sull'autotelaio; d'altronde l'abbandono del telaio avrebbe comportato grandi cambiamenti nei metodi di fabbricazione. Solo molto più tardi, dopo la seconda guerra mondiale, la carrozzeria autoportante venne presa in considerazione anche dalle case statunitensi.
L'evoluzione della carrozzeria, sia nelle forme che nelle funzioni, è stata continua e spettacolare. La forma è stata influenzata dalle leggi dell'aerodinamica, che hanno permesso di ottenere maggiori velocità e di ridurre il consumo. I problemi dell'aerodinamica sono stati e sono tuttora oggetto di studi sempre più approfonditi: per risolverli sono state create le cosiddette gallerie del vento, dove la resistenza dell'aria è misurata con metodi scientifici (v. fig. 9).
L'industria, al fine di richiamare l'interesse del pubblico, non solo ha ricercato con grande accuratezza miglioramenti del comfort e realizzato continuamente il meglio nel campo meccanico e tecnologico, ma ha anche scoperto l'importanza dell'estetica dell'automobile a fini promozionali. Per questo tutte le grandi aziende automobilistiche hanno creato centri di studio per migliorare e continuamente ammodernare la linea delle vetture. Famose sono le Styling Sections delle grandi compagnie americane; ma molto importante è stato, e continua a essere, in questo campo, il contributo dei carrozzieri e degli stilisti italiani.
Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale in Europa, particolarmente in Italia e in Francia, e più tardi in Giappone assumeva un posto di primaria importanza la piccola vettura utilitaria a 4 posti, con motore posteriore. Nel 1950 nasceva in Inghilterra la Mini (Austin e Morris) a trazione anteriore con motore trasversale e trasmissione incorporata nel motore (v. fig. 10). Cinque anni dopo la FIAT lanciava la Autobianchi Primula con motore trasversale e trasmissione in linea, soluzione adottata in seguito per tutte le vetture piccole e medie da gran parte delle marche europee, giapponesi e americane.
All'esigenza di produrre quantitativi elevati si è unita quella di offrire all'automobilista, peraltro sempre più esperto ed esigente, un prodotto di grande qualità. In questa ottica, tutti gli organi meccanici, dal motore alle ruote, hanno subito notevolissimi perfezionamenti, secondo un costante e rapido processo di ottimizzazione. Soluzioni tecniche sperimentate nelle macchine da corsa sono state introdotte nelle vetture di serie, come i freni a disco, l'accensione elettronica, l'iniezione di benzina. Un indice del progresso dei motori è il fatto che le macchine di formula 1 (v. fig. 11) hanno raggiunto nel 1974, senza compressore, potenze dell'ordine di 166 CV/litro al regime di 12.000 giri/min, e all'inizio degli anni ottanta, con turbocompressore, valori dell'ordine di 400 CV/litro. Tecniche sperimentali perfezionatissime e condotte all'estremo limite delle conoscenze, da un lato, e l'evoluzione continua dei sistemi di fabbricazione e dei materiali, dall'altro, hanno reso gli odierni propulsori delle vetture di serie durevoli, affidabili e silenziosi in grado assai elevato.
Il processo evolutivo dell'automobile è reso possibile anche dall'attività di innumerevoli industrie collegate e complementari. Fondamentali, ad esempio, sono i progressi realizzati nel settore dei pneumatici, che, attraverso tutta una serie di innovazioni, hanno raggiunto un grado di perfezionamento elevatissimo e contribuito quindi alla realizzazione di vetture dalle prestazioni eccellenti sotto il profilo della sicurezza e del comfort. Le stesse considerazioni possono essere fatte per i materiali d'attrito dei freni, per i cuscinetti dei motori, per gli acciai speciali delle valvole e loro sedi, per le apparecchiature di accensione, i carburatori e gli apparati di iniezione benzina, i sistemi di accensione, i vari tipi di accessori. Anche l'industria petrolifera contribuisce, con ricerche specialistiche e in stretta collaborazione con i costruttori di automobili, all'aumento del rendimento dei motori, fornendo combustibili a elevato potere antidetonante, cioè ad alto numero ottano, e rendendone uniforme la qualità in tutti i paesi a elevato sviluppo motoristico.
L'automobile ha oggi raggiunto, dal punto di vista funzionale, una fase di maturità che giustifica pienamente la sua enorme diffusione nel mondo. Peraltro, come si è detto nel cap. 1, la stessa rapidità con la quale tale diffusione è avvenuta ha suscitato alcuni problemi di non facile soluzione. La vettura privata, alla quale nessuno sente di poter rinunciare, è stata chiamata in causa relativamente alla sicurezza, all'inquinamento atmosferico e, più recentemente, alla crisi del petrolio. A questa contestazione i costruttori hanno risposto sollecitando al massimo gli studi per ridurre le emissioni nocive causate dai gas di scarico e dall'evaporazione della benzina, per diminuire sempre più i consumi, per progettare vetture elettriche, per realizzare un veicolo che protegga soprattutto e in massimo grado la vita dei passeggeri.
La crisi petrolifera, che dal 1973 incombe sul mondo industrializzato, ha influito pesantemente sull'industria automobilistica e ne ha rallentato lo slancio, sia per l'impatto che ha avuto sull'economia, obbligandola a dirottare risorse verso i paesi produttori di petrolio e verso investimenti per la ricerca di fonti energetiche alternative, sia per i ripetuti rincari del greggio che si sono ripercossi senza possibilità di attenuazione sul prezzo della benzina, che è il combustibile di elezione per le vetture. La lettura dei dati statistici è di per sé eloquente (v. fig. 12). I dati riportati si riferiscono soprattutto alla vicenda italiana, ma la situazione verificatasi nel resto del mondo, Stati Uniti compresi, non differisce nella sostanza. Dovunque il prezzo dei combustibili è andato alle stelle e il prezzo delle automobili è aumentato più di quanto non siano aumentate le risorse degli utenti. Di conseguenza essi sono stati indotti ad apprezzare sempre più l'automobile come mezzo capace di offrire un servizio e meno come status symbol. La crisi petrolifera ha avuto l'effetto di una sferzata per stimolare l'evoluzione delle autovetture nel senso richiesto dall'utenza: minori consumi e maggior durata. Per diminuire i consumi i tecnici dell'automobile possono agire solo sui seguenti parametri: a) il peso del veicolo, per diminuire l'energia spesa durante le accelerazioni; b) le resistenze passive, quali la resistenza di rotolamento dei pneumatici, la resistenza aerodinamica, gli attriti interni della trasmissione; c) il rendimento del motore, attraverso un miglioramento del processo di trasformazione dell'energia da chimica a meccanica e attraverso una scelta dei rapporti di trasmissione tale da consentire lo sfruttamento del motore nelle condizioni di miglior rendimento. Il perseguimento di questi obbiettivi va naturalmente contemperato con gli altri obbiettivi industriali, principalmente quelli dell'alta affidabilità e del contenimento dei costi.
Pur senza introdurre novità rivoluzionarie, molte vetture sono state riprogettate; i pesi sono stati ridotti senza rinunciare alle doti di abitabilità, grazie a un accurato calcolo della resistenza degli organi meccanici e della scocca, con l'aiuto prezioso dei mezzi elettronici per l'analisi delle sollecitazioni e per l'ottimizzazione delle forme; i nuovi pneumatici a struttura radiale offrono resistenza di rotolamento dell'ordine dell' 1% della forza verticale applicata, circa la metà della resistenza opposta dai vecchi pneumatici diagonali; senza imporre sacrifici di abitabilità, sono state studiate e messe in produzione vetture con coefficienti di resistenza aerodinamica inferiori a 0,35, da confrontare con i valori compresi fra 0,4 e 0,5 accettati pochi anni fa.
Il miglioramento del rendimento dei motori a benzina è stato finora meno evidente e più sofferto, perché il funzionamento con miscele aria/benzina più magre urta contro la limitazione delle emissioni allo scarico imposte dai regolamenti internazionali (in questo caso sono critici gli ossidi di azoto) e contro l'esigenza di assicurare una facile guida della vettura, cioè senza esitazioni o arresti del motore, che possono verificarsi specialmente a freddo o durante la fase di riscaldamento del motore stesso. Tuttavia i progressi ottenuti in campo aerodinamico, rendendo minore la richiesta di potenza al motore a parità di velocità della vettura, hanno consentito una diversa messa a punto dei motori stessi, che fino a ieri era orientata all'ottenimento di potenze sempre più elevate. La curva di coppia è stata resa più regolare e il massimo è stato portato a regimi più bassi, intorno ai 2.500 giri/min, cioè intorno ai valori che più frequentemente si incontrano durante la marcia in città: questo risultato si può raggiungere senza difficoltà, rinunciando a trarre dal motore tutta la potenza ottenibile (v. fig. 13). Questo fatto, assieme alla riduzione di peso di cui si è prima parlato, ha reso possibile l'adozione di rapporti di trasmissione più lunghi senza sacrificare le accelerazioni, con benefici per il comfort, grazie alla riduzione di rumore che ne consegue, e per i consumi, perché il motore a benzina offre il miglior rendimento quando lavora in condizioni prossime alla coppia massima. Un ulteriore contributo alla riduzione dei consumi è dato dalla maggior diffusione dei cambi a 5 marce, con quinta marcia di riposo, cioè con un rapporto più lungo di quello che servirebbe per raggiungere la velocità massima.
L'elettronica, la quale sta penetrando anche nel campo automobilistico, sta dando un contributo importante al miglioramento del motore, sia attraverso la sofisticazione delle attrezzature di prova, sia attraverso componenti, sensori e microprocessori, montati sul motore stesso. Abbiamo già sulle vetture degli esempi di funzioni ausiliarie affidate con successo all'elettronica: la dosatura del carburante (iniezione elettronica) in sostituzione del tradizionale carburatore, la produzione e la fasatura della scintilla (accensione elettronica) in sostituzione dello spinterogeno, l'interruzione dell'afflusso di carburante al motore durante i tempi morti del funzionamento del veicolo. Quest'ultima funzione è attuata da dispositivi interamente dedicati al risparmio di carburante, che intervengono durante le decelerazioni con effetto frenante sul motore (cut-off) e durante le soste o le percorrenze inerziali con cambio in folle, cioè durante fasi di funzionamento che senza di essi erano effettuate con farfalla al minimo e che potranno essere vantaggiosamente effettuate con motore spento, perché un automatismo elettronico provvederà a riavviare il motore non appena il guidatore sfiorerà un pedale di comando (stop and start).
Un altro modo di risparmiare combustibile è rappresentato dall'adozione del motore a ciclo diesel, resa possibile da accorgimenti costruttivi (precamera con candeletta di riscaldamento) che hanno consentito di estendere la gamma dei diesel alle piccole cilindrate. Certo, per alcune sue caratteristiche, quali peso, rumorosità, costo, fumosità, il motore diesel non è l'ideale, ma il suo maggior rendimento rispetto al motore a benzina, in tutte le condizioni di funzionamento, e specialmente a carichi variabili, fa sì che molti utenti lo preferiscano. In Europa (1982) la percentuale di acquirenti di vetture diesel è stimata del 15% circa e tende ancora a salire. L'interesse dell'utente è soprattutto stimolato dal differenziale di prezzo al litro fra gasolio e benzina, che in Italia e Svezia è molto alto e compensato da una tassa speciale, ma che nella maggior parte dei paesi della CEE non supera il 10%; al di sopra di una certa percorrenza annuale ciò consente di ammortizzare il maggior prezzo di una vettura a gasolio, che dipende non solo dal maggior costo del motore, ma anche dalla necessità di migliori isolamenti per attenuare la rumorosità all'interno della vettura. Anche sul piano puramente energetico la dieselizzazione comporta sensibili risparmi: per gli effetti combinati del maggior rendimento termico del motore, del modo di guidare dell'utente, delle differenze (fra benzina e gasolio) di peso specifico, di contenuto energetico e di resa di raffineria, si può stimare che a parità di servizio per l'utente il chilometro percorso a gasolio possa mediamente richiedere una quantità di petrolio greggio inferiore del 20% rispetto alla benzina.
Le ricerche portate avanti in questi anni hanno riguardato anche altri aspetti della tecnica motoristica, che ci limitiamo a citare senza approfondimenti: i motori con compressore, che consentono, con una cilindrata relativamente piccola, di erogare, quando è necessario, la potenza di un motore più grosso; i motori a carica stratificata, atti a funzionare con miscele magre, che pongono problemi tecnologici non totalmente risolti; i motori policarburati, per esempio metano/gasolio, atti a sfruttare condizioni di convenienza marginali. A questo si aggiungano gli studi per introdurre o incrementare l'uso alternativo di combustibili non tradizionali (allo scopo di diversificare le fonti di approvvigionamento): metano, gas liquido, metanolo, etanolo, alcoli superiori, eteri, esteri di acidi grassi, ecc. In questo campo vanno citate l'esperienza del Brasile, dove le vetture vanno ormai a etanolo puro o con una miscela di benzina al 20% di etanolo; l'esperienza americana del gasohol, benzina al 10% di etanolo ottenuto dai surplus cerealicoli; la limitata esperienza tedesca con una benzina miscelata al 15% di metanolo derivato da carbone; quella dell'Agip con l'MTBE e il methylfuel e la non trascurabile presenza (~ 5%) nel parco automobilistico italiano di vetture trasformate a gas liquido e a metano. Anche il motore elettrico ha riscosso negli ultimi tempi l'attenzione dei tecnici e ha ottenuto consistenti miglioramenti, ma il suo impiego in autotrazione continua a essere condizionato dal peso eccessivo delle batterie e dalla necessità di sostituirle dopo un certo periodo di funzionamento.
Un esempio significativo delle tendenze automobilistiche degli anni ottanta è dato dalla FIAT Uno ES (v. fig. 14), lanciata nel gennaio 1983. Essa fa parte di una gamma di vetture, eredi delle fortune della 127, che comprende motorizzazioni e carrozzerie differenti; si tratta di vetture prodotte al ritmo di 2.200 unità al giorno con esteso uso di robot, in modo da salvaguardare insieme flessibilità di mercato e ammortamento. La Uno ES è una vettura medio-piccola, del peso a vuoto di 700 kg, capace di trasportare 5 persone + 50 kg di bagaglio a una velocità massima di 140 km/h. Il motore a 4 cilindri ha 903 cm3 di cilindrata, rapporto di compressione 9,7, è dotato di accensione elettronica, con un microcomputer che regola l'anticipo e taglia l'afflusso di benzina in decelerazione, ed eroga la potenza di 33 kW (45 CV) a 5.600 giri/min. Grazie al coefficiente di resistenza aerodinamico di 0,33, ai pneumatici a bassa resistenza di rotolamento e alla quinta marcia con rapporto assai lungo, la Uno ES ottiene prestazioni, in fatto di consumi, del tutto sorprendenti, se si considera che non è stato imposto nessun sacrificio allo spazio dell'abitacolo.
Allo scopo di venire incontro all'interesse della clientela per una vettura di lunga durata, è stata posta una particolare cura nella difesa contro la corrosione, usando lamiere protette con zinco nelle zone più critiche, riducendo il numero delle saldature, sigillando le giunzioni, eliminando le zone di ristagno dell'umidità e infine adottando rivestimenti più efficaci e applicati anche all'interno degli scatolati.
3. Gli autoveicoli industriali
a) Lo sviluppo dell'autocarro e dell'autobus
All'autocarro e all'autobus, rappresentanti tipici del trasporto merci e del trasporto collettivo di persone, si sono aggiunti col passare del tempo numerosi veicoli derivati (furgoni, veicoli da campeggio, mezzi fuoristrada, mezzi antincendio, ecc.), che si distinguono per particolari caratteristiche determinate dallo specifico tipo di impiego cui sono destinati. Insieme formano la grande famiglia dei veicoli industriali, che negli altri paesi sono più correttamente chiamati veicoli commerciali e speciali.
I primi autocarri e autobus comparvero fra il 1900 e il 1904 (v. fig. 15). Nei primi tempi questi mezzi di trasporto si distinguevano solo per la carrozzeria. Inizialmente il piano di carico occupava quasi tutta la lunghezza del veicolo, essendo il motore posto sotto il sedile del conducente. Il motore era a benzina e la trasmissione alle ruote avveniva mediante una coppia di catene. In seguito gli autocarri cominciarono a evolversi, assumendo una forma più razionale: cabina di guida protetta da parabrezza, cassone a sponde ribaltabili, centinatura per il telone di protezione.
La prima guerra mondiale diede grande impulso alla costruzione di veicoli per trasporto di merci e persone, ma soltanto più tardi i costruttori si dedicarono al progressivo incremento di potenza dei motori per realizzare velocità commerciali più elevate. Negli anni trenta cominciò ad affermarsi in Europa il motore diesel, caratteristico per le sue doti di limitato consumo di gasolio e di grande robustezza e durata. L'autocarro FIAT modello 634 N con motore diesel, rimasto in produzione dal 1933 al 1939, può considerarsi uno degli automezzi pesanti più interessanti dell'epoca.
Col crescere del parco di autocarri, la loro evoluzione architettonica fu progressivamente influenzata dalla necessità di ridurre le dimensioni di ingombro, a parità di superficie di carico, allo scopo di aumentarne la maneggevolezza. Nacquero così gli autocarri con cabina avanzata e con il motore e relativo cofano inseriti all'interno della cabina stessa. Il modello FIAT 626 N, uscito nel 1939, ne è un esempio classico. Questa novità ha rappresentato una svolta nella struttura e nell'estetica dell'autocarro, e ha dato una decisa spinta anche alla forma definitiva dell'autobus. Intanto si andava affermando sempre più l'architettura con cabina avanzata. L'inserimento del motore in cabina richiese la non facile soluzione di molteplici problemi, quali l'isolamento acustico e termico e l'accessibilità per le operazioni di manutenzione e riparazione. Per migliorare l'accessibilità al motore vennero anche ideate le cabine ribaltabili. Le cabine dei moderni autocarri offrono un abitacolo confortevole e sicuro: studiate anche dal punto di vista estetico, hanno strutture robuste, prive di spigoli vivi e sporgenze, sono dotate di comandi incassati e cedevoli, porte incernierate anteriormente, rivestimenti degli strumenti e del cruscotto realizzati con materiali antiriflesso, estese imbottiture interne per proteggere il guidatore in caso di urti, sedili regolabili e inclinabili a schienale avvolgente, padiglione e pareti rivestiti di materiale fonoassorbente e isolante, impianto di riscaldamento e ventilazione, ampi angoli di visibilità dal posto di guida, cruscotto con strumentazione abbondante e centralizzata, tergicristalli ad ampia superficie detersa, grande facilità di salita e discesa. Negli autocarri destinati a lunghi itinerari l'ampiezza della cabina consente anche la sistemazione di due lettini sovrapposti.
Per quanto riguarda la meccanica, una profonda evoluzione si è avuta nel senso dell'affidabilità, della riduzione dei costi di esercizio e di manutenzione, della sicurezza: un progresso continuo nei motori, nelle trasmissioni, nelle sospensioni, nella guida, nei freni, nei comandi, nella silenziosità di funzionamento, nella riduzione delle emissioni allo scarico. Le sospensioni rigide del passato sono state decisamente migliorate con l'applicazione di molle a balestra di grande lunghezza e con l'adozione della flessibilità variabile e di ammortizzatori a doppio effetto. Per migliorare ulteriormente il comfort e ridurre il peso della sospensione vengono oggi anche utilizzate balestre paraboliche (senza contatto reciproco tra le foglie) e, per carichi limitati, balestre monofoglia. Negli autobus sono frequentemente adottate sospensioni pneumatiche o idropneumatiche, che consentono di mantenere a un livello costante il pianale, indipendentemente dal carico imposto su di esso. Nei veicoli con forte escursione di carico, quali ad esempio le motrici per semirimorchio, sono talvolta impiegate sospensioni pneumatiche o idropneumatiche del tipo di quelle degli autobus. Inoltre si è generalizzato l'impiego del servosterzo per alleviare la fatica del guidatore.
Gli impianti di frenatura sono oggetto di una attenzione sempre maggiore, sia per motivi di sicurezza sia, anche in questo caso, allo scopo di ridurre la fatica del conducente. Perciò sono ovunque usati sistemi di frenatura assistita mediante l'utilizzo di sorgenti di energia pneumatica o idraulica (servofreni a depressione, circuiti frenanti idropneumatici, ecc.). Per ragioni di sicurezza vengono sdoppiati i circuiti che collegano funzionalmente il comando ai freni sulle ruote, per garantire, in caso di mancata frenatura di uno degli assi, che l'impianto funzioni per gli altri assi. Inoltre si tende a ridurre al minimo il tempo intercorrente tra l'istante nel quale si agisce sul pedale e quello della frenatura effettiva, e a commisurare i tempi di ritardo di inizio di frenatura del rimorchio e del semirimorchio con quelli della motrice. Per ottenere una corretta ripartizione delle coppie frenanti in funzione dei carichi sugli assali, vengono comunemente impiegati dei dispositivi di controllo noti come ‛correttori di frenata'. Sono inoltre tecnicamente disponibili speciali dispositivi frenanti, detti anti lock, che servono per evitare il bloccaggio completo delle ruote, specie su fondo scivoloso, e possibili conseguenti sbandate del veicolo. È anche probabile che per migliorare l'efficienza nelle frequenti frenate ad alte velocità si ricorra più diffusamente, anche sugli automezzi pesanti, all'adozione di freni a disco sull'asse anteriore. Vanno sempre più diffondendosi, oltre che i servosterzi e i servofreni, anche i servocomandi per la frizione, per il cambio, per il freno a mano, ecc.
Dopo un lungo periodo durante il quale i motori diesel sono stati oggetto di continue ricerche e cambiamenti nell'intento di migliorare le caratteristiche della combustione, sono state definitivamente adottate l'iniezione diretta e una camera approssimativamente emisferica nel cielo dello stantuffo. Per i motori di cilindrata unitaria inferiore a 500 cma è tuttora usato il sistema a precamera, che permette di risolvere più facilmente il problema dell'iniezione e della corretta circolazione del getto del polverizzatore con l'aria necessaria per la sua combustione, nel caso di piccolissime quantità di gasolio. Con lo sviluppo e la diffusione del motore diesel per autovetture si tende tuttavia a una progressiva generalizzazione dell'iniezione diretta, che consente una maggiore economia di combustibile. Poiché la fonte principale di rumore è il motore, sono inoltre stati studiati particolari accorgimenti nella costruzione del basamento e di altre parti, per impedire risonanze. Per ridurre la rumorosità della combustione tipica del diesel si sono perfezionati la forma della camera di combustione, il sistema d'iniezione, la turbolenza dell'aria. Infine si cerca di diminuire la rumorosità dei ventilatori, della distribuzione, della pompa di iniezione, del compressore d'aria per i freni, dell'aspirazione dello scarico. Nella progettazione del motore, lo studio della silenziosità è abbinato a quello della riduzione della fumosità e della tossicità dei gas di scarico.
La velocità media di esercizio è una componente del coefficiente di utilizzazione del veicolo e ha un gran valore dal punto di vista economico. La portata della corrente del traffico aumenta all'aumentare della velocità, tanto più se si tratta di veicoli pesanti. Perciò negli anni settanta la potenza in tutte le categorie di autocarri ha subito decisivi incrementi, appunto allo scopo di aumentare la velocità media di esercizio avvicinandola a quella dei veicoli leggeri. L'elevata potenza specifica (kW/t), che è uno dei parametri fondamentali della funzionalità e della economicità del mezzo di trasporto, è stata oggetto di una vera e propria competizione fra i costruttori. Una elevata velocità media permette infatti una più intensa utilizzazione del veicolo e della rete stradale.
Un secondo elemento, che attualmente presenta una grande importanza, anche perché legato alla necessità di ridurre i costi di esercizio, è il rapporto tara/portata. A metà degli anni settanta questo rapporto è notevolmente migliorato per il settore dei carri medi, dove si è raggiunto il valore di 500 kg per ogni tonnellata di carico utile; minore è stata la variazione nel settore dei leggeri e soprattutto dei pesanti, poiché l'aumento della velocità media ha imposto incrementi di potenza che hanno limitato l'alleggerimento dei veicoli. Oggi si è intorno a 750 ÷ 1 .000 kg/t per i veicoli leggeri, 450 ÷ 500 kg/t per i medi e 500 ÷ 600 kg/t per i pesanti.
Nei mezzi pesanti, con le potenze attuali di 20 23 CV/t di P.T.T. (peso totale a terra del veicolo a pieno carico), la velocità massima è aumentata a 110 ÷ 120 km/h, anche se per ragioni di sicurezza il limite sulle nostre autostrade è di regola fissato a 100 km/h. È aumentata anche la velocità media, che nelle strade di oggi è assai più influenzata dalla potenza specifica che dalla velocità massima dei veicoli. Per questa ragione è tendenza generale aumentare ancora la potenza in rapporto al peso senza aumentare sensibilmente il limite di velocità ammesso. L'adozione già molto diffusa di motori sovralimentati a diversi livelli di potenza consente di raggiungere tale obiettivo, e consente altresì la disponibilità di una fascia di potenze ottenibili con uno stesso propulsore, in modo da adattarsi ai diversi tipi di impiego, nonché la riduzione dei consumi di combustibile rispetto alla versione aspirata.
Per poter raggiungere un'elevata velocità di punta e superare le massime pendenze a velocità non troppo basse, è necessario che le trasmissioni consentano forti demoltiplicazioni e una gamma di rapporti molto ampia, comprendente anche un rapporto che permetta di viaggiare alla velocità massima col motore a circa il 70% del regime massimo. La tendenza è dunque di aumentare la potenza dei motori e il numero delle marce del cambio, senza naturalmente incrementare il peso totale massimo, che d'altronde è limitato da norme di legge. I vantaggi sono l'aumento della durata del motore, la maggior silenziosità e la riduzione del consumo di combustibile per ogni tonnellata di carico utile trasportato, che costituisce oggi un terzo elemento fondamentale per la valutazione della redditività del veicolo. Anche a questo scopo, negli autobus si sono diffuse le trasmissioni automatiche o semiautomatiche.
Come fra i veicoli da. trasporto merci e quelli per trasporto persone si sono andate accentuando le differenze nella concezione tecnica e funzionale, così in ciascuno dei due settori si sono determinate differenze notevoli fra le varie categorie di modelli in relazione alle loro portate e alle particolari condizioni di impiego. Si tratta di differenze che variano da paese a paese in relazione alle leggi che regolano il trasporto, alla densità di motorizzazione, allo sviluppo industriale, all'estensione della rete stradale e alla stessa configurazione geografica.
Negli Stati Uniti, la carrozzeria degli autocarri con cassone aperto è stata quasi completamente sostituita dalla carrozzeria chiusa, cioè furgonata, che nei veicoli pesanti è rappresentata dal semirimorchio. L'uso del semirimorchio sta diffondendosi sempre più anche in Europa, ma con un certo ritardo in Italia. Fra i suoi vantaggi è evidente quello della riduzione al minimo dei tempi di attesa della motrice per il carico e lo scarico.
Le esigenze, molto differenziate, del trasporto cose, hanno anche dato l'avvio alla specializzazione dei servizi e quindi alla creazione di numerosissimi tipi di veicoli commerciali per impieghi specifici: furgoni frigoriferi, betoniere, carri cisterna, furgoni postali, carri attrezzi, veicoli da campeggio, ecc.
b) I dati quantitativi
La produzione mondiale di autoveicoli ha raggiunto nel 1981 il numero di 37.216.461 unità (fonte: ANFIA), di cui 9.502.201 veicoli commerciali e speciali, pari al 25,5% del totale (v. tab. IV). Nell'Unione Sovietica il numero dei veicoli industriali (873.500 unità prodotte) rappresenta poco meno del 40% del totale ivi prodotto. In Italia, al contrario, la produzione di questi veicoli, riportata nella tab. V, costituisce una percentuale piuttosto bassa, solo il 12%, del totale, in conseguenza di una situazione politica, economica e sociale assai diversa, che implica, fra l'altro, uno sviluppo molto maggiore dei consumi privati. Negli Stati Uniti la percentuale è di circa il 21%.
Dal 1961 al 1981 il traffico totale interno in Italia è aumentato di 3,2 volte, passando da 40,9 a 129,1 miliardi di tonnellate-chilometro. Favorito dall'ampliamento quantitativo e qualitativo della rete stradale, il traffico su strada è aumentato in venti anni di ben 2,3 volte (da 15,2 a 35,1 miliardi di veicoli-chilometro). Per quanto riguarda gli autocarri con peso totale a terra a pieno carico (P.T.T.) non inferiore a 3.000 kg, il trasporto in proprio e quello in conto terzi sono ripartiti percentualmente, in base a recenti stime, secondo i dati riportati nella tab. VI. Fatta eccezione per il settore dei veicoli da cantiere, si può osservare la tendenza a un maggior impiego in conto terzi, passando dai modelli leggeri ai pesanti. Per la classe dei veicoli transporters il trasporto in conto proprio riguarda l'80% del totale, mentre per la classe pesante stradale il trasporto in conto terzi riguarda il 70% del totale. L'edilizia e le industrie estrattive sono i maggiori settori d'impiego dei veicoli pesanti; seguono il settore alimentari e bevande e quello del trasporto di prodotti petroliferi.
L'uso del rimorchio è molto diffuso nel nostro paese, mentre quello del semirimorchio sta diffondendosi progressivamente, in linea con quanto accade nei paesi più industrializzati. A questo proposito occorre tenere presente che in Italia solo nel 1976 con la legge 313 l'autoarticolato (motrice + semirimorchio) ha ottenuto il posto che gli compete, con l'aumento della lunghezza massima da 14 a 15,5 m, che consentirà, tra l'altro, il trasporto contemporaneo di 2 containers da 6,3 m (20 piedi), di peso totale a terra variabile da 32 a 44 t.
Per quanto riguarda il trasporto di persone, la tab. VII e gli istogrammi della fig. 16 dimostrano che il numero di autobus ha avuto nel tempo un incremento assai minore di quello degli autocarri, particolarmente negli ultimi anni. Secondo fonti della direzione generale della Motorizzazione Civile, nel 1980 il trasporto passeggeri era servito per il servizio urbano da 7.111 autobus, per i servizi di linea da 22.388, per il servizio di noleggio da 4.001 e per il servizio privato da 23. 126. Sono cifre piuttosto basse, per un paese di oltre 55 milioni di abitanti, per di più con un'alta percentuale di veicoli vecchi (secondo l'ACI il 39,5% degli autobus circolanti al 31 dicembre 1980 era stato fabbricato non oltre il 1971).
c) I veicoli speciali
I veicoli studiati per particolari imprese, dalle esplorazioni polari alla conquista della Luna, sono numerosissimi e tecnicamente differiscono in modo sostanziale l'uno dall'altro in relazione alle difficoltà ambientali da superare. Sono stati ideati veicoli speciali per la costruzione di strade, gallerie, viadotti, dighe e per l'esplorazione di terreni sconosciuti. La marcia fuori strada non è più una caratteristica dei soli veicoli militari o agricoli, ma è diventata una necessità di lavoro o una ragione di imprese sportive. La caratteristica essenziale degli autoveicoli per fuori strada è la trazione integrale, realizzata con cingoli oppure con ruote tutte motrici provviste di pneumatici aventi speciali battistrada o particolari organi di aderenza. I più rappresentativi dal punto di vista tecnico - e più importanti dal punto di vista quantitativo - sono i veicoli militari. Basti dire che fra il 1940 e il 1945 le ditte americane Willys, Ford, General Motors, Studebaker, Dramond, White, Corbit e Brockway costruirono in totale 4.000.000 di veicoli da trasporto militari, fra i quali numerosissimi i 6 × 6 (sei ruote, tre assi motori) da 2,5 t e la famosa Jeep.
La potenzialità del trasporto per mezzo di autoveicoli pesanti fu dimostrata nel 1944 nell'invasione della Francia da parte degli eserciti alleati: 10.000 autoveicoli fornirono alle armate in avanzata 872.000 t di rifornimenti. L'armata americana in Francia disponeva di un autoveicolo ogni 4 uomini; ogni divisione corazzata disponeva di 2 veicoli da trasporto per ogni veicolo corazzato cingolato da combattimento. Inoltre 750.000 autocarri furono forniti dagli Americani alle nazioni alleate.
Dalla fine della guerra i veicoli militari sono oggetto di studi e ricerche per correggere i difetti riscontrati nel servizio e per utilizzare il generale progresso tecnologico e scientifico. Sono adottate maggiori potenze, trasmissioni variabili automatiche e semiautomatiche, freni impermeabili, differenziali autobloccanti, pneumatici adatti al galleggiamento e imperforabili, ecc. Sono stati sviluppati veicoli anfibi, altri per la marcia su neve o terreni paludosi, per il trasporto e il lancio di missili, per il trasporto di cannoni atomici, ecc. La guida a distanza, la marcia nella nebbia o nell'oscurità, la difesa nucleare o chimica sono altri obiettivi di ricerca nel campo dei veicoli militari.
Altri settori di attività di grande importanza industriale e sociale sono quelli del movimento terra e dell'agricoltura, nei quali il trasporto è uno dei fattori principali di prosperità. La meccanizzazione del movimento terra, iniziata negli Stati Uniti tra gli anni 1920 e 1930, si è sviluppata in Europa e in Italia praticamente solo nel dopoguerra, come conseguenza dello sviluppo della motorizzazione, soprattutto per la costruzione di strade, gallerie, viadotti, dighe e scavi di ogni genere. Il movimento terra comporta diverse operazioni: scavo, caricamento, trasporto, scaricamento, sistemazione (sbancamento, livellazione, ecc.), operazioni che, a seconda dei casi, possono essere eseguite da un'unica macchina o da più macchine.
L'apripista (dozer) è costituito da un trattore di spinta (più sovente cingolato) con un attrezzo anteriore provvisto di una lama ed è usato per spostamenti che in genere sono inferiori a 50 metri. Per spostamenti su distanze più elevate è usata la ruspa (motor scraper), che esegue lo scavo e il caricamento mediante una lama e un cassone di grande peso e potenza. In alcuni casi la macchina viene equipaggiata con un nastro di caricamento (scraper per autocaricante), oppure viene aiutata nello sforzo da un trattore ausiliario di spinta, che agisce solo durante lo scavo e il caricamento. Si tratta di una macchina complessa, pesante e di costo elevato, per cui è usata solo per movimenti terra molto importanti. Maggior versatilità si ottiene impiegando 2 o 3 tipi di macchine diverse: la pala caricatrice, l'autocarro (dumper), la livellatrice (motor grader), l'apripista. L'autocarro si distingue per la particolare robustezza del cassone e per la particolare adattabilità alla marcia fuori strada. La livellatrice è un trattore gommato con lama per la livellazione che permette lavori di notevole precisione.
L'evoluzione di queste macchine tende a una migliore manovrabilità - con la semplificazione e l'automatizzazione dei comandi per ridurre lo sforzo fisico e psichico dei conduttori altamente specializzati - e alla riduzione della rumorosità, delle vibrazioni e degli scuotimenti cui il conduttore è sottoposto, soprattutto quando si richiedono elevate velocità di trasferimento fuori strada o su strade di cantiere accidentate. È prevedibile che anche in questo settore tenderà ad accentuarsi il processo di specializzazione, poiché le macchine movimento terra sono chiamate non soltanto a trasportare materiali terrosi (pietre, ghiaia, minerali), nonché prodotti o sottoprodotti industriali (prodotti chimici, carbone, rifiuti industriali o simili, ecc.), ma anche a realizzare la messa in opera di manufatti industriali usati nei cantieri (tubazioni per gasdotti, materiali per elettrificazione, ecc.).
In Europa la particolare situazione dell'agricoltura (frazionamento della proprietà terriera, orografia, breve distanza media della fattoria dai campi) ha indirizzato il trasporto verso l'uso di rimorchi di medie dimensioni (da 20 a 60 q di peso complessivo) trainati da trattori. Negli Stati Uniti le grandi o grandissime aziende, per lo più a mono- bicoltura, la scarsità di mano d'opera, i costi specifici elevatissimi, le lunghe distanze dal luogo di raccolta al luogo di immagazzinamento o di vendita hanno portato ad adottare mezzi complessivamente autonomi (pick-up), simili all'autocarro leggero, con forma e dimensioni del piano di carico studiate per caricare i più svariati generi di prodotti e tipi di contenitori, molto robusti, per consentire una marcia veloce anche sulle carrarecce, di manutenzione la più semplice possibile. Per il futuro, negli Stati Uniti si pensa al mezzo capace di procedere affiancato alla macchina di raccolta, di accoglierne il prodotto e, completato il carico, di passare dal campo alla strada per il trasporto rapido al silos o al mercato: quasi un connubio fra il trattore e l'autocarro. Prototipi, in stadio più o meno avanzato di sviluppo, di questo nuovo tipo di veicolo destinato esclusivamente all'agricoltura sono stati costruiti in America: 4 ruote motrici, trasmissione in power-shift a gran numero di rapporti per consentire bassissime velocità sui campi e forti velocità su strada, grande capacità di carico in peso e in volume, robustezza e facilità di manutenzione e di riparazione. Le condizioni aziendali dell'agricoltura europea sono profondamente diverse da quelle di paesi come gli Stati Uniti e l'URSS; conseguentemente non è fuori luogo ritenere che da queste diversità possano essere influenzate la progettazione e la realizzazione di macchine agricole specifiche.
4. La ferrovia
a) La storia
Durante il XIX secolo la ferrovia non ha soltanto posseduto l'esclusiva di tutti i trasporti terrestri che non fossero a trazione animale, ma, quasi elevata a emblema della nascente civiltà industriale, ha avuto un ruolo di grande importanza nell'industria meccanica, che a essa deve le prime grandi fabbriche, e nella siderurgia, che nei primi anni dopo la scoperta dei processi di fabbricazione dell'acciaio impegnò nella costruzione di rotaie oltre i due terzi delle proprie capacità produttive. Anche il movimento di capitali legato alla rapidissima crescita del sistema (30.000 km all'anno di nuove linee negli anni intorno al 1880) fece di esso un protagonista non secondario dell'attività finanziaria nella seconda metà del secolo. Il Novecento, più antitesi che continuazione del secolo precedente per quanto riguarda la ferrovia, ha registrato al suo inizio i primi segni dello sgretolamento di questa effimera posizione di predominio e terminerà, secondo le più facili previsioni, con un severo ridimensionamento dell'intera rete mondiale, nella ricerca di uno spazio nel quale la sopravvivenza della ferrovia sia possibile in condizioni tecnicamente ed economicamente competitive.
Al principio del secolo si realizzarono le prime importanti nazionalizzazioni (Svizzera, Italia, Giappone, Belgio, ecc.) e il processo, interrotto dalla guerra, riprese subito dopo e interessò praticamente tutti i paesi del mondo industriale. Proprio rispondendo al nuovo concetto della funzione sociale del trasporto, le prime conseguenze delle nazionalizzazioni furono, da un lato, un maggior sviluppo delle linee a scarso reddito, costruite esclusivamente per togliere dall'isolamento le aree più povere dei diversi paesi, e, dall'altro, l'avvio delle prime elettrificazioni, che, richiedendo investimenti a lunghissimo ciclo economico, potevano molto meglio essere affrontate da un ente statale, che non da imprese prevalentemente appoggiate al capitale privato.
La prima guerra mondiale richiese, nei paesi che vi furono coinvolti, un impegno senza precedenti nei trasporti e per la prima volta le ferrovie diedero la misura della straordinaria potenzialità raggiunta dal sistema. Ma in esigenze di mobilità la macchina bellica è insaziabile e, accanto ai treni, flotte sempre più importanti di autocarri furono chiamate ad assicurare i trasporti militari, con ciò direttamente concorrendo allo sviluppo e al potenziamento dell'industria automobilistica. Alla fine della guerra la concorrenza stradale, irrilevante negli anni precedenti, aveva ormai acquisito una sua importanza nel soddisfare la domanda di mobilità. Nel 1920, con 11 milioni di veicoli stradali nel mondo, il 25% dei trasporti meccanizzati era già affidato alla strada. Ma, con una domanda in continuo aumento, le ferrovie non si accorsero che la loro posizione dominante cominciava a essere insidiata e continuarono a operare come se i nuovi mezzi dovessero al massimo limitarsi ai servizi di distribuzione. Perché ci si accorgesse che i tempi facili erano finiti, ci volle la crisi economica del 1929, che, con la drastica riduzione del traffico, conseguente alla contrazione della produzione e delle attività commerciali, colpì soprattutto la ferrovia, organizzativamente più rigida e per nulla preparata a operare in regime di concorrenza. Quasi d'improvviso ci si rese conto che il pubblico poteva scegliere e ci si domandò cosa si doveva fare per assicurarsene la preferenza. Fino ad allora si era viaggiato con sicurezza e a basso costo, ma i viaggi duravano troppo tempo e i servizi erano poco frequenti, mentre anche il miglior materiale, nonostante il lusso apparente, aveva sospensioni scadenti, era rumoroso e poco confortevole quanto a illuminazione, riscaldamento e ricambio d'aria. Sotto lo stimolo salutare della crisi gli anni trenta segnarono uno straordinario acceleramento del progresso. L'introduzione delle automotrici (v. fig. 17) sia diesel che elettriche permise di effettuare a costi contenuti servizi con numero ridotto di viaggiatori, più frequenti e più idonei a soddisfare le esigenze degli utenti. Il minor peso per asse delle automotrici rispetto alle locomotive e l'elevata potenza specifica consentirono un notevole incremento della velocità massima e dell'accelerazione, con riduzione dei tempi di viaggio del 25-30% rispetto ai precedenti treni convenzionali, ciò che determinò uno spettacolare successo dei nuovi mezzi, che nel 1940 già erano, nel mondo, diverse migliaia. Ma l'avvenimento più caratteristico di quegli anni fu la presa di coscienza dell'importanza del comfort. La ricerca, ancora peraltro esclusivamente empirica, di una migliore qualità di marcia, i nuovi carrelli, le vetture a cassa metallica, l'insonorizzazione, il riscaldamento elettrico, le prime timide applicazioni della climatizzazione, ebbero origine in quel grandioso sforzo di adeguamento e perfezionamento che ha caratterizzato gli anni trenta. Nel tentativo di realizzare vetture non meno confortevoli dei veicoli stradali, si tentò anche l'applicazione dei pneumatici agli assi ferroviari, dando origine a strani veicoli provvisti di venti ruote gommate (le Michelin di Bugatti). L'esperimento non poteva avere successo, perché con esso si rinunziava a due delle caratteristiche più vantaggiose del trasporto su rotaia: la sua idoneità a sopportare alte concentrazioni di carico e il basso indice di resistenza al moto.
La seconda guerra mondiale chiamò un'altra volta la ferrovia a dare il massimo della sua capacità, ma fu uno sforzo di breve durata, perché presto i bombardamenti aerei, i sabotaggi, le distruzioni di varia natura ne ridussero enormemente la potenzialità. Alla fine, nei paesi che erano stati teatro di combattimenti, c'erano soprattutto rovine o materiali e impianti sfruttati oltre ogni limite; nel frattempo la concorrenza aveva fatto un balzo in avanti, incomparabilmente più importante di quello fatto dopo la prima guerra mondiale. Se quella volta era nata la concorrenza della strada, ora era il risveglio della concorrenza dell'aereo che avrebbe influito in modo determinante sul futuro del trasporto su rotaia. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale e già a partire dalla fase della ricostruzione, la situazione non evolve più in modo uniforme nei vari paesi del mondo e si differenzia sostanzialmente in quattro grandi aree economiche e politiche.
1. Nei paesi dove l'economia non è governata dalla legge di mercato, la concorrenza può essere controllata e condizionata, e la ferrovia continua a soddisfare nella massima misura la domanda di mobilità, mentre il trasporto stradale, scarsamente sviluppato anche in relazione alla più bassa qualità della vita, svolge soprattutto compiti ausiliari di distribuzione. La densità di traffico raggiunge livelli del tutto sconosciuti all'Occidente, superando in più casi il valore elevatissimo di 100 milioni di t-km per km. In particolare, nell'URSS, su un decimo della rete mondiale (135.000 km di cui 40.000 elettrificati), si svolge più della metà di tutto il traffico ferroviario di merci; il volume del traffico ferroviario di merci ha infatti raggiunto, in URSS, il traguardo dei 3.500 miliardi di t-km all'anno (in Italia le F.S. trasportano 17 miliardi di t-km/anno, su 16.000 km di rete).
2. La seconda grande area è costituita dagli Stati Uniti, dove la rete ferroviaria ha uno sviluppo che corrisponde circa a un quarto della rete mondiale. In questo paese le ferrovie hanno immediatamente rinunciato alla competizione per quanto riguarda il servizio viaggiatori, sceso all'incredibile livello dell' 1%, tanto che la grande maggioranza dei giovani delle ultime generazioni non ha mai fatto l'esperienza di un viaggio in treno. Poche eccezioni, come ‛il corridoio di Nord-Est' (Baltimora-Boston) e le organizzazioni Conrail e Amtrack, svolgono servizi estremamente modesti se guardati con l'ottica europea. I turbotreni della United Aircraft Corporation e i turbotreni tipo SNCF, parte acquistati in Francia e parte costruiti localmente, sono stati tolti prematuramente dal servizio, perché non si adattavano alle scadenti condizioni dell'infrastruttura, ma soprattutto perché mancava loro il supporto di una cultura dell'alta velocità. Negli Stati Uniti si punta tutto sul traffico delle merci, che però viene svolto con criteri di economia estremamente ristretti, tanto da consentire che sotto il massacrante passaggio di treni di 5.000 t e oltre, con carichi per asse di 30-35 t, l'infrastruttura si degradi, per mancanza di manutenzione, a livelli che in Europa sarebbero assolutamente impensabili. I casi di svio, centinaia di volte più frequenti che in Europa, sono una chiara dimostrazione di questa paradossale situazione.
3. Quanto alle ferrovie del Terzo Mondo, esse in generale hanno reagito alla concorrenza praticando le tariffe più basse possibili e affondando nei debiti e nell'inefficienza. Salvo poche eccezioni, sono tutte avviate a un degrado irreversibile e sopravvivono solo grazie all'assistenzialismo, al quale ben pochi governi hanno la forza di sottrarsi.
4. Soltanto l'Europa Occidentale e il Giappone hanno accettato la sfida su tutti i fronti, continuando senza esitazione nella strategia degli anni trenta: comfort, velocità, frequenza. Ma ai magnifici successi tecnici hanno corrisposto, purtroppo, risultati commerciali sempre più deludenti, tanto che verso la fine degli anni cinquanta tutte le ferrovie del mondo libero sono state investite da una profonda crisi di sfiducia. Erano gli anni in cui per la nuova capitale del Brasile, l'artificiale Brasilia, si era pensato a tutto, ma si era dimenticata la ferrovia; nello stesso periodo costruttori di grande tradizione come la Westinghouse abbandonarono il settore e la proposta giapponese della nuova linea del Tokaido fu sprezzantemente considerata dalla finanza internazionale come un'insensata iniziativa, equivalente alla costruzione della muraglia cinese del XX secolo.
Ma dopo pochi anni sono proprio il continuo aumentare degli automezzi in circolazione e la nascente congestione aerea che risvegliano nel mondo occidentale l'attenzione sulla funzione della ferrovia. Ci si accorge che, oltre un certo limite, al crescere del numero dei viaggiatori il costo del viaggio in auto aumenta e la qualità peggiora, mentre in ferrovia avviene il contrario, e ci si rende conto finalmente che i fattori di trasporto congeniali alla ferrovia sono le grandi masse, le alte velocità, le elevate frequenze di viaggio.
Fin dal 1964 viene aperta in Giappone la nuova linea del Tokaido, percorsa da oltre 200 treni al giorno alla velocità di 210 km/h, cui fanno seguito negli anni successivi altre tre nuove linee; tutte queste linee fanno parte di una super-rete a scartamento normale detta Shinkansen, predisposta per 260 km/h, che attualmente ha raggiunto i 2.000 km di sviluppo e che dovrà totalizzarne in avvenire almeno 5.000 e forse anche 7.000.
In Europa viene predisposto nei primi anni settanta il piano direttore UIC, che prevede, entro la fine del secolo, la costruzione di 6.000 km di nuove linee atte ai 300 km/h e il rinnovamento di 35.000 km di linee esistenti, sulle quali i treni potranno correre ad almeno 200 km/h. La FirenzeRoma, la Parigi-S. E., la Parigi-Atlantico e nuove linee in Germania e in Polonia rappresentano il primo avvio di questo grandioso programma.
La crisi economica mondiale nell'ultimo decennio ha avuto effetti funesti sulla situazione economica di tutte le ferrovie dell'Occidente. Con l'inflazione, la forbice costi-ricavi si è sempre più divaricata e ormai praticamente tutte le amministrazioni ferroviarie sono in disavanzo e devono in misura più o meno grave essere sostenute a spese della comunità. Tutti i paesi sono alla ricerca di una strategia che aiuti a ristabilire l'equilibrio. Molto si deve puntare sul traffico merci, dove ancora esiste una grande disponibilità di domanda (in Italia appena il 15% delle merci è trasportato per ferrovia), e la ripresa può venire da un maggior sviluppo del trasporto combinato e dalla specializzazione dei servizi, con treni completi di grande composizione (qualche migliaio di tonnellate), in modo da ridurre le operazioni di smistamento, che causano ritardi e spese aggiuntive. Importantissima sarà la funzione della ferrovia intorno alle grandi concentrazioni metropolitane. Anche qui la rotaia ha una capacità irraggiungibile con gli altri mezzi. Le molte decine di migliaia di viaggiatori trasportabili in una sola ora su una ferrovia a doppio binario o gli 80.000 viaggiatori/ora in partenza da una grande stazione creerebbero su strada congestioni intollerabili, insieme a gravissimi ritardi. La rete regionale di Parigi (RER) è uno dei migliori esempi di questa impostazione. Resta il problema delle linee secondarie, che non hanno e non avranno mai un traffico sufficiente per compensare i costi. Salvo poche linee, sulle quali, riorganizzando il servizio in modo molto economico (estesa automazione, riduzione al minimo del personale), si potrebbero almeno coprire le spese correnti, per tutte le altre non c'è altra scelta che la soppressione (ed è gran peccato che non si sia provveduto in tal senso in occasione della ricostruzione). In quanto tempo e in quale misura questi scomodi provvedimenti saranno presi è un problema soltanto politico. In Inghilterra vi sono serie proposte (Piano Serpell) di sopprimere l'85% delle linee esistenti (già drasticamente ridotte rispetto all'anteguerra); in Italia, dove, nei trasporti, lo spirito imprenditoriale è del tutto perduto, si ripristina dopo 40 anni di inattività la Firenze-Faenza e si programma l'elettrificazione di linee, in Sicilia, con un traffico che non arriva alla decima parte di quello che ne giustificherebbe la sopravvivenza.
b) Il materiale rotabile
Per oltre un secolo i convogli ferroviari sono stati esclusivamente formati da locomotive e da materiale trainato (coerentemente con la stessa etimologia della parola ‛treno'), mentre soltanto negli anni trenta hanno fatto la loro comparsa automotrici e autotreni, che, avendo in dotazione sia gli impianti per generare lo sforzo di trazione, che le strutture per accogliere i viaggiatori, assommano in un unico rotabile le caratteristiche dei mezzi trainanti e dei veicoli rimorchiati.
Le locomotive, secondo il sistema di trazione impiegato, si classificano in locomotive a vapore, elettriche e diesel. Si ricordano anche le locomotive turbogas, di cui furono costruiti in varie versioni circa un centinaio di esemplari, ormai quasi tutti inesorabilmente rottamati. Alla locomotiva a vapore il sistema ferroviario deve non solo la sua fortuna, ma anche la sua stessa esistenza, poiché fu proprio per dare alla strada una resistenza sufficiente a sostenere il peso della caldaia e del motore a vapore, unico generatore di potenza esistente nel XIX secolo, che si dovettero applicare a essa le rotaie metalliche, dando così origine alla ‛strada ferrata'.
Anche se costruita in migliaia di versioni (differenti per scartamento, sagoma trasversale, numero e diametro delle ruote motrici e degli assi o dei cartelli portanti, collocazione dei cilindri, interni o esterni, e del tender, incorporato o separato, ecc.), la locomotiva a vapore non si è staccata concettualmente dalla locomotiva di G. Stephenson (v. fig. 18), rispetto alla quale, nel corso di tanti anni, le uniche importanti innovazioni introdotte sono state il surriscaldamento del vapore e la doppia espansione. Le caratteristiche funzionali della locomotiva a vapore (una volta chiamata ‛la macchina' per antonomasia) sono straordinariamente aderenti alle esigenze della trazione. Essa infatti può sviluppare a bassissima velocità e anche quando è ferma il massimo sforzo di trazione, che poi spontaneamente riduce al progressivo crescere della velocità, può funzionare in entrambe le direzioni di marcia, può frenare dinamicamente (controvapore), non richiede avviamento artificiale. Per la straordinaria semplicità di struttura, la comprensibilità immediata del suo funzionamento, l'evidenza con la quale ogni avaria o irregolarità viene messa in luce, la locomotiva a vapore merita di essere definita, più di ogni altra, una macchina a misura d'uomo. La cooperazione macchinista-locomotiva, spesso ricordata nella letteratura di altri tempi, rappresenta un momento suggestivo e irripetibile nella storia del lavoro umano.
In contrapposizione a queste qualità, la locomotiva a vapore era penalizzata da un consumo energetico eccessivamente elevato. Mettendo in conto, oltre al basso rendimento della trasformazione termodinamica, lo spreco di combustibile nella discesa, nelle soste e alla fine del turno di servizio, si ottenevano rendimenti globali (intesi come rapporto fra l'energia corrispondente al carbone prelevato e l'equivalente del lavoro di trazione misurato al ‛gancio' del tender) che non arrivavano al 3%, neppure con il materiale di più recente costruzione. Per la trazione diesel e per la trazione elettrica (nel caso in cui questa sia alimentata da centrali termiche) il rendimento globale è invece prossimo al 16-18%.
La conversione dalla trazione a vapore alla trazione diesel ha avuto inizio subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e si è praticamente completata nel corso dei successivi 25 anni con la messa in servizio nelle varie ferrovie del mondo di quasi 100.000 locomotive diesel. Soltanto pochi paesi (India, Cina, Sudafrica), dove esistono grandi disponibilità di carbone, si sono in parte tenuti fuori da questa trasformazione.
Fra le varie opzioni possibili (uno o due motori diesel, trasmissione idraulica o trasmissione elettrica) ha prevalso in larga misura la soluzione monomotore con trasmissione elettrica. La potenza dei motori è andata progressivamente aumentando dai circa 1.300 CV delle prime locomotive a oltre 3.000 CV per la maggior parte delle locomotive più recenti. Sono anche disponibili e omologati motori diesel ferroviari da 5.000 e anche da 7.000 CV, ma le applicazioni su locomotive sono per ora relativamente limitate. La maggior parte dei motori per locomotiva sono a 4 tempi, raffreddati ad acqua, sovralimentati con refrigerazione intermedia e con velocità di rotazione fra i 1.000 e i 1.500 giri al minuto. La sola eccezione importante è costituita dalle molte migliaia di locomotive della General Motors, sulle quali sono montati esclusivamente motori a due tempi con velocità di rotazione fra i 700 e i 900 giri al minuto. La classica trasmissione elettrica costituita da una dinamo trascinata dal motore diesel e alimentante motori di trazione a corrente continua del tipo a eccitazione in serie viene ora sostituita, quando la potenza del diesel supera almeno i 1.500 CV, da un alternatore trifase in serie con un raddrizzatore a diodi controllati, con il vantaggio di una notevole economia di peso e di una maggiore facilità di regolazione. Con un ulteriore progresso, reso possibile dall'evoluzione dell'elettronica di potenza, l'energia prodotta dal generatore viene trasformata attraverso un inverter in corrente trifase, modulata in tensione e frequenza, con la quale si alimentano motori asincroni con rotore a gabbia, nettamente più leggeri, sicuri e affidabili del classico motore di trazione a corrente continua.
Mentre per la trazione diesel la potenza è condizionata dalla dimensione del motore installabile a bordo, nelle locomotive elettriche, che attingono l'energia direttamente da una linea esterna, questa limitazione non esiste. La potenza specifica delle recenti locomotive elettriche raggiunge i 60 kW per t, il che vuol dire 1.200 kW su un asse col carico di 20 t. In queste condizioni si presenta il problema di utilizzare potenze cosi elevate senza perdere l'aderenza, cioè senza provocare fastidiosi e dannosi fenomeni di slittamento. Ciò ha dato luogo a una tecnica che con un accettato francesismo viene chiamata di ‛anticabraggio'. Essa è il risultato sia di accorgimenti meccanici per contrastare la perdita di carico degli assi anteriori, che sotto l'azione dei massimi sforzi di trazione tendono a sollevarsi, sia di regolazioni elettriche, perché i motori collegati con gli assi che comunque perdono carico siano alimentati con correnti proporzionalmente ridotte. Al fine di mantenere l'aderenza, molta importanza ha anche la regolazione della caratteristica meccanica del motore di trazione, ovvero della legge secondo la quale varia la coppia motrice in funzione della velocità angolare; da questo punto di vista i migliori risultati vengono dai motori trifasi asincroni e dai motori in corrente continua permanentemente alimentati in parallelo.
I progressi raggiunti nell'apparato motore delle locomotive diesel e delle locomotive elettriche hanno contribuito anche al potenziamento del materiale automotore, che sta trovando nei servizi ad alta velocità il suo più congeniale campo di impiego. I treni dello Shinkansen giapponese (v. fig. 19) viaggianti a 210 km/h, ma già preparati per 260 km/h, sono formati solo da elettromotrici (fino a 1 6 in un'unica composizione) con tutti gli assi motori e con carico per asse non superiore alle 16,5 t. Il TGV francese, autentico prodotto del futuro, formato da due motrici e otto rimorchiate e con carico massimo di 17 t per asse, corre regolarmente a 270 km/h sulla nuova linea Parigi-Lione, e ha, nel dicembre 1981, raggiunto in prova i 380 km/h, battendo di ben 50 km/h il record di velocità che la stessa SNCF manteneva dal 1955. Il risultato più incoraggiante di questa straordinaria esperienza fu che dopo la prova, seguita da numerose altre a velocità poco inferiori, la geometria del binario risultò assolutamente inalterata: significativo successo della recente scienza della dinamica ferroviaria, che, studiando il tutto come un unico sistema, ottimizza il comportamento reciproco dei veicoli e del binario sul quale essi corrono.
c) L'infrastruttura
Lo scartamento (definito come la larghezza fra le facce interne delle rotaie) è l'elemento di infrastruttura che maggiormente differenzia fra loro le varie reti ferroviarie. Delle trenta e più misure esistenti nel secolo passato, delle quali la più larga, quella della Great Western in Inghilterra, arrivava a 2 m e 13 cm, ne rimangono ora solamente cinque, che insieme interessano più del 95% delle linee del mondo. Nel sottostante riquadro sono riportate in mm, e, fra parentesi, in piedi e in pollici, le misure degli scartamenti attualmente in esercizio nei diversi paesi.
Salvo poche eccezioni, quali il sistema a ruote scorrevoli del treno Talgo spagnolo, il cambio assi sui vagoni Transfesa fra Spagna e Francia, o il cambio carrelli alla frontiera occidentale dell'URSS, le reti a scartamento diverso non hanno fra loro nulla in comune; e ciò è certo un grave impedimento all'universalità della ferrovia, tanto più che un'unificazione è del tutto impensabile, anche in un futuro molto lontano.
Un'altra differenza che crea ostacolo al traffico promiscuo fra le varie reti è la sagoma limite, cioè il contorno che vincola il massimo ingombro trasversale del materiale mobile e dei carichi trasportati. Sullo scartamento standard la maggior ampiezza di sagoma si ha sulle linee degli Stati Uniti e del Canada, mentre la più ridotta è sulle linee inglesi, sulle quali infatti non può circolare il materiale ordinario della rete europea.
Le caratteristiche di tracciato di una linea, e in particolare il raggio minimo delle curve, determinano in modo preciso i massimi valori della velocità di esercizio. Nel secolo passato, durante il rapido sviluppo della rete mondiale, il problema della velocità non era molto sentito e nei tracciati originari erano spesso presenti raggi di curvatura molto ridotti (sotto i 300 metri). Soprattutto sulle linee di montagna la tortuosità era molto elevata, ma da ciò non derivava praticamente alcuna limitazione di velocità, essendo questa già severamente condizionata dalla bassa potenza specifica in relazione ai valori delle pendenze da superare. Nel Novecento, con il rinnovato interesse per la rapidità di viaggio e con le possibilità offerte dalla trazione elettrica, il tracciato delle nuove linee risponde a una diversa impostazione e si adegua, volta per volta, alle velocità di esercizio che si considerano realizzabili all'epoca della costruzione. Come andamento medio, il valore del raggio minimo di curvatura sulle nuove linee si è raddoppiato ogni 20 anni, passando dai 250 m all'inizio del secolo ai 4.000 m della Parigi-S.E. e della rete giapponese dello Shinkansen.
Dopo un secolo e mezzo la struttura dell'armamento è ancora quella delle primissime realizzazioni: piattaforma, ballast, traversine, rotaie con i relativi fissaggi. Si sono avuti invece continui e sostanziali miglioramenti dei singoli componenti, che interessano: la rigidezza delle rotaie (molto diffusa attualmente la rotaia di 60 kg/m), il numero delle traversine (fino a 1.700 per km), la qualità e lo spessore del ballast. La grande stabilità alla compressione del binario moderno ha reso possibile la realizzazione delle LRS, le lunghe rotaie saldate, che si stendono con continuità per chilometri, senza la presenza di alcun giunto di dilatazione. Alle alte e altissime velocità si restringono drasticamente le tolleranze ammesse nella geometria del binario, che arrivano a limiti più appropriati alla meccanica di media precisione che non alla tecnica delle costruzioni civili. Il timore che il mantenimento di tolleranze tanto spinte non fosse compatibile con le azioni trasmesse dalle locomotive e dal normale materiale dei treni merci ha indotto la SNCF a specializzare la nuova linea Parigi-S.E. al solo servizio viaggiatori da effettuarsi esclusivamente con materiale omogeneo (i treni TGV). Con ciò sono state ottenute anche notevoli economie nella costruzione della linea: dato infatti che la linea, cosi concepita, ammette pendenze fino al 35%, si è avuta molta maggior libertà nella scelta del tracciato e si è potuto evitare le gallerie e ridurre al minimo le grandi opere d'arte.
In Europa, nell'URSS e in Giappone tutte le più importanti linee, per circa un terzo rispetto al totale, sono elettrificate e su di esse si sviluppa oltre l'80% del traffico complessivo. Sono presenti nel mondo, e distribuiti senza nessuna regola, vari sistemi di elettrificazione: i principali sono elencati nel sottostante riquadro.
L'ultimo sistema elencato è ormai quello che si impone nelle nuove elettrificazioni, per il vantaggio di usare la frequenza industriale, già presente sulle grandi reti di distribuzione. Per aumentare al massimo la distanza fra le sottostazioni, in alcune linee degli Stati Uniti e del Sudafrica funzionanti a frequenza industriale di 50 o 60 Hz, la tensione è stata portata a 50 kV. Come già si è detto per i differenti scartamenti, anche per i vari sistemi di elettrificazione non c'è la minima probabilità di poter giungere, anche in tempi molto lunghi, a una unificazione. L'inconveniente è però meno grave, perché, grazie all'elettronica di potenza, diventa sempre più facile realizzare locomotive bicorrenti o policorrenti in grado di funzionare con diversi tipi di alimentazione.
Altre parti importanti dell'infrastruttura sono il sistema di segnalamento e l'insieme delle telecomunicazioni. Si tratta sempre di impianti molto specialistici, nei quali l'elettronica sta introducendo innovazioni importanti che ne potenziano le prestazioni, aumentandone nel contempo l'affidabilità e la versatilità di impiego.
5. I problemi dei trasporti terrestri
a) La sicurezza
Il numero e la gravità degli incidenti della circolazione rappresentano un problema che interessa soprattutto i paesi più industrializzati, ma sta diventando preoccupante anche per quelli in via di sviluppo. Rispetto agli incidenti stradali gli incidenti ferroviari sono di gran lunga meno numerosi e il numero delle vittime è incomparabilmente inferiore, dato che nei trasporti su rotaia mancano quasi del tutto gli elementi soggettivi e occasionaii che tanta influenza hanno nel produrre incidenti; l'interesse va quindi rivolto principalmente ai problemi della circolazione stradale.
La situazione. - La sicurezza nasce dal buon progetto, vive col buon guidatore, muore col cattivo guidatore. Essa ha un duplice aspetto: la sicurezza ‛attiva', intesa a evitare l'incidente (manovrabilità, tenuta di strada, comfort, ecc.) e la sicurezza ‛passiva', intesa a ridurre le conseguenze dell'incidente (robustezza della scocca, integrità dell'abitacolo, sporgenze e imbottitute interne, sistemi di ritenuta, ecc.).
I problemi sono legati in primo luogo al numero di veicoli circolanti e alla lunghezza complessiva della rete stradale; nella tab. VIII sono riportati i dati per alcuni paesi.
Risulta evidente come in Italia il numero di km di strada per 1.000 abitanti sia tra i più bassi e come il numero di veicoli per km di strada sia il più elevato in assoluto; tenendo inoltre conto del fatto che in Italia vi sono molte zone montagnose, si giunge alla conclusione che il traffico, in Italia, si svolge in una situazione meno favorevole che in altri paesi. Nella tab. IX sono indicati i dati relativi agli incidenti stradali nell'anno 1979 nei principali paesi.
In media si ha un morto ogni circa 40 incidenti in Inghilterra, uno ogni circa 30 incidenti in Germania e negli Stati Uniti, uno ogni circa 20 incidenti in Francia e in Italia; questi ultimi paesi risultano quindi quelli in cui la mortalità è proporzionalmente maggiore. Analoga situazione si ha considerando il numero di feriti in rapporto a ogni morto: circa 50 in Inghilterra, circa 40 in Germania e negli Stati Uniti, circa 30 in Francia e in Italia.
La tab.X riporta l'andamento degli incidenti stradali, in Italia, nel periodo 1958-1981, rilevato dall'ISTAT. È da precisare che l'ISTAT considera gli incidenti in cui siano derivate lesioni a persone e/o danni materiali di una certa entità o che, comunque, abbiano richiesto l'intervento degli organi rilevatori; si noterà quindi che i dati sui morti e i feriti coincidono con quelli della tab. IX ricavati dalle statistiche ONU, mentre il numero di incidenti differisce.
Il numero di incidenti è andato aumentando sino al 1973 (inizio della crisi petrolifera e sue conseguenze sul traffico), dopo di che è andato progressivamente diminuendo sino al 1978. Successivamente i valori si sono stabilizzati o, tutt'al più, sono leggermente aumentati; analogo andamento si riscontra nel numero di infortunati. La maggioranza degli incidenti, circa il 70%, è costituita da collisioni fra veicoli, mentre circa il 20% è dato da incidenti a veicolo isolato (uscita di strada, ostacolo fisso, ecc.); i pedoni sono coinvolti in circa il 10% degli incidenti. Negli istogrammi della fig. 20 è illustrata la ripartizione degli incidenti per tipo di strada, di veicoli coinvolti e di persone infortunate. Dagli istogrammi viene messo in evidenza che: a) il numero di incidenti sulle strade urbane è oltre il doppio di quello che si verifica sulle strade extraurbane (diversità nella congestione del traffico); b) il numero di feriti è maggiore sulle strade urbane, mentre il numero dei morti è maggiore sulle strade extraurbane; ciò significa che sulle strade urbane si ha un maggior numero di incidenti, ma meno severi, mentre sulle strade extraurbane si hanno meno incidenti, ma più severi (fuori città si corre di più); c) il numero di guidatori infortunati è circa doppio di quello dei trasportati infortunati, in accordo col tasso di utilizzazione del veicolo, che è di circa 1,2 persone per vettura; d) la percentuale dei morti tra i pedoni (1.568 casi su un totale di 8.072 = 19,4%) è circa doppia di quella dei feriti (25.490 casi su un totale di 225.242 = 11,3%): cioè, quando un pedone ha un incidente è più probabile un esito fatale; e) l'assoluta maggioranza degli incidenti riguarda gli autoveicoli; il numero di incidenti in cui sono coinvolte autovetture è circa 5 volte quello degli incidenti in cui sono coinvolti autocarri, autobus, autotreni.
Le cause. - Le statistiche dei vari paesi concordano sul fatto che il fattore uomo è causa, o concausa, preponderante degli incidenti stradali; seguono, a distanza, il fattore veicolo e il fattore strada. Nella tab. XI sono riportate le percentuali delle cause accertate o presunte degli incidenti attribuibili al fattore uomo, secondo le risultanze degli organi rilevatori (carabinieri, polizia, vigili), comunicate all'ISTAT nel 1980.
In quanto cause o concause attribuibili al fattore veicolo, che, a seconda di varie statistiche, contano per il 5 ÷ 10% del totale degli incidenti, i difetti riscontrati principalmente (fonte: SAI) sono elencati nel sottostante riquadro.
Quanto al fattore strada, che incide per circa il 5% sul totale degli incidenti, i motivi riscontrati principalmente (fonte: SAI) sono riportati nel riquadro seguente.
È altresi da segnalare che, in base ai dati ISTAT, il 55% di tutti gli incidenti avviene su rettilineo, il 77% con cielo sereno, l'87% su fondo asciutto, il 95% su strada asfaltata: tutti questi elementi confermano la prevalenza del fattore uomo come causa degli incidenti.
I periodi di massima frequenza degli incidenti coincidono, secondo i dati ISTAT, con le festività: il numero maggiore di incidenti si ha infatti in luglio (25.184 incidenti su un totale annuo di 271.408) e il numero maggiore di morti in agosto (867 su 8.072); analogamente il massimo di incidenti si ha di lunedì e il massimo di morti di domenica. L'ora più pericolosa è dalle 17 alle 18, come numero di incidenti, e dalle 18 alle 19, come numero di morti, chiara conseguenza della stanchezza e della congestione del traffico al termine della giornata lavorativa.
È da sottolineare che le statistiche riportano essenzialmente gli incidenti severi, ma, fortunatamente, la grande maggioranza degli incidenti è di entità lieve o modesta. Il numero di sinistri segnalati alle società di assicurazione è all'incirca 10 volte quello degli incidenti indicati dalle statistiche ufficiali. Il costo degli incidenti è rilevante: nel 1981 (dati rilevati dall'ANFIA) le società d'assicurazione hanno pagato 2.723 miliardi di lire per sinistri automobilistici.
I rimedi. - Per limitare i danni imputabili al fattore uomo si possono prendere due tipi di provvedimenti: a) esercitare un'azione educativa sul comportamento spontaneo del guidatore, onde renderlo più responsabile verso sé e verso gli altri; b) mettere a punto una legislazione che vieti e punisca tutti i casi di guida pericolosa.
Per quanto riguarda il comportamento spontaneo la situazione non è certamente incoraggiante. Per analizzarlo sono stati condotti, soprattutto negli Stati Uniti, studi psicologici del guidatore in genere e, in particolare, di chi aveva causato incidenti; questi studi hanno messo in luce situazioni conflittuali dovute ad attriti sul lavoro o nella famiglia, a difficoltà economiche, al desiderio di affermare la propria presunta superiorità sugli altri, ecc. È da notare l'inconscia e diffusa convinzione che ‛gli incidenti capitino agli altri'. È altresì da sottolineare il generale atteggiamento di indifferenza o di ostilità verso le cinture di sicurezza: neppure nei paesi dove è obbligatorio indossarle si raggiunge un impiego del 100% e negli altri paesi la percentuale è molto bassa (si ha circa un 10% negli Stati Uniti e un valore ancora minore in Italia). Statistiche americane segnalano che i guidatori molto giovani hanno incidenti in numero proporzionalmente maggiore rispetto ai guidatori più anziani; analogamente, i guidatori che hanno conseguito la patente da non più di due anni hanno più incidenti dei guidatori più esperti. In circa metà degli incidenti, negli Stati Uniti, si è appurato che il conducente era sotto l'influenza di bevande alcoliche o di droghe; in Italia la percentuale è apparentemente bassissima, in quanto non è autorizzato l'impiego del palloncino (alcolimetro).
Per quanto riguarda la legislazione, l'Italia ha un Codice della strada in vigore da anni, che da tempo è in corso di revisione e aggiornamento. Ma alle buone intenzioni del legislatore non corrisponde un coerente adempimento da parte degli utenti della strada. L'opera di prevenzione e controllo nei riguardi del conducente deve pertanto essere particolarmente curata. Una direttiva presentata dalla Commissione al Consiglio della CEE il 17 agosto 1972 puntualizza che l'esigenza della formazione dell'utente è di fondamentale importanza e stabilisce le norme per conseguire la patente e le precauzioni che devono essere seguite nel primo anno di guida. L'avvio di una politica globale di prevenzione richiede uno sforzo internazionale concertato, che coordini e armonizzi i programmi e i mezzi delle diverse istanze, governative e non, che vi sono implicate.
Sul fattore veicolo influiscono due azioni: quella del costruttore e quella dell'utente. Nell'atmosfera di contestazione diffusasi negli anni sessanta negli Stati Uniti, l'avvocato R. Nader, fattosi paladino della sicurezza con un libro diventato in breve tempo famoso, accusò l'industria automobilistica di occuparsi solo dei propri interessi economici e non del benessere comune. Questa campagna spinse i costruttori a superare l'atteggiamento di riservatezza adottato per difendersi dalla concorrenza e a rendere note sia le ricerche già fatte, sia quelle in corso d'attuazione, per aumentare la sicurezza dei veicoli.
Sono stati introdotti dispositivi o migliorie per una maggiore protezione, come strutture più resistenti delle carrozzerie, imbottiture interne, cerniere più robuste delle porte, serrature tridirezionali, ergonomia del posto di guida, ecc.; la risposta degli utenti è stata in genere favorevole, anche perché le migliorie sono state fatte senza sostanziali maggiorazioni di prezzo.
Nel 1969 il Ministero dei Trasporti americano annunciò il programma chiamato ESV (Experimental Safety Vehicle), per la costruzione, a scopo di ricerca, di una vettura con caratteristiche ben definite, capace di superare prove dinamiche estremamente severe riguardanti la sicurezza attiva e quella passiva. Prototipi sperimentali sono stati costruiti non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Europa - da FIAT (v. fig. 21), Mercedes, Volkswagen, Volvo - e in Giappone - da Toyota e Nissan. Ne è risultato che, per far fronte alle richieste americane, le vetture di classe europea avrebbero dovuto subire aumenti di costo del 40%, con un aumento di peso di circa il 45% e conseguente aumento del consumo di benzina. Queste e altre conclusioni tratte dagli studi fatti in materia di sicurezza passiva inducono ad agire non solo sui veicoli, ma anche sugli altri elementi che possono contribuire alla sicurezza della circolazione. Per superare l'ostacolo psicologico nei riguardi delle cinture di sicurezza, l'amministrazione americana ha proposto di dotare le vetture di accorgimenti tali da costringere l'utente a indossare le cinture, pena l'impossibilità di avviare il motore, oppure di impiegare le cosiddette cinture ‛passive' o ‛automatiche', che si avvolgono da sole attorno all'occupante all'atto di chiudere la porta, oppure di applicare dispositivi che intervengano a proteggere il passeggero solo al momento dell'incidente (come l'air bag, ‛cuscino d'aria'). Le amministrazioni europee hanno preferito optare per le normali cinture ‛attive' (che vengono allacciate manualmente dall'occupante), rendendone obbligatoria non soltanto l'installazione (come in Italia), ma anche l'impiego; come deterrente vengono imposte multe a chi non l'indossa o riduzioni nella liquidazione dei danni, in caso di incidente, ad automobilisti che non l'indossino.
In merito all'azione dell'utente nei confronti dello stato del veicolo si è accennato precedentemente alle elevate percentuali di difetti riscontrati sui veicoli circolanti, dovuti a una deficiente manutenzione (pneumatici, freni, luci, ecc.); anche qui si ricade nell'influenza del fattore uomo. Il Ministero dei Trasporti italiano ha potenziato sia il numero, sia le apparecchiature dei centri di revisione degli autoveicoli: la revisione è obbligatoria ogni anno per i veicoli che trasportano merci e ogni 5 anni per le autovetture. E da osservare che la crisi economica induce l'utente a dilazionare la spesa per l'acquisto di un veicolo nuovo, quindi l'età media del parco si allunga, con la conseguenza che restano in circolazione più veicoli difettosi.
Per quanto riguarda il fattore strada è da segnalare che vari studi si basano sia su proposte che riguardano una distribuzione del traffico privato e pubblico più equilibrata e comunque diversa dall'attuale, sia su nuove ristrutturazioni della rete viaria. Per le autostrade, mentre si migliorano gli svincoli e la segnaletica, si studiano sistemi elettronici di segnalazione delle condizioni del traffico e meteorologiche. Nelle città si perfeziona la segnaletica, si creano sottopassaggi e cavalcavia per ridurre il numero di incroci e di svolte a sinistra, si aumenta il numero delle strade a senso unico. Anche l'imposizione di limiti di velocità ha dimostrato di essere un mezzo efficace per ridurre il numero e la gravità degli incidenti.
b) La protezione dell'ambiente
I mezzi di trasporto stradali, e in particolare l'auto privata, hanno subito sul finire degli anni sessanta un attacco violento da parte degli ecologi di tutto il mondo, appoggiati in varia misura dalle organizzazioni governative interessate ai problemi del rumore e dell'inquinamento atmosferico. I costruttori di vetture hanno immediatamente risposto, dando l'avvio a un vastissimo programma di ricerche, la cui complessità ha richiesto accordi fra industrie motoristiche e petrolifere allo scopo di condurre gli studi rapidamente e con risultati il più possibile attendibili. È chiaro che in un campo così vasto come quello relativo all'inquinamento atmosferico, che interessa industrie e amministrazioni di vari paesi e richiede la formulazione dileggi il più possibile unificate, è necessaria la collaborazione di motoristi, petrolieri, geologi, economisti, sanitari e legislatori. Sono stati in primo luogo messi a punto gli strumenti per misurare la quantità e la qualità delle emissioni dei gas di scarico e la metodologia di prova. In America, in Europa e in Giappone si sono discussi questi metodi e si sono stabiliti particolari cicli per prove di laboratorio che riproducono le condizioni tipiche del funzionamento dei motori nel traffico cittadino. A rendere la situazione più complicata è poi sopravvenuta, a fine 1973, la crisi del petrolio, con la conseguente necessità di ridurne il consumo.
La campagna per limitare le emissioni nocive degli autoveicoli è stata iniziata in California nel 1963, con prescrizioni sulla ricircolazione dei gas emessi dallo sfiato dei motori. Nel 1966 divenne attiva in California, per le nuove vetture prodotte e/o importate nello Stato, la prima legge limitativa delle emissioni di ossido di carbonio (CO) e di idrocarburi (HC) allo scarico; le relative norme furono fatte proprie nello stesso anno dal governo federale e nel 1967 furono inquadrate in una legge federale detta Air Quality Act of 1967, che fra l'altro prescnveva che il rispetto dei limiti stabiliti per il CO e gli HC venisse accertato nelle prove di omologazione per una percorrenza di 50.000 miglia. Più tardi, nel 1971, sull'esempio della California, veniva prescritta anche una limitazione delle emissioni dovute all'evaporazione della benzina dal serbatoio e dal carburatore. Nello stesso anno la California introduceva il primo limite per gli ossidi di azoto (NOx); una prescrizione analoga veniva sancita nel 1973 dalle Autorità Federali per tutti gli Stati. Alla fine del 1970, sempre negli Stati Uniti, vennero poi presi due importanti provvedimenti: la costituzione dell'EPA (Environmental Protection Agency), cui furono assegnati tutti gli uffici che si occupavano, nei vari ministeri, della protezione dell'ambiente (aria, acqua, rifiuti, insetticidi, ecc.) e l'approvazione del Clean Air Act of 1970. Doveva essere quello l'atto finale, dopo anni di studi e ricerche a livello federale, del problema dell'inquinamento atmosferico. Esso stabiliva infatti il programma per il miglioramento della qualità dell'aria definendo i provvedimenti di riduzione delle emissioni da sorgenti fisse e mobili. Per le automobili, la legge quadro stabiliva che, a partire dai modelli 1975, si effettuassero riduzioni di CO e HC del 90% rispetto alla regolamentazione del 1970, e, a partire dai modelli 1976, del 90% per gli ossidi d'azoto (NOx). I limiti fissati come traguardo finale erano: per il CO 3,4 g/miglio, per gli HC 0,41 g/miglio, per gli NOx 0,4 g/miglio. Questi limiti non furono stabiliti sulla base delle effettive possibilità tecnologiche e delle conseguenze economiche, ma considerando soltanto i livelli di emissioni finali che era necessario raggiungere per ‟proteggere nel modo più adeguato" la qualità dell'aria nelle zone urbane. Furono anche prescritti controlli sulla produzione e si pretese dai costruttori la garanzia che le emissioni dei motori si mantenessero nei limiti di legge per 5 anni o 50.000 miglia di esercizio delle vetture, quando la manutenzione fosse stata fatta a dovere.
Per poter rispettare la legge, le industrie diedero alle ricerche in questo campo un'enorme espansione, tanto che nel 1972 le tre maggiori case automobilistiche americane vi impegnarono 8.500 persone con una spesa totale di 390 milioni di dollari. Dal canto loro le industrie europee e giapponesi arrivarono a spendere in studi e ricerche, secondo stime governative americane, circa 600 dollari per ogni vettura esportata negli Stati Uniti e in un caso particolare 1.200 dollari.
Comunque, di fronte alle notevoli difficoltà obiettive incontrate nello sviluppo dei sistemi antinquinamento, nel 1972 i costruttori chiesero il rinvio di un anno delle norme sui limiti delle emissioni stabiliti per il 1975: il rinvio fu concesso; l'industria ottenne successivamente il rinvio di un anno anche per le norme del 1976. Furono stabiliti dei limiti sostitutivi che rappresentavano per gli HC e il CO, rispetto al 1970, riduzioni percentuali pari rispettivamente al 63% e al 56%, e per gli NOx, rispetto al 1971, una riduzione del 50%.
Negli anni che seguirono il programma sancito dal Clean Air Act of 1970 subì alterne vicende: la raccomandazione EPA al Congresso di elevare il limite degli NOx, in quanto le misure effettuate sulla qualità dell'aria poggiavano su considerazioni errate, la constatazione che i particolari dispositivi (convertitori catalitici) necessari per realizzare i limiti ‛finali' per gli HC e il CO potevano favorire l'emissione di altre sostanze nocive (i solfati), la problematica della crisi energetica della fine del 1973, fecero si che l'entrata in vigore dei limiti ‛finali' fosse progressivamente ritardata. Un primo rinvio al 1978 si ebbe nel giugno 1974 con la legge Energy Supply and Environmental Coordination Act; con l'approvazione, nell'agosto 1977, di emendamenti al Clean Air Act of 1970 furono stabiliti per gli anni 1978 e 1979 gli stessi limiti del 1976-1977, e per gli anni ottanta limiti che rispetto al 1970 rappresentavano riduzioni percentuali pari al 90% per gli HC e il CO, e al 75% per gli NOx.
La crisi del settore automobilistico dei primi anni ottanta, particolarmente sentita negli Stati Uniti, ha convinto le autorità della necessità di rivedere i programmi per la protezione dell'ambiente. Questa attività di revisione ha portato a concludere che le autovetture non sono da considerarsi ‛fonte di rumore' nelle aree urbane e pertanto non sono suscettibili di essere regolamentate; le prescrizioni sulla limitazione dei livelli sonori sono state invece mantenute per gli autocarri, veicoli per i quali erano già stati fissati dei valori massimi di rumorosità nella seconda metà degli anni settanta. Per quanto concerne la legislazione sulle emissioni, nel 1982 il Clean Air Act of 1970 è stato preso in esame dal Congresso per essere sottoposto a modifiche secondo le indicazioni e i suggerimenti sia dell'EPA, sia dell'industria, sia di enti vari interessati alla protezione dell'ambiente. La sessione del Congresso si è tuttavia conclusa senza che il lavoro di revisione fosse completato.
La legislazione europea è stata preparata da un gruppo di esperti dell'ONU di Ginevra ed è stata fatta propria dalla CEE, che l'ha imposta ai paesi membri. Nell'ambito del controllo delle emissioni allo scarico, le limitazioni, entrate in vigore nell'ottobre 1971, prescrivevano riduzioni del 50% per il CO e del 35% per gli HC rispetto alle vetture prive di accorgimenti o di dispositivi antinquinamento. La legge, che si riallacciava in qualche modo a quella amencana, richiedeva, oltre alla ricircolazione dei gas di sfiato, anche la limitazione a un tenore massimo del 4,5% per il CO emesso dai motori funzionanti al minimo; furono inoltre previste le norme per il controllo da parte delle autorità della conformità della produzione al tipo omologato.
Nel 1975 fu introdotta una prima riduzione del 20% per il CO e del 15% per gli HC, rispetto ai valori limite fissati nel 1971. Nel 1977 si ritenne opportuno imporre anche il controllo degli NOx. Nel 1979 si varò un'ulteriore riduzione del 35% per il CO e del 25% per gli HC, rispetto al 1971, e del 15% per gli NOx, rispetto al 1977; il valore di CO al minimo fu portato dal 4,5% al 3,5%. Un successivo inseverimento dei limiti è stato sancito nel 1982, con contemporanea modifica della metodologia di prelievo del campione di gas di scarico (adozione del sistema americano di campionamento a portata costante) e imposizione di un limite alla somma degli HC e degli NOx, anziché ai singoli inquinanti.
Le prime prescrizioni per la limitazione della rumorosità dei veicoli furono stabilite nel 1971; nel 1977 e nel 1981 i livelli massimi ammessi subirono successive riduzioni. Contrariamente alla legge americana, le limitazioni sono imposte per tutte le categorie di veicoli (autovetture, autocarri, autobus). Il livello di rumorosità di un veicolo è misurato secondo una procedura che simula la sensazione sonora percepita da un ascoltatore posto a 7,5 metri di distanza dal veicolo in accelerazione a piena apertura intorno ai 50 km/h. I limiti prescritti variano da 80 dB(A) per le autovetture a 88 dB(A) per gli autocarri pesanti.
Per una più accurata valutazione della necessità di ulteriori azioni riduttive dei livelli di rumorosità e di emissioni prescritti, alla luce delle effettive possibilità offerte dal progresso tecnologico e sulla base dell'analisi costi/benefici, in sede CEE, sul finire del 1981, è stata decisa la costituzione di due gruppi di lavoro con l'incarico di affrontare in un contesto globale lo studio dell'evoluzione legislativa in tali settori. Lo scopo è di fornire entro il 1983 indicazioni sugli obiettivi di riduzione da perseguire negli anni 1985-1990 e sul loro costo in termini non solo di costo del prodotto, ma anche di consumo di combustibile, di manutenzione, di prestazioni. I due gruppi sono stati denominati ERGA Pollution ed ERGA Noise (Evolution of EEC Regulation - Global Approach).
c) La regolamentazione
L'intervento legislativo nel campo della sicurezza, dell'inquinamento atmosferico e della rumorosità si è fatto sempre più massiccio e penetrante, come abbiamo visto. Importante risulta l'azione svolta da vari organismi internazionali, siano essi intergovernativi o privati (non-govemmental). Per quanto riguarda l'Europa, la ECE (Economic Commission for Europe), organo delle Nazioni Unite avente sede a Ginevra, il quale comprende paesi sia dell'Europa occidentale che di quella orientale, e la CEE (Comunità Economica Europea), con sede a Bruxelles, elaborano i regolamenti e le direttive, mentre l'ISO (International Organization for Standardization), con sede a Ginevra, in particolare attraverso il Comitato TC22, fornisce loro il necessario supporto nel campo della normazione delle metodologie di prova.
I regolamenti, elaborati dall'ECE per mezzo di un gruppo di esperti (il WP29) formato dai rappresentanti dei 21 paesi firmatari dell'accordo base di Ginevra del 1958, devono essere ratificati dall'ONU. L'adozione di un regolamento ratificato è facoltativa e può diventare o meno legge nazionale. A tutt'oggi sono stati varati cinquantacinque regolamenti.
Contrariamente a quelle emesse dall'ECE di Ginevra le direttive emesse dalla CEE (Bruxelles) sono vincolanti per i dieci paesi della Comunità, che devono recepirle nella loro legislazione e non possono rifiutare l'omologazione di autoveicoli, o loro componenti, che siano conformi alle direttive emesse. Provvede all'elaborazione delle direttive un gruppo di lavoro di cui fanno parte le delegazioni governative dei paesi membri, i rappresentanti delle industrie raggruppate in varie associazioni e del GTB (Groupe de Travail Bruxelles), oltre che un rappresentante del WP29, della Economic Commission for Europe, in qualità di osservatore.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il Governo Federale ha incominciato, tramite l'NHTSA (National Highway Traffic Safety Administration), organismo del Ministero dei Trasporti, a emettere norme sulla sicurezza degli autoveicoli nel 1967; poi, attraverso il Department of HEW (Health, Education and Welfare) e quindi attraverso l'EPA (Environmental Protection Agency), ha incominciato a emettere norme sull'inquinamento a partire dagli autoveicoli modello 1968. Questa normativa è diventata via via così complessa da condizionare profondamente la costruzione dei veicoli. Sulla sua validità è possibile discutere, ma è indubbio che, pur creando difficoltà non indifferenti ai costruttori, ha apportato, sia pure a spese elevate, un sicuro contributo alla ricerca delle soluzioni dei problemi della sicurezza e dell'inquinamento.
6. I trasporti e la città
a) Introduzione
‟Al passo frenetico dei ritmi regolari che la società industriale ha imposto al mondo, la stazione ingurgita ed espelle i suoi milioni di pendolari in un implacabile rituale quotidiano: milioni di ore sterili vengono consumate in questo pendolarismo fra famiglia e lavoro, questo fluire di umanità, degradato a una lunga routine quotidiana, fra stazioni urbane e suburbane. Questo dramma quotidiano, questo enorme spreco di energie umane, va messo in relazione con l'incapacità dimostrata dalla società industriale fin dal XIX secolo di concepire piani di sviluppo regionali che avrebbero evitato l'abbandono su larghissima scala della campagna per la città. Anziché servire come vettore di decentramento, la rete ferroviaria è stata spesso usata come uno strumento di centralizzazione politica, economica e sociale". (J. Dethier, Le temps des gares, Paris 1978).
Le ferrovie suburbane e urbane, che in superficie o nel sottosuolo trasportano ogni giorno dalla periferia al centro e dal centro alla periferia milioni di persone, incarnano senza dubbio tutto ciò di cui J. Dethier si lamenta e anche peggio, oggi che la droga e la delinquenza rendono malsicuri i lunghi corridoi sotterranei e persino le stazioni nelle ore notturne. Queste ferrovie sono però il mezzo migliore, cioè più rapido, relativamente comodo ed economico, per far fronte al bisogno di mobilità urbana che caratterizza il nostro secolo.
L'alternativa alla rotaia in sede propria è la strada, dove mezzi pubblici e privati si contendono lo scarso spazio disponibile in un perenne tentativo di reciproca sopraffazione. Forse la cultura delle città, che L. Mumford identifica con la civiltà stessa, è in declino le città più grandi, le megalopoli, sono affette da mali che provengono soprattutto dalle loro stesse dimensioni, dalla difficoltà di coordinare gli spostamenti di milioni di persone, con l'aggravante delle ‛punte' di traffico, dovute al fatto ovvio che quasi tutti escono da casa al mattino fra le 7,30 e le 8,30 e rientrano la sera fra le 17 e le 20.
Ma comprenderemo meglio il caos cittadino odierno ripercorrendo la storia dei trasporti urbani negli ultimi cent'anni.
b) I primi tram
C'è chi fa risalire i problemi del traffico a epoche molto antiche, citando un editto di Giulio Cesare in cui si proibiva ai mezzi privati l'accesso al Foro per evitare confusione. Nelle città italiane, malgrado il Panni parli della ‟furia dei carri" nella sua celebre ode La caduta, gli ingorghi di traffico si verificarono molto più tardi. Ancora negli anni venti, se i documenti fotografici dell'epoca non ci ingannano, punti nevralgici oggi perennemente intasati, come piazza Colonna a Roma e piazza Cordusio a Milano, mostrano in prevalenza pedoni, qualche tram e rarissime auto o carrozze a cavalli. Ben diversa la situazione in altre metropoli: Londra, che non raggiungeva il milione di abitanti nel 1801, era salita a 6,5 milioni nel 1901. Il gran numero di abitanti e la vasta area sulla quale erano sparsi avevano fatto sorgere da tempo il problema dei trasporti pubblici: fin dal 1620 c'erano vetture a cavallo da noleggio. Il prezzo però era e rimase troppo elevato per i meno abbienti; per essi nacque l'omnibus, così chiamato dal suo ideatore, il francese S. Baudry, che fondò la Enterprise des Omnibus a Parigi nel 1828. Un anno dopo, G. Shillibeer, un cocchiere che aveva lavorato a Parigi, importò l'omnibus a Londra, dove, il 4 luglio 1829, fu inaugurata la prima linea che andava da Paddington alla City; la tariffa per l'intera corsa era uno scellino; l'omnibus costava molto meno del cab, ma certamente ancora troppo per i lavoratori più poveri.
A Milano il primo servizio urbano di omnibus fu istituito nel 1841, sotto la dominazione austriaca. Gli omnibus a cavalli correvano sulle ineguali strade cittadine del tempo e i sobbalzi facevano soffrire i viaggiatori e faticare i cavalli. Perché non adottare la rotaia, che si dimostrava cosi pratica per i treni? Il primo tram cittadino a cavalli funzionò a New York nel 1832, ma non fu adottato su larga scala fino a dopo il 1850. Nel 1853 una prima linea sperimentale fu aperta a Parigi; a Londra, dopo un tentativo fatto nel 1861, e fallito perché attuato in un quartiere di gente ricca, che aveva la propria carrozza o prendeva il cab, i primi tram cominciarono a prestare servizio regolare nel 1870. Il successo fu grandissimo dappertutto, perché il binario assicurava un viaggio senza scosse e i cavalli potevano trainare veicoli più grandi, capaci di portare il doppio dei passeggeri rispetto agli omnibus; questo consenti di abbassare le tariffe e di conseguenza il numero dei viaggiatori aumentò.
La prima tranvia a cavalli, per lo meno la prima importante, fu l'ippovia Milano-Monza, inaugurata solennemente l'8 luglio 1876, con l'intervento del principe Umberto di Savoia, il futuro re Umberto I. I binari entrarono nel cuore della città, a piazza del Duomo, nel 1882, salutati come un segno inconfondibile del progresso; la stessa cosa accadde nello stesso periodo nelle altre città italiane.
L'elettrificazione delle linee tranviarie in Italia cominciò da Firenze, nel 1890, sulla linea extraurbana Firenze-Fiesole. Purtroppo non era molto sicura ed ebbe, agli inizi, qualche incidente. La Milano-Monza fu elettrificata nel 1900; a Genova le prime vetture tranviarie elettriche apparvero nel 1893, chiamate da alcuni ‟una diavoleria che ingombra e rende pericolose le strade". Genova fu una delle prime città del mondo ad avere una funicolare: quella di Castelletto e del Righi, a cavo, entrata in servizio nel 1901, seguita da quella a cremagliera porta Principe-Granarolo, del 1903.
c) Le metropolitane
La prima ferrovia metropolitana nacque a Londra e iniziò il servizio pubblico nel 1863; essa non nasceva dall'esigenza di potenziare i trasporti urbani, ma da quella di collegare fra loro le varie stazioni ferroviarie, di cui alcune erano piuttosto periferiche. Non a caso uno dei capolinea della prima linea fu la stazione ferroviaria di Paddington, la meno centrale delle grandi stazioni londinesi. Per la costruzione della linea fu scelto il sistema dello scavo in trincea (Cut and cover): si scava una trincea nella strada e subito se ne rivestono i fianchi con muri di spinta che fanno anche da piedritti per la copertura; questa, quale che sia la sua forma (ad arco o a trave) serve al duplice scopo di sostenere la strada sovrastante e di dare rigidità al sistema. Fu scelto il cut and cover per far correre la metropolitana sotto le strade esistenti, evitando di incappare sia nelle fondazioni degli edifici sia in spinose questioni legali di proprietà e di diritti.
Decisamente migliore, specie per le gallerie profonde, è il sistema detto ‛del foro cieco': si apre un foro sotterraneo con uno ‛scudo' circolare e si sostengono le pareti con un'armatura di ghisa di facile montaggio, perché fatta di archi di cerchio. Il foro infatti è a sezione perfettamente circolare: perciò la prima linea di metropolitana costruita con questo sistema, a cominciare dal 1886, fu chiamata tube railway, e il termine tube è usato ancor oggi a Londra per indicare la metropolitana. Il termine ‛metropolitana' invece viene dalla ragione sociale della società che raccolse i fondi e compì gli studi preliminari per la prima ferrovia sotterranea londinese: si chiamava Metropolitan Railway. La prima linea sotterranea elettrificata fu aperta ufficialmente il 4 novembre 1890. L'anno successivo fu iniziata la costruzione della Central Line, che attraversa da ovest a est il cuore di Londra; nel costruire questa linea fu attuata l'idea semplice quanto geniale di fare le stazioni a livello alquanto superiore a quello della linea che le collega, sicché la discesa aiuta il treno ad accelerare in partenza, e la salita aiuta l'azione di frenamento, quando il treno si approssima alla stazione. I vantaggi sono: pronta accelerazione, frenata più facile, risparmio e recupero di energia, stazioni a minore profondità e di conseguenza ascensori e scale mobili con corsa più breve. La profondità delle linee del tube varia da 20 a 70 m.
New York adottò invece agli inizi la ferrovia sopraelevata, a cominciare dal 1868; la prima ferrovia sotterranea americana fu aperta a Boston nel 1898 e la prima vera subway di New York funzionò dal 1904, collegando Broadway con il ponte di Brooklyn.
A Berlino nel 1875 fu costruita una ferrovia urbana circolare, lunga 37,5 km (Ringbahn), che collegava fra loro tutte le stazioni ferroviarie e i capolinea dei tram e degli omnibus (a cavalli, naturalmente). La prima ferrovia che tagliò la città fu una sopraelevata di 12 km di lunghezza, completata nel 1882. La prima sotterranea dell'Europa continentale fu inaugurata a Budapest nel 1896.
Il métro parigino, dopo discussioni durate mezzo secolo, fu realizzato per l'Esposizione del 1900. Berlino aprì il primo tronco della sua sotterranea (U-bahn, da Untergrundbahn) nel 1902.
In Italia non c'era all'inizio del secolo alcuna città delle dimensioni di Londra, Parigi, Berlino; ma a Milano più d'uno vide fin d'allora la necessità di rapidi collegamenti sotterranei: nel 1905 gli ingegneri Candiani e Castiglioni proposero una linea tranviaria sotterranea che, transitando sotto piazza del Duomo, congiungesse porta Magenta con porta Vittoria. Nel 1906 l'ing. A. Bassetti, dell'ufficio tecnico municipale, propose di portare in sotterranea i tronchi tranviari tra corso Venezia e Foro Bonaparte; purtroppo la sotterranea venne rimandata al 1961. Nel 1906 si pensò a una ferrovia elevata e se ne costruì un campione lungo 1.350 m, dal Parco alla piazza d'Armi, in occasione dell'Esposizione di Milano del 1906. All'inaugurazione (29 aprile 1906), re Vittorio Emanuele III disse al sindaco di Milano, marchese E. Ponti: ‟La nostra Italia si pone all'avanguardia!". Parole poco profetiche per ciò che riguarda i trasporti urbani; mentre, infatti, i treni italiani nulla hanno da invidiare ai migliori treni europei, i trasporti urbani diventano nel nostro paese un problema sempre più grave.
Dagli anni cinquanta in poi il traffico automobilistico aumenta in modo esponenziale: le metropolitane di Milano e di Roma si rivelano insufficienti, specialmente quella di Roma. La metropolitana, per svolgere la sua funzione, non può consistere di due linee, deve essere una rete, in modo che da qualunque punto della zona servita si possa andare fino a qualunque altro punto, cambiando treno per sfruttare i vari tronchi.
A Londra, Parigi, New York la metropolitana svolge bene i suoi compiti; a Londra la sotterranea è ben integrata dai mezzi di superficie, cioè dagli autobus (il filobus, sul quale si appuntavano tante speranze, è stato sostituito, perché poco agile nel traffico).
Fra le città italiane Milano è ancora la meglio servita, sia dai mezzi propriamente urbani, sia dalla rete ferroviaria che la collega col suburbio: le linee celeri dell'Adda e quelle della Brianza, le Varesine, trasportano ogni giorno centinaia di migliaia di persone in modo abbastanza soddisfacente.
d) Il caos urbano
La conquista delle città da parte dell'automobile è avvenuta gradualmente, ma nel giro di pochi anni la situazione del traffico urbano si è fatta insostenibile. Visto che la congestione del traffico si risolveva in un grave inquinamento atmosferico, inquinamento da rumore, danni ai monumenti, difficoltà di movimento - anche con i mezzi pubblici di superficie e persino a piedi -, le autorità sono corse a tanti rimedi diversi, nessuno dei quali si è dimostrato veramente efficace.
I rimedi si possono così sintetizzare: a) agevolazione del traffico auto con l'impiego di semafori comandati da calcolatori e/o con la creazione di itinerari veloci senza incroci a livello (freeways); b) ostracismo parziale o totale nei confronti dell'auto, con divieti di sosta generalizzati, zone pedonali, limitazioni della circolazione (per esempio il sistema di circolazione a targhe alternate).
Naturalmente si è cercato di spostare sul mezzo pubblico la massima quantità possibile di viaggiatori; a Parigi e a Londra si è ampliata la rete della metropolitana, in altre città, come Stoccolma, Montreal, San Francisco, Roma e Milano si sono costruite nuove ferrovie sotterranee urbane. Dove dispone di una vasta rete, la metropolitana si è rivelata l'unico mezzo veramente capace di attirare sul mezzo pubblico gli utenti del mezzo privato.
Una variante della metropolitana è la cosiddetta ‛metropolitana leggera', realizzata a Torino, di costo sensibilmente inferiore a quello, divenuto ora altissimo, della sotterranea, e di rendimento sufficiente per snellire i trasporti della città.
Superfluo dire che il sistema di agevolazione del traffico auto e quello dell'ostracismo totale possono essere applicati entrambi, a zone diverse, nella stessa città. La difficoltà di parcheggio, quando il divieto di sosta sia sempre e severamente punito, è di per sé una misura sufficiente a tenere la grandissima maggioranza delle auto private fuori delle zone nevralgiche cittadine, come si può vedere nel centro di Londra e a Manhattan (New York).
Un altro sistema, compatibile con i precedenti, è quello di evitare la concentrazione del traffico entro fasce orarie molto ristrette, scaglionando gli orari negli uffici e nelle scuole là dove è possibile; un altro ancora è quello che mira a ‛ridurre il bisogno di mobilità' (espressione un po' vaga). Questa riduzione si può conseguire grazie alle moderne risorse della telematica, dalle teleconferenze all'impiego dei terminali dei calcolatori, che consentono alle filiali di banche e aziende varie di svolgere il proprio lavoro a distanza, senza movimenti effettivi di personale e di documenti. Interessante, in questa prospettiva, la creazione di centri commerciali con succursali di negozi di grande nome in zone periferiche. A Long Island, presso New York, esistono, per esempio, negozi dello stesso nome e aspetto di altri che si trovano nella Quinta Avenue; con ciò si riesce spesso, anche se non sempre, a evitare che la gente si sposti dalla periferia al centro per fare acquisti.
e) Le città satellite
Alla radice della congestione del traffico urbano stanno abitudini di vita e di lavoro difficilmente mutabili, situazioni urbanistiche studiate per altri tempi e il crescente bisogno di mobilità.
I centri storici scoppiano, e scoppiano presto: città medievali come Firenze, Siena, Rieti semplicemente non sono fatte per l'automobile, neppure in piccole dosi. Ma anche a Roma e a Milano si verificano continui intasamenti e le conseguenze sono peggiori, perché le distanze sono molto maggiori.
Il desiderio di trovare abitazioni più spaziose, sottratte alla congestione cittadina, ha spinto molte persone ad andare ad abitare lontano dalla città, dove le case costano meno: sono nate così le città satellite. Le città satellite possono essere semplici dormitori, oppure centri in cui si sviluppano industrie e attività terziarie che impiegano molta gente, e dove sorgono scuole, ospedali, centri culturali e ricreativi, ecc.; con questo criterio sono state create le new towns nei dintorni di Londra; esse hanno sempre bisogno di buoni collegamenti con la metropoli, ma il flusso e riflusso dei pendolari è minore.
Il collegamento dei problemi del traffico con quelli urbanistici è provato, se ve ne fosse bisogno, dal fatto che negli Stati Uniti il Department of Housing and Urban Development ha intrapreso uno studio sulla tecnica dei trasporti, investendovi una cospicua somma di denaro.
Negli Stati Uniti, dove per i nuovi insediamenti non si fa economia di spazio, le città che sorgono ora sono sparse su aree vastissime e la congestione è molto rara e limitata a ridottissime zone centrali.
f) Città e aeroporto.
Gli aeroporti sono gli ‛incroci' fra il traffico aereo e quello terrestre; il problema del loro collegamento con le città e degli spostamenti al loro interno ha trovato varie soluzioni, non tutte soddisfacenti.
Nei più grandi aeroporti americani gli spostamenti interni sono facilitati da nastri scorrevoli, scale mobili (che ci sono anche in Europa) e altri moderni sistemi; dappertutto è stato adottato il carrello per il trasporto dei bagagli, ottimo esempio di mezzo di uso comune impiegabile entro un perimetro definito. Si è sperimentato anche l'impiego di carrelli più grandi, muniti di motore elettrico, sulla cui pedana possa salire almeno una persona.
Quasi tutte le grandi metropoli hanno più di un aeroporto; questo significa che, oltre al collegamento fra città e aeroporto, si dovrebbe attuare anche il collegamento fra un aeroporto e l'altro, ciò che per ora non viene fatto in alcuna parte del mondo in modo soddisfacente.
I collegamenti fra città e aeroporto vengono attuati con mezzi pubblici e privati; per questi ultimi bisogna che l'aeroporto sia provvisto di ampi parcheggi, custoditi e non, con varie tariffe. In alcuni aeroporti americani è stato adottato il cosiddetto valet service; il passeggero, arrivando in aeroporto, lascia l'auto in un apposito parcheggio vicinissino all'aerostazione; da qui un addetto la porta in un parcheggio che può essere anche lontano, dopo aver rilasciato al passeggero una contromarca. Il passeggero prima di imbarcarsi sul velivolo può prenotare la restituzione della macchina al suo ritorno; arrivando troverà l'addetto che gli consegnerà l'auto al parcheggio, pronta e con il motore caldo. In tal modo si evita la ricerca del parcheggio alla partenza, la ricerca della propria auto al ritorno e i lunghi percorsi fra aerostazione e parcheggio, spesso con il bagaglio in mano. Ovviamente questo è un servizio che si paga.
I servizi pubblici di collegamento con l'aeroporto possono essere su strada (taxi e autobus) o su rotaia. Taxi e autobus hanno in comune con le auto private la necessità di un valido collegamento autostradale fra città e aeroporto. In molte città gli autobus per l'aeroporto partono da una speciale stazione, detta air terminal, situata nel centro cittadino. L'air terminal, quando è costruito e gestito bene, è un valido aiuto per il passeggero, che vi trova le notizie più aggiornate sui voli e sull'agibilità del vicino aeroporto, un deposito dove lasciare il suo bagaglio e servizi vari. Le condizioni del traffico cittadino non consentono, quando l'air terminal non si trovi sull'autostrada che porta all'aeroporto (cosa che non succede quasi mai), di calcolare con buona approssimazione il margine di tempo che bisogna concedersi per arrivare in tempo a prendere il volo desiderato; questo vantaggio invece è proprio dei trasporti su rotaia.
Si è pensato, e nel caso di Tokyo lo si è anche fatto, di adottare, per i collegamenti fra città e areoporto, il treno monorotaia; ma, a meno che non esistano difficoltà vere per la posa dei binari, è ormai opinione diffusa che il classico binario sia il sistema più pratico; essendo le distanze comprese in media fra i 25 e i 40 km, un treno che faccia 120 km l'ora è più che adatto alla bisogna e i vantaggi che si avrebbero raddoppiando la velocità sono trascurabili di fronte alle code che bisognerebbe poi fare per il passaporto, il controllo dei bagagli, o semplicemente per ritirare la carta d'imbarco. Il vantaggio principale della rotaia sta nella puntualità del servizio, oltre che nella comodità.
Londra è per ora l'unica città al mondo che abbia un collegamento con un aeroporto (Heathrow) per mezzo della metropolitana; il tube in aeroporto significa che non è collegato solo un punto (terminal), ma l'intera rete, e quindi l'intera città.
7. Il futuro
a) Prospettive generali
Come per qualsiasi attività umana, anche per i trasporti terrestri il futuro è legato agli sviluppi del passato e agli avvenimenti in corso. Uno di questi è la crisi energetica; è vero che le stime attuali delle riserve petrolifere mondiali escludono la possibilità di esaurimento prima del 2000, ma, poiché il petrolio diventerà sempre più scarso, il suo prezzo continuerà ad aumentare. Questo fatto coinvolge i trasporti anche dal punto di vista della produzione degli autoveicoli: si può valutare che in media una vettura assorba per l'intero processo di trasformazione - dai materiali (esclusa l'estrazione) al prodotto finito - un quantitativo totale di energia equivalente a circa 2.000 kg di olio combustibile. Il costo di produzione dovrà dunque aumentare in rapporto all'aumento di costo del combustibile impiegato per fornire energia agli stabilimenti, oltre che all'aumento di costo delle materie prime, dovuto all'espansione demografica dei paesi emergenti e alla pressione della domanda mondiale. Altro motivo di lievitazione dei costi sarà l'applicazione delle regolamentazioni riguardanti la sicurezza, la difesa dell'ambiente e i provvedimenti per facilitare e rendere più sicura la circolazione urbana ed extraurbana. Per contenere i costi entro limiti accettabili il progresso tecnico dovrà dunque adattarsi a compromessi.
Maggior importanza assumeranno pertanto i valori utilitari ed economici degli autoveicoli, mentre andrà diminuendo di importanza la richiesta di prestazioni velocistiche esasperate. Sarà cioè determinante l'analisi del valore costo-funzione-servizio.
In tale contesto si dovrà tenere conto dei prevedibili cospicui interventi di carattere sociale, che, nell'accentuare il miglioramento delle condizioni di lavoro, influiranno sugli impianti dei nuovi stabilimenti e sullo stesso disegno dei veicoli. D'altronde la tecnica dei veicoli si evolverà sotto la spinta della ricerca e dell'innovazione, fidando nell'evoluzione delle varie tecnologie, nell'applicazione più diffusa dell'elettronica, nella differenziazione dei modelli in rapporto all'impiego.
Il gasolio e la benzina saranno i combustibili più usati fino a quando il sottosuolo continuerà a fornire petrolio, in qualunque parte del mondo esso si trovi. Contemporaneamente si svilupperà sempre più la ricerca di sistemi per ricavare gasolio e benzina dalla trasformazione di materiali fossili e da gas naturali. Si fabbricheranno anche combustibili sintetici: idrocarburi (compreso l'alcool), idrogeno, composti inorganici di questo (in primo piano l'ammoniaca). Sarà usata anche l'energia elettrica fornita da batterie o pile a combustibile.
Le ricerche nel campo dei motori avranno notevole incremento in ampiezza e profondità, sia per utilizzare energia prodotta da fonti praticamente inesauribili, come l'idrogeno e l'energia elettrochimica, sia per utilizzare combustibili naturali o sintetici provenienti da fonti energetiche limitate. Tutti i tipi di propulsori possono essere oggetto di questa ricerca: dai motori a combustione interna alternativi e rotativi (compresa la turbina) a quelli a combustione esterna (ciclo Rankine e ciclo Stirling), per finire ai motori elettrici.
Per quanto riguarda l'alimentazione a idrogeno, sono da risolvere i problemi relativi all'approvvigionamento e al trasporto dell'idrogeno a bordo del veicolo.
Il motore elettrico risolve il problema dell'inquinamento e del rumore, ma allo stato attuale delle conoscenze le batterie per alimentarlo non offrono un'energia, per unità di volume e di massa, tale da assicurare un'autonomia confrontabile con quella dei veicoli a motore termico. Perciò i veicoli elettrici cominceranno ad avere una certa diffusione solo per particolari impieghi, ad esempio in alcuni servizi urbani.
Per il motore Stirling le possibilità di applicazione su veicoli stradali sono incerte e remote. Questo tipo di motore offre il vantaggio di una riduzione delle emissioni e di qualche riduzione dei consumi, ma è complicato e costoso.
Il motore a vapore (a ciclo Rankine) appare favorevole sotto l'aspetto della riduzione delle emissioni, ma il consumo più elevato nei confronti dei motori endotermici, il maggior costo e la minor praticità ne diminuiscono di gran lunga l'interesse.
La turbina è da anni oggetto di studio presso le maggiori case automobilistiche, soprattutto come possibile propulsore di veicoli industriali. Questo tipo di macchina termica è interessante non solo per la riduzione delle emissioni, ma anche per l'elevato rapporto potenza/massa e per le attitudini alla trazione dovute al favorevole diagramma della coppia motrice: non è da escludere che nel prossimo decennio si vedano autocarri o autobus a turbina. Ma il diesel sovralimentato con turbosoffiante resterà il motore tipico degli autoveicoli industriali, così come quello alternativo a ciclo Otto continuerà a essere il motore per automobili più conveniente e affidabile, computerizzato per adeguarlo alle necessità di riduzione delle emissioni nocive e dei consumi.
Neppure il motore rotativo volumetrico, di cui il Wankel è il rappresentante più noto, sarà in grado di minacciare la posizione del motore alternativo, di facile manutenzione, sicuro, pratico, che permette una quantità di facili adattamenti alle necessità di veicoli diversi.
È prevedibile che le autovetture si evolveranno nel senso di soddisfare sempre più due esigenze fondamentali: la circolazione in città e il traffico autostradale. Poiché i due tipi di mobilità sono del tutto differenti, andranno definendosi altrettanti tipi di vetture base. Ciascuna troverà gradualmente la configurazione più razionale, e le differenze tecnologiche e dimensionali fra modelli di case diverse si ridurranno.
Il sistema automobile-strada subirà progressivi miglioramenti: con lo sviluppo della telematica le vetture saranno equipaggiate di dispositivi capaci di ricevere messaggi che un sistema elettronico stradale invierà per dare informazioni utili e impedire intasamenti o rallentamenti eccessivi. La CEE, nei programmi di studio relativi ai trasporti, ha appunto promosso iniziative intese a impiegare l'elettronica per un sistema di trasmissione di segnali sulle grandi strade, capace di rendere più regolare e sicura la circolazione.
Soprattutto nella ferrovia l'automazione troverà importanti applicazioni, anche perché sono di gran lunga minori le difficoltà da superare per rendere automatico un trasporto unidimensionale. Le applicazioni dell'elettronica potranno in primo luogo migliorare i servizi di trasporto merci, permettendo di programmare l'itinerario dei carri e di seguirlo in tutti i passaggi. Il progresso delle ferrovie si verificherà sotto varie forme (v. È d).
Uno sviluppo notevole è previsto anche per le metropolitane: si prevede che prima del 1985 almeno 50 città nel mondo avranno incominciato a sviluppare un sistema di trasporti metropolitani. Di fronte a una domanda di mobilità continuamente crescente, la politica dei trasporti si orienterà infatti nel senso di favorire il mezzo pubblico per contenere la congestione e l'inquinamento da traffico, ottenere un uso più razionale delle infrastrutture e dei mezzi di trasporto, limitare i consumi di combustibile. L'intervento pubblico si orienterà verso: a) l'imposizione generalizzata di limiti di velocità massima; b) il potenziamento delle ferrovie, specie sulle lunghe distanze; c) il miglioramento delle infrastrutture viarie e ferroviarie suburbane e dei trasporti pubblici pendolari; d) una larga promozione dei trasporti urbani e interurbani collettivi, con ricorso a sistemi di trasporto opportunamente integrati tra loro; e) un'azione per vietare o scoraggiare l'uso dell'auto privata nell'ambito urbano (aree pedonali, aree e corsie riservate ai mezzi pubblici, aree riservate a mezzi individuali di proprietà pubblica, ‛congestione pianificata' del traffico, divieti o limitazioni anche fiscali di parcheggio, aggravi fiscali per la circolazione in certe aree, ecc.); f) azioni per ridurre il bisogno di mobilità (organizzazione dell'assetto territoriale - soprattutto urbano - che renda più conveniente l'uso dei mezzi pubblici e che consenta di ridurre numero e lunghezza degli spostamenti necessari).
A queste azioni tendenti a scoraggiarne l'uso, l'automobile reagirà adattandosi o trasformandosi in modo da inserirsi nel contesto universale dei trasporti considerato come sistema. D'altronde, in un futuro più o meno lontano, tutti i mezzi di trasporto dovranno funzionare come elementi di sistemi (su sede non riservata oppure su sede riservata e guidati) integrati nel sistema generale.
A breve scadenza si prospettano per il trasporto urbano due vie di sviluppo: la prima consiste nell' ottimizzare l'organizzazione dell'impiego dei singoli sistemi esistenti fino a raggiungere una gestione reciprocamente integrata, approfittando del progresso tecnico raggiunto nel campo della trasmissione delle informazioni; la seconda nello sviluppo di mezzi che meglio soddisfino un'ampia gamma di esigenze di esercizio, saldando il sistema di trasporto collettivo urbano con quello interurbano. Per quel che riguarda questa seconda via, sembra essere promettente un moderno sistema tranviario (light rail) che può smaltire fino a 15.000 passeggeri/h e quindi integrare la rete di autobus offrendo un servizio più conveniente di quello della metropolitana, le cui pur elevate caratteristiche di esercizio sono penalizzate da forti costi di investimento. Esempi di città europee che hanno scelto tale indirizzo sono Bruxelles, Colonia, Düsseldorf, Francoforte.
In un futuro più lontano si può prevedere che saranno adottati, nel trasporto collettivo urbano e suburbano, sistemi verso i quali tendono ricerche in corso che mirano ad applicare ai veicoli concetti nuovi, specie per quanto riguarda la propulsione e il controllo. Quest'ultimo è fondamentale ai fini della definizione del sistema. Le soluzioni estreme sono: il controllo centralizzato e il controllo programmato dai passeggeri. La scelta dell'uno o dell'altro indirizzo e anche delle possibili sottosoluzioni sarà influenzata essenzialmente dalla planimetria e dalla viabilità dei grandi centri urbani: le vecchie città europee si appoggeranno a sistemi del tipo a controllo centralizzato; le nuove città con abitazioni e locali pubblici distribuiti su ampie superfici impiegheranno sistemi del secondo tipo. É anche prevedibile che, fra i sistemi lineari, trovino impiego crescente quelli ‛continui' e ‛semicontinui', di regola guidati, che consentono imbarco e sbarco dei passeggeri a bassa velocità o per mezzo di caricatori intermedi (con tempi di attesa per l'utente). Con questi sistemi sarà possibile servire, con elevatissima capacità oraria, specifiche zone di attività, favorendo la mobilità delle persone al loro interno.
Per i trasporti interurbani, l'evoluzione sarà legata all'esigenza - non sempre generalmente riconosciuta e accettata - di colmare il vuoto esistente tra le massime velocità realizzabili con le ferrovie e la velocità dei mezzi aerei, vuoto che deriva dalla mancanza di un sistema di trasporto collettivo ottimizzato in termini di tempo di trasporto porta a porta per distanze tra i 300 e gli 800 km.
b) Il futuro dell'automobile
L'automobile è un prodotto industriale ormai maturo, tale cioè che la sua evoluzione difficilmente avverrà per cause intrinseche, ovvero legate a un programma autonomo di ricerca e sviluppo: le innovazioni saranno introdotte sotto lo stimolo di condizionamenti esterni, per adattare l'automobile ai cambiamenti del mondo circostante.
Attualmente il rincaro dei combustibili indirizza lo sviluppo dell'automobile verso soluzioni che ne consentano l'esercizio con nuovi consumi, ma contemporaneamente altre esigenze creano stimoli rinnovatori per i progetti: l'affidabilità, il comfort, la sicurezza, attiva e passiva, la protezione dell'ambiente da fattori inquinanti. Gli altri stimoli provengono dal progresso tecnologico: i robot non si limiteranno alle operazioni di saldatura e di verniciatura, ma interverranno anche nel montaggio, per cui i tipi di veicoli prodotti a più alte cadenze dovranno essere progettati con criteri semplificativi, onde poter essere fabbricati dagli antomatismi.
L'altra componente tecnologica in rapido sviluppo, che sta entrando in campo automobilistico, è l'elettronica. In questo campo possiamo sbizzarrirci con la fantasia e immaginare le cose più meravigliose: sicuramente saranno attuate, è solo questione di tempo. Per ora si è messo sotto controllo elettronico il motore, la trasmissione e il cruscotto, ma già si parla di vari dispositivi elettronici che, reagendo secondo un programma memorizzato nel microcalcolatore di bordo, potrebbero inserire l'automobile su un percorso prefissato.
Un'altra esigenza oggi sentita, ma di difficile realizzazione, perché di natura non tecnica, ma sociale e organizzativa, è l'integrazione dell'automobile con gli altri sistemi di trasporto, soprattutto l'aereo, la ferrovia e la metropolitana. Ci vorrà almeno una generazione per vedere dei progressi sostanziali a questo riguardo, perché l'autonomia reciproca fra trasporto pubblico e privato è uno dei preconcetti tipici del XX secolo.
Dal momento che lo sviluppo tecnico e tecnologico non ci fa intravedere niente di meglio del motore a scoppio e del pneumatico, ancora per molti anni l'automobile sarà quella che conosciamo oggi; in altre parole, tutto lascia prevedere che l'architettura dell'automobile, con le sue dimensioni fondamentali, non cambierà con il passare degli anni. Ma attorno all'automobile e dentro di essa nasceranno molti perfezionamenti e fioriranno molte invenzioni, che continueranno a rendere questo oggetto un elemento trainante del nostro sviluppo civile.
c) L'evoluzione tecnologica del veicolo industriale
In futuro, almeno per il prossimo decennio, lo sviluppo del veicolo industriale sarà sempre più condizionato dagli aspetti ben noti delle ricorrenti situazioni di crisi energetica e dalla competitività tra i costruttori per difendere e incrementare ovunque possibile le proprie quote sul mercato mondiale. Ciò comporta, per quel che riguarda l'evoluzione del veicolo industriale e commerciale, i seguenti obiettivi tecnici di carattere generale: 1) miglioramento delle prestazioni in termini di capacità di trasporto e di adeguatezza alle richieste specifiche delle utenze; 2) riduzione dei consumi di combustibile, nelle condizioni di esercizio tipiche dei diversi tipi di veicolo, ottenuta tramite: a) miglioramento delle caratteristiche dei motopropulsori; b) riduzione delle resistenze al moto del veicolo, di natura meccanica e aerodinamica; c) riduzione della tara; 3) soddisfacimento delle norme sull'inquinamento dell'ambiente e sulla sicurezza, prevedibilmente più severe delle attuali. Per quanto riguarda l'innovazione tecnologica relativa ai componenti principali del veicolo (gruppo motopropulsore, trasmissione, cabina, autotelaio, pneumatici) le tendenze sono le seguenti.
1. Per il motore non si intravedono alternative, nel campo dei veicoli industriali, al motore a combustione interna attuale, a ciclo diesel. Il motore diesel dovrà però aumentare la sua potenza per unità di cilindrata, ridurre i consumi specifici, aumentare la propria affidabilità e durata, nel rispetto di regolamentazioni più restrittive in materia di rumore e di emissioni allo scarico. Ciò comporterà in particolare, dal punto di vista progettativo e dell'analisi sperimentale: a) l'analisi sistematica delle missioni del veicolo per i diversi tipi di utilizzo del motore e la valutazione computerizzata dell'influenza dei diversi parametri che controllano il funzionamento del propulsore, in modo da individuare le condizioni di rendimento ottimali, entro i limiti di emissioni allo scarico ammessi, e da predisporre quindi le regolazioni più opportune; b) lo sviluppo di sistemi di iniezione ad alta pressione e prevedibilmente a controllo elettronico; c) lo sviluppo di sistemi di sovralimentazione e di recupero più sofisticati (turbina a geometria variabile, sistemi turbocompound, ecc.) e l'adozione diffusa di scambiatori di calore intermedi sul circuito dell'aria di alimentazione, per raffreddarla prima dell'impiego nei cilindri del motore; d) un migliore controllo della combustione, reso possibile da un'analisi approfondita del fenomeno fisico - effettuata sulla base di modelli matematici e tramite sperimentazione assistita dal calcolatore - e conseguito con l'impiego di dispositivi elettronici di regolazione; e) lo sviluppo di soluzioni progettative e di materiali idonei a ridurre la quantità di calore trasmessa dai gas combusti al circuito di raffreddamento; f) l'applicazione di materiali e trattamenti superficiali atti a ridurre le perdite organiche e in particolare quelle per attrito meccanico nell'accoppiamento canna-stantuffo, con vantaggio anche dal punto di vista della minore usura; g) l'adozione di nuovi tipi di lubrificante più stabili nel tempo e a viscosità controllata verso valori compatibilmente più bassi.
2. La trasmissione, e in particolare il componente cambio di velocità, evolverà verso un progressivo aumento dell'apertura e del numero dei rapporti di marcia disponibili, con probabile tendenza al cambio continuo. Per aumentare l'efficienza del motopropulsore riducendo i consumi avrà importanza fondamentale l'analisi delle missioni, in modo da ottimizzare l'accoppiamento tra motore e cambio. Per ridurre il rumore durante il funzionamento e aumentare la durata verranno adottate come regola dentature ad alto ricoprimento ed eventualmente con più coppie di denti in presa. Il calcolo di progetto verrà effettuato con modelli sofisticati di analisi strutturale, capaci di valutare esattamente le correzioni da adottare per i profili dei denti in funzione dei cedimenti sotto carico degli alberi e dei supporti.
3. La cabina risulterà sempre più un elemento caratterizzante il veicolo agli occhi dell'utilizzatore e dovrà soddisfare un complesso assai impegnativo di requisiti diversi e spesso difficili da conciliare tra loro, tra i quali si pongono in evidenza i seguenti: a) la forma aerodinamica, che andrà realizzata considerando l'integrazione della cabina con i corpi successivi e soprattutto gli effetti del vento laterale; b) l'abitabilità, da conseguirsi mediante accurata analisi di tipo ergonomico, tenuto conto della missione base del veicolo; c) il comfort, dal punto di vista sia dell'isolamento dal rumore esterno e dalle vibrazioni durante la marcia, sia della climatizzazione interna, che deve risultare adeguata in tutte le condizioni di impiego del veicolo; d) la visibilità, estesa anche ampiamente verso il basso, per una più corretta e agevole guida del veicolo; e) la sicurezza, ottenibile con l'adozione di soluzioni derivate da analisi strutturale e verifiche sperimentali molto accurate e con la scelta di materiali adeguati.
Un'importante innovazione nell'interno cabina potrà riguardare la strumentazione di bordo, che sarà costituita da dispositivi elettronici integrati, capaci di trattare e di presentare su un monitor diversi tipi di informazioni, quali: a) segnali di cruscotto relativi al funzionamento normale del veicolo, con l'indicazione delle condizioni di marcia consigliate perché più economiche; b) segnali di allarme e relative emergenze; c) check-up delle condizioni di funzionamento dei vari organi del veicolo (impianto frenante, impianto elettrico, ecc.); d) informazioni complementari tipo trip-computer, display della mappa stradale, ecc.
In un secondo tempo si potrà avere un intervento automatico del sistema elettronico di controllo per adeguare le condizioni di utilizzo del veicolo a quelle ottimali.
La cabina è il componente del veicolo più facilmente individuabile dal punto di vista della personalizzazione; per esso, quindi, dovranno venire studiate con sempre maggiore cura tutte le possibili soluzioni progettative atte a offrire un servizio gradito al cliente, nel rispetto del requisito fondamentale (valido per tutti i gruppi dell'autoveicolo) dell'utilizzo di soluzioni quanto più possibile modulari.
4. Per l'autotelaio si prevedono soluzioni tendenti all'alleggerimento, conseguibili mediante approfondita analisi strutturale, e l'uso progressivamente crescente di materiali alternativi (acciai ad alto limite di snervamento, leghe leggere, materie plastiche e compositi). In particolare è possibile prevedere soluzioni modulari di telai con diversa rigidezza in funzione del carico massimo richiesto dalla missione del veicolo. Contemporaneamente verrà posta una crescente attenzione alla manovrabilità del veicolo, studiata mediante adeguati modelli di simulazione capaci di definire le rigidezze ottimali degli elementi del telaio e le caratteristiche più convenienti delle sospensioni.
5. Per quanto riguarda infine i pneumatici è prevedibile un'evoluzione verso una minore isteresi e un aumento della pressione di gonfiaggio, con l'impiego di sezioni ribassate e con rinforzi interni opportuni, in modo da diminuire le perdite per rotolamento e contribuire ulteriormente alla riduzione del consumo su strada, in special modo per il trasporto pesante.
d) Il futuro della ferrovia
Ora che quasi tutte le ferrovie dell'Occidente operano in perdita, comincia a farsi strada il concetto, sacrilego fino a pochi anni fa, che le risorse impiegate a tenere artificialmente in vita esercizi pesantemente passivi potrebbero, con maggior beneficio per la comunità, essere utilizzate per sviluppare e incentivare altri sistemi, che meglio e più flessibilmente possono rispondere nei vari paesi alla crescente e insoddisfatta domanda di mobilità. Quando, lentamente, vincendo innumerevoli resistenze corporative e assistenzialistiche, questa nuova impostazione si sarà ovunque affermata, la rete ferroviaria del mondo ne risulterà profondamente trasformata. Un terzo almeno delle linee esistenti sarà scomparso e sulle altre, sostanzialmente potenziate e migliorate, correranno frequenti e veloci treni passeggeri intercity su distanze comprese fra i 150 e i 600-800 km, treni merci completi, prevalentemente diretti a un'unica destinazione, e treni specializzati per i trasporti combinati. Per i grandi assi di comunicazione si tracceranno nel mondo 15.000 forse 20.000 km di nuove linee veloci, con raggi di curvatura sopra i 4.000 m, per lo più destinate al solo servizio viaggiatori, da disimpegnare con materiale esclusivamente omogeneo.
Il livello dei 260-280 km/h, che l'indagine dell'UIC degli anni settanta aveva definito come condizione di equilibrio fra il maggior costo della velocità e il beneficio economico corrispondente al risparmio del tempo di viaggio, subirà sensibili incrementi, soprattutto per le linee interessanti i paesi ove più elevato è il reddito individuale. L'estrapolazione delle situazioni attuali e gli ulteriori miglioramenti nel comportamento dinamico dei veicoli, che già si annunciano come risultato delle ricerche in corso, lasciano sperare che il sistema ruota-rotaia possa dimostrarsi idoneo fino a velocità prossime ai 300 km/h. Al di là di questo limite si entra in un campo di grande incertezza, soprattutto per le conseguenze delle interazioni fra ruota e rotaia. Minimi difetti dell'armamento sono causa di instabilità nel materiale rotabile, che, generando urti e spinte tanto più forti quanto più alta è la velocità, provoca a sua volta nuove e maggiori irregolarità nel binario; in un concatenarsi di cause ed effetti, il fenomeno tende ad aggravarsi, fino a rendere necessaria una prematura revisione della via, che, con gli inevitabili rallentamenti o interruzioni di servizio, vanifica completamente i vantaggi connessi ai servizi ad alte velocità. Dell'esistenza di questa ‛barriera della manutenzione' si sono rese ben conto le ferrovie giapponesi che, avendo impiegato sullo Shinkansen materiale rotabile di buona qualità, ma non espressamente concepito per le altissime velocità, hanno incontrato serie difficoltà per assicurare la continuità del servizio a 210 km/h, e che tuttora non hanno superato tale velocità, anche se da oltre 10 anni le nuove linee e i nuovi apparati propulsori sono pronti per i 260 km/h.
Alla luce di queste considerazioni non deve sorprendere che le amministrazioni ferroviarie più impegnate stiano preparando delle soluzioni di riserva non soggette ad alcuna limitazione di velocità, in quanto basate sull'eliminazione di ogni contatto materiale fra i veicoli e la loro guida. Di questi nuovi sistemi di trasporto guidato comunemente chiamati ‛non convenzionali', tre soltanto hanno raggiunto realizzazioni concrete e rimangono in gara per eventuali applicazioni nel futuro: a) l'aerotrain Bertin, sostenuto e guidato in base al noto principio del cuscino d'aria e spinto da un reattore di tipo aeronautico. Fin dal 1974 esso ha raggiunto su una pista di 19 km, sul percorso Orléans-Parigi, la velocità di 431 km/h, record tuttora imbattuto per veicoli con viaggiatori a bordo; b) il sistema Transrapid, realizzato da un consorzio di industrie tedesche e finanziato dal Ministero per la Ricerca Tecnologica, basato per la portanza e la guida sull'attrazione esercitata fra elettromagneti incorporati nel veicolo e guide in materiale ferromagnetico sistemate ai bordi della via di corsa. La propulsione è ottenuta con un motore lineare sincrono del tipo ‛a statore lungo' (LSM), che comporta l'applicazione di un avvolgimento trifase lungo tutta la via (che perciò appunto viene chiamata ‛via attiva'). È in funzione a Emsland nel nord della Germania un impianto di prova dello sviluppo di 31 km, sul quale si possono raggiungere i 400 km/h; il treno sperimentale è lungo 64 m e può portare 120 viaggiatori; c) il veicolo costruito dalle ferrovie giapponesi, basato sulla levitazione elettrodinamica, cioè sulla repulsione che si esercita fra un magnete in rapido movimento e le correnti da esso indotte in un sistema passivo di conduttori sistemato lungo la via. Perché la repulsione sia sufficiente a sostenere il peso del veicolo sono necessari campi magnetici di altissima intensità, che si ottengono con elettromagneti senza ferro, percorsi da correnti di molte migliaia di ampère in regime di superconduzione. Queste condizioni si producono a temperature di pochi gradi sopra lo zero assoluto e richiedono il raffreddamento degli avvolgimenti dei magneti mediante elio liquido, con l'impiego di tecnologie da laboratorio che poco si adattano alla praticità di un esercizio ferroviario. Spinto anch'esso da un motore lineare sincrono a statore lungo, questo veicolo, telecomandato e senza persone a bordo, ha raggiunto nel 1981 su una pista di soli 7 km a Miyazaki l'incredibile velocità di 517 km/h. È ora in programma una linea di 40 km sulla quale saranno provati veicoli di maggiori dimensioni, che potranno anche ospitare ricercatori e visitatori.
Tutti questi sistemi hanno in comune l'enorme complessità del deviatoio per il cambio di itinerari. Rispetto al perfezionatissimo scambio ferroviario, ingombro, peso, tempo e potenza di manovra sono di almeno un ordine di grandezza superiori. Con i sistemi non convenzionali si potranno perciò stabilire collegamenti superveloci di tipo lineare, ma non è pensabile la formazione di ‛reti' e neppure la realizzazione di qualcosa che anche lontanamente assomigli ai grandi impianti delle moderne stazioni per viaggiatori.
(Alla stesura del cap. 6 ha collaborato l'ing. Alberto Mondini).
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Trasporti marittimi
SOMMARIO: 1. La prima metà del Novecento: a) traffico e tonnellaggio; b) tendenze innovative. □ 2. La grande crescita: 1950-1974: a) traffico, tonnellaggio, cantieri; b) costi a viaggio; c) gigantismo, specializzazione, unitizzazione; d) velocità; e) mercati marittimi. □ 3. Gli anni più recenti. □ 4. Effetti della crescita: a) evoluzione dei mercati; b) trasporti, industria e commercio; c) porti; d) evoluzione della funzione portuale; e) sviluppi degli ultimi anni e alcune prospettive; f) cenni sull'evoluzione del diritto del mare. □ 5. Bandiere e politica marittima: a) paesi industrializzati; b) bandiere ombra e paesi in via di sviluppo. □ 6. Alcuni lineamenti evolutivi dell'industria cantieristica. □ 7. Sviluppo, sottosviluppo e navigazione di linea. □ Bibliografia.
1. La prima metà del Novecento.
a) Traffico e tonnellaggio.
Generalmente si valuta che il commercio marittimo mondiale, nei primi anni del secolo attuale, sia stato (con una certa approssimazione per eccesso) dell'ordine di grandezza di 250 milioni di tonnellate annue (v. Couper, 1972, p. 69). I paesi industrializzati dell'Europa occidentale e centrale rappresentavano il punto di arrivo di un vasto movimento di materie prime (tessili, siderurgiche, chimiche, ecc.), di derrate alimentari (cereali, zucchero, carni, ecc.), di spezie, coloniali, o altri prodotti tropicali, dall'Europa orientale (Mar Nero e Baltico) e dai paesi d'oltremare, e il punto di partenza per il carbone inglese, i prodotti siderurgici e una numerosa serie di prodotti manufatti. Un'altra significativa area di arrivo di materie prime era rappresentata dagli Stati Uniti, dai quali, però, partivano quantitativi di carico più rilevanti di quelli sbarcati. L'Europa alimentava altresì un ingente movimento migratorio particolarmente verso le Americhe. Inoltre, fra l'Europa e gli altri continenti esisteva un notevole movimento bidirezionale di passeggeri di altra natura.
In generale, gli ultimi decenni antecedenti la prima guerra mondiale si erano caratterizzati per una notevole espansione del traffico, ma la prima guerra mondiale porta con sé la rottura dell'assetto precedentemente realizzato. Nel dopoguerra le difficoltà di molti paesi in relazione all'equilibrio della bilancia dei pagamenti consentono solo un parziale abbandono dei vincoli al commercio estero posti in essere durante il conflitto. Inoltre, per quanto più da vicino concerne i trasporti marittimi, si verificano alcuni fatti di essenziale rilevanza: scompaiono, o quasi, le esportazioni russe di grano; le esportazioni inglesi di carbone si riducono progressivamente fino a dimezzarsi rispetto ai livelli prebellici; i movimenti di persone vengono sottoposti a limitazioni e controlli, in particolare rispetto all'immigrazione; il petrolio avanza nel quadro delle fonti di energia e tende a sostituirsi al carbone.
Gli anni venti, peraltro, restano un periodo di espansione per i traffici via mare. Nel 1929 il commercio marittimo internazionale raggiunge i 470 milioni di tonnellate (statistiche ONU). Ma la grande crisi del 1929-1933, il disordine monetario degli anni trenta, la politica di stretto controllo del commercio estero e del movimento dei capitali, il controllo dei cambi, gli scambi bilaterali bilanciati, ecc. influenzano fortemente i trasporti marittimi internazionali. Il commercio internazionale via mare scende a 350 milioni di tonnellate nel 1932, e solo nel 1937 supererà, con 490 milioni, i livelli del 1929, per ritornare poi, però, a 470 nel 1938 (dati ONU).
La seconda guerra mondiale ha pesanti conseguenze, maggiori della prima, sugli scambi via mare e, al termine, presenta problemi di ricostruzione e di equilibrio dei pagamenti con l'estero assai più rilevanti. L'esperienza degli anni trenta e la consapevolezza di non dover ritornare ai nazionalismi economici di quel periodo, tuttavia, impongono un orientamento verso il libero scambio, lo sviluppo e il superamento dei dualismi nell'economia internazionale, che produrrà effetti positivi di grande significato.
Il commercio internazionale via mare recupera, nel 1948, i massimi prebellici con 490 milioni di tonnellate e li supera giungendo, nel 1950, a 550 milioni, di cui circa 25 sui Grandi Laghi del Nordamerica. Degli altri 525, 225 sono rappresentati da oli minerali greggi e derivati (dati ONU).
Anche la flotta mercantile, negli ultimi decenni antecedenti la prima guerra mondiale, segna un incremento accentuato (v. tab. I). La prima guerra mondiale rappresenta un periodo caratterizzato insieme da ingenti nuove costruzioni e da rilevanti perdite di naviglio. La forte attività costruttiva si proietta negli anni del dopoguerra per effetto degli ordinativi ancora risalenti al periodo bellico e di quelli finalizzati alla ricostruzione e alla ripresa postbellica. Nel solo 1919 vengono varate navi per 7,1 milioni di tonnellate di stazza lorda (indicate, d'ora in avanti con TSL), nel 1920 per 5,9 milioni di TSL. Come conseguenza, la flotta mondiale segna aumenti limitati fra il 1914 e il 1919, per poi crescere rapidamente per diversi anni. Lo sviluppo prosegue, ma a ritmo più contenuto, fino alla grande crisi. Dopodiché si ha una flessione, seguita da una ripresa che dura sino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Di norma i mutamenti congiunturali che intervengono nella domanda di stive si riflettono sulla consistenza della flotta mercantile con uno sfasamento temporale determinato dalla lunghezza del periodo di costruzione del naviglio, nonché - quando si passa dall'espansione alla recessione - dell'iter decisionale che porta alla demolizione del naviglio stesso (presumibilmente dopo un periodo di disarmo) e - quando si passa dalla recessione alla ripresa - dal reimpiego del tonnellaggio in disarmo.
Così, mentre il commercio via mare, dopo il 1929, diminuisce, la flotta mondiale cresce ancora fino al 1931 e, mentre la caduta del commercio via mare si arresta nel 1932, la flotta mondiale diminuisce fino al 1935, e la ripresa si ha solo nel 1936.
Il periodo fra le due guerre mondiali è stato denso di difficoltà per l'industria cantieristica. L'accentuato rinnovo del naviglio conseguente alle nuove costruzioni, intervenuto nel periodo bellico e immediatamente postbellico, ha provocato una riduzione della domanda di navi negli anni successivi. Quando questo effetto stava per esaurirsi è sopravvenuta la crisi e l'attività cantieristica è scesa ulteriormente (fino a una cifra di non più di 489 mila TSL varate, nel 1933). Solo nel 1937-1939 si ritornerà a 2,5-3 milioni di TSL.
Il conflitto porta con sé il fatto innovativo della standardizzazione e parziale prefabbricazione della produzione nell'industria cantieristica nordamericana, dal quale derivano alcuni tipi di nave, come le Liberty per i carichi secchi e le T2 per i petroli, che avranno largo impiego nei traffici del tempo di pace e consentiranno agli Stati Uniti di aiutare la ricostruzione delle flotte più gravemente danneggiate dalla guerra.
L'ingente volume di nuove costruzioni - solo nel 1943 furono varate navi per 13,9 milioni di TSL - non avrà, questa volta, l'effetto di ridurre il fabbisogno di nuovo naviglio in tempo di pace (come, invece, era avvenuto dopo la prima guerra mondiale), sia perché gli Stati Uniti, pochi anni dopo la fine del conflitto, metteranno, e terranno, in disarmo un rilevante quantitativo di unità di costruzione bellica (la cosiddetta ‛flotta di riserva'), sia per il forte aumento della produzione e degli scambi nel mondo intervenuto dopo la ricostruzione.
b) Tendenze innovative.
Il periodo precedente la prima guerra mondiale aveva portato già molto avanti il processo di sostituzione del vapore alla vela, iniziatosi nel secolo XIX. Nel 1913 il naviglio velico era sceso all'8% del totale del tonnellaggio mondiale. Tale processo giunge praticamente a completarsi negli anni venti: nel 1931 l'aliquota rappresentata dalla vela è del solo 2% (v. tab. I).
Il Novecento si era presentato con l'introduzione della turbina nella propulsione navale. Il primo decennio del secolo porta con sé l'introduzione del diesel e l'avvio di un confronto, tuttora in atto, fra diesel e turbina, confronto che è fonte d'importanti fatti innovativi. L'affermazione delle motonavi avviene, principalmente, dopo la prima guerra mondiale. Le motonavi passano a rappresentare dal 2,6% al 24% del naviglio mondiale fra il 1924 e il 1939. Nel 1950, con 21 milioni di TSL, arriveranno a rappresentare il 25%. Nel 1973 l'aliquota delle motonavi sale al 64% (dati del Lloyd's Register). L'avvento del diesel si accompagna all'avvio di un altro importante processo: l'uso dei combustibili derivati dal petrolio, in luogo del carbone, nella propulsione navale. Tra piroscafi e motonavi, le unità in grado di usare combustibili da petrolio arriveranno a rappresentare, dallo 0,5% del totale del tonnellaggio mondiale nel 1914, il 58% nel 1939 e il 75% nel 1950. Infine, il periodo antecedente la prima guerra mondiale - che si chiude con l'ultimazione del canale di Panama (1914) - porta con sé le soluzioni di quei problemi di costruzione delle moderne navi cisterna che avevano fatto a lungo discutere nell'ultima parte dell'Ottocento.
La flotta petroliera, nel 1914, aveva una consistenza inferiore al milione e mezzo di TSL; successivamente arriva a 11,4 milioni nel 1939, e a 16,9 milioni nel 1950 (dati del Lloyd's Register). Subito dopo la prima guerra mondiale (1919) la Union Cold Storage acquista 15 navi, per 120.000 tonnellate di portata, dalla Blue Star Line, per specializzarle nel trasporto di carni dall'Argentina e dall'Australia al Regno Unito; parte di questa flotta verrà successivamente impiegata anche per trasporti di frutta. Nello stesso periodo la United Fruit Company avvia il trasporto, su scala industriale, delle banane, con relativi impianti speciali a terra. Il filone innovativo dei trasporti refrigerati degli anni ottanta del secolo XIX si orienta verso forme di concentrazione verticale di rilevanti dimensioni e verso la realizzazione dei moderni circuiti specializzati (v. McDowell e Gibbs, 1954, pp. 60-61).
All'incirca all'epoca della prima guerra mondiale, e in misura più accentuata negli anni successivi, la siderurgia americana amplia e diversifica le fonti dei propri approvvigionamenti di materie prime, e gradatamente immette sulle rotte d'altura un tipo di nave in uso sui Grandi Laghi, per il trasporto e la rapida manipolazione portuale dei minerali: la ore carrier (v. McDowell e Gibbs, 1954, pp. 59-60). La siderurgia, nel secolo XIX, si localizzava prevalentemente nelle regioni carbonifere, dato l'impiego proporzionalmente alto del carbone rispetto a quello dei minerali di ferro. Il ridursi dei costi del trasporto via mare nel periodo della sostituzione del vapore alla vela - che esaltava la convenienza comparativa della via marittima per il trasporto di rinfuse - e le esigenze di una strategia diversificata degli approvvigionamenti spingono il settore verso le localizzazioni costiere, avviando una nuova tendenza ubicazionale che ha larga prevalenza anche ai giorni nostri. Questa tendenza troverà appunto ragioni d'impulso nella disponibilità di un ciclo di trasporto specializzato in cui la fase marittima è svolta dalle porta-minerali.
A partire dagli anni cinquanta, la stessa concezione verrà applicata ad altri settori di traffico di carichi secchi alla rinfusa, sia per specifiche forme di concentrazione trasporto/industria, sia per l'esigenza di assicurare alle navi una certa polivalenza e flessibilità d'impiego.
2. La grande crescita: 1950-1974.
a) Traffico, tonnellaggio, cantieri.
Dopo la ricostruzione e l'assestamento postbellico, l'incremento delle popolazioni e dei redditi, l'efficace nuova versione del gold exchange standard imperniata sul Fondo Monetario Internazionale, la liberalizzazione degli scambi, i grandi disegni storico-politici d'integrazione europea, la politica di sostegno ai paesi in via di sviluppo, la più celere e agile circolazione delle persone e delle idee accompagnano il traffico marittimo in una lunga ondata di progresso che, sia pure attraverso ritmi alterni, giunge fin quasi alla metà degli anni settanta.
In tale periodo il commercio marittimo ha avuto uno sviluppo superiore a quello delle esportazioni (indici di quantità, commercio internazionale svolto con ogni mezzo di trasporto) e a quello della produzione manifatturiera. (Lo stesso va detto se si raffrontano i dati degli ultimi anni del periodo in questione con quelli prebellici).
I dati relativi al commercio internazionale via mare, al tonnellaggio mercantile e alla produzione dei cantieri navali, nel mondo, nel periodo fra il 1950 e il 1974, raffrontati con quelli prebellici - e con quelli degli anni più recenti -, sono riportati nella tab. II. Nel periodo considerato, mentre il commercio marittimo aumenta di oltre 6 volte, il tonnellaggio mercantile aumenta di quasi 4 volte. Dal canto suo, l'industria delle costruzioni navali, che nella prima metà del secolo non aveva più superato i massimi del 1913, arrivava, nel periodo in esame, a decuplicare le cifre - tuttavia, notoriamente, molto fluttuanti - della propria produzione annua.
Negli anni intorno al 1970 il commercio marittimo internazionale rappresenta più dei 3/4 del totale dei quanti tativi di carico costituenti l'interscambio mondiale su qualunque mezzo di trasporto, e più dei 2/3 del valore dell'interscambio mondiale stesso (v. O'Loughlin, 1967, p. 4; v. Couper, 1972, p. 73).
Il tonnellaggio mercantile si sviluppa a un ritmo regolarmente più basso di quello del commercio internazionale marittimo. Fa eccezione, nell'arco di tempo considerato nella tab. II, il periodo 1938-1948, in quanto nel dopoguerra è presente, nel tonnellaggio mercantile, la già menzionata Reserve Fleet nordamericana. Fra il 1950 e il 1974 il commercio marittimo aumenta a un tasso annuo d'incremento composto pari al 7,9% e il tonnellaggio mercantile aumenta del 5,6%. Il rapporto fra il tasso d'incremento del tonnellaggio (al numeratore) e quello del commercio marittimo (al denominatore) - che, in quanto istituito tra variazioni proporzionali, rappresenta un'elasticità - è pari a 0,7%. In altri termini a un aumento dell'1% del commercio marittimo corrisponde, in media, nel periodo considerato, un aumento del tonnellaggio mercantile fra lo 0,70 e lo 0,75% Lo stesso risultato, di massima, si raggiunge se si misura la suddetta elasticità per il periodo 1938-1975.
La differenza fra i ritmi di sviluppo suddetti aumenterebbe se, relativamente al commercio marittimo, si tenesse conto, oltre che del peso dei carichi trasportati, anche delle distanze. Si valuta, ad esempio, che fra il 1962 e il 1973 la percorrenza media dei carichi trasportati via mare sia passata da 3.485 a 4.860 miglia (v. Fearnley and Eger's Chartering Company Ltd, Review..., 1974).
Il commercio internazionale marittimo costituisce la componente di gran lunga più importante del fabbisogno di spazi a bordo, ma non la sola. Le altre componenti della domanda di stive hanno avuto, complessivamente, una dinamica minore. Il traffico merci di cabotaggio si è sviluppato, ma a un ritmo legato all'espansione delle principali macrovariabili delle singole economie nazionali, le quali, di norma, hanno avuto una dinamica più contenuta di quella degli scambi con l'estero (tant'è vero che la proporzione fra commercio estero e reddito nei paesi industriali è, generalmente, cresciuta). Il trasporto passeggeri sulle rotte medie e brevi, come quelle mediterranee, sia internazionali che di cabotaggio - dove si è esteso l'uso dei traghetti per persone e auto - ha avuto una dinamica notevolmente positiva. Invece, il trasporto passeggeri di linea su rotte oceaniche ha subito una sensibile contrazione, solo limitatamente compensata dallo sviluppo della domanda crocieristica, a causa della crescente affermazione dell'aereo. Nettamente avanti alle altre, nel processo di sostituzione dell'aereo alla nave per il trasporto oceanico di passeggeri di linea, è la rotta transatlantica fra l'Europa e il Nordamerica, dove l'aviazione civile si è più intensamente impegnata.
Nel 1950-1974 la struttura del commercio internazionale marittimo ha segnato alcuni rilevanti cambiamenti. I settori in cui la capacità di trasporto per tonnellata di stazza, all'inizio del periodo, era più elevata hanno sensibilmente guadagnato in peso e percentuale, rispetto al resto. I petroli greggi e derivati, fra il 1950 e il 1971, sono passati dal 43 al 56% del totale del commercio via mare internazionale (dati OCSE). Il quantitativo di carico assorbito dalle navi porta-rinfuse, nel trasporto di minerali ferrosi, carbone, cereali, bauxite e fosfati, è passato complessivamente, fra il 1960 e il 1974, da 38 a 533 milioni di tonnellate, cioè dal 7 al 38% del totale dei carichi secchi e, mentre nel 1960 riguardava per i 4/5 il solo settore dei minerali ferrosi, nel 1974 comprende in rilevante misura tutti e cinque i suddetti gruppi merceologici (dati della Fearnley and Eger's Chartering Company Ltd, riportati in OCSE, 1969 e 1980).
Tutto ciò ha prodotto l'effetto di far aumentare il carico mediamente trasportato in un anno da ogni TSL esistente. Nel contempo, tuttavia, ad accrescere il carico medio per TSL, sopravvenivano forti immissioni di nuovo naviglio per motivi di espansione, di sostituzione e di rinnovo, che provocavano un miglioramento qualitativo della flotta mondiale, aumenti (peraltro non macroscopici) della velocità, caratteristiche costruttive in grado di accelerare il disbrigo dei carichi nei porti e, pur fra contrasti e inerzie, una maggiore meccanizzazione e specializzazione delle attrezzature nei porti stessi.
Il ciclo di trasporto dei petroli - petroliere, depositi costieri, oleodotti - per la fluidità e l'agilità economico-operativa con cui si caratterizza ha fornito un modello ricco di suggestione per le altre correnti di traffico. Il modello viene presto adattato per il trasporto dei gas naturali liquefatti. La riduzione del carico in forma liquida, per il trasporto marittimo e la manipolazione portuale, viene praticata per altri prodotti, particolarmente (ma non esclusivamente) nel campo dell'industria chimica e petrolchimica: gas di petrolio liquefatti, zolfo, fosforo, ecc. (v. Holubowicz, 1970).
In altri casi il prodotto viene fatto viaggiare in tanche (serbatoi) e poi manipolato nei porti diluito in acqua, sulla scorta di una collaudata esperienza scandinava nei trasporti di polpa di legno (la tecnica della noodie ship) e della ricerca applicata all'industria in campo siderurgico (la tecnica dello slurry, minerali ridotti in fanghiglia). Quest'ultima tecnica può applicarsi ai minerali di ferro, al carbone, allo zolfo, ecc. (v. Holubowicz, 1970). Proiettata nel campo dei trasporti terrestri, essa in alternativa con altre tecniche - come quella dei gasdotti, oggi suscettibili di estensioni anche ampie al carbone - può aprire la via a innovazioni potenzialmente rivoluzionarie per le localizzazioni industriali, come quella della condotta per i prodotti solidi (v. Maiello, 1972). Dove queste soluzioni non sono ottenibili o praticabili, restano, e si potenziano, le strutture per la manipolazione meccanizzata delle rinfuse secche, in polvere, granuli, ecc. Allo stesso modo opera la tendenza alla formazione del ciclo di trasporto tecnicamente integrato (impianto specializzato-nave specializzata-impianto specializzato).
In risposta a siffatte sollecitazioni la flotta petroliera mondiale sale da 17 milioni di TSL nel 1950 a 129,5 milioni nel 1974, passando dal 21 al 44% circa del tonnellaggio mondiale (Lloyd's Register). La flotta delle navi gassiere arriva (1974) a 2,4 milioni di TSL. La flotta delle porta-rinfuse secche arriva (1974) a 57,4 milioni di TSL, e si diversifica guadagnando in flessibilità d'impiego. Cosicché, mentre nel 1950 questo settore della flotta mondiale era costituito quasi esclusivamente da mineraliere, alla fine del periodo considerato risulta composta, in prevalenza, da unità di altro tipo, molto spesso polivalenti.
Lo stesso criterio, e la sollecitazione a eliminare i viaggi di ritorno a vuoto, suggeriscono la combinazione - non priva, tuttavia, di qualche inconveniente - delle navi per il trasporto di oli minerali e di minerali o altre rinfuse secche (le ore/oil e le OBO). Questa flotta, nel 1974, arriva a 22 milioni di TSL di consistenza.
b) Costi a viaggio.
La nave ha un costo giornaliero fisso che, se essa è in attività, è costituito da ammortamenti e interessi passivi sul capitale investito, spese di manutenzione e riparazione (compresa una quota delle spese di classifica), assicurazioni, spese generali, equipaggio (salari, previdenza, vitto), tutti valutati in ragione d'anno e divisi per il numero dei giorni commercialmente utilizzati nell'anno stesso e cioè 365 meno i giorni impegnati normalmente per carenaggio, riparazioni, ecc. (v. Svendsen, 1958; v. Goss, 1970).
Il costo di un viaggio è dato: a) dai costi giornalieri fissi, moltiplicati per il numero dei giorni costituenti il viaggio stesso (in navigazione e nei porti); b) dai costi giornalieri del combustibile e degli altri materiali di consumo, in navigazione, moltiplicati per i giorni di navigazione; c) dai costi giornalieri del combustibile e degli altri consumi in porto, moltiplicati per i giorni passati in porto; d) dai diritti portuali e dalle altre spese portuali inerenti alla nave.
Tutti questi costi variano con il variare della portata, ciascuno con una propria legge funzionale. Qualcuno di essi (assicurazioni, carenaggio) per le portate giganti può diventare molto elevato. Ma, complessivamente, questo insieme di costi cresce in misura meno che proporzionale all'aumentare della portata della nave (v. Svendsen, 1958; v. Goss, 1970). (Per portata s'intende qui la capacità di carico pagante, espressa in peso: quindi, grosso modo, la portata netta).
A parità di velocità e di numero dei giorni passati in porto, i costi a viaggio per ogni tonnellata di carico trasportata tendono a diminuire con l'aumento della portata utile. In altri termini, le economie di scala della nave non avrebbero limiti intrinseci al processo produttivo. Questa conclusione è in accordo con l'opinione secondo cui i limiti della portata della nave vanno cercati nei fondali dei porti che si prevede di toccare, nella platea continentale, nel pescaggio consentito dalle maggiori vie navigabili (Suez, Panama, ecc.) e, quando il mercato non è molto concorrenziale, nei flussi del traffico da servire.
I costi a viaggio comprendono, tuttavia, un'altra categoria di oneri, e cioè: e) le spese per le operazioni d'imbarco e sbarco dei carichi trasportati.
Quando si può operare sulla nave con le attrezzature portuali convenzionali, anche molto meccanizzate ma buone per ogni tipo di carico, si può pensare che vengano applicati i fattori produttivi del servizio portuale nella quantità di volta in volta voluta. Le navi da carico generale in servizio di linea, con itinerari e frequenze predeterminati, possono chiedere la quantità di servizi portuali - e, se esistono, le differenti tecnologie disponibili nello scalo - del tipo e della qualità necessari a far sì che i giorni passati in porto restino gli stessi indipendentemente dalla portata. Ma in questo caso l'aumento della portata implica l'effettuazione di prestazioni straordinarie, notturne, festive, ecc., e/o il ricorso ad attrezzature più costose, anche se generiche. Cosicché il costo delle operazioni d'imbarco e sbarco, in questo caso, aumenta - o, almeno, tende ad aumentare - in proporzione maggiore all'aumento della portata stessa. Di conseguenza aumenta anche il costo a viaggio per ogni tonnellata di carico, relativamente alle operazioni d'imbarco e sbarco.
Fino a quando i costi sub a), b), c), d) per tonnellata di carico diminuiscono più di quanto non aumentino i costi per tonnellata sub e), il costo a viaggio per tonnellata di carico diminuisce. La crescita della portata si arresta quando la diminuzione dei costi per tonnellata sub a), b), c), d) equivale all'aumento dei costi per tonnellata sub e). Da questo punto in avanti i costi a viaggio per tonnellata aumentano.
Se l'impianto portuale è specializzato, cioè non utilizzabile per ogni genere di carico, e non è suscettibile di essere impiegato, almeno teoricamente, in qualunque misura per qualunque nave, non è più possibile mantenere l'assunto di un numero costante dei giorni passati in porto con l'aumentare della portata. La nave rimane in porto i giorni necessari per le operazioni non inerenti al carico, più il numero dei giorni (e frazioni di giorno) risultante dal rapporto fra la portata della nave e la capacità giornaliera dell'impianto portuale. Cosicché i giorni in porto aumentano con il crescere della portata della nave.
Normalmente, in questi casi, a parte l'eventualità di qualche addizionale per il raggiungimento di rese eccezionali, i costi complessivi a viaggio per le operazioni d'imbarco e sbarco aumentano nella stessa proporzione della portata. E i costi a viaggio per tonnellata di carico, relativamente alle operazioni in questione, tendono a essere costanti. Se la nave deve restare in porto un numero di giorni crescente con l'aumentare della portata, la durata del viaggio aumenta e cresce il costo totale a viaggio. Fino a quando tale aumento è proporzionalmente inferiore all'incremento della portata, i costi totali a viaggio per tonnellata di carico diminuiscono. Ma quando l'aumento in questione cresce proporzionalmente più che l'incremento della portata, i costi totali per tonnellata di carico (navigazione, porto, manipolazione del carico) prendono a crescere (v. Marchese, 1974).
Quello ora descritto è il caso delle navi speciali dei nostri giorni, e degli impianti specializzati per gruppi di merci in porto. Sia nel caso delle navi generiche che operano con attrezzature generiche, sia in quello delle navi speciali che operano con impianti speciali a terra, quanto più lungo è il viaggio, e quanto più alto è il numero dei giorni in navigazione, tanto minore diventa la proporzione dei giorni passati in porto, e tanto minore diventa - a parità di ogni altra condizione - l'incidenza dei costi d'imbarco e sbarco sul totale dei costi a viaggio. Cosicché le navi adibite a traffici su lunghe percorrenze tendono ad avere una portata più elevata.
c) Gigantismo, specializzazione, unitizzazione.
La rata (oraria o giornaliera) d'imbarco e sbarco dell'impianto speciale, come si è visto in precedenza, condiziona la crescita della portata della nave speciale e la sua possibilità di fruire delle economie di scala e di abbassare i costi per tonnellata di carico. A sua volta, tale rata non è che un'espressione della capacità annuale dell'impianto e della sua dimensione. La capacità annuale, di norma, è correlata al flusso di traffico da servire.
Un impianto a rate d'imbarco e/o sbarco molto elevate, fatto per ricevere unità di grande portata, esige opere strutturali molto impegnative e alti fondali. Questa categoria di costi - a cui si dà il nome di ‛costi-fondale' - aumenta più che proporzionalmente ai fondali stessi e può arrivare a esser causa di costi crescenti per tonnellata di carico. Correlata alla rata d'imbarco e sbarco è la capacità di stoccaggio dell'impianto speciale o, almeno, l'area a terra per la sosta e il transito del carico. Se tali spazi e capacità debbono stare a immediato contatto con le banchine, l'espansione dell'impianto entra in conflitto con gli altri usi delle aree portuali, che vanno normalmente soggette a una forte pressione insediativa e, quindi, sono scarse per definizione (sia pure in diverso grado a seconda dei porti). L'autorità portuale può razionare la concessione degli spazi, oppure praticare una selezione delle richieste attraverso il prezzo, cioè le tariffe e i canoni per l'uso degli spazi e delle infrastrutture.
I settori che sono in grado di realizzare fuori dell'area portuale il deposito dei prodotti, e di ridurre a poca entità la richiesta di aree nel porto, sono quindi avvantaggiati rispetto agli altri. Ciò è possibile quando - come avviene con le condotte per i carichi liquidi - il carico può essere quasi immediatamente portato a depositi fuori del porto, oppure quando il problema delle aree di deposito si risolve nel più ampio contesto dell'economia di un insediamento costiero e della razionale disposizione del ciclo di lavorazione.
I trasporti petroliferi danno luogo a elevatissimi quantitativi di traffico, si svolgono su percorrenze spesso molto lunghe e possono sfuggire ai limiti dei costi crescenti degli spazi portuali. In più, per due volte nel periodo in esame - e la seconda volta a lungo - hanno visto dissolversi il limite costituito dai fondali del canale di Suez, fino a constatare che un carico su grandi unità via Capo di Buona Speranza può esser trasportato a costi per tonnellata più bassi di quelli sostenuti per il trasporto su unità di media portata, via Suez. La portata unitaria delle navi cisterna è arrivata a superare il mezzo milione di tonnes dead weight, tonnellate lunghe inglesi. Il trasporto di minerali per la siderurgia dà luogo a flussi di traffico molto elevati. Le porta-minerali hanno raggiunto portate fino a 200.000 tonnellate e, grazie agli insediamenti costieri, tale trasporto sfugge ai limiti degli spazi portuali scarsi per il deposito. Le navi ore/oil fruiscono degli elevati flussi di traffico e operano in due settori che sfuggono ai limiti degli spazi portuali. La loro portata ha raggiunto e superato le 200.000 tonnellate.
In altri termini, lo sviluppo della portata unitaria del naviglio - che rappresenta una delle tendenze più vistosamente presenti nel periodo in esame - è da ricollegare oltre che, naturalmente, alla lunghezza (crescente) delle percorrenze, alla specializzazione del ciclo di trasporto, ai flussi di traffico, alla capacità di decentrare gli spazi per lo stoccaggio e all'industrializzazione costiera.
Negli anni cinquanta una partita (consignment) di 4-5.000 tonnellate di grano poteva rappresentare un carico totale confacente per una nave trampistica tradizionale. Vent'anni dopo, una partita ditali dimensioni avrebbe potuto invece viaggiare, assieme ad altre, su una nave di linea da carico generale (v. Institute for Shipping Research, 1970, p. 6). In altri termini, nel periodo considerato la forte espansione intervenuta nel commercio marittimo si è espressa concretamente sia in un incremento, pressoché generalizzato, dei flussi di traffico, sia, con grande frequenza, in un aumento della dimensione delle partite spedite.
Ogni singola partita viaggiante su un'unità da carico generale può fruire, grazie alla presenza di tante altre partite che viaggiano con essa, delle economie di scala della nave, ma per la stessa ragione risente dell'aumento dei costi d'imbarco e sbarco per tonnellata di carico, dovuto all'aumento della portata della nave stessa.
Lo stesso tipo di carico, operato con navi speciali, può perdere i vantaggi delle economie di scala della nave - in quanto queste ultime si realizzavano grazie alla presenza di numerosi e diversi tipi di carico sulla medesima unità - ma, a motivo della specializzazione della nave e della presenza di eventuali attrezzature apposite a terra, beneficia della riduzione dei costi a viaggio per tonnellata (dovuta al minore costo di imbarco e sbarco) e dell'effetto della più breve sosta in porto.
Contrariamente a quanto a tutta prima si può pensare, il volume di traffico in corrispondenza del quale la nave speciale diventa economicamente efficiente (consente, cioè, una riduzione dei costi a viaggio per tonnellata di carico) non è, generalmente, elevato. Un volume non molto elevato di traffico comporta che l'impianto portuale abbia modeste esigenze di spazio: questo spiega il motivo per cui ai nostri giorni - come del resto avveniva già fra il XVI e il XVII secolo - viaggiano con risultati economici soddisfacenti tante navi speciali di piccola e media portata (economics of bulking cargoes), navi che consentono che le rispettive strutture a terra non s'imbattano nei costi-fondale crescenti. A creare le condizioni di comparativa convenienza della nave speciale è stata sufficiente una crescita consistente, ma non ai limiti dell'eccezionalità, dei flussi di traffico su una, o qualche, rotta, accompagnata da un aumento della dimensione unitaria dei consignments. Questo è dimostrato, per es., dallo sviluppo delle cisterne per il trasporto di prodotti chimici, delle navi specializzate per il trasporto di autoveicoli (bulk car carriers), delle moderne portalegname (lumber carriers), ecc.
Rimane tuttora un vasto insieme di carichi viaggianti in partite unitarie limitate e in quantitativi complessivi tali da richiedere il servizio della tradizionale nave di linea. Ma la quasi continua lievitazione degli oneri di esercizio della navigazione di linea rischiava di rendere proibitiva la differenza dei costi di trasporto fra queste partite piccole e quelle viaggianti, a carico completo, con navi speciali. Inoltre, il trasferimento di traffico dalla nave di linea alle navi speciali sottraeva alla prima il cosiddetto bottom cargo, che altro non è se non il carico a minor valore unitario, e questa sottrazione rischiava di rendere superdimensionata la nave di linea tradizionale.
A questo punto si comprende bene perché nella seconda metà degli anni sessanta si sia determinata un'esplosione dei trasporti unitizzati: il trasporto a containers, a palette, a traghetto, e il sistema porta-chiatte. Tutti questi sistemi altro non sono se non trasporti alla rinfusa di unità di carico standardizzate, in grado di salire e scendere da bordo con mezzi propri (ciclo automezzo-traghetto) o di essere operate con attrezzature appositamente studiate, cioè specializzate, a terra e/o a bordo.
Il ciclo automezzo-traghetto è di più facile assestamento, ma incontra limiti dimensionali rispetto alla nave. Sulle rotte oceaniche, dove sarebbe possibile arrivare a portate elevate, viene sovente praticato congiuntamente ad altri trasporti unitizzati (containers, palette).
Il sistema porta-chiatte esige un volume di traffico particolarmente elevato e investimenti molto ingenti per la realizzazione del razionale assetto della linea (v. UNCTAD, 1970, pp. 21-31).
Il container rappresenta, forse, lo strumento più perfezionato fra quelli disponibili per il traffico dei carichi non alla rinfusa, ma richiede un volume di traffico sensibilmente maggiore di quello delle linee tradizionali, elevati investimenti per nave e per l'assetto del servizio (più navi e vari sets di contenitori), e inoltre ampi spazi a terra (v. UNCTAD, 1970, pp. 21-31). Il decentramento delle aree di formazione e scioglimento dell'unità di carico (consolidation centre), lo sforzo per assicurare il massimo possibile di sincronia tra afflusso e deflusso dei containers in porto, le partecipazioni acquisite dalle compagnie marittime nei trasporti terrestri, gli accordi presi con le ferrovie, i servizi di alimentazione (feeder service) fra porti di raccolta e porti di trasbordo danno un'idea eloquente dei problemi che questo tipo di trasporto e il fabbisogno di spazi a terra comportano.
È lo stesso ordine di problemi che incontrano tutti i trasporti speciali quando devono fare i conti con la limitatezza dello spazio portuale. Le tendenze innovative finora menzionate hanno operato anche nel traffico di cabotaggio e sulle rotte brevi in generale.
Nei settori con forti flussi di traffico, quando gli impianti portuali hanno rese elevate, operano navi di portata notevole nonostante la brevità delle rotte, come è esemplificato dal trasporto di petroli dalla Libia all'Italia. Alcune specializzazioni nel campo delle cisterne per la chimica, nel settore alimentare, in quello delle merci deperibili, ecc. sono state realizzate sulle rotte brevi prima che altrove. Le rotte brevi hanno fornito un ideale campo di applicazione dei traghetti per autocarri e, in seguito, dei containers e delle combinazioni traghetto-containers, come dimostrano il traffico italiano di cabotaggio, il traffico inframediterraneo, quello attraverso la Manica, ecc.
d) Velocità.
La velocità d'esercizio della nave svolge due ruoli distinti: il primo è assimilabile a quello di un fattore di produzione (una data capacità annua di trasporto si può conseguire con diverse combinazioni di portata e velocità), il secondo è quello di un elemento che qualifica e differenzia il servizio offerto. La velocità d'esercizio incide sui costi a viaggio attraverso gli oneri fissi giornalieri, connessi all'apparato di propulsione, e gli oneri per i combustibili (la categoria sub b, nella precedente classificazione dei costi a viaggio). I costi di combustibile sono rapidamente crescenti al crescere della velocità d'esercizio.
Quando il mercato non dimostra un sostanziale apprezzamento per le differenze di velocità, la portata diventa rapidamente il fattore meno costoso al quale affidarsi per gli aumenti della capacità di trasporto. L'aumento della portata unitaria si accompagna a incrementi sempre più limitati di velocità, come avviene per i carichi di massa a basso valore unitario e a basso costo unitario della sosta e deposito. All'inizio del 1974 - prima, cioè, che i progetti di costruzione navale e i relativi apparati di propulsione risentissero del rincaro dei costi del combustibile - i 5/6 del totale della flotta di porta-rinfuse per carichi liquidi e secchi, di ore/oil e OBO avevano una velocità compresa fra 15 e 16 nodi (v. Fearnley and Eger's Chartering Company Ltd, World bulk..., 1974).
I tipi di nave più sofisticati, che hanno costi fissi comparativamente alti, tendono ad avere sia una maggiore velocità a parità di portata, sia una maggiore sensibilità della velocità all'aumento della portata. (Come dimostrano, ad esempio, le porta-containers e le unità celeri di linea, e come è evidenziato dall'aumento della velocità che si accompagna all'espansione della capacità, nelle porta-containers). Tuttavia, quando si arriva alle navi che trasportano carichi dal valore unitario elevato, il mercato diventa sensibile alle differenze di velocità e al fattore frequenza del servizio offerto. In tal caso, l'assetto che si cerca è una sorta di combinazione ottimale, finalizzata alla massimizzazione dei profitti, dei fattori portata, velocità, frequenza del servizio e numero delle navi impiegate sulla linea.
La velocità ha invece perduto una parte sostanziale della sua capacità di produrre introiti nel trasporto oceanico di passeggeri, in quanto la nave non può competere con l'aereo per il fattore tempo, e ha reagito alla penetrazione dell'aereo stesso dapprima puntando sui connotati distensivi e turistici del viaggio marittimo e poi, per gradi, sulla promozione del mercato crocieristico, sulla trasformazione del liner in nave-crociera, e sulla realizzazione di apposite unità per i servizi crocieristici. Le più rilevanti aree di mercato per queste attività sono i Caraibi, il Mediterraneo e, in prospettiva, l'Indonesia.
e) Mercati marittimi.
Il mercato dei noli liberi - nel quale si fissano di volta in volta i prezzi dei viaggi via mare, singoli o consecutivi, con carico merci per l'intera nave (noli a viaggio), e i prezzi per l'acquisizione della disponibilità di una nave per un certo periodo di tempo (time-charter) - dal 1950 alla prima metà degli anni settanta ha confermato la nota, marcata tendenza all'oscillazione delle quotazioni (v. Cufley, 1970): una tendenza all'oscillazione che è dovuta alle molteplici, possibili cause d'instabilità della domanda (spostamenti della curva) e alla rigidità a breve periodo che caratterizza l'offerta, e che appare, di regola, più forte nei settori del trasporto con navi speciali, come quello petrolifero, che in quelli per il naviglio da carico generico. Le tariffe della navigazione di linea rappresentano un prezzo predeterminato e vengono, generalmente, stabilite dalle conferenze marittime nel periodo in esame. Queste tariffe hanno generalmente seguito, con qualche ritardo e in misura ridotta, gli aumenti dei noli liberi, mentre, in prevalenza, non sembrano aver registrato sostanziali flessioni quando i noli liberi scendevano (v. Deakin, 1973).
Negli ultimi anni del periodo, tuttavia, si osserva il proporsi, talvolta in modo perentorio, di alcuni ordini di fatti in grado d'influenzare negativamente l'evoluzione dei mercati e di portare, più generalmente, a un mutato clima di rapporti e prospettive nell'economia internazionale. I principali elementi in questione sono: a) la crisi del regime monetario internazionale, ufficialmente in atto dal 15 agosto 1971 (sospensione di ogni residua convertibilità in oro del dollaro) ma, in pratica, già operante da alcuni anni; b) l'accentuarsi delle tensioni inflazionistiche nell'economia internazionale; c) la crisi dei rapporti fra paesi industrializzati e paesi produttori di petrolio, esplosa in conseguenza della guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973.
Le instabilità monetarie hanno influito sui trasporti marittimi attraverso la svalutazione della sterlina inglese del novembre 1967, la sua fluttuazione dopo il giugno 1972, le svalutazioni del dollaro statunitense del 1971 e 1973. Tuttavia, dollaro e sterlina per tutto il periodo sono rimaste le monete base per le transazioni marittime (noli e tariffe, assicurazioni, compravendite di naviglio usato, nuove costruzioni, demolizioni, ecc.). La crisi del sistema monetario, inoltre, suscita diffuse preoccupazioni in quanto potrebbe incidere sullo sviluppo avvenire degli scambi, essendo ben noto il condizionante supporto che il regime imperniato sul Fondo Monetario Internazionale aveva fornito all'espansione del commercio internazionale.
Le crescenti tensioni inflazionistiche, determinando un aumento sensibile della maggior parte dei costi d'esercizio, si sono riflesse sui noli, sia pure in modo talvolta parziale e irregolare. Esse, inoltre, hanno provocato un'eccezionale impennata del carico di ordini per nuove costruzioni: oltre 133 milioni di TSL, per es., a fine marzo 1974 (dati del Lloyd's Register); a determinarla, peraltro, hanno contribuito sia il fatto che le tensioni in questione si sono manifestate in un periodo in cui i cantieri avevano lavoro assicurato per oltre 3 anni, sia i timori di altre svalutazioni del dollaro e della sterlina, sia infine le lunghe dilazioni di pagamento concesse dai cantieri ai committenti (grazie all'intervento statale per il finanziamento dei crediti all'esportazione navale) a interessi inferiori a quello di mercato.
La crisi degli approvvigionamenti di petrolio, esplosa nell'autunno del 1973, ha inciso immediatamente sui trasporti marittimi attraverso la riduzione del fabbisogno di stive e attraverso la scarsità, e il forte aumento dei prezzi, dei combustibili di derivazione petrolifera per la propulsione navale. Nel momento in cui la crisi petrolifera si è manifestata, i suoi possibili effetti a medio e lungo termine sono apparsi subito rilevanti. Per il suo influsso, i maggiori paesi industriali potrebbero, infatti, orientarsi verso una strategia più diversificata delle fonti d'energia: l'intensificazione delle ricerche di idrocarburi sottomarini, l'incentivazione della ricerca di fonti sostitutive, la ricerca di un più intenso sfruttamento delle materie energetiche.
3. Gli anni più recenti.
Gli anni più recenti appaiono caratterizzati da tendenze diverse rispetto a quelle della lunga fase di espansione che li ha preceduti. Esprimere valutazioni conclusive su questa nuova fase dell'evoluzione del trasporto marittimo internazionale è indubbiamente difficile e prematuro. Limitandosi però a riferire gli elementi essenziali, si possono fare alcune osservazioni. Quantitativamente, come si vede anche dai dati della tab. II, il commercio marittimo ha segnato incrementi piuttosto modesti, fra il 1974 e il 1980 (complessivamente non più del 13%), passando attraverso andamenti oscillanti. L'arresto dell'espansione sembra essenzialmente caratterizzare i carichi liquidi, mentre una tendenza a qualche non irrilevante incremento rimane nei carichi secchi (dove, tuttavia, il settore delle principali rinfuse sembra denotare un'espansione meno sensibile di quella della generalità degli altri carichi e, al proprio interno, registra andamenti differenziati). La flotta mondiale ha continuato a registrare aumenti sensibili fino al 1977 e solo dopo il 1978 ha segnato una marcata ‛centrazione' del tasso d'incremento. Il surplus di stive manifestatosi sui mercati marittimi, che talvolta ha fatto scendere a livelli molto bassi le quotazioni del naviglio di seconda mano, ha provocato una drastica contrazione degli ordinativi per nuove costruzioni, con conseguenti problemi di occupazione per i cantieri navali. Il naviglio varato da questi ultimi è sceso a 15 milioni di TSL nel 1978 e a meno di 12 milioni nel 1979. Solo ultimamente si sono registrati segni di ripresa.
Circa gli aspetti tecnici, la velocità ottimale, sia di breve periodo (quella, cioè, che si fissa quando è dato l'apparato motore) sia di lungo periodo (quella inerente alla scelta dell'apparato motore), si è ridotta a causa dell'aumento dei costi del combustibile e del rallentamento della domanda di stive. La crescita delle portate unitarie, nei settori in cui più vistosamente si esprimeva il gigantismo navale, si è arrestata. Un possibile sviluppo della capacità unitaria si è invece prospettato nei settori chiamati in causa dalla rallentata dinamica dei trasporti di petrolio greggio, cioè nel traffico dei prodotti della raffinazione del petrolio e dei gas naturali. Contemporaneamente, aspettative di rilievo si vanno formando in relazione al carbone, a causa del rilancio che esso ha avuto come fonte di energia e delle enormi riserve esistenti.
In generale, ha poi continuato a operare la tendenza allo sviluppo delle flotte specializzate per rinfuse più o meno propriamente dette minori, del naviglio per trasporti unitizzati, nonché delle multipurpose. Queste ultime sono navi polivalenti, costruite in base a progetti-tipo e destinate alla sostituzione delle unità da carico di produzione bellica (Liberty). Si tratta, in linea di massima, di unità standardizzate come costruzione, in grado di trasportare carichi generali e rinfuse, carichi pesanti e ingombranti, carichi refrigerati, ecc., nonché - mediante gli optionals di cui possono essere dotate - containers, automezzi con carico, veicoli, ecc., nel tentativo di unire la flessibilità d'impiego della tradizionale nave trampistica con la capacità di usare attrezzature specializzate nella fase della manipolazione portuale.
Nel trasporto a containers si sono registrati ulteriori passi avanti della dimensione navale (nuove ‛generazioni' di porta-containers), mentre il trasporto a traghetto, unitamente alle moderne navi polivalenti, guadagna nuovi orizzonti operativi nel traffico fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, grazie alla sua capacità di valersi anche di porti poco attrezzati.
4. Effetti della crescita.
a) Evoluzione dei mercati.
Negli ultimi decenni del XIX secolo la borsa dei noli di Londra, mediando rapidamente le posizioni comparative del fabbisogno e della disponibilità di stive nei singoli porti e nelle aree di traffico, aveva dato corpo all'unità geografica del mercato marittimo internazionale. Nel nostro secolo, dopo la seconda guerra mondiale, le principali borse dei noli (in particolare Londra e New York) hanno rafforzato tale carattere unitario. Nella stessa direzione ha operato il fatto che, con i progressi delle telecomunicazioni (e in particolare con la telescrivente) ogni ufficio di broker è praticamente diventato una piccola borsa dei noli.
Lo sviluppo della specializzazione, sia per il fatto d'investire nuove correnti di traffico, sia attraverso l'espansione dei settori che già si servivano di navi speciali, ha prodotto, tuttavia, un effetto ulteriore: mentre l'unità in senso geografico del mercato internazionale si è andata confermando, i mercati stessi si andavano diversificando e articolando a seconda dei generi di carico. Queste parti del mercato sono intercomunicanti. Molte petroliere che non trovavano collocazione nel proprio settore originario - come le T2, di costruzione bellica americana, che gradatamente venivano a risultare sottodimensionate - nella seconda metà degli anni cinquanta cominciavano a operare sui mercati del trasporto granario. Le compagnie di linea, nei periodi di depressione, concorrono con le tradizionali unità trampistiche all'acquisizione di carichi poveri. Le stesse compagnie di linea integrano la propria flotta con naviglio da carico generico, noleggiato a tempo, nei periodi di alto traffico (v. O'Loughlin, 1967). Tuttavia, l'articolarsi della contrattazione marittima in sezioni distinte, sovente concorrenti fra loro nelle zone limite, tende a ridurre il peso e la rappresentatività del tradizionale, e quasi perfettamente concorrenziale, mercato dei noli per carichi secchi, e a sostituire a quest'ultimo, sia pure solo parzialmente, mercati di settore in cui prevalgono forme oligopolistiche, o mercati la cui ampiezza consente condizioni molto concorrenziali. Questa situazione è però influenzata da un'anomalia: dal fatto, cioè, che i maggiori protagonisti dal lato della domanda sono anche presenti con proprie navi - sia pure con aliquote talvolta limitate del totale - dal lato dell'offerta.
b) Trasporti, industria e commercio.
L'evoluzione del mercato dei noli procede in parallelo con un altro ordine di fenomeni, collegato al progresso dei trasporti industriali e delle specializzazioni: la trasformazione dei rapporti fra vettori marittimi, industria e grandi reti di distribuzione. In tale mutamento l'impresa marittima sembra perdere talvolta la sua autonomia e individualità (come nei trasporti industriali), ma in altri casi, invece, può assurgere a figura dominante (come quando promuove, in consorzio, integrazioni con altre fasi del ciclo di trasporto del container).
L'industria dei nostri giorni, conseguentemente all'aumento delle dimensioni dell'impresa e dei gruppi d'imprese, si è venuta a trovare, in un crescente numero di casi, nella posizione dell'utente che ha un fabbisogno di trasporti, mezzi finanziari, riserve di management e conoscenze tecniche tale da rendere conveniente il passaggio alla produzione in proprio (molto spesso con la creazione di una compagnia sussidiaria) di una parte almeno dei trasporti che gli occorrono, e alla realizzazione di mezzi navali e strutture a terra specializzati (concentrazione verticale). La storia di diverse, moderne specializzazioni navali è cominciata così. Quando, poi, il traffico del settore si sviluppa, allora sorge, o può sorgere, un mercato vero e proprio (come è avvenuto nel trasporto dei petroli, dei materiali per la siderurgia, ecc.).
L'industria promotrice, in questi casi, conserva la proprietà di una flotta che rappresenta solo una quota del totale del naviglio disponibile nel settore. I lunghi e lunghissimi noleggi a tempo (della durata di 5, 10, fino a 20 anni), stabiliti dai gruppi industriali utenti con vettori indipendenti - particolarmente nella seconda metà degli anni sessanta e primi anni settanta - per navi che talvolta non erano ancora state varate o costruite, offrono tuttavia un esempio di mezzo sostitutivo della concentrazione verticale in senso stretto.
Il fatto che la capacità e la resa dell'impianto speciale condizionino le possibilità di fruire delle economie di scala della nave stimola la realizzazione di concentrazioni di tipo verticale fra nave e strutture a terra, nei limiti e modi consentiti dai diversi quadri istituzionali e regolamentativi. La più diretta manifestazione di queste tendenze è data dall'insediamento industriale costiero dotato di banchine proprie.
Un analogo tipo di sollecitazione e presente nei trasporti unitizzati, in particolare nel traffico a containers. A questo proposito si è già accennato all'interesse che le compagnie marittime hanno per le altre fasi del ciclo di trasporto che servono a realizzare la rete, a ubicare i centri di smistamento in posizione strategica all'interno, e ad avvicinarsi, per quanto possibile, al servizio da porta a porta.
c) Porti.
Le infrastrutture e gli impianti portuali hanno, di norma, un processo di espansione caratterizzato da salti dimensionali, cioè da rilevanti indivisibilità tecniche; ma, nonostante il già menzionato andamento dei costi-fondale, hanno anche le loro economie di scala. Inoltre, si può dimostrare che per la nave è proponibile che la rata d'imbarco e sbarco sia in qualche misura superiore a quella che assicurerebbe il minimo costo di manipolazione per tonnellata di carico (v. Marchese, 1974). Le dimensioni convenienti degli impianti a terra, sia per il traffico alla rinfusa che per i trasporti unitizzati, superano, di solito, la capacità di trasporto della singola nave e della linea. Questa circostanza stimola la realizzazione di forme associative fra utenti che si servono di uno stesso tipo di impianto, come avviene con i consorzi fra compagnie marittime nel trasporto a containers (v. OCSE, 1971) e con gli impianti speciali di sola manipolazione e deposito nei trasporti alla rinfusa. Con queste forme d'integrazione orizzontale si attua la concentrazione del traffico, per gruppi merceologici, che caratterizza i nostri giorni.
Gli impianti e le strutture speciali, e quelli generici, costituiscono sovente, gli uni per gli altri, un'economia esterna per i seguenti motivi (v. Marchese, 1977): a) sfruttano una medesima opera infrastrutturale portuale o di collegamento con il retroterra, oppure un medesimo impianto per il servizio alla nave (come un bacino di carenaggio, le banchine per le riparazioni navali, ecc.); la presenza contemporanea di piu attivita e condizione per la stessa costruzione ed esistenza di tali opere e impianti oppure consente di dare loro una dimensione maggiore e un carattere tecnologico più avanzato; b) possono utilizzare specializzazioni uguali, o molto simili, nel campo della manodopera e la presenza di piu attivita consente di organizzare meglio la formazione professionale; c) necessitano della medesima organizzazione di servizio a terra per la nave e per la merce: agenzie marittime, imprese di spedizione, consulting tecnico, forniture di bordo, riparazioni navali e forniture a esse relative, servizi di riparazione e manutenzione degli impianti portuali, ecc. In generale queste attività si sviluppano e si articolano in una crescente gamma di specializzazioni produttive o professionali, nei maggiori centri armatoriali e mercantili, i quali diventano così punti di creazione e di orientamento dei traffici. I grandi porti moderni, commerciali e al tempo stesso industriali, si hanno dove questo insieme di economie esterne è più ampiamente operante (v. Alexandersson e Norström, 1963, p. 117).
Naturalmente, oltre a queste forme di economia esterna per le imprese marittime, la concentrazione può generare talune diseconomie. Altre volte l'impianto speciale può trovare le economie esterne, che ne determinano l'esistenza, nelle vicinanze dello stabilimento industriale che lo utilizza come parte del proprio ciclo produttivo, e si ha così il porto speciale di tipo industriale; oppure trova, più generalmente, la sua ragion d'essere nella posizione strategica rispetto all'ubicazione di alcune imprese che lo utilizzano.
La specializzazione e la funzione di sviluppo regionale possono rappresentare una causa di localizzazione isolata delle strutture portuali e/o uno sbocco per i porti cosiddetti minori. Altri motivi di sbocco per gli scali minori possono venire dalle relazioni fra porti di alimentazione e porti di smistamento e trasbordo, che si vanno ampliando con l'affermarsi della concentrazione settoriale dei traffici (si pensi ai feeder servicer del traffico a containers) (v. OCSE, 1971). Queste nuove possibilità si aggiungono, per i porti minori, a quelle determinate dalle specializzazioni per l'industria della pesca, nonché per il turismo e la nautica.
d) Evoluzione della funzione portuale.
Per effetto della specializzazione dei cicli di trasporto, dell'unitizzazione dei trasporti e dell'industrializzazione a fil di costa, i porti si stanno profondamente trasformando. Dal porto come locus conclusus e come insieme di attrezzature e impianti di deposito buoni per (quasi) tutti i tipi di carico, si sta passando al porto inteso come un territorio costiero e interno definito dalla presenza, oltre che di attrezzature generiche, di attrezzature e impianti specializzati e di industrie di trasformazione a fil di costa o collegate funzionalmente alle banchine.
Per tradurre in atto le moderne virtualità di un porto occorre disporre di spazi costieri e interni, effettuare ristrutturazioni ecologiche (ecological reshape) con tombamenti a mare, isole artificiali, escavazioni, ecc., e affrontare problemi tecnici di trasporto interno (strade, ferrovie, condotte, idrovie, teleferiche, ecc.), talvolta di singolare contenuto innovatore, come quello, già citato, della solid pipeline.
I maggiori porti estuariali e fluviali, detti spesso naturali, messi in crisi dall'insufficienza dei fondali delle vie d'accesso al mare comparativamente al pescaggio delle navi moderne, hanno avviato una costosa politica di spostamento verso la costa e progettano future espansioni verso il mare. I petroli hanno condotto alla costruzione di isole artificiali al largo, collegate per via di oleodotti con i depositi costieri; oggi si pensa di estendere questa tecnica ai minerali e al carbone.
La profonda trasformazione in atto tende sempre più a qualificare l'autorità portuale come un ente che assolve alla funzione del planning infrastrutturale e all'organizzazione dello spazio portuale, e a distinguere tale funzione da quella della gestione dei servizi resi all'utenza. Per questo secondo momento dell'attività portuale la casistica offerta dalla realtà è tuttora molto varia: gestione in proprio da parte dell'ente portuale, o concentrata in un organismo apposito, o affidata a diverse imprese private e pubbliche, spesso costituite da, o con la partecipazione di, gruppi di utenti o da utenti singoli, ecc., sempre però sotto il controllo dell'autorità portuale. In realtà, per le correnti di traffico più chiaramente espressive della funzione industriale, la soluzione della gestione autonoma non sembra avere alternative convincenti. Le crescenti interdipendenze tecnologiche in atto indicano comunque che, anche quando l'autorità portuale desidera riservare a sé la gestione dei servizi in senso stretto, se vuole svolgere un ruolo promozionale e realizzare iniziative efficienti, deve però essere aperta alla collaborazione con gli utenti, singoli o raggruppati, e armonizzare la propria azione con essi.
Le forme di progresso qui trattate hanno un forte impatto territoriale. Ciò impone che lo sviluppo portuale venga inserito e armonizzato nell'assetto territoriale delle regioni costiere e in una rigorosa e vigile pianificazione dell'uso degli spazi litoranei. Di qui la necessità di una sistematica collaborazione dell'autorità portuale con quelle che presiedono all'assetto del territorio.
Alle forme di progresso esaminate si muove, sempre più insistentemente, il rilievo critico di perseguire obiettivi di efficienza produttiva e non di vera e propria promozione della condizione umana e civile. È, questa, una critica che può essere estesa alla generalità dei trasporti dei nostri giorni, tesi al conseguimento di primati di velocità, di funzionalità delle connessioni e di cifre macroscopiche dei flussi di traffico, come se la mobilità fosse un valore assoluto anziché uno strumento da utilizzare nella misura in cui serve al miglioramento della condizione umana e civile. Un modo per affrontare in termini corretti e costruttivi il problema consiste nel tener conto del fatto che le iniziative e le opere in oggetto hanno, o possono avere, un costo per la collettività valutabile in riduzione di benessere o in consumo, non finanziariamente contabilizzato, di risorse. L'inquinamento del mare fornisce un esempio di questo tipo di costo e di consumo (distruzione) di risorse.
e) Sviluppi degli ultimi anni e alcune prospettive.
Il periodo successivo al 1973-1974 sembra aver condotto, in parallelo con la battuta d'arresto della portata unitaria nei settori maggiormente investiti dal gigantismo navale, e per lo stesso ordine di motivi, al rallentamento della progettazione di nuovi insediamenti costieri siderurgici e petroliferi, quanto meno nell'ambito dei paesi industrializzati.
L'idea di perseguire l'industrializzazione, nei paesi in via di sviluppo, attraverso l'installazione delle attività di trasformazione presso le fonti di materie prime ed energetiche - alla quale si è accennato precedentemente - può diventare, per l'avvenire, d'importanza centrale, anche se finora non sembra aver portato a molte realizzazioni. Essa è destinata, fra l'altro, a far sentire i suoi effetti, probabilmente prima che altrove, nell'area mediterranea, dove si collocano, a brevi distanze via mare le une dalle altre, regioni di paesi industrializzati e di paesi emergenti produttori di materie prime e di fonti di energia. (In proposito è da ricordare che anche la riapertura del Canale di Suez, nel 1975, era stata accompagnata dal disegno di realizzare nella zona una piattaforma di trasformazione industriale).
Tali effetti consisteranno presumibilmente nel cambiamento di alcuni importanti modelli localizzativi industriali, fino a oggi tipici delle regioni portuali dei paesi industrializzati, quelli appunto relativi alle industrie, spesso dette di base, della prima trasformazione di grandi rinfuse liquide e secche. Queste regioni, a loro volta, possono diventare punti di grande interesse per la localizzazione delle trasformazioni ulteriori, una nuova categoria di ‛seconde lavorazioni' da esplorare con molta attenzione. Questi nuovi, possibili lineamenti della divisione internazionale del lavoro sono subordinati però alla realizzazione di appropriate tecnologie per il trasporto via mare di semilavorati su larga scala (forse da cercare in qualche nuova versione del trasporto unitizzato e delle navi multipurpose).
Ancora: le regioni marittime dovrebbero valutare attentamente le possibili implicazioni, per le loro economie e per i loro territori, degli sviluppi nel campo delle fonti d'energia sottomarine e delle materie prime del fondo marino, e più in generale delle attività off shore. Esse dovrebbero insomma cominciare a considerare come loro spazio le estensioni del mare territoriale e le altre zone di mare attualmente in discussione nell'evoluzione del diritto del mare. Nello stesso tempo, è fin troppo ovvio che una non meno accurata e tempestiva attenzione andrebbe posta, da parte delle regioni in questione, agli effetti del già più volte menzionato rilancio del carbone.
f) Cenni sull'evoluzione del diritto del mare.
Si è appena accennato al fatto che il ‛diritto del mare' si sta evolvendo in questi anni verso nuove concezioni. La Conferenza delle Nazioni Unite riguardante questa materia, al lavoro da diversi anni attraverso le periodiche sessioni in cui si è articolata, sta portando gradatamente all'ampliamento delle acque territoriali - per le quali si propone un'estensione fino a 12 miglia dalla costa - e al riconoscimento di altri diritti differenziati di controllo da parte degli stati rivieraschi su diverse zone di mare: dalla zona contigua (che potrebbe estendersi fino a 24 miglia dalla costa, con diritto di prevenire e punire violazioni alle leggi doganali, sanitarie e sull'immigrazione) alla zona economica esclusiva (per la quale si propongono limiti di 200 miglia, con controllo sulle esplorazioni e lo sfruttamento delle risorse naturali, anche viventi, del mare, del fondo e del sottosuolo marino, l'installazione di isole artificiali e altri impianti, la ricerca, la conservazione dell'ambiente) e alla piattaforma continentale (la quale può essere talvolta più ampia della zona economica, con controllo sull'esplorazione e sullo sfruttamento in primo luogo delle risorse naturali minerarie). In questa direzione si muove anche la proposta di creare una sorta di autorità internazionale per il controllo delle attività economiche e delle relative installazioni di impianti - generalmente implicanti investimenti di mole particolarmente ingente - diretti allo sfruttamento e all'esplorazione delle risorse anzidette, negli spazi oceanici.
Questa evoluzione, che apre prospettive da esplorare con molta attenzione, specialmente in relazione alla necessità che sia salvaguardata la libertà di navigazione, è correlata al progressivo affermarsi del mare come fonte di materie prime e di risorse energetiche e, quindi, anche come possibile sede di insediamenti produttivi localizzati. Le utilizzazioni in questione si muovono in parallelo con i disegni di costruzione di isole artificiali al largo per il deposito-trasbordo di rinfuse, e con la realizzazione di altri tipi di strutture in mare, posti in essere, o semplicemente proposti, per lo svolgimento dei traffici commerciali, specialmente nei settori in cui più si è fatta sentire la tendenza alla crescita della portata unitaria del naviglio. Si tratta di realizzazioni e disegni che rimangono di attualità nonostante l'arresto subito dalla crescita della dimensione unitaria delle navi nei settori in questione. (V. risorse naturali: Risorse del fondo marino).
5. Bandiere e politica marittima.
a) Paesi industrializzati.
I paesi industriali a economia di mercato - Europa occidentale, Stati Uniti d'America, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica - posseggono attualmente una quota superiore al 50% del tonnellaggio mondiale, i paesi in via di sviluppo un po' più del 38% e quelli a economia centralizzata il 10% circa. La quota controllata dai paesi industriali è tuttavia maggiore, giacché una parte rilevante del tonnellaggio dei paesi in via di sviluppo appartiene alle flotte delle bandiere ombra, di cui si dirà fra poco, e ha origine nei paesi industriali stessi e nei paesi marittimi tradizionali. (In proposito, vale anzi la pena di rilevare che la quota delle bandiere ombra sul totale del naviglio nel mondo, negli anni settanta, è aumentata, mentre è andata diminuendo, in misura tendenzialmente un po' più elevata, quella delle flotte dei paesi industriali). La composizione per bandiera del tonnellaggio mondiale e la sua evoluzione dal 1892 al 1980 sono riportate nella tab. III.
Lo sviluppo manifatturiero dei paesi industrializzati ha determinato una rapida crescita delle importazioni di materie prime, risorse energetiche, derrate alimentari di massa, ecc.; ha sollecitato anche la ricerca di sbocchi per i manufatti e ha fatto esplodere contemporaneamente il bisogno nel campo dei trasporti marittimi creando un crescente mercato nel settore.
I paesi industrializzati controllano oggi all'incirca i 4/5 del traffico merci via mare allo sbarco, a causa delle importazioni di rinfuse e merci di massa; fa loro partecipazione è invece lievemente inferiore a 1/3 del totale del movimento d'imbarco (che, nei paesi industriali, è principalmente costituito da manufatti).
Oltre a offrire un mercato assai consistente per le attività marittime, i paesi industrializzati fruiscono in generale di tre fattori di vantaggio per lo sviluppo della marina mercantile: a) una disponibilità di capitali comparativamente elevata e un mercato finanziario sviluppato, con ampia possibilità di operazioni internazionali; b) un'esperienza imprenditoriale avanzata e un apparato per l'istruzione professionale comparativamente sviluppato, anche relativamente alle attività marittime; c) una disponibilità di mezzi per investimenti nel settore della ricerca comparativamente ampia e una struttura industriale e commerciale che sollecita nuove tecnologie anche nei trasporti.
Il primo fattore, tuttavia, con l'intensificarsi delle pressioni inflazionistiche degli anni settanta tende a ridurre progressivamente il proprio peso. Inoltre i paesi in questione possono anche risentire di alcuni fattori di remora allo sviluppo della flotta mercantile, e cioè: a) un costo del lavoro, diretto e indiretto (oneri sociali e previdenziali), comparativamente elevato; b) una più elevata pressione, e un più efficiente sistema fiscale; c) una notevole ricchezza di alternative, rispetto all'impiego di risorse nei trasporti marittimi (capitale, lavoro, capacità imprenditoriale). I suddetti fattori negativi sembrano tendere, nel tempo, a esercitare un'incidenza crescente comparativamente a quelli favorevoli richiamati in precedenza. Il quadro dei fattori di vantaggio e svantaggio è naturalmente diverso da un paese all'altro e, nell'ambito di uno stesso paese, da un periodo all'altro, e ciò determina, di volta in volta, differenti condizioni per lo sviluppo dei trasporti marittimi. Inoltre, occorre tener presente che altri elementi entrano in gioco, di volta in volta, a seconda dei paesi. Per esempio, un tasso di cambio anche solo temporaneamente sopravvalutato pone sempre qualche difficoltà anche all'industria armatoriale, come a ogni attività esportatrice. Al contrario, una particolare dipendenza dal mare, o una tradizione marittima particolarmente lunga, possono sopperire a un minor grado di sviluppo economico e industriale.
Ogni paese, poi, ha una propria politica d'intervento in campo marittimo. Questa politica e la sua evoluzione influiscono, sia pure con diversa efficacia e rispondenza, sulla posizione concorrenziale e, quindi, sulla possibilità di sviluppo di una flotta.
Dalla fine del secolo scorso, e con l'eccezione degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, la marina mercantile italiana è sempre stata tra le prime dieci del mondo. Attualmente essa rappresenta un po' meno del 3% del tonnellaggio mondiale. La CEE, con 10 paesi membri (compresa, cioè, anche la Grecia), nel 1980 rappresentava complessivamente una marina mercantile di 112 milioni di TSL, pari al 27% del tonnellaggio mondiale. Allargata a 12 paesi, con la Spagna e il Portogallo, essa rappresenta circa 121 milioni di TSL e il 29% del totale mondiale.
b) Bandiere ombra e paesi in via di sviluppo.
Dopo la seconda guerra mondiale è venuto alla ribalta il fenomeno delle cosiddette ‛bandiere ombra' o ‛di convenienza' (oggi, sovente, chiamato anche ‛dei registri aperti'). Questo fenomeno è bene illustrato dal fatto che le flotte in questione rappresentano oggi il 27% del naviglio mondiale e che al primo e al quinto posto fra le maggiori marine mercantili del 1980 si collocano due paesi - Liberia e Panama - che appartengono appunto alla categoria delle nazioni in via di sviluppo. Il fatto che una nave batta una bandiera diversa da quella del paese del suo o dei suoi proprietari - sia pure per motivazioni diverse da quelle economiche dei nostri giorni - è tutt'altro che recente. Il fenomeno non è nuovo neppure quando si considerino le sole motivazioni economiche, in quanto sviluppi in questo senso si osservano già nel periodo fra le due guerre mondiali. Tuttavia negli ultimi trent'anni se ne registra una vera e propria esplosione per i seguenti motivi: a) il progresso delle telecomunicazioni e dei trasporti e l'intensificazione delle relazioni fra i popoli rendono più agevole il controllo a distanza delle unità produttive, particolarmente quando queste sono costituite da un elemento mobile come la nave. In questa situazione vengono esaltati i caratteri di internazionalità dell'industria del trasporto marittimo, sia rispetto al mercato sia rispetto all'acquisizione e combinazione dei fattori produttivi; b) alcuni paesi - come Liberia, Panama, Honduras, Costa Rica, Cipro, Libano, Somalia, Singapore, Bermude, ecc. - hanno fissato un insieme di condizioni particolarmente favorevoli alla localizzazione formale delle attività marittime e alla registrazione di navi, con una normativa fiscale assai poco esosa e una normativa in materia di lavoro, tabelle di armamento, previdenza, movimenti valutari, ordinazione di nuove costruzioni, compra-vendita di naviglio di seconda mano, immatricolazione navale in relazione alla proprietà, ecc., con pochissime restrizioni; c) alcuni paesi industriali si sono caratterizzati per uno o più fra i costi di esercizio, dipendenti dalla struttura dell'economia o dalla legislazione nazionale (lavoro e tabelle di armamento, assistenza e previdenza, pressione fiscale, normativa valutaria, ecc.), comparativamente elevati, quando il mercato dei capitali e le innovazioni tecnologiche non consentivano il recupero dei conseguenti maggiori oneri. Questo era il caso, principalmente, degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Contemporaneamente, altri paesi tradizionalmente interessati alle attività marittime, come per esempio la Grecia, presentavano, subito dopo la guerra, situazioni interne incerte e tali da determinare fughe di capitali. La Grecia ha cercato successivamente, spesso con successo, di approntare un quadro regolamentativo che favorisse il ritorno sotto la bandiera nazionale del tonnellaggio battente bandiera ombra e controllato dall'armamento ellenico. La flotta greca, con i suoi quasi 40 milioni di TSL, si colloca ormai al terzo posto nella graduatoria delle principali marine mercantili.
Sulle cosiddette ‛bandiere ombra' vengono sollevate riserve principalmente per due ordini di motivi. Anzitutto per la mancanza di un vincolo effettivo fra la nave e l'economia del paese di bandiera (genuine link) e quindi per l'opportunità di ricondurre il fenomeno in oggetto nella norma della più generale categoria degli investimenti diretti realizzati all'estero, restituendo ‛trasparenza' agli apporti delle iniziative armatoriali che si localizzano nei paesi delle bandiere in questione. In secondo luogo per la sostanziale debolezza delle strutture statuali e amministrative dei paesi di bandiera (la mancanza di una sufficient authority), con le conseguenti, possibili carenze nei controlli sul naviglio, sulla validità dei titoli professionali del personale imbarcato e, in ultima analisi, sulle condizioni sia di sicurezza che di ordinata e civile convivenza a bordo.
Negli ultimi anni, i paesi in via di sviluppo diversi da quelli delle bandiere ombra hanno avviato un'azione presso l'UNCTAD, volta a limitare il raggio operativo e le possibilità di espansione delle flotte delle bandiere ombra. Se si escludono queste flotte, i paesi in via di sviluppo oggi rappresentano complessivamente poco meno del 10% del tonnellaggio mondiale. Questi paesi hanno generalmente un basso costo del lavoro, ma mancano di un forte apparato per l'istruzione professionale; inoltre sono svantaggiati per mancanza di esperienza industriale e per una conseguente, possibile limitatezza di attitudini imprenditoriali (scarsa formazione di capitale, mancanza di mezzi e di forti sollecitazioni volte alla ricerca di nuove tecnologie). Per riguadagnare controllo sul trasporto del loro interscambio, i paesi in via di sviluppo perseguono l'obiettivo dell'espansione del proprio tonnellaggio mercantile, ponendo in essere forme di protezionismo marittimo basate sulla riserva alla bandiera nazionale di un'aliquota prestabilita del loro commercio con l'estero, e sulle sovvenzioni statali alle compagnie di navigazione nazionali.
La politica di sovvenzioni viene seguita anche in alcuni paesi industriali, limitatamente però ai servizi di linea ritenuti d'interesse generale e caratterizzati da gestioni in perdita, ma è sottoposta a critiche e riserve in quanto conduce a un'allocazione delle risorse lontana da quella ottimale. Più diffusa, nei paesi industriali, è la politica di sostegno ai trasporti marittimi operata con agevolazioni fiscali e finanziarie, che hanno come obiettivo il rafforzamento delle capacità concorrenziali della flotta nazionale complessivamente considerata, e non ledono l'incentivo a una gestione efficiente delle imprese.
Il primo degli indirizzi sopra menzionati viene generalmente classificato sotto il nome di ‛discriminazione di bandiera'. Esso viene attuato unilateralmente, quando un paese istituisce una riserva di traffico per la bandiera nazionale, o bilateralmente, quando due paesi stabiliscono di dividere fra le rispettive flotte mercantili, in tutto o in parte, il proprio interscambio. (Provvedimento capostipite, per la nostra epoca, è generalmente considerato il Navigation act di Cromwell, del 1651). Questa politica è conosciuta da molto tempo, ma, almeno negli ultimi due secoli, ha dato spesso risultati di dubbia efficacia. Nei paesi industriali sopravvive oggi, di massima, solo con la riserva alla bandiera nazionale del traffico di cabotaggio, e nei rapporti internazionali limitatamente a talune misure amministrative e azioni a carattere persuasivo, tendenti a far sì che gli operatori preferiscano la bandiera nazionale. (A parte il caso degli Stati Uniti, che riservano alla bandiera americana il 50% del trasporto merci in conto aiuti a paesi esteri, e qualche altra eccezione minore). Si hanno poi casi di discriminazioni di tipo bilaterale nei rapporti tra alcuni paesi a economia centralizzata e paesi in via di sviluppo.
Alle discriminazioni di bandiera si muove generalmente la critica di formare un mercato protetto per le navi nazionali - e, quindi, di far alzare i noli al di sopra del livello di mercato, con conseguenti costi addizionali per l'apparato produttivo del paese - e di provocare un'utilizzazione non efficiente del naviglio sul mercato internazionale, privando gli scambi della possibilità di fruire del sistema di trasporti migliore e più economico.
I paesi a economia centralizzata partecipano in misura limitata al tonnellaggio mondiale, ma in misura superiore al totale del traffico d'imbarco e di sbarco. Questo avviene essenzialmente grazie allo sviluppo realizzato dalla marina russa negli ultimi quindici anni e, negli anni settanta, dalla marina della Repubblica Popolare Cinese. Per questo gruppo di paesi la dipendenza dal mare è piuttosto modesta. La dinamica delle flotte in esame, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, è direttamente dipendente dal ruolo assegnato alle attività marittime dalla (e nella) pianificazione dell'economia nazionale, ed entro limiti abbastanza ampi prescinde dalla competitività che i costi d'esercizio consentono di avere a queste marine. La Russia, che ha realizzato un rilevante sviluppo della propria flotta, in particolare a partire dagli anni sessanta, sembra tuttavia aver accettato, almeno formalmente, le regole del gioco del mercato internazionale e sta attuando progetti relativi alle nuove specializzazioni del naviglio, in particolare al trasporto a containers. Altri apprezzabili sviluppi si registrano in Polonia e, sia pure in misura minore, in Iugoslavia. Di fatto questi paesi praticano una forma implicita di protezionismo di bandiera, attraverso l'accentramento in un ente di Stato delle scelte relative ai trasporti del proprio commercio estero.
6. Alcuni lineamenti evolutivi dell'industria cantieristica.
Oggi l'industria delle costruzioni navali si presenta con queste caratteristiche: a) il Giappone occupa con largo margine il primo posto, sia per l'attività svolta (naviglio varato e naviglio ultimato), sia per le commesse acquisite. Attualmente questo paese rappresenta almeno un terzo del totale mondiale (33-36%) per l'attività svolta, e circa il 40% per le commesse; b) alcuni paesi in via di sviluppo - in particolare la Repubblica di Corea e il Brasile - si trovano fra i primi quattro o cinque nella graduatoria per il naviglio in ordinazione (dove si collocano subito dopo il Giappone, pur con cifre sensibilmente inferiori) e in quella per l'attività svolta; c) un posto di rilievo, anche se relativamente lontano dai primi, è arrivata a occupare la Repubblica Popolare Cinese, i cui dati complessivi comprendono però anche la produzione di Formosa; d) fra i paesi dell'Europa occidentale occupano posizioni di notevole rilievo Regno Unito, Spagna, Repubblica Federale di Germania, Francia e Svezia, seguiti da Norvegia, Danimarca, Italia e Olanda; e) gli Stati Uniti d'America hanno acquisito nuovamente una posizione di rilievo e (per es. nel 1979) hanno raggiunto il secondo posto per il naviglio ultimato e varato e il quinto-sesto per le ordinazioni; f) fra i paesi a economia centralizzata, oltre alla Repubblica Popolare Cinese si collocano in posizioni di notevole rilievo la Polonia e l'URSS, seguite dalla Iugoslavia e, a maggior distanza, dalla Repubblica Democratica Tedesca.
L'attuale distribuzione del potenziale cantieristico per paese presenta connotati sensibilmente differenti sia rispetto a quelli del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, sia a quelli dell'inizio del secolo attuale. In particolare, per quest'ultimo periodo, va ricordato che l'industria cantieristica inglese assorbiva circa il 4o-5o% della produzione mondiale, soprattutto nell'ambito del tonnellaggio a vapore.
Rispetto agli anni cinquanta, la situazione attuale presenta alcuni elementi di novità: la posizione d'incontrastato primato quantitativo dell'industria cantieristica giapponese, il rilievo acquisito da alcuni paesi in via di sviluppo - in particolare il Brasile, la Repubblica di Corea e, sia pure in misura minore, Formosa - e la sensibile flessione del peso e del ruolo rappresentati nel mondo dall'industria delle costruzioni navali della Comunità Economica Europea, nonché, più in generale e con la rilevante eccezione della Spagna, della cantieristica dell'Europa occidentale. (La quale, per contro, nella seconda metà degli anni cinquanta e negli anni sessanta con la Repubblica Federale di Germania e la Svezia aveva conseguito posizioni di rilevanza assolutamente primaria). Significativo, invece, il recupero di posizioni realizzato dalla navalmeccanica nordamericana e il mantenimento del ruolo di rilievo della cantieristica della Polonia e della Iugoslavia.
La posizione di volta in volta occupata dai singoli paesi industriali è influenzata dalla politica cantieristica posta in essere dai governi nazionali, generalmente attraverso l'incentivazione degli ordinativi per le costruzioni (da effettuare presso i cantieri del paese) di navi per la marina mercantile nazionale, i programmi di sviluppo delle compagnie a partecipazione pubblica (e, più in generale, sovvenzionate), i contributi di costruzione, il credito (e l'assicurazione di crediti) all'esportazione, il finanziamento della ristrutturazione e del rammodernamento degli impianti.
Gli interventi a sostegno dell'industria cantieristica sono sovente diversi da (e quindi non vanno in alcun modo confusi con) quelli finalizzati allo sviluppo della flotta mercantile, di cui si è fatto cenno nel capitolo precedente. La posizione di primato assunta dal Giappone è in parallelo con quanto è avvenuto nel tonnellaggio mercantile ed è strettamente correlata al forte progresso dell'economia del suddetto paese.
La rilevanza raggiunta da alcuni paesi in via di sviluppo negli ultimi dieci anni è dovuta, da un lato, al basso costo del lavoro e, dall'altro, alle connessioni delle iniziative cantieristiche realizzate nelle economie in esame con i capitali, il management, il mondo imprenditoriale e il know-how di alcuni paesi industriali, primo fra tutti il Giappone.
L'affermazione dei paesi in questione esprime il cambiamento dei modelli localizzativi intervenuto nel settore rispetto a quelli che, di massima, valevano nella prima metà del secolo, quando le condizioni per lo sviluppo dell'industria cantieristica in un paese andavano prima di tutto ricercate nell'esistenza di una rilevante marina mercantile e di un avanzato potenziale industriale.
7. Sviluppo, sottosviluppo e navigazione di linea.
La crescente consapevolezza del grande divario fra paesi industriali e paesi in via di sviluppo, che caratterizza l'economia internazionale del nostro secolo, e del fatto che i meccanismi di mercato non consentono da soli di superarlo, ha avuto rilevanti riflessi in campo marittimo. L'agenzia delle Nazioni Unite appositamente costituita per i problemi del commercio e dello sviluppo (UNCTAD) ha registrato, nella sezione trasporti marittimi, una dialettica assai vivace e la tematica trattata in tale sede è tuttora in fase di evoluzione.
A grandi linee, i paesi in via di sviluppo, oltre a sostenere la politica delle riserve di traffico per costituire le proprie flotte nazionali, chiedono: una sostanziale assistenza finanziaria (e tecnica); l'attuazione di iniziative armatoriali, da parte dei paesi industriali, nel loro ambito; una partecipazione di maggior peso delle proprie compagnie marittime alle conferenze che interessano i rispettivi porti; una revisione della regolamentazione delle conferenze stesse e del quadro istituzionale in cui opera il mercato internazionale marittimo.
I lineamenti di una revisione del sistema delle conferenze marittime e, più in generale, del quadro istituzionale e regolamentativo in cui opera la navigazione di linea, sono contenuti nella Convenzione internazionale di Ginevra (dell'aprile 1974) per un codice di condotta delle conferenze marittime stesse, redatta e approvata appunto in sede UNCTAD. Solo nel 1981, tuttavia, la Convenzione sembrava avviata a ottenere il necessario numero di adesioni e ratifiche per entrare in vigore. I principali elementi di novità che essa introduce riguardano il concetto di vettore nazionale, non più basato sulla bandiera della nave, ma sulla localizzazione della direzione e del controllo della compagnia marittima (la quale può esercire navi di qualunque bandiera prese a noleggio); la promozione di una sistematica consultazione fra vettori e caricatori, nonché fra le rispettive organizzazioni (conferenze marittime e consigli dei caricatori); la possibilità d'intervento da parte dei governi locali nelle materie disciplinate dalle conferenze; un'apposita procedura di conciliazione delle controversie (con creazione di un elenco di conciliatori e di un centro di documentazione presso l'ONU); l'ammissione automatica dei vettori nazionali alle conferenze riguardanti il traffico di un paese; la ripartizione del traffico fra due paesi in modo che i vettori nazionali appartenenti a ciascuno di essi abbiano una quota complessiva del 40% del totale mentre ai vettori dei paesi terzi rimarrebbe complessivamente una quota del 20% (la cosiddetta ‛regola ripartitiva' del traffico: 40/40/20); la possibilità che i paesi che si riconoscono in una ‛regione' mettano in comune la propria quota di traffico; ecc.
La Convenzione ha sollevato numerose riserve - in primo luogo, ma non esclusivamente, nell'ambito dei paesi industriali - soprattutto in relazione alla visione delle conferenze forse più amministrativa che economico-operativa che la caratterizza, alla regola ripartitiva 40/40/20, alle procedure di conciliazione (ritenute macchinose e poco efficaci) e a un'insufficiente politica anti-trust. I primi due punti, considerati congiuntamente, ove trovassero un'applicazione generalizzata, potrebbero preludere secondo taluni osservatori a un regime di tipo autorizzativo.
Uno dei punti di maggiore divergenza è rappresentato dal ruolo attribuito alla regola ripartitiva del traffico sopra accennata: se, cioè, essa debba sostituire ogni altro accordo di tipo bilaterale per il trasporto del commercio marittimo internazionale (come quelli dei quali si è parlato nel capitolo precedente), o se debba valere solo quando non è possibile ottenere quote di partecipazione più elevate. Su quest'ultima posizione si collocano diversi paesi in via di sviluppo e a economia centralizzata.
Ritornando al trasporto di linea, alla base di ogni valutazione del nuovo assetto proposto con il codice si collocano punti da esplorare con molta accuratezza: in particolare il concetto di vettore nazionale, con le sue implicazioni, e, in connessione con esso, la possibilità di far luogo a iniziative congiunte (joint ventures) fra paesi industriali e paesi emergenti, in materia di trasporti a containers, altri trasporti unitizzati e trasporti convenzionali con mezzi avanzati come le moderne multipurpose (che abbiamo già ricordato).
Queste iniziative congiunte, tuttavia, sono da studiare con attenzione anche per il settore delle rinfuse industriali, specie alla luce delle possibilità di una nuova localizzazione delle attività di prima trasformazione delle materie prime e delle fonti primarie di energia, nelle rispettive aree di estrazione. È con ogni probabilità un errore subordinare le possibilità di crescita delle flotte dei paesi in via di sviluppo esclusivamente alle quote riservate di traffico, in quanto ciò porta a trascurare gli altri orizzonti operativi praticabili, in vista della stessa finalità, dal trasporto di cabotaggio ai servizi di alimentazione (i cosiddetti servizi feeder) nel trasporto a containers, alle intese regionali fra paesi con molta forza lavoro, paesi ricchi di materie prime e paesi ormai in grado di disporre di forti capitali (come quelli del petrolio). Non va dimenticato soprattutto che, negli anni settanta, diversi paesi in via di sviluppo sono assurti al ruolo di protagonisti sul mercato internazionale del naviglio di seconda mano, in quanto, presumibilmente, sono ormai in grado di dar luogo a un'efficiente gestione economica del tonnellaggio commerciale di tipo convenzionale, di moderna concezione e di recente costruzione.
D'altro lato, tuttavia, i paesi industriali possono fare molto per rompere il circolo vizioso della depressione in campo marittimo, con i loro capitali, la loro possibilità di creare nuove unità produttive marittime nei paesi in via di sviluppo, la loro capacità imprenditoriale, il loro sapere tecnico. Anche in campo marittimo si può infatti pensare a una divisione del lavoro in cui i paesi industriali producono i servizi di tipo più sofisticato, a più alto investimento e a più forte input di ricerca - se si vuole, quelli in cui è possibile una più spiccata differenziazione -, mentre i paesi in via di sviluppo producono servizi più standardizzati, anche se a tecnologia moderna e avanzata. Quanto si diceva poc'anzi a proposito della posizione dei paesi in via di sviluppo sul mercato del naviglio di seconda mano, o a proposito dell'impiego delle navi multipurpose nei traffici con i paesi in questione, muove appunto in questa direzione. È da presumere che una politica dei paesi industriali intelligentemente aperta di fronte alle esigenze ora accennate possa dare un contributo sostanziale al conseguimento di obiettivi come la salvaguardia di una soddisfacente liberalizzazione del traffico marittimo internazionale, obiettivi che appaiono come non rinunciabili se si vuole mantenere un sistema di trasporto via mare economico ed efficiente, dinamicamente orientato e capace di produrre progresso tecnico. Un sistema che è condizione di sviluppo per gli scambi e l'intensificazione delle relazioni fra i popoli.
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Trasporti aerei
SOMMARIO: 1. Gli aeromobili nel quadro generale dei veicoli da trasporto: a) premessa; b) fattori di forza trattiva specifica alla velocità massima, di utilizzazione dell'energia e di ingrandimento in peso. □ 2. Il traffico: a) origine e sviluppo del traffico aereo; b) volume del traffico e previsioni sul suo sviluppo; c) flotta aerea commerciale e dell'aviazione generale; d) incidenti e sicurezza nel trasporto aereo passeggeri. □ 3. I velivoli e gli elicotteri: a) gli aeroplani leggeri per trasporto passeggeri; b) gli aeroplani da trasporto di medio tonnellaggio con capacità di decollo e atterraggio corto (STOL); c) i velivoli da trasporto merci di grande tonnellaggio; d) l'aeroplano passeggeri supersonico; e) l'aeroplano a decollo e atterraggio verticale (VTOL) e l'elicottero; f) gli aeroplani passeggeri dei prossimi anni. Scelte europee. □ 4. I motopropulsori: a) rendimenti; b) cenni storici; c) i turboreattori a diluizione e a ciclo variabile; d) pesi e consumi specifici; e) l'idrogeno liquido e l'energia nucleare nei motori a reazione; f) il rumore; g) posizione e numero dei motori. □ Bibliografia.
1. Gli aeromobili nel quadro generale dei veicoli da trasporto.
a) Premessa.
Prima di entrare nell'argomento del trasporto aereo ci sembra utile dare uno sguardo generale a tutti i tipi di veicoli da trasporto nel loro insieme, sulla base delle loro principali prestazioni.
L'espressione più evidente dello sviluppo e dell'evoluzione dei sistemi di trasporto è costituita dall'introduzione di nuovi tipi di veicoli e dal continuo aggiornamento di quelli esistenti. Ciò è connesso, in primo luogo, col fatto che l'obiettivo permanente dei trasporti, oltre all'aumento della sicurezza, della comodità e della velocità, è l'incremento della produttività del sistema. D'altra parte, le aspirazioni e le necessità dell'uomo conducono ad affrontare i problemi dei trasporti in settori sempre più vasti e in condizioni più severe, portando di conseguenza a una diversificazione dei tipi di veicoli, di cui alcuni acquistano nuove possibilità operative, mentre altri trasferiscono a tipi più pertinenti l'esercizio di certi campi di azione originariamente di loro competenza. Cosi avviene, per esempio, nel caso dell'elicottero, che diviene competitivo nei confronti del velivolo in alcune applicazioni, specialmente in campo agricolo e per servizi di vigilanza e soccorso in montagna. Analogamente i veicoli marini ad alette sostituiscono già convenientemente i normali battelli in certe zone di traffico, mentre il trasporto su strada continua a competere con quello su rotaia, fra alterne vicende.
In quest'ottica si intravede la convenienza: a) di un'integrazione dei treni veloci attuali con veicoli guidati a cuscino d'aria o a sostentazione magnetica e propulsione elettrica con motore lineare, con vantaggi in termini di peso, velocità e rendimento propulsivo; b) dell'introduzione di aeroplani economici - merci e passeggeri - adatti alle brevi distanze, con possibilità di utilizzazione su piccoli campi senza piste; c) dell'adozione di grossi velivoli passeggeri transoceanici ad alta capacità in sostituzione dei transatlantici, ecc.
Si tratta quindi di processi tecnici che conducono, da una parte, all'introduzione di nuovi tipi di veicoli e, dall'altra, alla continua e talvolta rapida evoluzione di quelli esistenti.
Per cogliere gli aspetti di questa evoluzione e per valutarne gli effetti futuri è essenziale considerare i sistemi di trasporto e particolarmente i loro principali componenti (veicoli e infrastrutture) anche da altri punti di vista (sociale, economico, ecologico, ecc.). Occorre cioè riferirsi ai sistemi di trasporto che comprendono, oltre al veicolo, le infrastrutture (trafori, ponti, strade, aeroporti, ecc.) - la cui influenza sull'evoluzione e sullo sviluppo sia del traffico che del veicolo è, in certi casi, decisiva. Così, ad esempio, nuovi metodi di guida, di segnalazione e di regolazione del traffico possono rendere più economica l'utilizzazione di un particolare tipo di veicolo in un determinato settore. La tecnica dei trafori e delle gettate sulle coste può determinare l'economicità di un nuovo collegamento stradale o ferroviano, o lo sviluppo di un porto, oppure l'impiego di un particolare veicolo dove prima ne era impensabile l'utilizzazione, ecc. Un nuovo metodo di sostentamento dinamico dei velivoli, che ne accorci il decollo e l'atterraggio, può suggerire, anzi esigere, per ragioni di produttività, l'impiego di un tipo di veicolo aereo in luogo di veicoli terrestri.
b) Fattori di forza trattiva specifica alla velocità massima, di utilizzazione dell'energia e di ingrandimento in peso.
Premesso quanto sopra, ci limiteremo qui a esaminare qualche aspetto tecnico generale dei principali tipi di veicoli presi isolatamente; a tale scopo introduciamo tre fattori adimensionali dedotti dalla combinazione di alcune grandezze caratteristiche dei veicoli e connessi direttamente con le loro principali prestazioni.
Consideriamo, tra le grandezze caratteristiche, la potenza installata (Π), il peso totale del veicolo (Q), la velocità massima orizzontale (V), la velocità media della missione (Vmm), la distanza su cui si effettua il trasporto (D), il carico pagante (Qp) e l'energia (Em), espressa in unità meccaniche, equivalente a quella consumata nella missione.
Utilizzando queste grandezze possiamo dedurre i seguenti fattori adimensionali:
‛fattore di forza trattiva specifica' alla velocità massima;
‛fattore di utilizzazione dell'energia' in relazione alla capacità di trasporto e alla velocità media della missione;
'fattore d'ingrandimento in peso' del veicolo, inteso come rapporto tra il peso totale del veicolo all'inizio della missione e il peso del carico della missione (carico pagante).
Considerando i tipi di veicoli nel loro complesso, questi fattori danno un quadro sintetico dei rapporti che sussistono tra i valori dei principali parametri (peso totale del veicolo e carico pagante trasportato, distanza e velocità del trasporto e consumo di energia corrispondente, potenza installata e velocità massima), che permette di individuare, per esempio, la ‛posizione' dei velivoli commerciali rispetto ai vari tipi di veicoli da trasporto terrestri e marini. Risulta infatti possibile definire per ogni tipo di veicolo, in termini generali, la velocità massima orizzontale in rapporto alla potenza specifica installata; il grado di utilizzazione dell'energia (e quindi del combustibile consumato) in rapporto alla capacità di trasporto (prodotto del carico pagante per la distanza) e alla velocità della missione; il costo operativo in peso del veicolo per ogni unità in peso di carico pagante trasportato.
Il fattore di forza trattiva specifica e di un veicolo può essere interpretato come il rapporto tra la trazione che corrisponderebbe alla velocità massima, se la potenza installata fosse sfruttata al 100%, e il peso totale del veicolo. Può quindi essere considerato anche come una specie di coefficiente di attrito ‛globale' del veicolo alla velocità massima.
Evidentemente, se si paragonano differenti veicoli e, per ciascuno di essi, si considera il lavoro necessario per una data prestazione, per esempio per trasportare lo stesso peso totale alla stessa distanza ognuno alla rispettiva velocità massima, tale lavoro è proporzionale a ε. Il valore di ε per ogni veicolo è determinato dalle leggi fisiche della resistenza al moto, dai rendimenti e dal peso specifico del sistema motopropulsore, dal consumo specifico di combustibile dei motori, dal peso totale, ecc. Per ogni tipo di veicolo si è trovato un andamento complessivo, quasi una legge, che esprime i valori minimi di ε in funzione della velocità massima. Considerando l'insieme delle curve dei valori minimi di ε per differenti tipi di veicoli, si è trovata una ‛retta limite' che, in funzione della velocità massima, esprime il valore minimo di ε raggiungibile per ogni velocità massima. Questa retta (v. fig. 1) retta limite di Gabrielli-von Kármán - è espressa dall'equazione
ε = 0,0004V,
dove le grandezze fisiche sono espresse in m, s, kg. Esprimendo la velocità in km/h, la potenza in CV e il peso in t, si ha
ε = 0,000111V.
Limitandosi a considerare l'andamento di ε per i velivoli commerciali, si vede che il suo valore minimo è 0,08 alla velocità massima di 700 km/h ed è prossimo a quello che si ricava dalla retta limite, mentre le curve relative ai veicoli terrestri su strada si discostano sensibilmente dalla retta limite. Si può anche dire che la potenza specifica minima necessaria per i veicoli nel loro insieme ha un andamento quadratico con la velocità massima ed è data, in CV/t, da
Questa formula indica la minima potenza specifica installata necessaria a un veicolo per raggiungere una determinata velocità massima.
Sono stati introdotti numerosi parametri per rappresentare i rapporti esistenti tra il peso di combustibile consumato e la lunghezza media del percorso, la velocità media, il carico pagante, corrispondenti a una data missione di trasporto. Così, per esempio, nella letteratura tecnica si dà spesso il peso e il volume del combustibile consumato per tonnellata-chilometro di merce o per passeggero-chilometro trasportato. Questi dati valgono per i veicoli che impiegano combustibili fossili, ma non sono applicabili ai veicoli alimentati con energia elettrica e a quelli azionati da forza muscolare.
Per creare un parametro di validità generale abbiamo qui adottato, in luogo del peso o del volume del combustibile consumato, il suo contenuto energetico equivalente, espresso in unità di lavoro meccanico. È possibile in tal modo rappresentare con un numero, detto fattore di utilizzazione dell'energia, il rapporto tra la capacità di trasporto (carico pagante per distanza) e l'energia meccanica equivalente a quella consumata, in qualsiasi forma, da un veicolo:
Il fattore di utilizzazione dell'energia f dei vari tipi di veicoli, relativo alle loro missioni di trasporto, è un indice dell'economicità del trasporto dal punto di vista energetico. Evidentemente il suo reciproco, f-1, è il consumo di energia per unità del prodotto carico pagante per distanza. Rappresentando il valore di fin funzione della velocità media della missione Vmm, si rende immediato ed espressivo il confronto tra veicoli di tutti i tipi, indipendentemente dalla forma di energia che li alimenta. Nella fig. 2 sono riportate alcune centinaia di veicoli, marini, terrestri e aerei, suddivisi in 15 diverse classi in corrispondenza delle principali missioni che normalmente svolgono. L'energia equivalente è quella totale consumata nella missione considerata in tutte le fasi, dal punto di partenza a quello di arrivo; comprende cioè anche quella direttamente connessa con i servizi ausiliari del veicolo, che fanno capo allo stesso sistema motore della propulsione oppure a un sistema di potenza apposito. La distanza D è quella effettiva nei veicoli terrestri di superficie su rotaia o su strada; per quelli aerei e per quelli marini D va intesa come la distanza minima tra le località collegate. La velocità media della missione, Vmm, è la velocità media effettiva del trasporto, calcolata comprendendo, come avviene nel caso dei treni, degli autobus, ecc., le fermate intermedie. Il carico pagante è espresso in peso anche per i veicoli per trasporto passeggeri; per ragioni di uniformità abbiamo attribuito a ogni passeggero e relativo bagaglio il peso di 100 kg. Nella valutazione dei dati riportati nella fig. 2 non va dimenticato il fatto che siamo partiti dall'ipotesi di considerare i veicoli a pieno carico, cioè col massimo carico pagante consentito. Ciò si discosta dalla realtà, perché il carico pagante nella quasi totalità dei casi non e il massimo, oppure perché la missione di trasporto (navi da carico) può comportare il viaggio di ritorno a vuoto. Evidentemente, se si considera il carico pagante effettivo, i valori di f da noi dati si riducono corrispondentemente. Va ricordato, infine, che, nei casi in cui l'energia di alimentazione non sia in forma primaria - come l'energia elettrica di origine termica -, se si volessero riferire i consumi alla forma primaria occorrerebbe tener conto del rendimento della trasformazione dell'energia da termica in elettrica e risulterebbero valori più alti dei consumi rispetto a quelli considerati nella fig. 2. Dopo questa premessa, possiamo dedurre dall'esame della fig. 2 alcune considerazioni di carattere generale.
Occorre anzitutto notare che dalle considerazioni che seguono sono escluse tutte le missioni di trasporto che si svolgono esclusivamente nel traffico cittadino, perché si tratta di missioni a breve distanza con frequenti soste, frenate e accelerazioni. Abbiamo comunque riportato nel diagramma, a titolo di curiosità, due punti relativi agli autobus urbani e ai tram, basandoci su medie annuali rilevate dall'ATM di Torino. Come si vede, Vmm ed f hanno valori relativamente molto bassi.
Nel caso di navi, automobili, autocarri, automotrici, aeroplani e autobus, i singoli veicoli di uno stesso tipo differiscono molto l'uno dall'altro, sia dal punto di vista delle caratteristiche e delle prestazioni sia da quello degli impieghi cui sono destinati. È necessario quindi, per avere una rappresentazione significativa, ricorrere a un gran numero di punti. Invece, i treni elettrici, da una parte, e quelli dieselelettrici, dall'altra, a causa di una certa uniformità nelle caratteristiche di impiego e nelle prestazioni, possono essere rappresentati con pochi punti. Come si vede, le aree occupate dai singoli tipi di veicoli di superficie sono contigue e in alcuni casi si sovrappongono parzialmente, mentre quelle occupate dagli aeroplani sono nettamente separate: una comprende gli aeroplani a motoelica, un'altra quelli a turboelica, una terza quelli a turbogetto. Si può osservare che i valori di f decrescono sensibilmente passando dai tipi di veicoli lenti a quelli veloci (dalle navi agli aeroplani).
Tracciando sul diagramma una retta tangente alle aree delle navi cisterna e degli aeroplani a motoelica, si vede che, a eccezione degli elettrotreni e degli aeroplani a turboelica e a turbogetto, i punti relativi agli altri tipi di veicoli stanno al disotto di detta retta. Inoltre, tra i veicoli terrestri, passeggeri e merci, quelli su rotaia (treni) hanno valori più elevati di Vmm e di f di quelli su strada (autobus, autocarri e automobili) e i valori di f dei primi si avvicinano di più alla retta.
Gli aeroplani a turboelica e quelli a getto occupano aree distinte e spostate verso destra sul diagramma, in campi di velocità nettamente superiori a quelle degli aeroplani a motoelica, pur conservando valori di f che sono compresi all'incirca nello stesso campo di questi ultimi. Infine, il Concorde, l'unico aeroplano passeggeri supersonico in servizio, (sulla rotta dell'Atlantico del Nord: Vmm = 2.000 km/h, f ≃ 0,36), è isolato a destra nel diagramma. Forse prima della fine del secolo sarà prodotto nel mondo occidentale un supersonico passeggeri di seconda generazione, che, secondo tecnici statunitensi, avrà maggiore capacità (300 ÷ 350 passeggeri) e maggiore velocità (2,5 ÷ 3 Mach) del Concorde. Con ciò sarà ulteriormente marcata la discontinuità tra i subsonici e i supersonici nel campo della velocità e saranno raggiunti valori di f certamente superiori a quelli del Concorde.
Sarebbe evidentemente ridicolo pensare alla storica impresa di Ch. Lindbergh, nel 1927, come a una forma competitiva di trasporto di un passeggero da New York a Parigi. Ma, considerando per ipotesi solo l'aspetto del trasporto, abbiamo ricavato, a titolo di curiosità, il valore difche corrisponde al volo dello Spirit of St. Louis. Prendendo come carico pagante il peso dell'eccezionale pilota, si ottiene f = 0,13: un valore molto basso, come era da attendersi, dato che il carico utile è destinato quasi tutto al combustibile.
L'aumento di velocità, passando dalla motoelica alla turboelica e al turbogetto, è conseguenza della minore resistenza aerodinamica del velivolo, dovuta soprattutto alla più favorevole integrazione del sistema motopropulsore nella cellula, al suo ridotto ingombro e, per gli aeroplani a getto, alle prestazioni del motore, adatto al volo ad alta quota e cioè in aria rarefatta. Per quanto riguarda il valore di f, non si nota, come abbiamo detto, una sua riduzione, bensì un aumento, malgrado la più elevata velocità di trasporto. Ciò è spiegato dal fatto che, mentre da un lato le maggiori velocità non sono state ottenute con un aumento delle potenze installate riferite al peso (potenza specifica al decollo), il peso per unità di potenza degli impianti motopropulsori è notevolmente diminuito passando dalla motoelica alla turboelica e al turbogetto. Il peso del gruppo motopropulsore, che nei velivoli a motoelica rappresenta il 20% del peso totale al decollo, è passato al 10% nei turbogetti e tende a ridursi al 5%. La minore incidenza del peso del gruppo motopropulsore consente un aumento corrispondente del carico pagante e quindi di f, malgrado l'aumento della velocità, contrariamente a quanto avviene per i veicoli di superficie, come abbiamo visto. L'aeroplano a turboelica, e ancor più quello a turbogetto, è l'unico tipo di veicolo che realizza più elevate velocità di trasporto senza una riduzione nel fattore di utilizzazione dell'energia. Ciò dipende principalmente dal fatto che gli aeroplani, come tutti i veicoli aerei, possono disporre, nell'esecuzione delle loro missioni di trasporto, di una terza dimensione la quota che consente di utilizzare l'ambiente più adatto per una riduzione della resistenza del mezzo all'avanzamento. Oltre a ciò, l'aeroplano è l'unico tipo di veicolo che, nella sua evoluzione, ha usufruito direttamente, in grande misura, delle più avanzate, complesse e costose tecnologie, frutto di raffinate ricerche e sperimentazioni (in gran parte effettuate per ragioni militari). In questa direzione, ma in misura molto più modesta, compatibile con i costi che l'esercizio può sopportare, si stanno evolvendo tutti i tipi di veicoli terrestri e marini, i quali spesso utilizzano i progressi della tecnica aeronautica nei materiali, nei gruppi motopropulsori, nel miglioramento delle forme per una riduzione della resistenza all'avanzamento in generale, ecc.
A titolo di curiosità, vediamo come si collocano, agli effetti del consumo energetico, il pedone e il ciclista. Partiamo dal fatto che in questi due casi il carico pagante è l'uomo, in quanto questi è il soggetto del trasporto, anche se allo stesso tempo fornisce l'energia e in via diretta o indiretta esplica la forza propulsiva. La fonte di energia consiste negli alimenti, i quali, attraverso una lenta ossidazione, passano allo stato inorganico e liberano la loro energia potenziale al motore, che è costituito dai muscoli, i quali producono, attraverso contrazioni, le forze che danno luogo all'azione propulsiva. Delle calorie ingerite, una parte serve a tenere costante la temperatura del corpo e a mantenere in vita l'organismo, l'altra serve a produrre l'eventuale lavoro esterno. L'energia da noi considerata è quella equivalente alle calorie consumate per effettuare l'azione di trasporto per la durata di un'ora, nel caso di un pedone che cammini con andatura normale e di un ciclista che vada in pianura.
Come si vede dalla tab. I, l'energia muscolare trova nella bicicletta uno strumento utilizzatore di grande efficienza; infatti il ciclista, in pianura, alla velocità di 16 chilometri all'ora, consuma la metà del pedone a 4 chilometri all'ora. Lo stesso rapporto intercorre fra il nuotatore e il rematore di canotto, ma con consumi proporzionalmente maggiori, perché l'avanzamento sull'acqua incontra una maggiore resistenza e il rendimento del remo è inferiore a quello della ruota motrice, che è nello stesso tempo un eccellente organo sostentatore e propulsore. È notevole il fatto che il ciclista abbia un consumo energetico inferiore anche a quelli di tutti i tipi di veicoli passeggeri terrestri, se si eccettua il treno elettrico, di cui supera il consumo per circa il 50%, sempre a parità del prodotto carico pagante per distanza. Naturalmente queste constatazioni valgono alle rispettive velocità e non rappresentano alcun giudizio sul rendimento energetico del motore muscolare rispetto a quello meccanico.
La riduzione dei consumi di energia nei veicoli è basata soprattutto su una attenta impostazione del ‛sistema di trasporto' e quindi anche sulla scelta del veicolo più adatto. Riteniamo che a breve termine non sia possibile ottenere vantaggi sensibili diretti nel consumo energetico dei veicoli di superficie, ma solo miglioramenti indiretti conseguenti all'alleggerimento delle strutture, soprattutto nei veicoli lenti, e al perfezionamento della forma esterna, in quelli veloci. Per i velivoli, invece, sussistono prospettive di riduzione diretta dei consumi a breve termine, basate sul sistema motopropulsore, ma a patto di mantenere le attuali velocità in campo subsonico. I velivoli commerciali supersonici sono ancora lontani da una regolare introduzione in servizio, perché tra gli altri problemi presentano quello del consumo eccessivamente alto in relazione alla loro funzione.
Il fattore d'ingrandimento G può essere interpretato come la quota in peso del veicolo completo che compete a ogni unità di peso del carico pagante. Esso esprime globalmente la complessa dipendenza di Q dalle prestazioni, intese nel senso più generale, ed è, quindi, importante tenerne presente l'ordine di grandezza per i differenti tipi di veicoli da trasporto, soprattutto negli studi che riguardano il progetto delle varie componenti e le possibilità di un loro alleggerimento.
La tab. II riporta alcuni valori indicativi di G per vari tipi di veicoli.
È chiaro che il progresso tecnico tende a ridurre i valori di ε e di G e ad accrescere il valore di f, a parità di prestazioni. Questi tre fattori rappresentano elementi basici di validità generale, anche se non sono certo i soli componenti in una valutazione complessiva dell'efficienza del tipo di veicolo, perché debbono essere considerati altri elementi, come il costo del veicolo e dell'esercizio, la sicurezza, ecc., insieme, naturalmente, ad altre esigenze, quali quelle inerenti ai problemi della comodità, dell'inquinamento atmosferico, ecc. L'insieme degli elementi quali costo, velocità, sicurezza, comodità, frequenza, ecc. potrebbe costituire la base per definire la ‛qualità del trasporto'. È chiaro che ognuno di questi elementi ha un'influenza e un'importanza diversa a seconda del viaggiatore e della lunghezza del percorso. Così, per esempio, secondo rilievi fatti da una grande società di navigazione aerea europea, una riduzione del 10% del costo del biglietto accrescerebbe dell'8% i viaggi d'affari e del 16% quelli per diporto e un aumento di velocità del 10% attirerebbe circa il 12% in più di uomini d'affari e solo il 4 ÷ 5% in più di viaggiatori per diporto.
È evidente che non è possibile esprimere la qualità del trasporto con un numero, come abbiamo fatto, per esempio, con f per l'utilizzazione dell'energia, perché per far ciò occorrerebbe anzitutto creare appropriati fattori, legati agli elementi basici che definiscono la qualità stessa, sul tipo di f, ε, G, correlare tra loro detti fattori e infine costruire la formula della qualità. Siamo lontani da un simile traguardo, anche nel caso di sistemi di trasporto particolarmente semplici, e quindi non rimane che ricorrere ad analisi specifiche comparative caso per caso, per ricavare elementi sui quali valutare un guadagno e basare una scelta a proposito della qualità del trasporto.
Si può prevedere che, nei prossimi anni, lo sforzo dei costruttori per migliorare i fattori ε, f e G, sopra illustrati, si concentrerà principalmente sulla realizzazione di strutture più leggere e di motopropulsori più efficienti. L'alleggerimento delle strutture si ottiene con l'impiego di nuovi materiali a più alto indice di bontà, ossia a più alto rapporto tra resistenza e peso nuove leghe metalliche, materiali plastici e materiali compositi, come le resine rinforzate. Nelle strutture aeronautiche, ove si impiegano acciai e leghe di alluminio di elevate caratteristiche, si estende l'uso di materiali compositi a fibra di boro o di grafite, mentre si guarda ora in via sperimentale a una combinazione di superleghe e di materiali compositi uniti in strutture singole a mezzo di speciali adesivi, in modo che la struttura metallica fornisca la resistenza primaria, mentre quella di materiale composito, attaccata a essa successivamente, fornisca caratteristiche supplementari, quali la rigidezza, la resistenza alla corrosione, ecc. La parte o struttura risultante possiede quindi una combinazione delle migliori caratteristiche dei componenti, ivi inclusa un'apprezzabile leggerezza.
La costruzione di nuovi motopropulsori a più alto rendimento globale e che riducano ai limiti più bassi ogni forma di inquinamento atmosferico richiede l'utilizzazione di nuove leghe, resistenti a più elevate temperature, per ottenere migliori rendimenti e più bassi valori del peso, come nel caso, ad esempio, delle turbine a gas usate in luogo dei motori volumetrici. Parallelamente alle tecnologie più avanzate saranno introdotti sistemi di propulsione non convenzionali, come quelli basati sull'energia elettrica prodotta con pile a combustibile e/o con accumulatori leggeri. Accumulatori leggeri a litio, capaci di erogare 550 watt-ora di energia elettrica per kg di peso dell'accumulatore, sono già in prova (mentre le batterie attuali hanno una capacità energetica di 40 ÷ 45 watt-ora). Così, ora, sono in corso esperimenti su un impianto di alimentazione per autoveicoli di straordinarie prestazioni, costituito da un normale impianto di alimentazione cui si è aggiunto un generatore d'idrogeno e un atomizzatore di carburante in sostituzione del normale carburatore. L'impianto ha lo scopo di produrre una miscela di benzina e idrogeno ottenuta dalla reazione di parte della benzina con aria e vapor d'acqua nel citato generatore di idrogeno. La miscela brucia nel motore in modo così completo da non dar luogo ad alcun residuo nocivo di gas combusti; ciò aumenta anche in modo notevole il rendimento del motore.
Quanto abbiamo esposto ci lascia intravedere gli imponenti progressi che saranno realizzati nei prossimi anni nel campo dei veicoli da trasporto. Treni rapidi a turbina; veicoli guidati a cuscino d'aria e con sospensione magnetica; automobili a idrogeno; velivoli da trasporto passeggeri e merci di grande tonnellaggio, supersonici, a decollo e atterraggio corto e verticale; elicotteri combinati; navi mercantili di grande tonnellaggio di stazza, dotate di propulsione nucleare, ecc. costituiranno le nuove forme di veicoli terrestri su strada e su rotaia, marini e aerei, che, a fianco di quelli tradizionali opportunamente aggiornati, avranno il compito di affrontare le crescenti esigenze del traffico passeggeri e merci alle soglie del 2000.
2. Il traffico.
a) Origine e sviluppo del traffico aereo.
L'origine del trasporto aereo e la costruzione dei primi velivoli per trasporto passeggeri risalgono alla fine della prima guerra mondiale. Queste nuove attività non solo aiutarono l'industria ad affrontare la crisi dell'immediato dopoguerra, ma raggiunsero, con il loro graduale sviluppo, un livello tecnico-industriale e commerciale notevole alla fine del periodo tra le due guerre mondiali.
A questo sviluppo contribuì il volo di Lindbergh da New York a Parigi, nel maggio del 1927, che ebbe un effetto esplosivo sui governi, sugli imprenditori e sul pubblico, dando inizio al cosiddetto ‛periodo d'oro dell'aviazione'. Basti notare che le linee regolari interne degli Stati Uniti, che nel 1926 avevano trasportato meno di 6.000 passeggeri, nel 1939 ne trasportarono circa 2.000.000.
Il traffico regolare era svolto principalmente da aeroplani, tra i quali citiamo i tipi Fokker (v. fig. 3), Junkers (v. fig. 4), Handley-Page (v. fig. 5), Savoia Marchetti, Fiat (G 2, G 18, G 18 V e APR 2) e Boeing 247, un bimotore con carrello retrattile, che, entrato in servizio nel 1932, effettuava il collegamento tra New York e San Francisco in sette tappe e complessive 19 ore (v. fig. 6).
Nel 1934 il DC 3 (v. fig. 7), capostipite di una riuscitissima famiglia di aeroplani, ha segnato l'avvento di una nuova tecnica, che ha dominato incontestabilmente il mondo dei trasporti aerei e ha inaugurato la lunga serie dei velivoli da trasporto americani: Douglas, Boeing, Lockheed e altri.
Gli idrovolanti vennero impiegati, inizialmente, in misura molto limitata su linee a breve raggio, utilizzando specchi d'acqua sui laghi, sui fiumi e nei porti; ma, con l'apertura dei servizi commerciali sulle rotte transoceaniche del Pacifico e dell'Atlantico, la loro costruzione ricevette un grande impulso. Era l'epoca in cui i dirigibili tedeschi del tipo Zeppelin avevano acquistato un grande credito nei viaggi transoceanici, ma erano lenti e ingombranti: la loro velocità era circa la metà di quella dei velivoli e per portare il carico sopportato da un m2 di ala occorreva un volume di gas da 400 a 500 m3. Il velivolo, inoltre, assumeva caratteristiche sempre più interessanti, mentre il dirigibile sembrava avere raggiunto il limite delle sue possibilità.
Si pose, quindi, il problema dell'impiego del velivolo sulle rotte oceaniche, che alcune spettacolari imprese, come quelle delle squadriglie di I. Balbo e di altri, avevano stimolato.
Si trattava di scegliere tra l'aeroplano e l'idrovolante: la scelta cadde su quest'ultimo, perché poteva usare i porti come punti terminali e anche perché, con l'aumento del tonnellaggio e quindi delle dimensioni, gli svantaggi degli idrovolanti rispetto agli aeroplani, riguardo alle prestazioni, diventavano meno pronunciati. Ebbe così avvio la costruzione di idrovolanti di grandi dimensioni.
Nel 1929 era nato il Do X da 48 t con 12 motori, che fu prodotto in soli 3 esemplari e non ebbe seguito (v. fig. 8). Venne poi il quadrimotore Sikorsky S 42, che inaugurò il servizio regolare sull'Atlantico da Long Island a Marsiglia, via Azzorre-Lisbona, in 42 ore; alla fine del 1939 aveva compiuto più di 100 traversate senza incidenti.
La seconda guerra mondiale bloccò questo processo di sviluppo dell'industria aeronautica civile e del traffico aereo e fu soltanto alla cessazione delle ostilità, nel 1945, che queste attività ripresero, ma su basi completamente diverse. I progressi tecnici e l'esperienza accumulata durante la guerra dall'aviazione militare furono, infatti, impiegati per soddisfare la domanda dei servizi commerciali nel mondo e per lo sviluppo dell'aviazione privata.
Gli Stati Uniti, con la loro esperienza di voli militari a grande distanza, essendo inoltre all'avanguardia nella progettazione e nella costruzione dei velivoli e disponendo di personale tecnico preparato, si trovarono alla guida dello sviluppo dell'aviazione civile del dopoguerra.
L'Europa, invece, che era rimasta priva di velivoli civili da trasporto, fu costretta a impiegare velivoli militari convertiti e velivoli di costruzione americana, come i C 47 (DC 3), i Convair, i Constellation, i DC 4 e, successivamente, i DC 6, che costituirono la massa della flotta aerea nell'immediato dopoguerra. In Italia furono impiegati anche il G 12 (v. fig. 9), il cui decollo da Torino, il 5 maggio del 1947, segnò l'inizio dell'attività dell'Alitalia, e l'S 82.
Con l'avvento dei turboelica e dei turbogetti, l'Europa si fa avanti, negli anni cinquanta, costruendo tipi come il Viscount, il Comet, il Caravelle, ecc. e, successivamente, nel campo dei grandi velivoli, il VC 10; ma il grosso delle flotte aeree rimane costituito da velivoli americani. Questo fatto è dovuto, soprattutto, all'incapacità dei paesi europei di realizzare un programma comune, basato su una seria collaborazione tecnica e finanziaria, e alle conseguenze di scelte sbagliate, malgrado il fatto che, in alcuni settori, l'industria europea regga bene il confronto qualitativo con quella statunitense. L'industria aeronautica civile degli Stati Uniti, per contro, ha saputo fare scelte e programmi appropriati alle esigenze del traffico e ha potuto utilizzare, inoltre, i notevoli apporti scientifici, tecnologici ed economici dei programmi militari e spaziali.
Per queste ragioni, le configurazioni e le prestazioni dei velivoli più avanzati del prossimo futuro saranno fortemente influenzate dagli Stati Uniti.
b) Volume del traffico e previsioni sul suo sviluppo.
Al volume totale del traffico aereo civile contribuiscono i servizi ‛regolari' e ‛non regolari' delle società di trasporto aereo e un settore della cosiddetta ‛aviazione generale'. I dati che riportiamo qui appresso sono tratti in gran parte dai bollettini dell'OACI (Organizzazione dell'Aviazione Civile Internazionale).
Il traffico aereo passeggeri viene normalmente espresso in p-km (passeggeri-chilometri) e quello delle merci e della posta in t-km. Il traffico complessivo di passeggeri, merci e posta è dato in t-km, attribuendo al passeggero con relativo bagaglio un peso convenzionale di circa 90 kg. (È interessante notare che sul traffico complessivo suddetto, nel 1979, quello internazionale ha inciso, secondo statistiche OACI, per il 47,4%).
Il traffico aereo non regolare è in gran parte internazionale e, per quanto riguarda il trasporto passeggeri, nel 1979 ammontò a 69,2 miliardi di p-km trasportati da trasportatori non regolari più 33,3 miliardi di p-km trasportati da trasportatori regolari, per un totale di 102,5 miliardi di p-km. Se a questi si aggiungono i 440,1 miliardi di p-km trasportati dai servizi aerei regolari, si ha, per quel che riguarda il traffico internazionale di passeggeri nel mondo, relativo al 1979, un totale generale di 542,6 miliardi di p-km trasportati.
Per il settore speciale dell'aviazione generale, che si occupa di lavoro aereo commerciale (agricoltura, rilevamenti fotografici e topografici, ecc.), non si hanno dati su scala mondiale relativi alla natura e allo sviluppo della sua attività. È stato tuttavia stimato che, nel 1978, gli aeromobili dell'aviazione generale degli Stati membri dell'OACI hanno volato per più di 46 milioni di ore, di cui il 67%, ossia circa 30,9 milioni di ore, per affari, turismo e lavoro, e il restante 33%, pari a circa 15,1 milioni di ore, per istruzione e altre attività.
Per quanto riguarda le previsioni di massima sullo sviluppo del traffico aereo su scala mondiale, riportiamo nella tab. III alcuni dati relativi al 1990, basati in parte su indicazioni fornite dal direttore generale dell'IATA alla IV Conferenza mondiale degli aeroporti (1971). Occorre osservare che queste previsioni sono anteriori alla crisi energetica che si è manifestata apertamente nell'ottobre del 1973 e che già nel 1974 ha influenzato negativamente il traffico aereo.
La flg. 10 dà l'andamento del traffico regolare di passeggeri e di merci per gli Stati aderenti all'OACI, dal 1970 al 1979, con un'estrapolazione sino al 1989.
c) Flotta aerea commerciale e dell'aviazione generale.
La fig. 11 dà un'idea complessiva della dislocazione del parco di aeromobili civili esistenti nel mondo alla fine del 1970, che comprendeva 4.000 elicotteri e 185.000 aeroplani: dal più piccolo monomotore privato a elica al grande quadrimotore da trasporto a getto delle società di trasporto.
Un'analisi dettagliata della composizione e della consistenza della flotta aerea è effettuata annualmente dall'OACI, che scinde il parco di aeromobili civili degli Stati a essa aderenti in due grandi gruppi: aeromobili da trasporto commerciale, esclusi quelli di peso inferiore a 9.000 kg, e aeromobili dell'aviazione generale (per mancanza di dati non sono incluse Cina e Unione Sovietica). La consistenza numerica della flotta del primo gruppo e la sua composizione in base al tipo di motopropulsore, alla data del 31 dicembre 1979, sono riportate nella tab. IV. L'andamento della composizione percentuale dal 1964 al 1979 risulta dal diagramma della fig. 12, il quale mette in evidenza la tendenza verso il graduale abbandono delle motoeliche, una espansione dei turbogetti e una presenza percentuale all'incirca costante delle turboeliche. Ciò è confermato anche dal fatto che le società aeree di trasporto commerciale aderenti all'OACI nel 1979 hanno ordinato 576 velivoli a turbogetto, 91 a turboelica e nessuno a motoelica.
Gli aeromobili dell'aviazione generale che figurano immatricolati al 31 dicembre 1978 negli Stati aderenti all'OACI ammontano a circa 290.000, di cui il 97% ad ala fissa e il 3% ad ala rotante (v. fig. 13). Questi aeromobili, che comprendono ogni tipo di aeromobile civile, vengono impiegati per uso personale - per diporto e per affari -, per ricerche geofisiche, in agricoltura, come taxi aerei e nei voli charter per trasporto di merci e passeggeri. In base al tipo di propulsore i velivoli in questione sono ripartiti come risulta dalla tab. V.
Se in luogo del numero dei velivoli ci si riferisce alla potenza globale installata, diventa preponderante percentualmente la propulsione con turbogetti, perché l'impiego dell'elica è limitato alle potenze relativamente piccole, mentre la potenza della spinta dei singoli turbogetti è relativamente molto elevata.
In conclusione, riferendosi al numero dei velivoli dell'intera flotta aerea civile esistente, è preponderante la presenza dell'elica rispetto a quella dei turbogetti, mentre riferendosi alla potenza globale installata è preponderante quella dei turbogetti.
Va notato infine che, per quanto riguarda il volume del traffico totale regolare in relazione al tipo di motopropulsore, nel 1973 il 94% è stato svolto da velivoli a turboreattori e il restante 6% è stato svolto da velivoli a elica (moto e turboelica).
d) Incidenti e sicurezza nel trasporto aereo passeggeri.
Per quanto riguarda la sicurezza nell'aviazione civile, si può affermare che nel complesso è nettamente aumentata. È difficile stabilire l'influenza che i singoli componenti del sistema di trasporto hanno su questo risultato, a causa della loro interdipendenza. Quel che si può dire è che ogni passo avanti in tema di sicurezza consegue ai miglioramenti tecnici apportati ai velivoli, in ogni loro parte e nel loro complesso, e dipende dal tipo di velivolo, come dimostra il fatto che il tasso di passeggeri deceduti in incidenti occorsi a velivoli a turbogetto è nettamente inferiore a quello relativo ai velivoli a elica. Secondo l'OACI ciò è dovuto alla maggiore affidabilità tecnica dei velivoli a turbogetto rispetto a quelli a elica, e al fatto che i primi sono assistiti da un sistema di attrezzature e di servizi più perfezionato (v. fig. 14).
Nei servizi regolari il numero degli incidenti mortali per 100 milioni di chilometri percorsi è sceso da 1,15 nel 1960 a 0,35 nel 1979 e il numero di passeggeri morti in tali incidenti, su 100 milioni di p-km, è sceso da 0,8 nel 1960 a 0,1 nel 1979. Nello stesso periodo il numero di morti all'anno in incidenti aerei ha registrato un minimo di 450 nel 1975 e un massimo di 1.280 nel 1974. Nel campo dei voli non regolari, il numero dei passeggeri morti in incidenti aerei, per 100 milioni di p-km, è stato nel 1973 circa il doppio di quello dei servizi regolari. Per l'aviazione generale non esistono statistiche mondiali; dai dati relativi all'aviazione generale degli Stati Uniti, che svolge l'80% circa del volume mondiale delle attività dell'aviazione generale, risulta che nel 1973, fra membri dell'equipaggio e passeggeri, sono decedute in incidenti aerei 2,5 persone per 100.000 ore di volo.
Questi risultati, e il fatto che essi presentino una netta tendenza al miglioramento, mentre evidenziano i progressi fatti per quel che riguarda la sicurezza dei trasporti aerei, lasciano intravedere ulteriori progressi futuri.
3. I velivoli e gli elicotteri.
a) Gli aeroplani leggeri per trasporto passeggeri.
I sistemi di trasporto risentono in misura diversa degli effetti della crisi del petrolio; questi saranno certamente maggiori per quei sistemi che impegnano veicoli a più alto consumo rispetto alla capacità di trasporto, cioè veicoli con un più basso valore del fattore di utilizzazione dell'energia.
Per ridurre i consumi nei trasporti è quindi necessario, tra l'altro, aumentare il fattore f; perciò diventerà sempre più importante incrementare l'efficienza aerodinamica e strutturale delle macchine aeree e, soprattutto, il rendimento globale del gruppo motopropulsore.
Veicoli aerei più economici degli attuali dal punto di vista energetico si potranno realizzare nel campo delle alte velocità subsoniche con l'impiego di motori a getto ad alti rapporti di diluizione.
Anche i velivoli a turboelica nel campo delle velocità inferiori a 0,60 ÷ 0,65 Mach saranno oggetto di una rinnovata attenzione, in quanto particolarmente indicati per i collegamenti aerei a breve e media distanza, fra piccole e medie città, dove non esistono aeroporti adatti agli attuali aviogetti di linea.
In generale si può dire che l'impiego degli aeroplani su campi corti consentirà un netto sviluppo dell'aviazione civile; si punterà a utilizzare più intensamente gli attuali aeroporti e a sviluppare servizi ‛regionali' sfruttando piccoli aeroporti esistenti. I servizi regionali rappresentano, infatti, uno dei serbatoi più importanti e redditizi di clienti, in quanto non richiedono infrastrutture particolarmente costose, alleggeriscono il traffico sui grandi aeroporti e costituiscono la più avanzata forma di competizione del trasporto aereo col trasporto terrestre e, in qualche caso, con quello marittimo. In Canada, per esempio, è in atto un collegamento intercittà con un nuovo aeroplano quadrimotore della De Havilland del Canada a basso consumo e silenzioso (v. fig. 15). Un altro esempio è la rete di collegamenti aerei a livello regionale costituita in Francia dall'Associazione dei trasportatori (v. fig. 16), che impiega aeroplani relativamente piccoli (20 ÷ 40 posti), capaci di atterrare e decollare, con dispositivi convenzionali, in breve spazio in modesti aeroporti e anche su terreni semipreparati (v. tab. VI).
b) Gli aeroplani da trasporto di medio tonnellaggio con capacità di decollo e atterraggio corto (STOL).
Si parla spesso di velivoli STOL (Short Take 0ff and Landing), ma sarebbe più corretto parlare di velivoli con capacità STOL, cioè capaci di atterrare e decollare, o meglio di operare, su campi relativamente piccoli.
Non esiste una norma che precisi la lunghezza convenzionale dei campi, ma questa viene data a seconda delle esigenze, che cambiano in base all'impiego. Così, per esempio, l'OACI descrive gli aeroplani STOL come quelli che richiedono una pista lunga 450 m, o meno, al peso massimo ammesso. La fig. 17 illustra schematicamente le differenze fra velivoli con capacità STOL e velivoli a decollo e atterraggio verticale (VTOL).
Spesso nella letteratura si incontrano anche le sigle QSTOL e RSTOL, dove la Q sta per quiet (silenzioso) e la R sta per reduced (moderato, ridotto). Infatti gli studi sullo STOL sono collegati a quelli sulla riduzione del rumore dei motori, in quanto, per ottenere un aumento della portanza dell'ala, si utilizzano getti a velocità ridotta dei turboreattori o eliche a grande diametro e a bassi giri e si ottiene in conseguenza una riduzione del rumore.
Sarebbe forse utile aggiungere un'altra sigla per esprimere la capacità di un velivolo di operare su campi semipreparati o addirittura su terreni erbosi, come erano quasi tutti i campi d'aviazione prima della seconda guerra mondiale. Va notato che uno STOL potrebbe essere realizzato anche senza ricorrere ai sistemi di ipersostentazione, adottando bassi carichi alari, ma ciò praticamente non è accettabile, perché comporterebbe una grande penalizzazione nella velocità massima e nel carico pagante. Il problema dello STOL è, quindi, connesso principalmente con quello del conferimento al velivolo di una più grande capacità di portanza a parità di superlicie alare ed è ben noto che qualunque sistema per aumentare la portanza (sia che operi sull'ala sia che operi indipendentemente da questa) deve necessariamente imprimere una quantità di moto supplementare, opportunamente diretta, a una massa d'aria. Infatti, superata una certa incidenza, l'ala perde la sua capacità portante e il velivolo va in stallo e può precipitare in vite. Lo stallo è un fenomeno al quale non si sottraggono neanche le ali degli uccelli; ma questi possono ritardare il fenomeno e correggerlo istantaneamente, modificando la conformazione dell'ala e aiutandosi con dei ‛colpi d'ala'. Ciò non è evidentemente possibile con le ali fabbricate dall'uomo, fisse alla fusoliera. In più di 40 anni di studi e di ricerche è stato raggiunto, mediante adatti e complicati meccanismi applicati alle ali, un valore del coefficiente massimo di portanza circa 3 volte maggiore di quello delle ali semplici degli anni venti.
Gli studi sulla ipersostentazione ebbero origine dopo la prima guerra mondiale. Un pilota austriaco di quell'epoca, l'ing. G. Lachmann, mentre si trovava in ospedale per le ferite riportate in seguito a una caduta col suo velivolo che era andato in stallo, ebbe l'idea di munire le ali di alette sul bordo d'attacco, proprio allo scopo di ritardarne lo stallo. Egli si associò a un costruttore inglese, sir F. Handley-Page, che aveva avuto la stessa idea, e insieme continuarono il lavoro in questo campo.
Alla fine degli anni venti negli Stati Uniti comparvero le alette poste sul bordo posteriore dell'ala, che avevano lo stesso scopo, ma in aggiunta permettevano di aumentare la ripidità della discesa del velivolo nell'avvicinamento, senza aumentare la velocità, correggendo la debole pendenza della fase di avvicinamento tipica dei monoplani, che proprio in quell'epoca cominciavano a sostituire i biplani con le loro complesse travature.
I dispositivi meccanici (alette sul bordo di attacco e sul bordo d'uscita delle ali) hanno assunto forme complesse (v. fig. 18), che contribuiscono non solo all'aumento della portanza alare, ma anche alla risoluzione di problemi di stabilità e di resistenza, particolarmente gravi nelle fasi di decollo e di atterraggio. In qualche velivolo a elica ai dispositivi meccanici è stato aggiunto il soffiamento dell'ala o delle alette con la scia delle eliche, che viene così anche deflessa (v. fig. 19).
Nei turboreattori è possibile realizzare un'integrazione dell'ala, delle alette e dei motori e ricorrere al soffiamento sulle alette sia di tipo esterno, mediante l'utilizzazione diretta del getto, sia di tipo interno, mediante aria prelevata dai motori. In quest'ultimo caso si parla di ‛portanza potenziata' o ‛portanza propulsiva' (v. fig. 20). Con gli ipersostentatori meccanici è stato raggiunto un valore massimo del coefficiente di portanza dell'ala di circa 2,6. Con il soffiamento degli ipersostentatori, di tipo esterno o interno, si presume che si possano raggiungere valori del coefficiente di portanza di circa 4 (v. fig. 21).
Un ulteriore aumento della portanza si può ottenere attraverso il ‛controllo diretto' dello strato limite dell'ala o col cosiddetto jet flap (v. fig. 22), ma le ricerche svolte hanno dimostrato che difficilmente questi due sistemi potranno essere realizzati entro breve termine, anche a causa dei costi che essi comportano.
In pratica sui velivoli da trasporto l'applicazione degli ipersostentatori è limitata attualmente a quelli meccanici. Le forme di soffiamento esterno avranno un pratico impiego a breve termine, mentre l'applicazione delle forme, più complesse, di soffiamento interno richiede un'ulteriore elaborazione, in quanto questi ultimi sistemi comportano problemi di consumo di combustibile, di costo, di peso e di sicurezza molto complessi, non ancora adeguatamente risolti.
L'impiego pratico nell'aviazione civile di velivoli con capacità STOL è limitato attualmente ad alcuni eccellenti tipi di aeroplani leggeri aventi un carico alare moderato e ipersostentatori meccanici molto estesi, e quindi relativamente lenti.
I tentativi fatti finora per realizzare velivoli da trasporto di medio e grande tonnellaggio STOL, capaci di prestazioni non inferiori a quelle dei moderni velivoli convenzionali in servizio, non hanno avuto successo, ma negli Stati Uniti si stanno costruendo velivoli da trasporto militari STOL, molto interessanti in vista delle applicazioni in campo civile. Il programma, denominato AMST (Advanced Medium STOL Transports), prevede l'entrata in servizio negli anni ottanta di aeroplani da trasporto capaci di decollare e atterrare entro 600 m circa, con un carico pagante di 18.000 kg, dotati di un vano di carico di grandi dimensioni (3,6 × 3,6 × 14,6 m) e in grado di raggiungere una velocità di crociera di 0,7 Mach (v. fig. 23). I sistemi di ipersostentazione sono basati su nuovi concetti circa l'ipersostentazione meccanica con soffiamento esterno e permetteranno di raggiungere un coefficiente massimo di portanza superiore del 60% circa a quello dei più avanzati aeroplani da trasporto attualmente in servizio (v. fig. 24). I risultati del programma AMST costituiranno la base per stabilire criteri realistici per il pratico impiego di velivoli civili su piste corte. L'aviazione civile ancora una volta potrà trarre da queste realizzazioni, fatte per conto e a spese dell'aeronautica militare, elementi di grande utilità; è quindi probabile che negli anni ottanta gli aeroplani civili di medio tonnellaggio saranno di tipo STOL, cioè capaci di decollare e atterrare su piste di 2.000 piedi (600 m) circa.
Parallelamente a queste realizzazioni di velivoli destinati a entrare nell'impiego, procedono gli studi e le ricerche su soluzioni più avanzate del problema dell'ipersostentazione alare. Tra queste merita una particolare considerazione l'esperienza in corso su un velivolo Buffalo della De Havilland del Canada (v. fig. 25), munito di due motori a getto ad alto fattore di diluizione che prelevano aria, la quale, a mezzo di un ugello interno a fessura, viene soffiata tra gli elementi superiore e inferiore dell'ipersostentatore, che è a geometria e configurazione variabile (v. fig. 26). Si tratta di un importante esperimento per un ulteriore avanzamento nel campo dell'ipersostentazione, e se i risultati tecnici, com'è probabile, confermeranno la validità del concetto, dovranno essere risolti i problemi della praticità, della sicurezza di impiego e dei costi di esercizio. In tal modo sarà possibile un'ulteriore riduzione della lunghezza delle piste rispetto ai 600 m; ma ciò, secondo previsioni di esperti americani, non potrà avvenire, per quel che riguarda l'aviazione civile, a breve termine.
c) I velivoli da trasporto merci di grande tonnellaggio.
Il rapido e spettacolare incremento del trasporto delle merci per via aerea e le prospettive del suo ulteriore sviluppo hanno condotto a considerare la possibilità di adottare velivoli concepiti espressamente per il servizio merci in luogo di versioni cargo derivate da aeroplani passeggeri, come avviene normalmente. In questi ultimi, infatti, la forma e le dimensioni della fusoliera, generalmente cilindrica a sezione circolare, sono dettate da considerazioni di economia dei costi di produzione e dalla possibilità di allungare la fusoliera per aumentarne la capacità senza andare incontro a costi addizionali eccessivi; la forma delle fusoliere dei velivoli da carico è invece vincolata, principalmente, da due dati di progetto che sono in un certo grado indipendenti: la capacità volumetrica e la capacità dimensionale. Per questa ragione, in alcuni velivoli da carico, la fusoliera è stata sostituita da un corpo centrale, denominato ‛navicella', che contiene, oltre ai carichi, la cabina di pilotaggio, e dalle travi di coda, che collegano gli impennaggi direttamente all'ala. Questa soluzione evidentemente facilita le operazioni di carico e scarico del materiale, ed è stata realizzata in numerose versioni (v. fig. 27).
Ma nella maggioranza dei velivoli da carico sussiste la fusoliera, la quale, oltre ad assolvere alla sua funzione di contenitore dei carichi e di supporto degli impennaggi, assume forme adatte al rapido carico e scarico delle merci ed è dotata di portelloni anteriori o laterali, o di aperture posteriori munite inferiormente di appositi sportelloni che fungono in certi casi anche da rampe di accesso (v. fig. 28).
Il più grande aeroplano cargo esistente è il Boeing 747 F, una versione cargo del 747 già da tempo in servizio sull'Atlantico (la compagnia Lufthansa è stata la prima a impiegare questo aereo, sin dal 1972). La fig. 29 mostra l'interno del ponte superiore dell'aereo, opportunamente rinforzato e predisposto per l'utilizzazione di adatti contenitori; vi si accede da una grande apertura frontale di 2,45 × 2,60 m. Le operazioni di carico e scarico sono effettuate rapidamente mediante apposite attrezzature.
Per rendere i grandi velivoli atti al trasporto di contenitori occorre, naturalmente, aumentare adeguatamente la sezione trasversale della fusoliera, il che comporta un aumento del rapporto tra diametro e lunghezza rispetto agli attuali valori, che vanno dall'11 al 17% (v. fig. 30). Con ciò l'influenza della fusoliera sulla resistenza aerodinamica e sul peso del velivolo diventa sempre più preminente.
Lo sviluppo del trasporto merci per via aerea conduce a velivoli di grande tonnellaggio, perché è dimostrato che con l'ingrandimento dei velivoli si ottiene una riduzione dei costi diretti di esercizio. Dalla fig. 31, che riporta i costi diretti di esercizio in funzione del carico pagante, risulta che con l'introduzione del B 747 tali costi sono scesi a circa un terzo di quelli del B 727; dalla stessa figura risulta anche che un velivolo con 350 t di carico pagante avrebbe un costo diretto di esercizio per unità di carico trasportata di circa la metà rispetto al B 747, che ha un carico pagante massimo di circa 120 t.
Naturalmente lo sviluppo del trasporto merci per via aerea richiede dei collegamenti con i trasporti su rotaia, su strada e via mare; a questo scopo è essenziale disporre di containers utilizzabili su strada e su ferrovia, per cui si sta sviluppando la tendenza a costruire containers di misure standard, larghi e alti 8 piedi e lunghi 10, 20, 30 o 40 piedi.
Il progetto dei futuri velivoli cargo di grande tonnellaggio è diretto ad aumentare la densità del carico usando i containers, in modo che l'utilizzazione del volume della fusoliera, che negli attuali velivoli cargo derivati dalla versione passeggeri è dell'ordine del 75%, divenga completa. Tra i tanti progetti proposti citiamo un esamotore a turbogetto capace di trasportare su una distanza di 7.000 km un carico di 180 t in 100 contenitori disposti su due piani (v. fig. 32).
Visto che la maggior parte del trasporto merci tra continenti avviene fra porti, nei quali già esistono sistemi di carico, scarico e inoltro delle merci, la Società Dornier ha studiato un grande idrovolante adatto al trasporto merci. Questo idrovolante dovrebbe decollare e ammarare su adatti specchi d'acqua vicini ai porti e utilizzare con modifiche relativamente modeste le attrezzature di carico e scarico già esistenti. La rete mondiale per un simile servizio intercontinentale basato su containers utilizzerebbe pochi porti adeguatamente attrezzati.
L'idrovolante della Dornier avrebbe un peso totale di 1.000 t e trasporterebbe un carico pagante di 380 t su 7.400 km (v. fig. 33). L'apertura alare sarebbe di 100 m, lo scafo largo 12,5 m e il compartimento di carico, lungo 60 m, alto 6 e largo 10, sarebbe adatto a ricevere 50 containers di 8 × 8 × 20 piedi. Il velivolo sarebbe munito di attrezzature di carico e scarico, avrebbe 10 turboreattori con una spinta totale di 330 t e raggiungerebbe una velocità di 820 km/h a 10.000 m di quota.
Sono stati proposti anche aeroplani per il trasporto del petrolio grezzo e del gas naturale liquefatto, provenienti da regioni dell'Artico difficilmente accessibili ad altri mezzi di trasporto e destinati ai mercati del Canada meridionale: aeroplani giganti che utilizzano il concetto di carico distribuito. Una configurazione presa in esame è riprodotta nella fig. 34. Il velivolo, dal peso totale di 1.600 t, potrebbe trasportare un carico pagante di combustibile liquido naturale in tubi fungenti anche da longheroni lungo l'apertura alare (257 m).
Il sistema basato su tale tipo di velivolo dovrebbe avere una capacità giornaliera di trasporto di 85 milioni di metri cubi di gas naturale liquido. Purtroppo, per quanto questo sistema sembri efficiente, non c'è un mercato sufficiente a giustificare, almeno per ora, i relativi costi di sviluppo.
d) L'aeroplano passeggeri supersonico.
Il supersonico da trasporto passeggeri è attualmente oggetto di vivaci polemiche e in effetti, prima che possa diventare una realtà operante nel suo campo di impiego - che resterà limitato a certe linee su grandi distanze e di grande traffico -, bisognerà trovare soluzioni soddisfacenti ai problemi del rumore, dell'inquinamento atmosferico e dei costi totali di esercizio. Ciò non avverrà prima di alcuni anni, anche se realizzazioni imponenti come il Concorde (v. fig. 35) e il Tupolev 144 sono già in esercizio.
Il velivolo da trasporto passeggeri supersonico si affermerà in pratica solo quando il suo costo di esercizio non sarà superiore a quello dei grossi velivoli da trasporto subsonici. Sino ad allora (passeranno forse due decenni), il supersonico a Mach 2½ ÷ 3 per passeggeri costituirà oggetto di studi e di ricerche. Il problema dei costi sarà comunque risolto nel senso più favorevole, anche perché il supersonico, in conseguenza della sua alta velocità, risulta altamente produttivo, purché sia dimensionato sulla base di una capacità di carico di circa 300 passeggeri, come suggeriscono i risultati di accurati studi americani. Occorre inoltre che si possa disporre in termini di pratica utilizzazione del motore a ciclo variabile, che consente vantaggi notevoli, per quel che riguarda il consumo di carburante, sia a velocità subsonica sia a velocità supersonica (v. cap. 4). Infine è indispensabile che sia risolto, entro i limiti di sicurezza stabiliti per l'aviazione commerciale ed entro limiti di peso e di costo accettabili, il problema dell'ala a geometria variabile.
L'ala a geometria variabile è un'ala che, a seconda delle condizioni di volo, cambia la sua configurazione in pianta o la sua ‛geometria', a comando del pilota, passando dalla posizione diritta di grande allungamento a quella a freccia (v. fig. 36). Essa consente, con la sua posizione in avanti (configurazione di bassa velocità), decolli e atterraggi più corti e consumi di combustibile più bassi rispetto all'ala a freccia, mentre, con la sua posizione all'indietro (configurazione di alta velocità), consente il volo supersonico in condizioni ottimali.
L'ala a freccia è un'ala il cui bordo d'attacco forma un angolo relativamente grande con la direzione di volo. Con quest'ala si riesce a differire a velocità più elevate le perturbazioni che nascono nel volo transonico. L'aria, infatti, è compressibile e, quando la velocità del velivolo si avvicina a quella con la quale si trasmettono nel fluido le onde elastiche - che è anche la velocità alla quale si propaga il suono nell'aria -, si formano delle cosiddette ‛onde di pressione', che tendono ad aumentare la resistenza aerodinamica del velivolo e a ridurre la portanza dell'ala. Questi fenomeni diventano particolarmente critici quando il velivolo raggiunge la velocità del suono o, come si dice, supera la ‛barriera del suono'. Un modo efficace per differire a velocità più alte questi fenomeni e per ridurne gli effetti è l'adozione di ali a freccia. È vero che chi per primo ha superato la barriera del suono, il pilota militare statunitense C. Yeager (14 ottobre 1947), lo ha fatto con un aeroplano sperimentale ad ala diritta (v. fig. 37), ma va tenuto presente che il balzo alla velocità supersonica fu ottenuto con la spinta supplementare di un razzo ed ebbe la durata di pochi secondi.
Non è chiaro chi abbia proposto per primo l'ala a freccia: secondo quanto racconta in un suo libro uno dei fondatori della moderna aerodinamica, Th. von Kàrmàn, la prima trattazione scientifica al riguardo è stata presentata a Roma, nel 1934, a un Convegno promosso dalla Reale Accademia d'Italia e dedicato alle alte velocità in aviazione, da uno scienziato tedesco, A. Blisemann, che successivamente divenne cittadino americano. Le proprietà dell'ala a freccia furono studiate sperimentalmente, e alla fine della seconda guerra mondiale l'ala a freccia venne adottata in America e successivamente negli altri paesi su tutti gli aeroplani transonici e supersonici.
Alcuni progettisti hanno adottato anche l'ala falcata e a mezza luna, in cui l'angolo fra bordo d'attacco e direzione di volo varia gradualmente dalla radice all'estremità, seguendo in tal modo la diminuzione di spessore dell'ala.
Un'altra forma di ala successivamente adottata è quella ‛a delta' che, conservando i vantaggi dell'ala a freccia, permette, tra l'altro, di realizzare spessori relativi sottili, pur mantenendo uno spessore effettivo ragguardevole.
La messa a punto dell'ala a geometria variabile (v. fig. 38), di cui si è già detto, comporta la risoluzione di formidabili problemi di ingegneria e la sua realizzazione ottimale, nel rispetto dei requisiti di peso e di costo imposti dall'aviazione commerciale, ancorché certa, non appare immediata. Per questa ragione ci sembra probabile che essa verrà adottata nel supersonico passeggeri della seconda generazione, come del resto era previsto nei progetti iniziali americani (v. fig. 39).
e) L'aeroplano a decollo e atterraggio verticale (VTOL) e l'elicottero.
Mentre i velivoli STOL utilizzano le ali e gli organi di governo per il sostentamento, il controllo e la manovra in tutte le fasi del volo, dal distacco dal suolo sino al contatto col suolo nell'atterraggio, i velivoli VTOL (Vertical Take 0ff and Landing) decollano e atterrano senza rullaggio, compiendo una fase di volo detta di ‛transizione' (che va dalla velocità di avanzamento zero a quella minima di sostentamento aerodinamico dell'ala), nella quale le funzioni portante, di controllo e di manovra vengono effettuate mediante altri sistemi operatori (eliche, ventole, rotori, getti). I velivoli VTOL e STOL sono quindi fondamentalmente diversi tra loro e in conseguenza anche i costi di esercizio e di investimento e le infrastrutture richieste saranno necessariamente molto differenti.
Occorre notare che, se un velivolo VTOL è in sovraccarico od opera in un aeroporto situato a quota elevata, perde in tutto o in parte le sue capacità di decollo e atterraggio verticale e diventa uno STOL. Per questo motivo si parla spesso di velivoli V/STOL; per le stesse ragioni un velivolo STOL può diventare convenzionale (CTOL).
La storia del VTOL ha avuto il suo inizio nel 1953, con il volo dell'aeroplano francese Farfadet (v. fig. 40) - dotato di un rotore azionato da una turbina, di un'ala fissa e di un'elica a passo variabile mossa da un'altra turbina - e con la presentazione, avvenuta a Farnborough nel 1954, del Flying Test Bed della Rolls-Royce (v. fig. 41), che consentiva al pilota di sollevarsi, dirigersi e manovrare nell'aria mediante getti di gas generati da due turbogetti R. R. Nene. Da allora sono stati realizzati e sperimentati più di 20 differenti velivoli VTOL negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e in Germania, e ciò è avvenuto soprattutto per l'interesse preminente dell'aviazione militare, che in grandissima parte ha diretto e finanziato i programmi sperimentali. I sistemi adottati sono numerosi: l'ala basculante insieme ai motori e alle eliche (v. fig. 42); le ventole inserite nelle ali; le eliche libere o intubate basculanti portate dalle ali (v. fig. 43); i getti vettorialmente orientabili e una combinazione di motori lift e motori propulsivi distinti (v. fig. 44). Queste stesse tecniche e altre analoghe potrebbero essere adottate in futuro nei velivoli passeggeri per il collegamento tra i centri di città vicine, ma circa l'impiego del velivolo da trasporto a decollo e atterraggio verticale sui tragitti urbani e interurbani esistono molti dubbi. È quindi difficile fare una previsione, anche se tale velivolo continua a suscitare interesse perché potrebbe allargare l'area d'impiego dell'aeroplano.
L'utilizzazione del VTOL richiederebbe la messa in opera di un sistema che rispondesse a determinati requisiti, cioè che fosse dotato dei dispositivi necessari alla guida nell'avvicinamento, che rispettasse le specifiche relative al superamento degli ostacoli nelle aree di arrivo e di partenza e le restrizioni riguardanti il rumore, ecc.; a tale scopo alcuni Stati hanno cominciato a studiare un sistema di questo tipo. La conclusione è che l'applicazione nel campo civile di velivoli VTOL non sembra realistica, perché, a parte il fatto che lo sviluppo di simili velivoli non sarebbe possibile senza una collaborazione internazionale e senza un opportuno mercato civile e militare, gli aeroporti per i VTOL nel centro delle città non sono accettabili per motivi di costo, rumore e sicurezza.
L'elicottero, invece, si è affermato come mezzo particolare di trasporto e, grazie anche all'importanza che ha assunto come veicolo militare, è destinato a subire una notevole evoluzione tecnica, specie per quel che riguarda la sicurezza e la redditività di esercizio.
L'architettura attualmente più seguita è composta essenzialmente da un rotore principale multipale ad asse sostanzialmente verticale, cui sono affidate la portanza, la trazione e il controllo di rollio e di beccheggio, e da un rotore posteriore ad asse orizzontale che assicura il bilanciamento della coppia di reazione del rotore principale e il controllo della macchina secondo l'asse verticale (imbardata). La potenza dai motori ai rotori è trasmessa ormai unicamente per via meccanica.
L'elicottero ha raggiunto una notevole maturità grazie ai seguenti fattori: adozione del motore a turbina, più leggero e sicuro del motore a scoppio; adozione di pale in materiali compositi (fibre di vetro, carbonio o tessuti diversi impregnati con resine termoindurenti), che hanno permesso strutture poco sensibili alla propagazione di cricche e perciò molto resistenti alla rottura a fatica; graduale raffinamento della trasmissione meccanica della potenza, che può ormai raggiungere livelli veramente notevoli di affidabilità e durata fra le revisioni.
I compiti principali che gli elicotteri sono chiamati ad assolvere sono i servizi di sorveglianza, di soccorso, di trasporto di grandi carichi in luoghi inaccessibili ad altri mezzi, i collegamenti con le basi per il personale addetto alle piattaforme marine per ricerche ed estrazioni petrolifere, il lavoro in agricoltura, ecc. Per contro l'impiego dell'elicottero nel servizio regolare di linea per trasporto passeggeri non ha avuto il successo che ci si attendeva. Sin dal 1950 numerose società di trasporto, in Europa e negli Stati Uniti, avevano stabilito servizi interurbani regolari per passeggeri tra grandi centri. Dopo un periodo più o meno lungo di esercizio, l'iniziativa è stata abbandonata a causa dei costi elevati e dell'impossibilità, dovuta a motivi di sicurezza, di utilizzare aree per la partenza e l'arrivo nel centro delle grandi città.
f) Gli aeroplani passeggeri dei prossimi anni. Scelte europee.
Sino alla fine del 1973, cioè prima della crisi energetica, l'industria aeronautica ha potuto contare su un'ampia disponibilità di combustibile a basso costo. Attualmente lo sviluppo dei velivoli da trasporto è affidato, e lo sarà ancor più negli anni a venire, a tecnologie costruttive e operative tese a realizzare una maggiore efficienza nell'utilizzazione del combustibile, ovvero più alti valori del fattore di utilizzazione dell'energia. Questo obiettivo si raggiunge agendo su tutti i componenti del sistema dei trasporti aerei (aeroplani, operazioni di volo, controllo del traffico, fattore di riempimento e densità dei posti, ecc.).
Sulla base dei dati ufficiali pubblicati dal Civil Aeronautics Board negli Stati Uniti, relativi al consumo di combustibile di alcuni velivoli delle linee aeree americane nel 1972, abbiamo calcolato il relativo fattore di utilizzazione dell'energia nell'ipotesi di un fattore di riempimento dei posti del 100%.
La fig. 45 riporta il fattore fin funzione della lunghezza media del percorso e riguarda le varie versioni degli aeroplani DC 9, B 727, B 737, DC 10, B 747, ecc. Come si vede, i valori di f vanno da un minimo di 0,3 per le brevi tratte a un massimo di 0,65 circa per le tratte lunghe: f tende cioè ad aumentare con la lunghezza della tratta. L'analisi dei singoli tipi di velivoli dimostra, inoltre, che f è maggiore per le versioni allungate che per quelle originali e che i velivoli più moderni di grande tonnellaggio e capacità (L 1011, DC 10 e B 747) hanno i massimi valori di f.
Partendo da questi risultati e da altri elementi ricavati dall'esercizio delle linee aeree americane, le più grandi ditte aeronautiche, in collaborazione con la NASA, hanno condotto approfonditi e interessanti studi sulle diverse possibilità. In sostanza si tratterà di migliorare le metodologie di impiego e operative, di modificare i velivoli attualmente in produzione, di costruire velivoli completamente nuovi. Poiché è difficile esporre i risultati di questi studi in poche righe, ci limiteremo a riassumere le conclusioni relative all'andamento prevedibile del consumo di combustibile per p-km dal 1973 al 2000. Per maggiore chiarezza e concisione abbiamo elaborato i risultati facendo ricorso al nostro fattore di utilizzazione dell'energia.
Sono state ipotizzate tre soluzioni per lo sviluppo della flotta aerea e del traffico passeggeri nei prossimi anni sino al 2000: a) aggiornamento della flotta attuale, sia con la sostituzione graduale dei vecchi tipi di velivoli con quelli attualmente in produzione, sia con miglioramenti di carattere operativo e di impiego; b) produzione di nuovi tipi di velivoli derivati da quelli attualmente in produzione (Douglas, Boeing e Lockheed) e loro graduale immissione in servizio; c) progettazione di tipi di aeroplani completamente nuovi, col ricorso a tecnologie molto avanzate in tutti i settori (aerodinamico, motopropulsivo e dei materiali), e loro graduale immissione in servizio.
Per quel che riguarda la prima soluzione, sono già stati messi in atto, presso le società di navigazione aerea, provvedimenti tesi a realizzarla, quale l'incremento della densità dei posti, ottenuto aumentando la capienza della classe turistica a scapito della prima classe e riducendo il passo della poltrona a spese della comodità dei passeggeri. Inoltre è in corso la sostituzione graduale dei vecchi velivoli con quelli di produzione corrente. Questi provvedimenti, unitamente all'adozione di procedure di volo atte a far risparmiare combustibile e all'attuazione di un nuovo e più progredito sistema di controllo del traffico aereo, porterebbero il valore medio del fattore f della flotta aerea commerciale da 0,29 (1973) a 0,41, nel 1985, cui corrisponde un'economia di combustibile per p-km che raggiungerebbe al massimo il 29% e si stabilirebbe su tale valore.
Con la seconda soluzione si procederebbe all'ammodernamento della flotta, sostituendo gradualmente i velivoli in servizio con velivoli nuovi, derivati però dagli attuali tramite allungamento delle fusoliere, introduzione di nuove ali con profili aerodinamici ‛supercritici' e di maggiore allungamento, alleggerimento delle strutture secondarie mediante l'impiego di strutture composite e installazione di motori più moderni.
Si potrebbe, in tal caso, raggiungere gradualmente, nel 2000, il valore f = 0,49, corrispondente a un'economia di combustibile per p-km del 39%, mentre per il 1985 non si potrebbe ovviamente avere alcun beneficio rispetto alla prima soluzione.
La terza soluzione prevede la progettazione e la costruzione di velivoli completamente nuovi, basati su tecnologie molto avanzate, rispetto a quelle attuali, in tutti i settori (aerodinamico, motopropulsivo e dei materiali). La loro eventuale introduzione in servizio sarebbe più lontana nel tempo e quindi nel 1985 non si potrebbe avvertire alcun vantaggio rispetto alle precedenti soluzioni, ma si potrebbe giungere nel 2000 a un valore f = 0,6, corrispondente a un'economia di combustibile del 50% per p-km.
La prima soluzione consente, a breve termine, un risparmio sensibile di combustibile, mentre in una prospettiva a lunga scadenza si deve valutare attentamente quale delle altre due soluzioni convenga perseguire, tenendo presenti sia i vantaggi ottenibili sia i tempi di realizzazione.
Finora non è stata presa, negli Stati Uniti, alcuna decisione definitiva, mentre gli studi proseguono con grande intensità. La Douglas, la Boeing e la Lockheed hanno in elaborazione vari progetti, che sembrano per ora concentrati su due tipi di velivoli: uno da 160 passeggeri e l'altro da 220 passeggeri. Alcuni progetti punterebbero su tecnologie completamente nuove, altri sul perfezionamento di velivoli attuali.
Benché si debba ancora compiere un lungo lavoro di ricerca, anche per valutare i rischi economici che soluzioni completamente nuove comportano, è certo però che l'industria americana, tra non molto, farà le sue scelte che, evidentemente, saranno determinanti sul mercato mondiale. Pur assorbendo il 20% della produzione mondiale di aerei civili da trasporto, l'industria aeronautica europea ha prodotto nel 1974 solo il 7% del fatturato mondiale. Entro il 1974, in Europa sono stati costruiti 859 turbogetti civili, nel campo del piccolo e medio tonnellaggio, contro i 4.613 americani. Inoltre, quasi tutti i velivoli di grande tonnellaggio sono di produzione americana. Nel campo dell'aviazione generale nel 1973 sono state costruite negli Stati Uniti 14.000 unità, contro le 1.200 costruite in Europa.
Queste poche cifre dimostrano abbondantemente l'incapacità dell'Europa di organizzare uno sforzo collettivo unitario per imporsi sul mercato degli aeroplani civili. L'associazione dei costruttori europei di materiale aerospaziale non è mai riuscita a concludere un accordo valido sui grandi temi di cooperazione tra le industrie europee. L'UEO ha fatto diverse ragionevoli raccomandazioni, purtroppo rimaste inascoltate, miranti a promuovere lo sviluppo dell'aviazione. Gli uffici della CEE hanno dedicato molta attenzione, a partire dal 1969, al problema dell'industria aeronautica, ma a tanto lavoro non è seguita alcuna decisione di vertice. Invece di puntare sulla ricerca di un mercato comune, gli uffici della CEE si sono persi in indagini statistiche e hanno finito per proporre una concentrazione delle imprese come premessa di ogni azione (rapporto CEE del luglio 1972). Solo dopo anni di divagazioni gli esperti hanno compreso che ciò che occorre non sono nuove strutture industriali, ma un programma concordato su ampie basi, incentrato sulla costruzione di due o tre tipi di velivoli di medio e grande tonnellaggio. Infatti, in un successivo rapporto del 1975, gli stessi esperti hanno proposto al Consiglio la creazione di un mercato comune e l'istituzione di un'autorità supernazionale, sul modello di quella che presiede alle industrie del carbone e dell'acciaio, come condizioni indispensabili per il rilancio dell'industria aeronautica europea. Ma tutte queste proposte non hanno avuto alcun seguito, sia per la loro formulazione vaga, sia per la mancanza di qualsiasi decisione a livello politico.
Come è stato ribadito nell'assemblea plenaria del giugno 1976 dell'UEO, invece di puntare su un industria europea integrata, occorre stabilire una collaborazione risultante da una libera scelta delle industrie dei principali paesi europei. Purtroppo, però, l'Europa ha ‛liberamente scelto' il Concorde, una realizzazione tecnicamente valida, ma commercialmente fallita, nella quale ha profuso alcune migliaia di miliardi di lire senza ritorno. Cosi pure, su iniziativa privata, è stato lanciato qualche anno fa il Mercure, aeroplano che era già superato in partenza dalle versioni aggiornate dei velivoli americani in produzione corrente. L'unico progetto valido è stato quello dell'Aerobus, che però è stato ostacolato e ritardato dalle stesse industrie europee.
Tutto ciò lascia prevedere che l'Europa non potrà procedere da sola alla realizzazione di velivoli civili importanti, richiesti nel prossimo futuro, senza andare incontro a ulteriori insuccessi e sprechi di mezzi. Saranno gli operatori americani a fissare gli standard per l'aviazione da trasporto e qualsiasi progetto dovrà rispondere ai requisiti imposti. L'Europa potrà partecipare collaborando con gli Stati Uniti, ma dovrà presentarsi unita e assumersi la sua parte di rischio in tutte le fasi della realizzazione: finanziamento, progetto, costruzione e vendite.
L'Europa, che ha dato prove eccellenti nel settore motoristico ed elicotteristico, potrebbe forse sviluppare ancor più l'attività attuale nel campo dei velivoli passeggeri e merci di piccolo e medio tonnellaggio, dove ha già prodotto macchine di grande pregio e di successo. In particolare dovrebbe curare il progredire di tecnologie avanzate per velivoli a corto e medio raggio, con caratteristiche spiccate di decollo e atterraggio corto e con capacità di operare su terreni semipreparati.
4. I motopropulsori.
a) Rendimenti.
I motopropulsori impiegati in aeronautica (motoelica, turboelica e turboreattore) sono tipici propulsori a reazione, perché, per creare la spinta, utilizzano la reazione corrispondente a una variazione della quantità di moto (e quindi dell'energia cinetica) impressa a una massa. Poiché questa massa, che si rinnova continuamente, è una massa d'aria prelevata dall'esterno, essi appartengono alla categoria degli esopropulsori, mentre gli endopropulsori (razzi) portano con sé la massa che espellono, cioè il propellente. Nel linguaggio tecnico aeronautico, però, si chiamano propulsori ‛a reazione' (o ‛a getto' o ‛reattori') solamente i sistemi che producono la spinta direttamente (senza il sussidio dell'elica). Tra le parti che compongono gli aeromobili, i motopropulsori sono certamente quelle che hanno subito le più profonde e radicali trasformazioni.
Per meglio comprendere l'importanza di questa evoluzione, premettiamo un cenno sul rendimento del processo di conversione dell'energia consumata nel lavoro utile di spinta. A tale scopo ricorriamo all'equazione energetica del moto, che per qualsiasi veicolo motorizzato, in moto orizzontale uniforme, si può esprimere nella forma seguente:
V0 × T = Em × ηg, (1)
dove V0 è la velocità del veicolo, T è la spinta, Em è la potenza meccanica equivalente all'energia consumata dal motopropulsore nell'unità di tempo, ed ηg è il rendimento globale della conversione dell'energia fornita al motopropulsore nella forma di alimentazione (elettrica, chimica, ecc.) in lavoro di spinta (lavoro utile).
Nel caso di veicoli, come quelli aerei, alimentati con combustibile liquido, si può avere un'idea dell'efficienza della conversione dell'energia consumata in lavoro utile introducendo nella (1) un termine che metta in evidenza il consumo specifico di combustibile. Indicando con qc il consumo orario di combustibile, con p il potere calorifico del combustibile e con J l'equivalente meccanico del calore, si ha
Per p = 10.000 kcal/kg e J = 427 kgm/kcal, si ottiene
Questa equazione mette in evidenza i rapporti tra consumo specifico di combustibile per unità di spinta, rendimento globale del sistema motopropulsore e velocità del veicolo. Il rendimento globale, ηg, si può considerare il prodotto di quello del motore, ηm, per quello del propulsore, ηp:
ηg = ηm × ηp. (4)
Il rendimento del motore, ηm è il rapporto tra la potenza fornita dal motore per la propulsione e quella termica del combustibile consumato.
La potenza per la propulsione è fornita in modo diverso dai vari tipi di motore: nei motori volumetrici e a turbina si identifica con la potenza sull'albero dell'elica; nei turbogetti è fornita direttamente sotto forma di energia cinetica impressa al fluido.
Il rendimento propulsivo è il rapporto tra la potenza di spinta V0 × T e quella fornita dal motore.
Dalle eqq. (3) e (4) si ricava
La (5) evidenzia il fatto che una riduzione del consumo specifico si può ottenere solo elevando i rendimenti del motore e del propulsore.
Nella motoelica la conversione dell'energia termica nel lavoro utile di propulsione avviene in due fasi distinte: la prima nel motore a pistoni, che trasforma l'energia termica in energia meccanica sotto forma di una coppia rotante sull'albero motore, e la seconda nell'elica, che trasforma l'energia meccanica fornita dalla coppia rotante nel lavoro utile di propulsione. In questo caso è possibile quindi fare una distinzione netta tra motore e propulsore. Nei motori a reazione, invece, questa distinzione non si può fare, perché il gruppo motopropulsore non è scindibile fisicamente nei due elementi indipendenti: il motore e il propulsore.
L'elica associata al motore a pistoni e a turbina ha due limitazioni: una riguarda la massima potenza ottenibile con singole unità motrici di peso e costo ragionevoli (in pratica 3.500 CV; v. fig. 46), l'altra la velocità massima alla quale l'elica può essere impiegata con un rendimento propulsivo accettabile. Il rendimento propulsivo dell'elica, infatti, che nelle migliori circostanze può raggiungere valori dell'85%, si riduce rapidamente a velocità superiori a 650 ÷ 700 km/h (v. fig. 47). Già prima della seconda guerra mondiale l'attenzione dei tecnici e degli studiosi era dedicata a questi due problemi, posti dalla richiesta sempre più pressante di più elevate velocità di volo e di più potenti unità motrici. Nacque allora l'idea di creare la spinta utilizzando direttamente l'energia cinetica conferita all'aria mediante la combustione, in modo che l'aria non fosse usata solo come ossidante, ma anche come mezzo per operare la conversione diretta dell'energia termica in una variazione di energia cinetica, con conseguente variazione di quantità di moto e produzione della spinta per reazione. Il problema non era nuovo: si trattava di eliminare l'elica e di affidare a un unico sistema il compito di trasformare l'energia termica in spinta di propulsione, utilizzando direttamente una massa gassosa espulsa all'indietro a una velocità maggiore di quella di avanzamento del velivolo. Occorreva, naturalmente, che detta trasformazione presentasse un rendimento globale soddisfacente nel campo delle alte velocità, ossia al di sopra di quelle (650 ÷ 700 km/h) alle quali l'elica incomincia a manifestare la sua crisi di funzionamento a causa degli effetti di compressibilità dell'aria.
b) Cenni storici.
Il primo aeroplano a getto del mondo è stato lo Heinkel He-178, munito di un motore He S3 da 500 kg di spinta, che compì il primo volo nella più grande segretezza il 27 agosto 1939 (v. fig. 48). In Italia il Caproni-Campini CC2, del peso di circa 4.200 kg, compì il primo volo su Taliedo il 28 agosto 1940 e il 30 novembre 1941 effettuò il volo Taliedo-Guidonia (v. fig. 49). Nella sua fusoliera, del diametro di 1,50 m circa, era installato un motore a pistoni Isotta Fraschini da 900 CV raffreddato a liquido, che azionava direttamente una ventola intubata a tre stadi. Nell'aria, immessa da una presa anteriore e compressa, veniva iniettato in volo del combustibile e i gas venivano eiettati attraverso un ugello posteriore.
In Inghilterra il Gloster E 28/29 (progetto di W. G. Carter) volò per la prima volta il 15 maggio 1941, munito di un motore Whittle W-1 (disegnato alla Power Jets Ltd. e costruito dalla British Thomson-Houston Company). Il velivolo pesava 800 kg; il motore sviluppava una spinta di 340 kg a 17.750 giri e pesava 246 kg (v. fig. 50).
Negli Stati Uniti il primo velivolo a getto volò il 2 ottobre 1942 in California, sul deserto di Muroc (v. fig. 51). Si trattava di un caccia bimotore Beh XP-52 Airacomet, munito di due motori GE-I-A costruiti dalla General Electric su disegno di F. Whittle, capaci di una spinta di 1.300 libbre e costituiti da un'unica parte rotante, consistente in un compressore e una turbina montati su un unico albero.
Il primo velivolo a getto completamente americano fu il Lockheed XP 80, costruito nel 1943, sul quale venne dapprima installato il motore DH Goblin e successivamente i motori GEJ 33 e Allison J 33.
Il primo velivolo a turbogetto di concezione e progetto italiani fu il G 80, che compì il primo volo il 9 dicembre 1951 su Amendola (Foggia). Era munito di un motore DH Goblin-35 da 1.380 kg; il suo peso massimo al decollo, con carichi esterni, era di 7.000 kg (v. fig. 52).
I primi turbogetti vennero costruiti per conto dell'aviazione militare inglese ed ebbero uno straordinario successo (Goblin e Ghost della DH; Dervent e Nene della R.R.). Il primo motore a getto e il primo velivolo a getto impiegati sulle linee aeree regolari sono stati realizzati da due società della stessa impresa: l'inglese De Havilland. Fu infatti il DH Ghost (v. fig. 53) il primo motore a getto del mondo che ricevette, il 28 giugno 1948, dalle autorità di controllo il certificato per l'impiego sui velivoli da trasporto civile e venne adottato sul quadrigetto DH Comet 1 (peso totale 110.000 libbre, spinta totale 4 × 5.000 libbre), il quale effettuò il primo volo di prova il 27 luglio 1949 ed entrò in servizio pubblico il 2 maggio 1952 sulla linea Londra-Johannesburg, per la British Overseas Airways Corporation (BOAC). Lo stesso tipo di velivolo, nella versione Comet 4 (peso totale 162.000 libbre, spinta totale 4 × 10.500 libbre), munito di motori Rolls-Royce Avon, fu il primo aviogetto a effettuare il servizio passeggeri attraverso l'Atlantico settentrionale; il volo inaugurale ebbe luogo il 4 ottobre 1958.
Questi primati di eccezionale valore si debbono allo spirito di intraprendenza della De Havilland, che aveva saputo sfruttare l'esperienza acquisita, durante e subito dopo la guerra, nella realizzazione dei velivoli militari da caccia e da allenamento a getto a velocità transoniche (Vampire, Venom, DH 115, ecc.).
c) I turboreattori a diluizione e a cielo variabile.
Mentre il motore Ghost è a compressore centrifugo, il motore Avon è a compressore assiale (v. fig. 54). Il passaggio dal compressore centrifugo a quello assiale rappresenta un progresso, in quanto con il compressore assiale si riducono il consumo specifico di carburante, il peso e l'ingombro del motore e, inoltre, si possono realizzare unità di grande spinta. Il passo successivo è stato fatto con l'introduzione dei turboreattori ‛a doppio flusso', detti anche ‛a diluizione' o a by-pass, che hanno condotto a un aumento del rendimento propulsivo e a riduzioni del consumo specifico e del rumore. L'aria immessa in questo tipo di motore viene divisa in due parti una attraversa i condotti di by-pass e l'altra attraversa le camere di combustione. Il rapporto di by-pass o di diluizione è il rapporto tra queste due masse d'aria nella condizione di spinta massima, con il motore immobile in aria standard al livello del mare. Se il rapporto di diluizione è 2, vuol dire che la quantità d'aria che attraversa l'apposito canale anulare che circonda il motore è doppia rispetto a quella che va al compressore e passa attraverso le camere di combustione e le turbine. Le due correnti non si mescolano nel tubo del getto, ma sono scaricate attraverso ugelli concentrici.
L'adozione del by-pass abbassa la velocità del getto e aumenta il rendimento propulsivo, con conseguente riduzione del consumo specifico e del livello del rumore al decollo: due vantaggi essenziali per i trasporti civili.
La spinta T può essere espressa nella forma seguente (v. fig. 55):
T = M (V2 − V0),
dove M è la portata in massa dell'aria coinvolta nel processo propulsivo e V0 e V2 sono le velocità relative delle masse d'aria rispettivamente a monte e a valle del sistema motopropulsore. L'energia conferita all'aria nell'unità di tempo, nel caso ideale, è
da cui si deduce il rendimento propulsivo (rendimento di Froude)
e la potenza specifica minima ideale richiesta dal sistema
Questa si può ridurre, come si vede, abbassando il valore di V2 + V0, cioè abbassando la velocità a valle V2, perché V0 è data. Siccome V2 deve restare superiore a V0, si ha interesse, per avere una data spinta T, ad adottare una velocità a valle V2 di poco superiore alla velocità di volo V0 e ad aumentare la portata M. L'elica realizza in maniera ottimale queste condizioni, ma, quando la velocità di volo cresce al di sopra di un certo limite (650 ÷ 700 km/h), il rendimento dell'elica diminuisce rapidamente per gli effetti di compressibilità dell'aria.
I turboreattori possono essere classificati come nella tab. VII, anche se di ogni tipo esistono numerose varianti, che si differenziano per i componenti principali: i compressori, le camere di combustione, le turbine, gli effusori, gli alberi, ecc.
All'inizio degli anni sessanta sono stati introdotti nei velivoli civili i motori a doppio flusso muniti di una ventola azionata da una turbina meccanicamente indipendente dal sistema rotante che aziona il compressore. Per raggiungere gli attuali alti valori del rapporto di diluizione (6 : 1; in questo caso per rapporto di diluizione o di by-pass intendiamo il rapporto tra la massa d'aria accelerata soltanto dalla ventola e la massa d'aria soggetta al ciclo termodinamico del motore) e del rapporto di compressione (34 : 1), richiesti nell'impiego, sono stati sviluppati motori a turboventola (turbofan) a due e anche a tre alberi.
Fatta eccezione per i voli su brevi distanze - ove è prevista un'affermazione della turboelica -, i nuovi motori aeronautici per il traffico aereo civile saranno quasi tutti del tipo a turbofan. In questi motori la turboventola è azionata da una turbina a bassa pressione, il compressore ad alta pressione da una turbina ad alta pressione e, nel caso del motore trialbero, il compressore a pressione intermedia da una turbina a pressione intermedia. Esempio di motore trialbero è il Rolls-Royce RB 211 (v. fig. 56), adottato sul Lochkeed L 1011-1; esempio di motore bialbero il JT9D-1 della Pratt & Whitney impiegato sul Boeing 747 (v. fig. 57).
Con il turbofan ad alto rapporto di diluizione, il fenomeno propulsivo a getto si avvicina, in un certo senso, a quello di una turboelica a elica intubata. Il rapporto caratteristico aria: combustibile, che nei motori a getto puro è circa 60 : 1 (mentre nei motori volumetrici è circa 15 : 1), nei moderni turbofans ad alto rapporto di diluizione può raggiungere valori molto più alti, dell'ordine di 250 : 1 e prevedibilmente è destinato ad aumentare nei motori dei velivoli subsonici STOL.
Tra i nuovi motori in studio va particolarmente menzionato il motore ‛a ciclo variabile', capace di raggiungere il massimo rendimento in un vasto campo di condizioni di volo. Esso permette di operare efficientemente sia in campo subsonico sia in campo supersonico e di ridurre il rumore.
Il motore a ciclo variabile è essenzialmente un motore a by-pass variabile, nel quale, cioè, la frazione d'aria che viene deviata nelle camere di combustione varia a seconda delle condizioni di volo. In tal modo vengono ridotte le cosiddette ‛perdite per l'installazione', sia all'ingresso, nelle prese d'aria, sia all'uscita, nell'ugello, e si realizzano le condizioni di più alto rendimento complessivo del motore. Al decollo in salita e all'atterraggio si adottano alti rapporti di by-pass; si riducono così sia il rumore sia il consumo, specie nei velivoli a decollo e atterraggio corto e in quelli supersonici.
d) Pesi e consumi specifici.
Per quanto riguarda il peso dei motori, è più conveniente, per una corretta e pronta valutazione comparativa, riferirsi al peso dei cosiddetti impianti motore, che comprendono il motore con i suoi accessori: comandi, supporti, carenature, serbatoi e radiatori del lubrificante e del liquido refrigerante, elica o ugello, condotti di scarico, estintori, ecc.
Nel caso in cui i motori siano sistemati esternamente alle ali e alle fusoliere, come avviene in quasi tutti i velivoli plurimotori, la tecnica costruttiva ha condotto alla realizzazione di complessi che comprendono tutti gli elementi dell'impianto, i quali sono strutturalmente indipendenti dal velivolo e vengono collegati a questo mediante un ridotto numero di perni e raccordi. Questa tecnica costruttiva permette la più completa accessibilità all'impianto motore e ne rende più facile e più rapida la sostituzione.
I complessi suddetti costituiscono l'impianto motore, che viene designato dagli anglosassoni power-plant, nel caso di motopropulsori a elica, e pod, nel caso di motopropulsori a getto. Il pod viene collegato all'ala tramite un montante, detto pylon, il quale può essere strutturalmente unito all'ala oppure collegato a essa mediante attacchi smontabili. Nel primo caso il pylon fa parte dell'ala, mentre nel secondo caso, agli effetti del peso, fa parte dell'impianto motore.
Per procedere all'analisi comparativa degli elementi caratteristici connessi col peso (Qpp) dei tre tipi di motopropulsori è necessario renderli omogenei. A questo scopo occorre in primo luogo riferire il peso del turbogetto non più alla spinta, ma alla potenza equivalente al decollo, Πed. Nella fig. 58 sono riportati in funzione di Πed i valori del rapporto Qpp/Πed per i tre tipi di motopropulsori considerati. Come si vede, mentre il peso specifico degli impianti motore ad albero decresce andando verso le grandi potenze, quello dei turbogetti rimane quasi costante, dell'ordine di 0,35 kg/CV.
L'incidenza percentuale del peso degli impianti motore sul peso totale al decollo dei principali aeroplani da trasporto è data nella fig. 59. Come si vede, con l'introduzione dei turbogetti tale rapporto è sceso dal 19 al 10%; nei più recenti grandi aeroplani è sceso all'8% e, secondo F. Besançon, raggiungerà, nel prossimo futuro, il valore minimo del 5%.
Il consumo è più complesso da definire, perchè dipende dal regime del motore, dalla quota, dalla velocità di volo, ecc. Non è facile inoltre individuare un parametro di riferimento unico che permetta un paragone immediato, agli effetti del consumo, tra i motori a elica e quelli a getto. Nei motori volumetrici il consumo specifico è riferito alla potenza sull'albero dell'elica ed è dell'ordine di 0,220 kg/ CVh alla potenza massima continuativa. Per i motori a turboelica (v. fig. 60) il consumo specifico è riferito alla potenza totale equivalente (compresa cioè quella dovuta alla spinta del getto dei gas di scarico, che varia a seconda della quota e della velocità). Esso è inferiore a quello dei motori volumetrici e si aggira sugli 0,200 kg/CVh.
Nel caso dei turboreattori il consumo è riferito alla spinta ed è dato in kg per kg di spinta all'ora e il peso in kg per kg di spinta.
Riportiamo nella fig. 61 i dati del consumo specifico in crociera, alla massima spinta continuativa a 11 km di quota e alla velocità di 930 km/h (0,85 Mach), di turbogetti militari e civili a flusso semplice e doppio. Sono significative la consistenza e la costanza con le quali la riduzione del consumo specifico ha continuato a manifestarsi: esse risultano evidenti dalla fig. 62, che riporta il valore relativo del consumo specifico in crociera dei motori impiegati nei principali aeroplani passeggeri a getto, in funzione dell'anno di entrata in servizio. Il consumo specifico si è ridotto, dall'inizio dell'era dei trasporti a turbogetto a oggi, al 70%, passando dai motori della prima generazione a flusso diretto a quelli della seconda generazione a basso rapporto di diluizione (by-pass 1 ÷ 1,5), a quelli della terza generazione con i turbofans (rapporto di diluizione 4 ÷ 6). Il consumo si ridurrà ulteriormente al 60% circa con l'introduzione, prevista nel 1985, dei motori della quarta generazione, come il Pratt & Withney della serie 2000 (v. fig. 63).
Questi progressi nei turbogetti sono basati essenzialmente sul miglioramento del rendimento propulsivo e termodinamico e sull'applicazione di nuove tecnologie e di nuovi materiali.
Per dare un'idea sintetica del progresso complessivo realizzato nel settore dei motori a getto dal 1950, epoca della loro introduzione nell'aviazione da trasporto, a oggi, abbiamo riportato nella tab. VIII dati relativi a diversi tipi di motori, dal Ghost a compressore centrifugo del 1950 allo Spey a compressore assiale del 1962, all'RB 211 a compressore assiale e a tre alberi del 1973, al PW 2037 a turbofan, la cui entrata in servizio è prevista per il 1985.
Nella fig. 64 abbiamo rappresentato l'andamento del rendimento globale massimo raggiungibile, attualmente, dalle turboeliche e dai turbogetti, in funzione della velocità di volo espressa in numero di Mach.
Questi risultati permettono di affermare che i perfezionamenti nei sistemi motopropulsori sono stati la forza trainante del progresso aeronautico in questi ultimi 25 anni; nel campo dell'aerodinamica e delle strutture dei velivoli non c'è stato un avanzamento paragonabile.
e) L'idrogeno liquido e l'energia nucleare nei motori a reazione.
Gli studi e le ricerche in corso sugli sviluppi a breve e a lungo termine seguono nuovi indirizzi dovuti alla crisi del petrolio. Essi sono effettuati principalmente per conto degli enti militari, ma, come per il passato, l'aviazione da trasporto civile beneficerà dei risultati raggiunti. Queste ricerche riguardano, quindi, non soltanto nuovi tipi di motori che consumino meno combustibile e siano adattabili al vasto campo delle condizioni di volo subsonico e supersonico, ma anche l'applicazione dei sostituti del petrolio, quali gli idrocarburi sintetici, l'idrogeno liquido e i combustibili nucleari.
L'idrogeno liquido è stato preso in considerazione già da alcuni anni come possibile combustibile, per il suo alto potere calorifico (circa 2,8 volte quello del petrolio), che consente un aumento del carico pagante e dell'autonomia di volo a parità di peso totale, e per il minimo inquinamento dell'aria che produce. Inoltre, è stato assodato che è relativamente facile adattare un qualsiasi motore all'uso dell'idrogeno. Per contro, l'idrogeno liquido ha lo svantaggio di una bassa densità di energia (energia per unità di volume) e richiede serbatoi grandi e isolati per ndurre le perdite per vaporizzazione. Il problema della sicurezza, in base all'ampia esperienza accumulata nella realizzazione dei programmi spaziali, sarebbe, secondo gli specialisti, un problema risolto. Tuttavia, malgrado tanti elementi a favore dell'impiego dell'idrogeno liquido, la mancanza di sistemi per la sua produzione e per la sua distribuzione e il costo troppo elevato delle operazioni relative rendono ancora incerta la sua pratica applicazione.
Per studiare l'impiego dell'idrogeno liquido come carburante per gli aerei, la Lockheed ha proposto un programma per la messa a punto delle tecniche necessarie, che prevede la costruzione di quattro Tristar L 1011 modificati (v. fig. 65). Questi aeroplani dovrebbero essere impiegati su una rotta a lunga distanza fra quattro grandi città (v. fig. 66).
Le prospettive offerte dall'energia nucleare, di gran lunga superiore a ogni altra forma di energia finora conosciuta, hanno stimolato la ricerca per realizzarne l'applicazione anche alla propulsione aerea, oltre che a quella marina. A partire dal 1950, l'aviazione americana ha intrapreso un vasto programma di sviluppo nel settore dei velivoli a propulsione nucleare, allo scopo di realizzare un bombardiere dotato di un'autonomia praticamente illimitata. Questi studi, però, sono stati interrotti nel 1961 e solo recentemente, con l'avvento dei grandi velivoli, come il CS, e con la prospettiva che siano costruiti velivoli ancora più grandi, sono stati ripresi.
In un aeroplano a propulsione nucleare il motore riscalda un fluido, che può essere un metallo liquido (potassio o sodio) oppure un gas (elio o miscela di gas nobili). Il fluido trasferisce il calore, per mezzo di uno scambiatore di calore, a un fluido secondario, che circola in un secondo circuito e porta il calore al motore. Come si vede, lo scambiatore di calore sostituisce il bruciatore e gli elementi del combustibile nucleare a lunga durata sostituiscono il combustibile chimico. Il reattore e tutti i componenti radioattivi debbono naturalmente essere racchiusi in un serbatoio schermato, capace di trattenere le radiazioni al di sotto del livello pericoloso. È proprio il peso di tali schermature che richiede un velivolo sufficientemente grande (che pesi almeno 500 t).
Nella fig. 67 sono rappresentati lo schema di un velivolo da trasporto nucleare subsonico e lo schema di un sistema a propulsione nucleare.
Il principale ostacolo allo sviluppo dei velivoli nucleari è costituito dal grave problema della sicurezza nel caso della caduta del velivolo. In tale eventualità si richiede che il contenitore del reattore resista all'urto nelle peggiori condizioni possibili. Ciò comporta lo studio e la soluzione di molti difficili problemi, per cui è ancora aperta la questione se l'energia nucleare possa servire direttamente come propellente, oppure se non sia, invece, più opportuno e conveniente utilizzarla per la produzione di combustibili chimici come l'idrogeno.
f) Il rumore.
Il rumore dovuto allo spostamento del velivolo nell'aria è trascurabile; quello che si percepisce nasce nel motopropulsore. Nel caso delle motoeliche il rumore ha origine alle estremità delle pale delle eliche e nello scappamento del motore. Nei turboreattori si creano due tipi di rumore: quello del getto e quello delle alette. Il rumore del getto è provocato dalla turbolenza che nasce sulla superficie di scambio tra l'aria ambiente fredda e il getto di gas caldo che esce dal reattore; la turbolenza ha tanta più energia, e il rumore è tanto più grande, quanto più alte sono la velocità di eiezione e la temperatura dei gas caldi. Il rumore delle alette è generato, come per le pale di un'elica, dalle numerose pale del compressore e della turbina.
Il problema della riduzione del rumore è diventato grave all'inizio degli anni sessanta, quando incominciarono a essere introdotti i grandi velivoli a getto da trasporto. Con l'aumento del traffico e della potenza dei motori, il rumore ha provocato vaste reazioni del pubblico per la sua nocività, costringendo autorità ed enti nazionali e internazionali a emettere delle norme limitative nell'impiego dei velivoli. Così il Consiglio dell'Organizzazione dell'Aviazione Civile Internazionale (OACI) ha adottato, dal 6 gennaio 1972, una norma che riguarda velivoli subsonici a turbogetto con peso massimo superiore a 5.700 kg. Questa norma stabilisce i livelli massimi di rumore accettabili e suggerisce anche procedure di volo per la riduzione del rumore in fase di avvicinamento e di decollo. Alcune nazioni hanno emesso anche propri regolamenti limitativi sul rumore; tra queste citiamo gli Stati Uniti, che sin dal 1969, attraverso la FAA (Federal Aviation Administration), hanno promulgato norme molto severe. Anche nel quadro delle raccomandazioni fatte dai capi di Stato e di governo delle nazioni della Comunità Europea al vertice di Parigi del novembre 1972, la Commissione delle Comunità Europee ha elaborato un programma di azione in materia di politica scientifica e tecnologica, che comprende, tra l'altro, un piano di ricerche per sviluppare le tecnologie necessarie per giungere a sistemi propulsivi aeronautici silenziosi.
Come si vede, il rumore è oggi uno degli elementi più importanti che influenzano il progetto dei velivoli commerciali e costituisce un problema tecnico ed economico che condiziona lo sviluppo dell'aviazione commerciale e può far restringere l'area di impiego dei velivoli. Nel caso dei velivoli a turboelica, è necessario ridurre in modo drastico la velocità periferica all'estremità delle pale; un esempio in questo senso è rappresentato dal velivolo STOL quadrimotore di medio tonnellaggio a turboeliche della De Havilland del Canada, il DHC-7, del quale, nella fig. 68, è riportata l'area d'impronta del rumore, raffrontata con quella di un velivolo convenzionale (CTOL) di peso e prestazioni equivalenti.
Per quanto riguarda i turbogetti, sono in fase di sviluppo dei motori con ventole silenziose; nella riduzione del rumore sono già stati fatti progressi, ma resta ancora molta strada da percorrere per raggiungere il livello richiesto.
L'effetto del rumore è valutato in unità EPNdB (Effective Perceived Noise decibel). Allo stato attuale, in base a rilievi effettuati sui principali velivoli commerciali a getto in servizio, sia in decollo che in avvicinamento, la situazione del rumore risulta quella illustrata nella fig. 69.
g) Posizione e numero dei motori.
Per quanto riguarda la collocazione dei motori nei velivoli ( v. fig. 70), va ricordato che il primo aeroplano da trasporto a turbogetto, il quadrimotore Comet 1 della De Havilland, aveva i motori inseriti nella struttura alare. Questa soluzione è stata certamente suggerita dal fatto che i primi turbogetti vennero installati su monomotori militari da caccia, per i quali l'integrazione del motore, delle sue prese d'aria e dei suoi condotti nella struttura della fusoliera era una necessità. Ma nei bimotori e nei quadrimotori successivi i motori sono stati situati all'esterno, sotto le ali (in un caso soltanto, sopra), oppure lateralmente alla fusoliera, nella parte posteriore, per ridurre l'interferenza o aumentare l'accessibilità. È stata realizzata così la massima indipendenza possibile del gruppo motore dal velivolo vero e proprio, anche se, forse, in questo modo la resistenza aerodinamica subisce qualche aumento. A una soluzione analoga si era giunti prima della guerra, con la realizzazione delle unità motrici nella forma integrale di power-plants: il motore con la sua elica e i suoi accessori costituiva un'unità completa e indipendente, che veniva collegata al velivolo vero e proprio mediante un numero ridottissimo di attacchi e di raccordi, per renderne rapida e facile la sostituzione.
Con la disposizione ‛esterna' dei motori a getto, vengono soddisfatte anche le esigenze dei motori a turbofan a grande rapporto di diluizione, che, per il loro ingombro frontale e per il flusso che generano, richiedono posizioni adeguate nei riguardi delle strutture contigue.
È interessante notare che in questi ultimi anni la formula del trimotore, che era stata abbandonata quasi universalmente nei velivoli civili a motoelica proprio per liberare la prua della fusoliera dalla presenza del motore e dell'elica, oggi si ripropone con i turbogetti, nei quali due motori sono collocati sotto l'ala o lateralmente alla fusoliera e il terzo in coda, nella deriva. Ciò può sembrare in contraddizione con quanto è avvenuto nel settore dei velivoli a elica, ove il bimotore si è affermato nettamente sui trimotori, i quali, soprattutto per merito di A. Fokker e di H. Junkers, avevano dominato il campo dell'aviazione da trasporto e quello dei bombardieri fino alla metà degli anni trenta. Fu proprio Lindbergh che, all'inizio degli anni trenta, asserì per primo i vantaggi del bimotore rispetto al trimotore, suscitando discussioni e polemiche tra i sostenitori del primo e quelli del secondo. Ma all'affermazione indiscussa del bimotore e all'abbandono del trimotore ha contribuito certamente uno studio comparso nel gennaio del 1936 sul ‟Journal of the aeronautical sciences", nel quale l'autore, K. Perkins, discuteva il concetto di ‛grado di sicurezza relativa' dei velivoli, definito come l'inverso del numero delle panne di motore in funzione di vari parametri (decollo, ore di volo, tragitto, ecc.). Secondo tale studio, il bimotore, che si può sostenere con un solo motore, è circa tre volte più sicuro di un trimotore, che ha bisogno di almeno due motori. Questa constatazione, unita a considerazioni di visibilità, silenziosità e sicurezza contro gli incendi, ha contribuito a rafforzare l'orientamento verso l'adozione dei bimotori, a scapito dei trimotori che erano di moda a quell'epoca.
Il primo bimotore civile americano è stato il Boeing 247, entrato in servizio nel 1932 sulle linee regolari degli Stati Uniti, seguito dal DC 2 e dal DC 3, che ha dominato il campo del trasporto aereo civile in tutto il mondo negli anni che precedettero e soprattutto in quelli che seguirono la guerra.
L'odierno trimotore a turbogetti non presenta più lo svantaggio del terzo motore collocato sulla parte anteriore della fusoliera e possiede invece molte caratteristiche positive, fra cui, in primo luogo, la capacità di sostenersi in volo, sia pure con qualche cautela ammessa dalle norme, con due motori in meno; perciò risulta, agli effetti delle panne di motore, più sicuro del bimotore. C'è da chiedersi però se, con l'avvento dei turbofans a grandi rapporti di diluizione e con le ventole di grande diametro, dispositivi necessari per ridurre il rumore e per conseguire bassi consumi specifici, il trimotore conserverà la sua validità.
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