Abstract
Viene esaminata la disciplina legale dell’istituto del trattamento di fine rapporto (TFR), per enuclearne la natura giuridica e chiarirne la funzione con particolare riferimento alle dispute dottrinarie in merito al momento di maturazione del diritto, alla nozione di retribuzione rilevante ai fini del calcolo del TFR, all’incidenza della contrattazione collettiva, anche alla luce dei recenti interventi legislativi in materia di previdenza complementare.
Il trattamento di fine rapporto è regolato dall'art. 2120 c.c. Questa disposizione, novellata dalla l. 29.2.1982, n. 297, in origine disciplinava il diverso istituto dell'indennità di anzianità.
Come l'indennità di anzianità, anche il TFR consiste nella corresponsione al lavoratore di una somma di denaro alla cessazione del rapporto.
L’esame degli istituti preesistenti al TFR (indennità di anzianità e, ancor prima, indennità di licenziamento) può essere utile per focalizzare, da un lato, le ragioni che hanno determinato la modifica dell’art. 2120 c.c. e, dall’altro lato, i diversi interessi che questi istituti hanno soddisfatto nel corso del tempo (cfr. Santoro Passarelli, G., Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Milano, 1984, 5 ss.)
La prima e compiuta disciplina legislativa dell’indennità di licenziamento è contenuta nell’art. 4 del d.l.lgt. 9.2.1919, n. 112.
Questa indennità era qualificata anche come premio di fedeltà, perché presupponeva che l’impiegato non fosse stato licenziato per colpa, non si fosse dimesso e nel contempo avesse maturato un lungo periodo di servizio (doveva aver maturato il massimo del preavviso).
Successivamente l’art. 10, R.d.l. n. 13.11.1924, n. 1825, conv. l. 18.3.1926, n. 256, (modificativo dell’art. 4, d.l.lgt. 9.2.1919, n. 112) riconobbe l’indennità di licenziamento a tutti gli impiegati di qualsiasi anzianità, sia pure in misura diversa in ragione dell’anzianità stessa. Restava confermata, tuttavia, la corresponsione dell'indennità di licenziamento solo in caso di risoluzione del contratto con diritto al preavviso, o alla corrispondente indennità (quindi non anche in caso di dimissioni o di licenziamento per colpa).
Il codice del 1942 modificò la disciplina dell’indennità di licenziamento, che assunse la denominazione di indennità di anzianità.
Il mutamento della denominazione e della disciplina non determinò immediatamente un mutamento di natura e di funzione dell’istituto.
Fino al 1966, infatti, i presupposti di attribuzione dell’indennità di anzianità consentivano di qualificare anche quest'ultima, al pari dell’indennità di licenziamento, un’attribuzione patrimoniale corrisposta al momento dell’estinzione del rapporto che premiava la fedeltà del lavoratore (Spagnuolo Vigorita, L., Gli usi aziendali, Napoli, 1965, 241).
La l. 15.7.1966, n. 604 sui licenziamenti individuali stabilì successivamente la corresponsione dell’indennità di anzianità in ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro (art. 9).
Questa disposizione e la sentenza della C. cost., 27.6.1968, n. 75, che dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 2120, co. 10, c.c. (v. anche C. cost., 28.12.1971, n. 204), nella parte in cui escludeva l’indennità nei casi di licenziamento per colpa e dimissioni volontarie, hanno segnato una tappa fondamentale nella evoluzione normativa dell’indennità di anzianità, perché costituiscono il fondamento della natura retributiva dell’indennità stessa (v., tra gli altri, Ghera, E., Prospettive di riforma della indennità di anzianità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 512 ss., poi in Studi in Onore di Tito Carnacini, Milano, 1983 , 453 ss.; Grandi, M., Questioni e proposte in tema di garanzia dell’indennità di anzianità, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Milano, 1974, 2531; Scognamiglio, R., Indennità di anzianità e assicurazioni, in Dir. lav., 1977, I, 385 ss.).
Proprio il 1966 segna l’inizio di una crisi dell'indennità di anzianità, che culminerà con la novella dell'art. 2120 da parte della l. n. 297/1982 e l'introduzione del TFR. In un regime di stabilità del posto di lavoro l’istituto dell’indennità di anzianità viene a perdere in gran parte la sua funzione di sostentamento, massima invece in un regime di libero recesso.
Da una parte, dopo il 1966 interviene una serie di provvedimenti legislativi, diretti non solo a realizzare una tutela quasi reale contro i licenziamenti individuali ingiustificati ma anche un sistema di pensioni di invalidità e vecchiaia indicizzato al costo della vita e un sistema di cassa integrazione, comprensivo del trattamento speciale contro la disoccupazione.
D'altra parte, ulteriori fattori che contribuirono alla crisi dell'istituto possono essere ravvisati nei cosiddetti automatismi che lo caratterizzavano: infrazionabilità dell’anzianità; onnicomprensività della retribuzione; criteri di computo dell’indennità sull’ultima retribuzione. Questi elementi hanno determinato un rigonfiamento notevole delle liquidazioni.
Si aggiunga che, ricorrendo ad espedienti come le anzianità convenzionali e i passaggi di categoria in periodi immediatamente precedenti la cessazione del rapporto, l’indennità di anzianità di fatto si traduceva in uno strumento di privilegio e perciò di disparità di trattamento tra lavoratori che, viceversa, avevano un’analoga carriera, non premiando perciò la crescita professionale. Inoltre, in quanto commisurata all’anzianità aziendale e non a quella interaziendale, costituiva soltanto un ostacolo alla mobilità del lavoro (cfr. Alleva, P.G., Automatismi retributivi e riassorbimenti salariali, in Riv. giur. lav., 1979, I, 121; v. contra Smuraglia, C., Riflessioni sull'indennità di anzianità, in Riv. giur. lav., 1977, I, 260 ss.).
Inoltre, quando nel 1977 fu concordata l’esclusione della contingenza dal computo dell’indennità di anzianità, l’inflazione non aveva raggiunto le punte degli anni successivi. In altre parole, dal 1977 in poi, si poteva constatare una progressiva svalutazione dell’indennità di anzianità, determinata, oltre che dal naturale deprezzamento della retribuzione, anche dallo schiacciamento della parte fissa di retribuzione indotto dal meccanismo di scala mobile (Ghera, E., op. cit., 514).
In questo contesto, caratterizzato dalla necessità da un lato di rivedere i criteri di calcolo dell’indennità di anzianità e, dall’altro, di individuare criteri e meccanismi di rivalutazione della stessa, si colloca la riforma dell’istituto, in attuazione, tra l'altro, dei principi precedentemente espressi dalla Corte costituzionale (C. cost., 30.7.1980, n. 142; cfr. le ricostruzioni di Vallebona, A., Indennità di fine rapporto, in Dig. civ., agg. 2003, Torino, 482; Mazzotta, O., Diritto del lavoro, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2005, 731).
La Corte, infatti, reputava non precluso al legislatore di ristrutturare l’indennità di anzianità purché l’eliminazione o il ridimensionamento della indennità stessa tenesse conto della quantità e qualità del lavoro prestato dagli interessati, agli effetti del combinato disposto degli artt. 3, 36 e 38 Cost. (v. Pera, G., L’indennità di anzianità dalla Consulta al referendum, in Studi Carnancini, Milano, 1983, 826 ss.).
L'istituto del TFR non ha corrispondenza in altri ordinamenti. Si tratta, come si è detto, di una somma di denaro corrisposta al lavoratore alla cessazione del rapporto, i cui criteri di calcolo sono regolati dall'art. 2120 c.c.
Il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5.
Il divisore indica il punto di equilibrio tra le 13 e le 14 mensilità di regola corrisposte al lavoratore durante l'anno.
Si ottengono in tal modo accantonamenti virtuali che sono rivalutati anno per anno secondo indici stabiliti dallo stesso art. 2120 ed idonei a coprire una svalutazione del 6 per cento.
Tali modalità di calcolo fanno sì che aumenti retributivi successivi non si riflettano mai sugli accantonamenti pregressi: diversamente dall'indennità di anzianità, pertanto, il TFR riflette la storia retributiva del lavoratore.
Il campo di applicazione della l. n. 297/1982 è molto esteso: il TFR sostituisce tutte le indennità di fine rapporto comunque denominate e da «qualunque fonte disciplinate» (Cass., 28.5.2003, n. 8480), ad eccezione di quelle aventi natura e funzione diverse (art. 4, co. 5, l. 297/1982; e Cass., 3.11.1998, n. 11002), ed è applicabile ad ogni tipologia di lavoratore subordinato (lavoratori che cessino dalla prova, part-timers, lavoratori domestici, domicilio, nautici, sportivi e a tempo determinato anche ex art. 6 del d.lgs. 6.9.2001, n. 368; per il settore pubblico cfr. C. cost., 19.3.1993, n. 99, e Cazzola, G., Pensioni e tfr dei dipendenti pubblici, in F. Carinci, F.-Zoppoli, L., a cura di, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2005, 928 ss.).
L'attuale formulazione dell'art. 2120 c.c. lascia aperta la questione della struttura del TFR e del momento di maturazione del diritto.
Secondo una prima interpretazione il sistema di computo del TFR non modifica la struttura del trattamento e non muta il momento di maturazione del diritto, che rimarrebbe fissato alla cessazione del rapporto (cfr. Cass., 1.10.2012, n. 16636; cfr. Giugni, G.-De Luca Tamajo, R., in Nuove leggi civ., 1983, 262-263; parz. diff. Pessi, R., Trattamento di fine rapporto: la maturazione del diritto, in Dir. rel. ind., 1983, 338).
Di diversa opinione sono coloro che muovono proprio dal diverso sistema di computo rispetto all'indennità di anzianità per sostenere che il credito da TFR sorge con la costituzione, si accresce durante lo svolgimento e diventa esigibile alla cessazione del rapporto. La cessazione del rapporto indicherebbe così il termine di adempimento dell'obbligazione relativa al TFR e il momento del pagamento del relativo importo (Alleva, P.G., Trattamento di fine rapporto, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 8; Napoli, M., Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1983, 78; parz. diff. Dell’Olio, M., Intervento alla tavola Rotonda, in Riflessi dell’anzianità sul rapporto di lavoro, Milano, 1983, 204).
In realtà la lettera della legge si presta a diverse interpretazioni e non appare sufficiente a comprovare o ad escludere la tesi della maturazione del diritto al momento della cessazione del rapporto.
La qualificazione del TFR come credito che matura durante lo svolgimento del rapporto e che diviene esigibile alla sua cessazione può essere più persuasivamente sostenuta solo all'esito di un'analisi della struttura normativa dell'istituto ed, in particolare, delle conseguenze derivanti dalla determinazione delle quote annuali e complessive maturate dal lavoratore (cd. accantonamenti, a prescindere dal significato reale o contabile del termine), del regime delle anticipazioni e di quello della devoluzione del TFR ai superstiti.
Il sistema di calcolo basato sulla retribuzione annualmente percepita consente al lavoratore di conoscere, al momento della cessazione del rapporto, sia l’importo della quota relativa all'ultimo anno di servizio (non rivalutabile), sia l’accantonamento complessivo risultante dalla somma di tale quota con il cumulo indicizzato di tutte le quote degli anni precedenti.
Prima della cessazione del rapporto, invece, non è possibile conoscere l’ammontare del TFR che si percepirà, perché l'indeterminatezza del momento di cessazione del rapporto rende a sua volta indeterminabile la somma degli accantonamenti annuali che il lavoratore avrà maturato in quel momento (futuro). Solo il TFR maturato, in altri termini, può essere determinato in qualsiasi momento, anche in costanza di rapporto.
La determinazione di anno in anno del TFR può essere un indizio a sostegno della tesi che il TFR sia un credito che sorge con la costituzione di un rapporto di lavoro e diventa esigibile alla cessazione dello stesso. Tuttavia non può trattarsi di elemento decisivo, in quanto si tratta pur sempre un criterio di computo di per sé neutro ai fini qualificatori.
È interessante sottolineare, in ogni modo, il riconoscimento di un autonomo interesse in capo al lavoratore alla determinazione degli accantonamenti annuali (cfr. Cass., 4.4.2008, n. 18501, sulla scia di Cass., S.U., 15.12.1990, n. 11945).
Si deve considerare, infatti, che gli accantonamenti variano in relazione alla retribuzione, ma anche quest'ultima risulta a sua volta un parametro variabile a seconda della computabilità degli emolumenti da includere a norma di legge e di contratto.
L'azione di accertamento delle quote annuali maturate elimina l’incertezza sulla determinazione degli accantonamenti, e cioè, a seconda dell’interpretazione accolta, l’incertezza su un presupposto per il calcolo del TFR o su una parte di credito dello stesso TFR maturato. Tale azione è pur sempre riferibile al diritto del lavoratore al TFR, risultando irrilevante che lo stesso diritto sia considerato esistente o futuro.
Ai sensi dell’art. 2120 c.c. è possibile ottenere delle anticipazioni del TFR e la relativa somma viene detratta «a tutti gli effetti» dal trattamento stesso.
La formula «a tutti gli effetti» sembra potersi intendere anche agli effetti dell'indicizzazione, con la conseguenza che la somma anticipata deve essere sottratta al TFR maturato immediatamente e non alla cessazione del rapporto.
L’ulteriore conseguenza è che tale detrazione, estinguendo in misura corrispondente e in costanza di rapporto l’obbligazione del datore di lavoro relativa al TFR, rivela la preesistenza della medesima alla cessazione del rapporto di lavoro.
Proprio il regime delle anticipazioni consente di ricondurre il TFR allo schema dell’art. 1185 c.c. e perciò di configurare il TFR come credito che sorge con la costituzione del rapporto di lavoro e soggetto a termine di adempimento coincidente con la cessazione del rapporto stesso. Ne derivano due effetti: a) l’impossibilità per il debitore datore di lavoro di ripetere ciò che ha pagato anticipatamente (mentre tale ripetizione sarebbe ammissibile se il termine di esigibilità fosse di efficacia), e b) l’esclusione della distinzione tra diritto al TFR e diritto all’anticipazione. Secondo lo schema dell’art. 1185 c.c. infatti l’anticipazione può essere qualificata come pagamento anticipato del debito del datore di lavoro relativo al TFR ma perciò stesso privo di un titolo autonomo e distinto.
Un ulteriore argomento a sostegno della qualificazione del TFR come diritto che scaturisce dalla costituzione del rapporto di lavoro e che diviene esigibile alla cessazione dello stesso, potrebbe essere desunto dal regime di devoluzione del TFR ai superstiti.
Ai sensi del co. 10 dell’art. 2120 c.c., il datore può opporre ai superstiti del prestatore di lavoro l’anticipazione, detraendola dall’indennità di cui all’art. 2122 c.c.
Se ne deduce che il TFR, già estinto nella misura dell’anticipazione in corso di rapporto, è credito preesistente alla cessazione. Questa conclusione rappresenta un importante elemento di discontinuità con il sistema precedente, sia in quanto il TFR risulta acquistato iure successionis (v. contra Pessi, R., op. cit., 331-332), sia per il superamento del divieto di compensazione degli acconti sull’indennità di anzianità con l’indennità a causa di morte ex art. 2122 c.c..
Sebbene la determinazione annuale delle quote maturate e la sussistenza di un separato interesse all’accertamento siano anche compatibili con la ricostruzione della fattispecie come credito che sorge alla cessazione del rapporto, il regime delle anticipazioni e della devoluzione ai superstiti depongono a favore della tesi che qualifica il TFR come credito che sorge con la costituzione, matura nel corso dello svolgimento e diventa esigibile alla cessazione del rapporto.
Il TFR, pur conservando una propria identità strutturale e funzionale rispetto alla retribuzione periodica, si presta ancor meglio dell’indennità di anzianità ad essere qualificato come «retribuzione differita» (Giugni, G.-De Luca Tamajo, R.-Ferraro, G., Il trattamento di fine rapporto, Padova, 1984, 32). Il differimento però non riguarda il momento costitutivo della obbligazione bensì il momento dell’adempimento di una obbligazione già esistente. Tale qualificazione è compatibile anche con la definizione «retribuzione accantonata» (Alleva, P.G., Trattamento, cit.; v. parz. contra Bettini, M.N., Disciplina del trattamento di fine rapporto, in Amoroso, G.-Di Cerbo, V.-Maresca, A., Diritto del lavoro, I, 1204), che coglie un diverso, ma altrettanto essenziale, profilo dell’istituto. Occorre precisare, tuttavia, che l’accantonamento non è reale ma indica soltanto la maturazione del credito del lavoratore relativo al TFR durante lo svolgimento del rapporto. A questa tesi aderiscono tanto parte della giurisprudenza di legittimità (ex plurimis Cass., 16.5.2002, n. 7143; Cass., 17.11.1989, n. 4933 che ha parlato di «prestito forzoso»; cfr. contra Cass., 1.10.2012, n. 16636), quanto la Corte costituzionale (cfr. C. cost., 14-12.3.2001, n. 3563).
La qualificazione del TFR come credito retributivo che matura in corso di svolgimento del rapporto di lavoro e diventa esigibile alla cessazione soddisfa tanto esigenze di inquadramento sistematico, quanto esigenze di carattere immediatamente pratico, soprattutto sotto il profilo della disponibilità dello stesso credito in vista della trasformazione in senso più nettamente previdenziale che ha subito l’istituto (art. 8, d.lgs. 5.12.2005, n. 252; infra § 7).
L’inesigibilità non implica infatti l’indisponibilità delle quote maturate, giacché non necessariamente la possibilità di disporre del credito risulta in contrasto con la funzione di risparmio assegnata al TFR. Il lavoratore potrebbe giovarsi di una operazione traslativa di una parte di TFR maturato, senza che il credito diventi prelevabile dal terzo (Cass., 1.4.2003, n. 4930).
La nozione di retribuzione annua utile ai fini del calcolo del TFR è contenuta nell’art. 2120, co. 2, c.c. L’espressione «in dipendenza del rapporto» va interpretata tenendo conto della formula «a titolo non occasionale», giacché il secondo inciso limita la portata del primo.
La nozione di retribuzione parametro che se ne desume corrisponde nel complesso ad ogni somma computabile che abbia causa nel sinallagma genetico del contratto di lavoro (Mazzotta, O., op. cit., 734; cfr. Cass., 30.9.2011, n. 20105).
Nel chiarire la nozione di «titolo non occasionale» non sembra sufficiente il riferimento ad una «volontà preordinata» delle parti (Ghera, E., op. cit., 210), ma occorre prendere in considerazione il normale svolgimento del rapporto di lavoro con esclusione delle erogazioni di natura risarcitoria, geneticamente occasionali, o dirette a compensare prestazioni che assumano il carattere dell’eccezionalità e dell’anormalità, non direttamente collegabili alle mansioni svolte dal lavoratore in seno all’azienda (Cass., 14.6.2005, n. 12778); è invece lecito includere nella retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR somme non previste dal titolo, ma erogate, secondo un accertamento da svolgersi a posteriori, a fronte di esigenze stabili dell’azienda (Cass., 6.6.2008, n. 15080).
La retribuzione da utilizzare a base di calcolo è quella «dovuta», comprensiva delle somme non corrisposte per errore, inadempimento o ritardo, da computare secondo il criterio di competenza e non di cassa. Per i periodi di sospensione del rapporto di lavoro l’art. 2120, co. 3, c.c. prevede una retribuzione figurativa (infra § 4).
Dubbio è poi se rientrino nella retribuzione parametro le somme relative a diritti già prescritti, in quanto a rigore non considerabili “retribuzione dovuta”. La soluzione positiva evita che il diritto al TFR risulti leso prima che possa essere fatto valere (cfr. Cass., 18.2.2010, n. 3894; Cass., 9.3.2010, n. 5707).
La nozione di retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR stabilita dalla legge è derogabile dall'autonomia collettiva, abilitata finanche ad indicare analiticamente i compensi da computare nella retribuzione annua. Si può concludere, pertanto, che, nella versione novellata, l'art. 2120 abbia determinato il superamento definitivo del principio di onnicomprensività della retribuzione (cfr. Cass., 15.3.2010, n. 6204; Cass., 1.10.2012, n. 16636).
Sulla base delle varie disposizioni legali e contrattuali si è sviluppata nel tempo un’ampia casistica relativa alla computabilità delle diverse attribuzioni nella retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR (cfr. Santoro Passarelli, G., Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, 2007, Torino, 37 ss.; Id., sub art. 2120, Disciplina del trattamento di fine rapporto, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, 2009, Milano, 48 ss.; cfr. per il lavoro straordinario Cass., 26.9.2006, n. 20876 e Cass., 13.1.2010, n. 365; e per il lavoro notturno Cass., 21.5.2012, n. 7987; per i premi da polizza assicurativa cfr. Cass., 19.6.1999, n. 6169). In mancanza di espresse previsioni occorre dimostrare la natura retributiva delle somme, desumibile dal contesto causale che ne ha originato la corresponsione.
Passando, invece, dai profili sostanziali a quelli processuali, vi sono dubbi in dottrina sulla distribuzione dell’onere della prova in merito ai requisiti di dipendenza e non-occasionalità (cfr. Vallebona, A., Il trattamento di fine rapporto, Milano, 1984, 68; Napoli, M., op. cit., 24).
Come già accennato, per evitare che gli aumenti del costo della vita pregiudichino il valore reale del credito in via di maturazione, la legge prevede un tasso di rivalutazione (1,5 per cento in misura fissa sommato al 75 per cento dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo) in grado di coprire una inflazione contenuta entro il 6 per cento.
Ai fini dell’applicazione del tasso di rivalutazione per frazioni di anno, l’incremento dell’indice ISTAT è quello risultante nel mese di cessazione del rapporto di lavoro rispetto a quello di dicembre dell’anno precedente. Le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.
La norma ha posto problemi di legittimità costituzionale. Essa non appare censurabile ai sensi dell’art. 47 Cost. poiché gli accantonamenti in corso di maturazione, non ancora nella disponibilità del prestatore, non sembrano costituire tecnicamente un risparmio; piuttosto secondo certa dottrina la natura retributiva del credito TFR potrebbe comportare una violazione dell’art. 36 Cost., anche se la valutazione inerente il rispetto del principio di sufficienza della spettanza dopo la rivalutazione non può che essere effettuata alla cessazione del rapporto di lavoro (Giugni, G.-De Luca Tamajo, R.-Ferraro, G., op. cit., 93).
Come già accennato, nell’ambito della definizione della nozione di retribuzione rilevante ai fini del calcolo del TFR trova amplio spazio l’intervento della contrattazione collettiva, anche aziendale (Cass., 13.3.2008, n. 6743). L'autonomia collettiva, infatti, può incidere tanto sulla nozione legale di retribuzione parametro, quanto sulla modalità di determinazione dell’accantonamento annuale.
Parte della dottrina ritiene inderogabile il dividendo, ossia la retribuzione annua da prendere a riferimento per il calcolo, sulla base di una interpretazione restrittiva della disciplina legale (Giugni, G.-De Luca Tamajo, R.-Ferraro, G., op. cit., 44).
Questa ricostruzione presta però il fianco a qualche rilievo. Il dividendo, infatti, si identifica con la retribuzione annua dovuta e l’autonomia collettiva è abilitata non solo ad individuare criteri di determinazione diversi da quelli legali ma in ogni caso a quantificare la retribuzione annua (Napoli, M., op. cit., 25). Quest'ultima, inoltre, è una variabile dipendente della retribuzione parametro, perché ogni variazione in aumento o in diminuzione nella composizione di questa determina inevitabilmente una variazione corrispondente di quella.
È vero che la legge menziona «una quota pari o comunque non superiore all’importo della retribuzione annua dovuta», ma tale espressione non giustifica l'inderogabilità del dividendo e fa riferimento al mantenimento del rapporto fisso indicato dalla legge di 1/13,5, che dipende dall’inderogabilità del divisore.
Come, pure, la nullità delle clausole del contratto collettivo difformi prevista espressamente dal co. 11 dell’art. 4 della legge sul TFR colpisce l’introduzione di diversi sistemi di calcolo e non anche il diverso computo del dividendo o la diversificazione delle modalità di erogazione del TFR.
Il progressivo accrescimento dello spazio di intervento della contrattazione collettiva voluto dal legislatore per la definizione della retribuzione parametro (cfr. anche art. 325 cod. nav.) sembra altresì proteso ad avversare l’estensione di matrice giurisprudenziale del principio di onnicomprensività della retribuzione oltre i confini dell’art. 2121 c.c.. L’art. 2120, co. 2 c.c., facendo salve le diverse previsioni dei contratti collettivi, non rappresenta perciò una semplice deroga al suddetto principio, bensì manifesta compiutamente la tendenza del legislatore a restituire al contratto collettivo il governo della retribuzione in generale (Giugni, G.-De Luca Tamajo, R.-Ferraro, G., op. cit., 60).
Lo spazio riservato all'autonomia collettiva esclude, infine, che la variazione del dividendo possa dipendere da pattuizioni individuali.
L’anzianità di servizio, che ai sensi dell’art. 2110, co. 3, c.c. maturerebbe anche in relazione a periodi di inesecuzione della prestazione, durante i quali il rapporto di lavoro è sospeso (cfr. Balestrieri, F., sub art. 2110, in Amoroso, G.-Di Cerbo V.-Maresca A., a cura di, Diritto del lavoro, I, 2009, 1051 ss.) non rileva, o meglio rileva solo indirettamente, ai fini del calcolo del TFR. (Cass., 1.9.2003, n. 12756). Tale calcolo, infatti, è influenzato dall’entità dell’obbligazione retributiva perché il TFR, diversamente dall’indennità di anzianità, è determinato in funzione delle somme corrisposte e non della durata della prestazione.
L'art. 2120, co. 3, stabilisce che in caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell’anno per una delle cause di cui all’art. 2110, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale, debba essere computato nella retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro.
La retribuzione figurativa da prendere in considerazione è quella che il lavoratore avrebbe percepito in condizioni normali (cfr. Cass., S.U., 7.11.1981, n. 5887). Inoltre si computano i periodi di sospensione legale o convenzionale, qualora a tali periodi di inesecuzione della prestazione corrisponda un corrispettivo da porre a parametro del calcolo.
Da quanto sopra esposto deriva anche l’irrilevanza ai fini del computo del TFR delle cosiddette anzianità convenzionali (cfr. Cass., 16.7.2002, n. 10323), a meno che non si traducano in una quantità di denaro effettivamente corrisposta al lavoratore.
L’art. 2120 c.c., disciplina, al co. 6, i presupposti, le condizioni, le modalità e i criteri per richiedere e ottenere l'anticipazione del TFR, rinviando alla contrattazione collettiva per l’eventuale previsione di condizioni di miglior favore.
L’accoglimento della domanda di anticipazione del TFR da parte del lavoratore dipendente è condizionato alla contemporanea sussistenza di requisiti soggettivi ed oggettivi.
Riguardo ai primi, l’art. 2120, co. 6, c.c. stabilisce che il lavoratore può presentare domanda di anticipazione, in costanza di rapporto, solamente a seguito dell’aver prestato almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro.
Sebbene in dottrina non vi sia unanimità, l'anzianità minima richiesta è la mera anzianità di servizio, comprensiva di eventuali periodi di sospensione del rapporto di lavoro, per i quali sia prevista la sola decorrenza dell’anzianità medesima, anche in assenza di retribuzione figurativa.
Circa i requisiti oggettivi, la legge individua sia le causali che legittimano la richiesta, sia il numero massimo delle anticipazioni ottenibili.
Le casuali previste sono tre: a) spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; b) acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli (cfr. C. cost., 5.4.1991, n. 142); c) spese da sostenere durante i periodi fruizione dei congedi di maternità o per la formazione finalizzata al conseguimento di un titolo di studio ovvero alla formazione continua.
A differenza delle prime due, previste dall’art. 2120, co. 8, c.c., la terza causale è riconosciuta dall’art. 7, co. 1, l. 8.3.2000, n. 53. Secondo la Cassazione, tuttavia, anche per quest'ultima deve essere rispettato il requisito soggettivo contemplato dalla norma codicistica (Cass., 21.11.2011, n. 24474).
Secondo un'autorevole dottrina (Mengoni, L., L’indennità in caso morte, in Mass. giur. lav., 1983, 80) l'anticipazione corrisposta fuori dai limiti e senza le condizioni previste dalla legge deve essere considerata un pagamento non dovuto e come tale ripetibile ai sensi dell’art. 2033 c.c. Tale ricostruzione non è stata tuttavia sposata dalla Corte costituzionale, che propende per meccanismi solutori di tipo negoziale (C. cost., 5.3.1991, n. 142).
L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro e, come già evidenziato, viene detratta, a tutti gli effetti, dal trattamento di fine rapporto.
Posto che gli accantonamenti del TFR costituiscono fonte di autofinanziamento per le piccole e medie imprese, l’art. 2120, co. 7, c.c. pone un duplice limite quantitativo al dovere del datore di lavoro di corrispondere tali anticipazioni. Le richieste devono esser soddisfatte annualmente entro il 10 per cento degli aventi titolo e nel limite del 4 per cento del numero totale dei dipendenti.
Il secondo parametro risulta assorbente rispetto al primo: per effetto della norma che impone il limite massimo del 4% del totale dei dipendenti ai fini dell’accoglibilità delle domande la giurisprudenza non ha riconosciuto il diritto a chiedere l’anticipazione se il datore di lavoro occupa meno di venticinque dipendenti (Cass., 6.3.1992, n. 2749). Al di sotto dei 25 dipendenti, infatti, il limite del 4% produrrebbe un numero di anticipazioni da soddisfare inferiore all’unità.
Inoltre, l’inapplicabilità della disciplina dell’anticipazione del TFR alle aziende dichiarate in crisi ai sensi della l. 12.8.1977, n. 675, stabilita dall’art. 4, co. 3, l. n. 297/1982, deve essere intesa nel senso di precluderne l’applicazione in tutti i casi di intervento della cassa integrazione guadagni straordinaria (Cass., 15.7.1995, n. 7710).
Ai sensi dell'art. 2120 c.c., ultimo co., contratti collettivi e patti individuali possono prevedere condizioni di miglior favore per la corresponsione delle anticipazioni, mentre solo la contrattazione collettiva può prevedere criteri di priorità per l’accoglimento delle richieste.
Riguardo alle condizioni di miglior favore, deve registrarsi un contrasto in dottrina.
Una prima tesi, restrittiva, afferma che tale previsione non legittimerebbe comunque deroghe dei requisiti essenziali della disciplina delle anticipazioni, allo scopo di evitare distorsioni delle finalità dell’istituto (Persiani, M., Trattamento di fine rapporto di lavoro, in Relazione al seminario Se.Ma., Roma 24-25.3.1983, 25, dattiloscritto).
Una diversa ricostruzione, estensiva, legittima le parti e la contrattazione a prevedere financo una corresponsione reiterata e/o periodica di anticipazioni a fronte di reiterate richieste nel limite dell’accantonamento esistente (Giugni, G.-De Luca Tamajo-Ferraro, G., op. cit.,124; conf. Cass., 22.2.2007, n. 4133).
È pacifico, invece, che le condizioni di miglior favore non debbano risolversi in un ampliamento della platea dei possibili beneficiari e causare contestualmente un pregiudizio per altri dipendenti che avrebbero avuto diritto all'anticipazione sulla base della disciplina legale: si pensi al caso di un aumento delle causali abilitanti alla richiesta di anticipazione non accompagnato da un ampliamento dei limiti quantitativi.
In altri termini, le condizioni di miglior favore devono tradursi in previsioni di vantaggio aggiuntivo per tutti i dipendenti e non solo per alcuni, tenendo in considerazione l’intera disciplina dell’istituto.
Passando all'analisi dei criteri di priorità, in mancanza di una disciplina collettiva, il datore di lavoro nella concessione di anticipazioni deve adottare regole oggettive: non sembra si possa prescindere dal criterio cronologico, cioè dal tempo in cui sono state presentate le richieste.
Laddove, invece, la contrattazione collettiva preveda criteri di priorità per l’accoglimento delle richieste diversi da quello cronologico, l’applicazione di tali criteri a tutti i lavoratori non discenderà dall'efficacia generale dell’accordo collettivo, bensì dall’esercizio di un potere datoriale vincolato (Liso, F., Modifiche dell’organizzazione e contratto di lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 1981, 571).
L’art. 2, l. n. 297/1982, con l’obiettivo di garantire l’effettività della corresponsione del TFR, migliorando così la tutela prevista dalla dir. CEE 20.10.1980, n. 987, nei casi di insolvenza del datore di lavoro, ha stabilito l’istituzione di un fondo di garanzia finanziato dai soli datori di lavoro e gestito dall’Inps.
In epoca successiva con d.lgs. 27.5.1992, n. 80, al fine di sanare gli inadempimenti agli obblighi minimi della citata direttiva (C. giust., 2.2.1989, C-22/87, Cee c. Repubblica Italiana), tale garanzia è stata estesa anche alle ultime tre retribuzioni e, con d.lgs. 19.8.2005, n. 186, a sua volta attuativo della dir. CEE 23.9.2002, n. 74, è infine stata ulteriormente estesa ai casi delle cosiddette situazioni transnazionali.
Beneficiari del fondo possono essere tutti i lavoratori dipendenti dei datori soggetti all’obbligo di contribuzione.
I requisiti richiesti dall’art. 2, l. n. 297/1982, per l’intervento del fondo, che il lavoratore ha l’onere di dimostrare, differiscono a seconda del fatto che l’insolvenza del datore di lavoro risulti accertata nell’ambito di procedure concorsuali (co. 2) ovvero risulti da inadempimento di datore di lavoro non soggetto a queste (co. 5).
Nel primo caso, il lavoratore deve infatti provare: a) la cessazione del rapporto di lavoro subordinato; b) l’apertura della procedura concorsuale; c) l’esistenza del credito relativo al TFR rimasto insoluto.
Nel secondo caso, in aggiunta ai punti a) e c) dei requisiti sopra menzionati, il lavoratore deve inoltre dimostrare: d) l’inapplicabilità al datore di lavoro delle procedure concorsuali per mancanza dei requisiti soggettivi di cui all’art. 1, R.d. 16.3.1942, n. 267 (Legge fallimentare); e) l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro a seguito dell’esperimento di una procedura esecutiva individuale diligente, seria, ed adeguata, conclusasi con esito negativo (Cass., 8.5.2008, n. 11379) .
Tra i datori di lavoro non assoggettabili a fallimento devono essere inclusi anche quelli formalmente rientranti nel capo di applicazione della legge fallimentare, ma non dichiarabili “in concreto” falliti a causa del trascorrere di più di un anno dalla cancellazione dell’impresa dal registro delle imprese (artt. 10-11, R.d. n. 267/1942), ovvero nel caso in cui risulti che il complessivo ammontare dei debiti scaduti e non pagati dall’impresa, accertati nel corso dell’istruttoria prefallimentare, sia inferiore a Euro trentamila (art. 15, co. 9, R.d. n. 267/1942).
La prassi amministrativa (Circolare Inps 4.3.2010, n. 32) è giunta, inoltre, ad affermare che l’insolvenza del datore di lavoro soggetto a procedure concorsuali, nell’ipotesi di assenza di accertamento dello stato passivo, può esser dimostrata dal lavoratore con le medesime modalità utilizzate in caso di insolvenza di datori di lavoro non rientranti nell’ambito di applicazione della legge fallimentare.
In presenza di tutti i requisiti sopra esplicati, a seguito di domanda del lavoratore o dei suoi aventi causa, il fondo di garanzia si sostituisce al datore di lavoro insolvente nel pagamento del TFR, e degli eventuali diversi crediti sopra indicati, comprensivi di interessi e rivalutazione monetaria (Cass., S.U., 26.9.2002, n. 13991) attraverso un “accollo” cumulativo ex lege (Cass., 19.12.2005, n. 27917).
Il diritto alla prestazione erogata dal fondo di garanzia a titolo di liquidazione TFR si prescrive, ai sensi dell’art. 2948, n. 5, c.c., in cinque anni, decorrenti dalla maturazione di tutti requisiti richiesti dalla legge per l’intervento del fondo (Cass., 28.7.2011, n. 16617), mentre quella erogata a titolo di emolumenti diversi dal TFR si prescrive in un anno ai sensi dell’art. 2, co. 5, d.lgs. n. 80/1992.
Il TFR, sin dalla sua origine, ha avuto natura di retribuzione differita in quanto finalizzato a costituire un “risparmio forzoso” per il lavoratore e non a soddisfare i suoi bisogni primari derivanti dalla perdita dell’occupazione.
L’asserita funzione previdenziale di tale istituto aveva al più valenza descrittiva, poiché poggiava le sue basi solo sulla parziale corrispondenza tra i criteri di determinazione del TFR e quelli della contribuzione previdenziale, nonché sull’analogia tra i due accantonamenti.
La funzione del TFR, però, differisce da quella della pensione pubblica. Come, pure, gli accantonamenti della previdenza pubblica sono reali mentre quelli relativi al TFR solo virtuali (ad eccezione di quelli a previsti ex l. 27.12.2006, n. 296).
Di funzione previdenziale del TFR in senso tecnico è possibile parlare solo nel caso in cui il lavoratore, a seguito dell’esercizio della facoltà di destinare gli accantonamenti del TFR alla forme pensionistiche complementari (d.lgs. 5.12.2005, n. 252), interrompa il nesso di corrispettività tra gli accantonamenti e la prestazione. Infatti in una simile ipotesi il TFR non rimane più nella disponibilità del datore di lavoro e non è più finalizzato a soddisfare un interesse individuale del lavoratore. Al contrario, l'accantonamento soddisfa gli interessi indicati dal contratto collettivo e riferiti a determinati eventi, quali la morte, l’invalidità, la vecchiaia, l’anzianità.
La stessa Corte costituzionale, a seguito delle riforme degli anni ‘90, con riferimento alle contribuzioni dei datori di lavoro al finanziamento dei fondi pensione, diverse dal conferimento del TFR maturando, è giunta a riconoscere a quegli emolumenti una natura strutturalmente previdenziale (C. cost., 8.9.1995, n. 421; cfr. diff. Persiani, M., Il diritto della previdenza, IXX ed., Padova, 2012, 384).
La giurisprudenza della Cassazione, dopo aver inizialmente attribuito a detti accantonamenti «natura di retribuzione differita con funzione previdenziale» (Cass., S.U., 1.2.1997 n. 974), risulta ormai allineata alla posizione della Corte costituzionale (Cass., 4.4.2013, n. 8228; Cass., 31.5.2012, n. 8695; parz. contra Cass., 12.1.2011, n. 545).
L’adesione alle forme pensionistiche complementari rimane comunque volontaria, sebbene sia prevista una modalità tacita di adesione nel caso di mancata manifestazione di una diversa volontà da parte del lavoratore nei termini previsti dalla legge. In tale ultimo caso è la stessa legge a predeterminare quale forma pensionistica sarà destinataria del conferimento.
Anche gli accantonamenti di TFR conferiti alle forme pensionistiche complementari accantonamenti, inoltre, sono reali e non virtuali.
Art. 2033 c.c.; art. 2120 c.c.; art. 2122 c.c.; R.d. 10.3.1942, n. 267; l. 12.8.1977, n. 675; dir. CEE 20.10.1980, n. 987; d.lgs. 27.5.1982, n. 80; l. 8.3.2000, n. 53; dir. CEE 23.9.2002, n. 74; d.lgs. 19.8.2005, n. 186; d.lgs. 5.12.2005, n. 205; l. 27.12.2006, n. 296; dir. CEE 22.10.2008, n. 94.
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