Trattati internazionali
I trattati internazionali sono anzitutto contratti. Gli Stati, come gli individui, ne hanno bisogno per commerciare, navigare, difendere i propri beni, fissare i confini tra le rispettive proprietà, risarcire danni o incassare indennizzi, comprare terre, venderle o affittarle. In alcune circostanze la somiglianza fra il contratto e il trattato è particolarmente evidente. Quando volle espandere verso occidente il territorio degli Stati Uniti, Thomas Jefferson incaricò James Monroe di negoziare con i Francesi l'acquisto di New Orleans. Ma non appena giunse a Parigi, Monroe constatò con sua grande sorpresa che Napoleone era disposto a vendere tutta la Louisiana. Il patto di compravendita - un trattato che passò alla storia con il nome di Louisiana purchase - fu concluso nell'aprile 1803, dopo un breve negoziato, e garantì agli Stati Uniti, per dodici milioni di dollari, più terra di quanta non ne avessero al momento dell'acquisto. Grazie a un 'contratto di diritto privato' lo Stato americano scivolò lungo la carta geografica verso occidente e cambiò completamente dimensioni, stile, cultura e politica estera. Crebbe rapidamente da allora il numero degli Stati che entrarono nell'Unione: l'Ohio nel 1803, l'Indiana nel 1816, il Mississippi nel 1817, l'Illinois nel 1818, l'Alabama nel 1819, il Maine nel 1820, il Missouri nel 1821, l'Arkansas nel 1836, il Texas nel 1845. Poco più di sessant'anni dopo, nel 1867, gli Americani ripeterono l'operazione. L'oggetto della compravendita, in questo caso, fu l'Alaska di cui i Russi si erano gradualmente impadroniti fra il 1799 e il 1821. Con sette milioni e duecentomila dollari gli Stati Uniti divennero proprietari di un milione e mezzo di chilometri quadrati compresi fra l'Oceano Pacifico a sud, il Mar Glaciale Artico a nord e lo Stretto di Bering a ovest. Lo stesso può dirsi delle clausole economiche e finanziarie che figurano spesso nei trattati di pace. Dopo la guerra franco-prussiana la Francia sottoscrisse a Francoforte nel maggio del 1871 un trattato con cui s'impegnò a pagare, a titolo d'indennizzo, cinque miliardi di franchi e accettò, a titolo di garanzia, che un esercito d'occupazione stazionasse sul suo territorio sino all'esecuzione del contratto. A Versailles, nel giugno del 1919, la Germania sottoscrisse, 'sotto dettatura', una serie di clausole economiche e finanziarie: s'impegnò a rimborsare i danni civili provocati dalla guerra e a fare alcuni pagamenti 'in natura' cedendo ai vincitori tutte le navi mercantili di stazza superiore alle 1.600 tonnellate, metà di quelle comprese fra le 800 e le 1.600 tonnellate, un quarto della sua flotta da pesca.
Questi sono soltanto alcuni fra i molti esempi possibili. Servono semplicemente a ricordare l'evidente somiglianza fra i contratti di diritto privato e i trattati internazionali. Ma vi è una fondamentale differenza di cui occorre tener conto. I contratti, se conformi alla legge, godono della tutela dello Stato in cui sono stati stipulati, e il contraente che si ritiene offeso o tradito può chiedere al giudice d'imporre all'altro contraente il rispetto delle clausole pattuite o il pagamento di un indennizzo. Nei trattati internazionali, invece, il giudice, vale a dire il rappresentante di un'autorità superiore, è da sempre il grande problema irrisolto della società internazionale. Per alcuni secoli tale autorità fu, entro certi limiti, l'imperatore o il papa. All'epoca delle grandi scoperte, quando fu necessario definire le aree d'influenza delle maggiori potenze coloniali, Spagna e Portogallo decisero di sollecitare la mediazione del papa. Il compito, sfortunatamente per il Portogallo, toccò a un papa spagnolo. Con una bolla del 1493 Alessandro VI Borgia tracciò una linea di demarcazione tra un polo e l'altro, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde: di qui il Portogallo, di là la Spagna. Giovanni II, re del Portogallo, ritenne che la bolla papale avrebbe frenato l'espansione portoghese e chiese una nuova linea di demarcazione. Una conferenza diplomatica, composta da Spagnoli e Portoghesi, si riunì allora a Tordesillas, nella Spagna nordoccidentale, e fissò la linea di demarcazione a 300 leghe dalle isole di Capo Verde. Il Trattato di Tordesillas fu firmato il 7 giugno 1494 e ratificato da papa Giulio II nel gennaio del 1506.
L'imperatore e il papa, quindi, furono per molti anni una sorta di Società delle Nazioni cui spettava il compito di mediare, arbitrare, ricomporre vertenze, evitare conflitti. Ma il primo era spesso parte in causa e quindi poco adatto a svolgere, in molte circostanze, tali funzioni; mentre l'autorità del secondo era esclusivamente morale e spirituale. Non è tutto. Il rafforzamento di alcuni grandi Stati nazionali - in particolare Francia, Inghilterra, Svezia, Russia - e l'apparizione di alcune potenze protestanti - l'Inghilterra, soprattutto ai tempi di Cromwell, e le Province Unite olandesi - indebolirono l'autorità morale delle due maggiori istituzioni medievali. Il periodo in cui esse esercitarono una sorta di primato internazionale si concluse definitivamente, dopo la guerra dei Trent'anni, con i trattati di Vestfalia dell'ottobre 1648. In primo luogo i diplomatici francesi e svedesi ottennero che al negoziato partecipassero tutti gli Stati dell'impero, e infersero in tal modo una prima ferita all'autorità imperiale. In secondo luogo i trattati riconobbero i diritti dei principi protestanti, affermarono il principio dell'eguaglianza fra Stati protestanti e Stati cattolici, sancirono l'indipendenza dall'impero di due repubbliche, le Province Unite e la Confederazione Svizzera. Nei negoziati che precedettero la conclusione dei trattati la diplomazia vaticana ebbe una parte importante. Ma il papato, come l'impero, era ormai soltanto una potenza fra le altre.
Si afferma più che mai da allora il principio secondo cui gli Stati sono soggetti pubblici e sovrani, signori e padroni 'dopo Dio' nelle terre su cui esercitano la loro autorità. Quando il loro potere trova sulla propria strada quello di un altro Stato, è possibile negoziare un trattato nel quale la potenza maggiore impone la propria volontà o i contraenti accettano di regolare con un compromesso le materie d'interesse comune. Se i due Stati temono di essere aggrediti da un terzo, concludono un patto difensivo. Se vogliono spartirsi il suo territorio stringono un patto offensivo. Se vogliono accordarsi per evitare che gli equilibri politici e territoriali vengano modificati con un colpo di mano, concludono un patto di garanzia. Se vogliono legarsi l'uno all'altro con un patto dinastico, organizzano solennemente con un trattato un matrimonio fra i principi delle famiglie regnanti. Se vogliono disciplinare i loro rapporti commerciali e ottenere condizioni di favore per i propri connazionali, negoziano un trattato di commercio e navigazione. E se vogliono mettere fine a una guerra, firmano un trattato che traduce i risultati del conflitto in termini politici, militari ed economici. Molti di questi patti sono segreti. Un accordo pubblico rivela le intenzioni dei firmatari e mette sul chi vive i loro avversari. La diplomazia è segreta per le stesse ragioni per cui sono spesso segreti i contratti privati che gli individui concludono fra di loro per meglio perseguire i propri interessi. Molti trattati internazionali, soprattutto quando concernono materie politiche e militari, assomigliano per molti aspetti ad altrettanti patti di complicità.
Ma se cambiano i rapporti di forza, uno dei 'complici' denuncia il trattato e, come disse Clausewitz, persegue la propria politica 'con altri mezzi'. Così almeno ragionano i rappresentanti delle dottrine più realistiche. Se ogni Stato è sovrano e non vi è autorità che possa imporre ai firmatari le proprie decisioni, i trattati durano esattamente quanto la convenienza delle parti alla loro osservanza. È la teoria del rebus sic stantibus, che conserva ancora oggi, a dispetto del suo apparente cinismo, una certa validità.
Una teoria, tuttavia, si fa strada agli inizi del Seicento. In un libro apparso nel 1625 (De jure belli ac pacis) un grande giurista olandese, Huig van Groot, noto da noi come Grotius o Grozio, sostenne che la società umana è regolata dalla volontà razionale dell'uomo e dalle norme del diritto naturale. Anche gli Stati, sorti per soddisfare i bisogni o gli egoismi delle società, debbono obbedire a queste norme perché "il diritto naturale è così immutabile che neppure da Dio può essere mutato". Da queste premesse Grozio trae la convinzione che gli Stati debbano ispirarsi a tali norme e che neppure la guerra li liberi dall'obbligo di osservarle. Anche se non esistono tribunali internazionali vi è quindi un 'diritto delle genti', soprattutto in tempo di guerra, che Grozio cercò di definire e ricostruire. Le fonti di quel diritto possono trovarsi nelle consuetudini e nei principî generali a cui gli Stati si sono ispirati per regolare i loro rapporti.
I trattati internazionali assumono così una nuova importanza. Anziché essere semplici contratti per la soddisfazione di alcuni specifici obiettivi, essi diventano, dopo Grozio, l'archivio storico del diritto delle genti, la grande biblioteca dove sono racchiusi, fra le scorie delle situazioni contingenti da cui trassero occasione, i principî del diritto naturale. Cominciano così ad apparire, verso la fine del Seicento, le prime raccolte di trattati internazionali. Una di esse fu quella promossa dalla Casa di Brunswick che incaricò Gottfried von Leibniz di pubblicare in un Codex juris gentium diplomaticus gli atti e i trattati stipulati fra il 1096 e il 1497. Apparve poi nel 1698, a cura di Frédéric Léonard, stampatore di Luigi XIV, un Recueil des traitéz in cui sono raccolti trattati conclusi fra il 1435 e il 1690. Seguì due anni dopo un altro Recueil des traitéz, pubblicato da un gruppo di editori dell'Aia e curato da un teologo francese, Jacques Bernard. In Inghilterra Thomas Rymer pubblicò fra il 1704 e il 1717 i trattati conclusi dall'Inghilterra dopo il 1101. Un'altra iniziativa editoriale olandese produsse un Corps universel diplomatique du droit des gens (1726-1731), in cui appaiono 50.000 documenti compresi fra l'800 e il 1730. L'ultimo grande compilatore privato fu probabilmente Georg Friedrich von Martens, professore dell'Università di Gottinga. Cominciò la sua raccolta nel 1791, pubblicò in dieci anni sette volumi sul periodo 1761-1790 e completò l'opera spingendosi sino al 1807. Dalla metà del Settecento la pubblicazione dei trattati divenne responsabilità dei singoli governi e dei loro ministeri degli Esteri. "Nascono così - come osserva Enrico Serra (v., 1970, p. 47) - raccolte [...] dedicate a un singolo paese". La prima raccolta italiana appare a Torino fra il 1879 e il 1890 sotto il titolo Trattati e convenzioni fra il Regno d'Italia e i governi esteri. Ma sin dagli anni trenta dell'Ottocento Carlo Alberto aveva commissionato ai suoi archivisti una raccolta ufficiale dei trattati conclusi dalla sua dinastia dopo la pace di Cateau Cambrésis (1559), con cui Emanuele Filiberto ottenne la restituzione di gran parte delle terre perdute durante le guerre franco-spagnole, s'impegnò a restare neutrale nelle divergenze tra Francia e Spagna, ottenne in matrimonio la sorella di Enrico II re di Francia. Altre appaiono in Belgio, Olanda, Austria, Francia e soprattutto in Gran Bretagna, dove il governo subentrò all'iniziativa privata di un archivista del Foreign Office e promosse la pubblicazione dei British and foreign State papers, che appaiono regolarmente dal 1832.
Si forma così progressivamente nel corso dell'Ottocento un grande corpus costituito dai patti con cui gli Stati hanno regolato nel tempo i diversi aspetti dei loro rapporti. Ciascuno Stato si considera perfettamente sovrano e non riconosce autorità superiori a cui delegare una parte dei propri poteri. Ma ha contemporaneamente un forte interesse a evitare che l'altro firmatario sciolga bruscamente il patto o ne ignori le clausole. Riappare così l'esigenza di una persona o istituzione a cui delegare una funzione arbitrale. Terminata ormai l'epoca in cui il papa e il sacro romano imperatore godevano di uno status particolare, l'arbitro è spesso un capo di Stato (talvolta lo stesso pontefice) a cui le parti riconoscono equanimità e autorità morale. Ecco alcuni esempi, scelti a caso negli annali della politica internazionale. Nel 1871 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si accordarono con un trattato firmato a Washington per affidare all'imperatore tedesco la disputa sulla frontiera nordoccidentale dell'America. Nel 1878 l'Argentina e il Paraguay delegarono al presidente degli Stati Uniti il compito di risolvere il loro contenzioso territoriale. Nel 1897 la Gran Bretagna e il Venezuela accettarono di sottoporre a una commissione americana il problema dei confini della Guiana britannica. Nel 1902 una commissione composta da tre americani, due canadesi e un britannico fu incaricata di definire i confini dell'Alaska.
Molto importante, per la creazione di un sistema arbitrale a cui rimettere la soluzione dei conflitti internazionali, fu la prima conferenza della pace che si tenne all'Aia per iniziativa della Russia fra il maggio e il luglio 1899. Vi parteciparono ventisei Stati e i risultati furono complessivamente modesti. Ma fu decisa, in quella occasione, la creazione di una Corte permanente di arbitrato che nacque con la Convenzione del 18 ottobre 1907. Essa prevede che ogni paese firmatario designi non più di quattro persone e che fra le persone designate le parti interessate scelgano gli arbitri per le controversie sottoposte alla Corte. Se le parti non riescono a mettersi d'accordo, la Corte, entro certi limiti, può procedere alla composizione del collegio arbitrale. Ma può agire, in realtà, soltanto se gli Stati sono d'accordo per rimettersi alla sua giurisdizione.
All'origine delle grandi raccolte di trattati internazionali apparse soprattutto nel corso dell'Ottocento non vi è soltanto l'intenzione di costruire un 'diritto delle genti', a cui ogni Stato possa appellarsi per sciogliere i nodi delle controversie internazionali. Vi è anche, forse soprattutto, il desiderio di rivendicare diritti o pretese. Come un privato ricerca contratti, patti di servitù e patenti reali per dimostrare il fondamento dei propri titoli di proprietà e nobiltà, così un sovrano ricerca nei propri archivi i documenti da cui possa desumersi che egli ha il diritto di occupare le sue terre o di reclamare quelle che appartengono in quel momento a un paese confinante. Vi è quindi nei trattati internazionali una continua contraddizione fra l'esigenza della segretezza e quella della pubblicità. Ogni Stato vorrebbe che le proprie intenzioni e i propri 'patti di complicità' restassero segreti. Ma ogni Stato, prima o dopo, ha interesse a rivelare gli accordi conclusi con altri Stati, se essi servono a rafforzare le sue iniziative diplomatiche.
Questa dialettica fra pubblicità e segretezza diventa particolarmente evidente là dove un parlamento eletto dal popolo interroga il governo sulle sue iniziative internazionali e chiede di conoscere gli impegni che esso ha contratto con gli Stati stranieri. Per molto tempo, tuttavia, la maggior parte dei governi sostiene con sicurezza e arroganza che la politica estera e i suoi strumenti appartengono al re e all'esecutivo. Sono rari sino alla grande guerra i ministri degli Esteri che accettano di rispondere alle interrogazioni dei parlamentari sui patti e sulle intese conclusi dai loro governi. Nella maggior parte dei casi si appellano alle responsabilità del sovrano, all'interesse della nazione, all'obbligo di segretezza che lega ogni paese nei suoi rapporti con altri membri della società internazionale. Accade così che alla vigilia della prima guerra mondiale il principale patto politico-militare europeo della generazione precedente, la Triplice Alleanza, sia ancora, anche se tutti ne conoscono il contenuto, formalmente segreto.
La contraddizione esplose, per l'appunto, nel 1914. La guerra mobilitò le masse, coinvolse la popolazione civile, costrinse ogni cittadino a impegnarsi per la vittoria del proprio paese. Ma il suo governo non gli disse nulla, o quasi, sugli impegni che avevano giustificato il suo intervento. Il primo capo di Stato che denunciò tale contraddizione fu Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913. In alcuni discorsi durante la guerra Wilson denunciò la diplomazia segreta delle grandi potenze e sostenne che la guerra era l'inevitabile risultato dei patti occulti conclusi dalle cancellerie negli anni precedenti. Entrato in guerra a fianco degli Alleati, Wilson pubblicò un programma di pace in cui propose una serie di soluzioni per i maggiori contenziosi territoriali che erano alle origini del conflitto. Ma nel primo dei suoi quattordici punti insistette sulla necessità che i trattati internazionali, d'ora in poi, fossero pubblici e pubblicamente negoziati ("open covenants openly arrived at"). Era l'8 gennaio 1918. Da qualche giorno comunque i testi dei maggiori trattati internazionali stipulati prima della guerra non erano più segreti. Rinvenuti nella Cancelleria imperiale russa dai bolscevichi dopo la conquista del potere erano stati pubblicati dal quotidiano del governo sovietico, "Izvestija", e di lì erano immediatamente rimbalzati sulle prime pagine dei giornali occidentali. Fra la fine del 1917 e l'inizio del 1918, quindi, due uomini di Stato - Wilson e Lenin - dettero, con animo diverso, un forte contributo alla causa della pubblicità dei trattati internazionali. Il primo espresse in tal modo un giudizio negativo sugli scaltri intrighi della diplomazia europea e credette davvero che il suo paese avesse l'obbligo morale di costruire su più solide fondamenta l'edificio della società internazionale. Il secondo, più semplicemente, cercò di suscitare contro i governi la collera dei popoli e di sfuggire in tal modo alla minacciosa pressione delle truppe tedesche che si stavano pericolosamente avvicinando a Pietroburgo.
Nello stesso periodo un altro uomo di Stato, Giovanni Giolitti, prese pubblicamente posizione contro la diplomazia segreta delle corti e delle cancellerie. Nella primavera del 1915 cercò di evitare l'intervento dell'Italia in guerra. Quando giunse a Roma, il 9 maggio, 320 deputati e un centinaio di senatori depositarono il loro biglietto da visita nella portineria della sua casa per dimostrargli simpatia e approvazione. Ma nei giorni seguenti apprese che il governo aveva già negoziato a Londra con gli Alleati occidentali, e con l'autorizzazione di Vittorio Emanuele III, le condizioni dell'intervento. Capì che la pubblica sconfessione di quel patto avrebbe provocato l'abdicazione del re e fortemente appannato l'immagine della monarchia. Per lealtà costituzionale rinunciò alla sua azione politica e permise che i parlamentari a lui fedeli votassero al governo Salandra, il 21 maggio, i poteri straordinari in caso di guerra. Passò il periodo della guerra a Dronero in una sorta di esilio politico. Ma alla fine del conflitto, il 12 ottobre 1919, pronunciò un discorso in cui parlò a lungo della società internazionale nel dopoguerra e delle istituzioni che avrebbero potuto preservare la pace. Tutto sarebbe stato inutile, tuttavia, senza riforme che assicurassero "la diretta influenza del paese sulla politica estera". Lasciò intendere in altre parole che era giunto il momento di risolvere il problema sorto nella primavera del 1915, quando una parte della classe politica aveva trascinato il paese in guerra con il ricatto di un patto segreto concluso dietro le spalle del Parlamento. Vi era nell'ordinamento politico italiano - constatò Giolitti - una contraddizione. Il governo non poteva "spendere una lira, [...] modificare (o) abolire una pretura [...] senza la preventiva approvazione del Parlamento". Poteva "invece, per mezzo di trattati internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né Parlamento né paese ne siano, o ne possano essere, in alcun modo, informati". Propose in altre parole una riforma dello Statuto il quale conferiva al re il potere di stipulare i trattati internazionali e aggiunse, ancora più esplicitamente: "Se il Patto di Londra del 26 aprile 1915 fosse stato portato all'esame del Parlamento, o anche solamente di una Commissione parlamentare, ne sarebbero state rilevate le deficienze che ebbero poi conseguenze così disastrose".
Vedremo fra poco quali fossero le deficienze e le conseguenze del Patto di Londra. Quando Giolitti pronunciò il suo discorso il testo del trattato era apparso, come sappiamo, sulla stampa bolscevica ed europea. Gli Italiani appresero così che il loro governo aveva ottenuto dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Russia, in cambio dell'intervento, alcune promesse: il Tirolo meridionale fino al Brennero, Gorizia, Gradisca, Trieste, l'Istria, la maggior parte delle isole dalmate, la Dalmazia settentrionale, Saseno, Valona e un diritto di controllo sulle isole del Dodecaneso che erano state conquistate, e conservate in temporanea garanzia, durante la guerra italo-turca del 1911-1912.
La pubblicità di un trattato è spesso un'arma a doppio taglio. Necessaria ogniqualvolta uno Stato deve appellarsi a una delle clausole in esso contenute, diventa imbarazzante quando le circostanze ne impediscono il compimento. Così accadde, per l'appunto, del Patto di Londra. Il collasso dell'Impero austroungarico negli ultimi mesi del conflitto ebbe per effetto la completa riorganizzazione dell'Europa centrale, danubiana e balcanica. Le tre province balcaniche dell'Impero - Slovenia, Croazia e Bosnia - accettarono di unirsi ai Serbi, sotto la monarchia di Belgrado, e di costituire con essi il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Il problema della Dalmazia - una regione prevalentemente croata, ma abitata lungo le coste da una influente minoranza italiana o italianizzata - assunse caratteri e dimensioni diversi. Nello stile e nell'etica dei rapporti internazionali era perfettamente lecito togliere a un impero multinazionale una delle sue province. Togliere la stessa provincia allo Stato degli slavi del sud, nel momento stesso in cui stava nascendo, parve una intollerabile violazione del principio di nazionalità su cui Wilson e altri intendevano costruire una nuova società internazionale. Non basta. In omaggio al principio di nazionalità l'Italia chiese la città di Fiume. Ma alla richiesta del governo italiano Wilson replicò che essa era necessaria allo sviluppo economico del nuovo Stato iugoslavo. A Versailles, quindi, si fronteggiarono due posizioni altrettanto contraddittorie. Vittorio Emanuele Orlando e il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, chiesero la Dalmazia in nome del Patto di Londra e Fiume in nome del principio di nazionalità. Wilson negò la Dalmazia in nome del principio di nazionalità, ma rifiutò di applicare lo stesso principio alla città di Fiume. 'Tradito' in una delle sue clausole più importanti, il Patto di Londra divenne da allora motivo di frustrazioni e risentimenti su cui crebbero la protesta di D'Annunzio, le fortune del movimento fascista e una larga parte della politica estera italiana negli anni seguenti. Potrebbe sostenersi che dal Patto di Londra parte una strada costellata da accordi internazionali: il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 con cui Giovanni Giolitti e il suo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, rinunciarono alla Dalmazia e approvarono la creazione dello Stato libero di Fiume, ma ottennero in cambio Monte Nevoso, Cherso, Lussino, Zara e Lagosta; il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 con cui Mussolini ottenne Fiume e cedette alla Iugoslavia quella parte del territorio circostante che era stata inserita nello Stato libero; gli accordi della primavera del 1941 con cui l'Italia, dopo la costituzione della Croazia in Stato indipendente, ottenne in affitto per venticinque anni la regione di Zara, Sebenico, Spalato, le isole dalmate e la baia di Cattaro; il trattato di pace con cui fu costituito il Territorio libero di Trieste e l'Italia dovette cedere alla Iugoslavia l'Istria, Fiume, e Zara; il Memorandum d'intesa firmato a Londra il 5 ottobre 1954 con cui una parte del Territorio libero (la zona A) fu affidata all'Italia e la parte rimanente (la zona B) alla Iugoslavia; il Trattato di Osimo del 1° ottobre 1975 con cui Italia e Iugoslavia si accordarono su un confine che coincideva sostanzialmente con quello fra le due zone del Territorio libero.
Con il Trattato di Versailles fu costituita, secondo i desideri e le intenzioni di Wilson, una Società delle Nazioni. Nelle riunioni preparatorie due Stati - Francia e Italia - chiesero che essa fosse autorizzata ad adottare misure coercitive contro i paesi aggressori, e la Francia, in particolare, sostenne l'opportunità che l'organizzazione venisse dotata di un esercito internazionale o almeno di uno Stato Maggiore internazionale. Ma gli Inglesi e gli Americani si opposero. Non è tutto. Quando il Trattato di Versailles, di cui la Società delle Nazioni fu parte integrante, venne presentato al Congresso degli Stati Uniti, il Senato non gli assicurò la maggioranza dei due terzi, necessaria per la ratifica. La Società delle Nazioni, quindi, nacque doppiamente 'zoppa': non ebbe fra i suoi membri il grande paese che maggiormente aveva contribuito alla sua nascita e dovette limitarsi, per punire l'aggressore, alle sanzioni economiche, vale a dire a un'arma inefficace, impopolare e, nel caso dell'Italia al momento della guerra d'Etiopia, controproducente. Fu deciso tuttavia (art. 18 dello statuto) che gli Stati membri avrebbero registrato i loro trattati, a pena d'invalidità, presso il segretario della Società. La norma venne spesso ignorata e non rese i trattati meno violabili di quanto fossero in precedenza. Esistono tuttavia 205 volumi del Recueil des traités et des engagements internationaux registrés par le Secrétariat de la Société des Nations, edito a Ginevra fino al 1946.
Mentre l'art. 18 sulla registrazione dei trattati ebbe effetti modesti, l'art. 14, in cui si prevede la creazione di una Corte Permanente di Giustizia Internazionale, dette migliori risultati. Il suo statuto fu approvato dal Consiglio e dall'Assemblea della Società nel 1920, fu ratificato dai firmatari nei mesi seguenti ed entrò in vigore nel settembre del 1921. "Anche la Corte Permanente di Giustizia Internazionale - osservò Giorgio Balladore Pallieri (v., 1948, p. 190) - non aveva una competenza che le derivasse direttamente dall'atto con cui era istituita, ma era preventivamente creata onde essere senz'altro capace di funzionare quando gli Stati decidessero di deferire ad arbitrato una loro controversia. Sotto questo aspetto essa segna un enorme progresso sulla precedente Corte permanente di arbitrato, perché il suo statuto e il suo regolamento ne determinavano appieno la composizione e il funzionamento; anzi, si trattava, salvo rare eccezioni, di norme che non potevano essere nemmeno modificate consensualmente dagli Stati in litigio".
Né la Società delle Nazioni né la Corte Permanente di Giustizia Internazionale poterono impedire che i trattati venissero violati e che alcuni paesi si accordassero segretamente per aggredire l'avversario e dividerne le spoglie. Forse il più effimero degli accordi internazionali conclusi prima della seconda guerra mondiale fu il Patto di Monaco, firmato all'una del mattino del 30 settembre 1938 da Neville Chamberlain per la Gran Bretagna, Édouard Daladier per la Francia, Adolf Hitler per la Germania e Benito Mussolini per l'Italia. Fu deciso che la Cecoslovacchia avrebbe ceduto alla Germania il territorio dei Sudeti, prevalentemente abitato da una popolazione di lingua tedesca, e, in un'appendice all'accordo, che Francia e Germania avrebbero garantito le frontiere del nuovo Stato cecoslovacco contro un'aggressione non provocata. Ma il 15 marzo dell'anno seguente le truppe tedesche occuparono Praga e Hitler fece delle due province ceche - Boemia e Moravia - un protettorato del Reich.
Se quello di Monaco fu il più importante degli accordi violati, il patto concluso a Mosca nell'agosto del 1939 fra Vjačeslav Molotov, ministro degli Esteri sovietico, e Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, fu probabilmente il più importante fra gli accordi segreti del XX secolo. I negoziati cominciarono il 23 agosto e si conclusero con due testi: un trattato di non aggressione, che venne reso pubblico nelle ore seguenti, e un protocollo segreto con cui i due paesi s'intesero per la spartizione della Polonia e del Baltico. Dei protocolli segreti fu trovata una copia fotografica in Germania alla fine della guerra, ma i Sovietici ne smentirono l'esistenza per più di sessant'anni. Il velo cadde dopo le riforme di Michail Gorbačëv quando una commissione presieduta da Aleksandr Jakovlev trovò il testo originale e ne ammise l'autenticità.
Uno degli aspetti più interessanti della politica internazionale nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale è la grande diffusione della convenzione multilaterale, vale a dire di un trattato con cui alcuni paesi sottoscrivono principî comuni e assumono impegni tali da limitare fortemente, in talune circostanze, la sovranità nazionale. I trattati europei - da quello per la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio) del 1951 a quello di Amsterdam del 1997 - sono evidentemente molto più di un tradizionale trattato internazionale. Nelle intenzioni degli uomini di Stato europeisti del primo dopoguerra e di buona parte dei paesi che li hanno sottoscritti essi sono altrettante tappe di un processo destinato a concludersi con la formazione di uno Stato federale. Potrebbe quindi sostenersi che ogni trattato riduce progressivamente la sovranità degli Stati firmatari e avvicina il momento in cui nessuno di essi potrà firmare un trattato internazionale.
Altre convenzioni si propongono scopi più limitati, ma non meno innovatori. È il caso del trattato per il Nordatlantico, firmato a Washington il 4 aprile del 1949, e degli accordi con cui nei mesi seguenti furono definiti gli organi e le competenze militari dell'alleanza. Grazie a quelle intese alcune potenze si sono accordate per stabilire rapporti organici tra le loro rispettive forze armate e creare, in tempo di pace, uno Stato Maggiore integrato. Altrettanto importanti per l'evoluzione dei rapporti internazionali dopo la seconda guerra mondiale sono gli accordi che hanno creato enti e organizzazioni internazionali: l'accordo di San Francisco del 26 giugno 1945 con cui fu firmata la Carta dell'Organizzazione per le Nazioni Unite; l'accordo per la creazione dell'OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica) del 16 aprile 1948; il trattato per la creazione del Consiglio d'Europa del 5 maggio 1949; il Patto di Varsavia del 14 maggio 1955 con cui l'Unione Sovietica creò fra i propri alleati un'organizzazione militare simile alla NATO; l'Atto finale della Conferenza di Helsinki dell'agosto 1975 con cui i paesi europei, gli Stati Uniti e il Canada si accordarono sulle grandi linee della loro collaborazione in materia di rapporti politici, relazioni economiche e diritti umani; la Carta di Parigi del novembre 1990 con cui gli accordi di Helsinki vennero aggiornati; i trattati per la creazione di 'mercati comuni' e zone di libero scambio nelle Americhe e in Asia. Molte di queste organizzazioni sono a loro volta direttamente o indirettamente responsabili di accordi più specifici, talvolta con un forte contenuto pratico e un grande impatto sulla società internazionale. Si pensi in particolare ai trattati per la riduzione degli armamenti e alla convenzione dell'aprile 1955 per la creazione di una Corte dei diritti umani, sotto l'egida del Consiglio d'Europa, dinanzi alla quale si discutono le cause promosse da uno Stato contro un altro e dai cittadini di uno Stato contro il proprio governo. Resta largamente insoluto, tuttavia, il problema dell'autorità internazionale che dovrebbe garantire l'osservanza dei trattati e condannare lo Stato inadempiente a rispettarne le clausole o a risarcire il danno. Al momento della costituzione dell'ONU i suoi fondatori hanno tenuto conto, entro certi limiti, dei difetti della Società delle Nazioni e hanno conferito al Consiglio di sicurezza poteri considerevoli. Ma con una eccezione - la guerra di Corea - i contrasti della guerra fredda ne hanno impedito il buon funzionamento in alcune fra le crisi più gravi degli ultimi cinquant'anni. Più tardi, dopo la disintegrazione dell'Unione Sovietica e i cambiamenti avvenuti nei paesi comunisti, il Consiglio ha assunto, soprattutto in occasione dell'invasione irachena del Kuwait, maggiori responsabilità. Ma le maggiori potenze non intendono rinunciare alla loro sovranità e non sembrano ancora disposte a favorire la creazione di un'autorità supernazionale. La sorte di ogni trattato dipende quindi, in ultima analisi, dalla convenienza dei firmatari a rispettarne le regole. Con una importante novità, tuttavia, che mette conto sottolineare: grazie all'ONU e ad altre organizzazioni internazionali esiste, sia pure con molti limiti e incoerenze, una opinione pubblica internazionale di cui gli Stati sono costretti a tenere conto. (V. anche Diplomazia; Relazioni internazionali).
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