Trattatisti del Cinquecento - Introduzione
«Finalmente (qual che si sia la cagione) noi siamo in terra, uomini e donne, quasi in mezo di qualche teatro e d'ogn'intorno per ogni parte del cielo siedeno li dèi, tutti intenti a guardare la tragedia dell'esser nostro. Noi adunque, il cui fine altra cosa esser non dee che 'l compiacere agli spettatori, sotto tal forma dovemo cercar di comparer nella scena che lodati ce ne possiamo partire […]». Queste parole, che lo Speroni sulla fine del dialogo Della dignità delle donne fa pronunciare a Beatrice degli Obizzi, esprimono bene la concezione della vita che fu propria dei più intelligenti e sensibili scrittori del maturo Rinascimento; una concezione in cui il "filosofo" padovano si accordava perfettamente con il letteratissimo Pietro Bembo, al di là delle profonde divergenze sul "come" l'uomo debba recitare la sua parte. Quale che fosse la risposta a questo e ad altri interrogativi, appunto perché erano convinti che l'uomo deve vivere con la maggior dignità e consapevolezza possibili, essi sentivano la necessità di riflettere sulla loro condizione di uomini che operavano in una determinata realtà e sulla "civiltà" a cui aspiravano: donde il fiorire della ricca e multiforme trattatistica che è l'oggetto di questo volume.
È una trattatistica a cui un tempo si guardava con sufficienza o addirittura con disprezzo, irridendola o comunque biasimandola per l'andamento scopertamente letterario; pertanto veniva collocata fra i prodotti deteriori di un secolo incapace di distinguere fra verità e loci retorici. Oggi però la critica più smaliziata, fatta giustizia dei miti romantici e positivistici, non ha difficoltà a riconoscere che il trattato letterario non fu il gioco ozioso di un'età malata di formalismo, bensì il frutto della convinzione, nient'affatto immotivata, che le humanae litterae per un'indagine sull'uomo offrono strumenti più adatti di quelli forniti dalle scienze dimostrative.
La retorica e le arti sembravano più "umane" della logica, della fisica, della metafisica, della teologia, che si aggiravano intorno a verità eterne e immutabili con chiose, commenti, parafrasi: la prima, in quanto strumento di quella civile conversazione in cui l'uomo manifesta la sua dignità; le seconde, in quanto creazione dell'uomo, che per loro mezzo trasforma la natura e riinventa la realtà. Aristotele, cioè la filosofia, non offriva ideali di vita tali da soddisfare le aspirazioni di uomini che - desiderosi di realizzare su questa terra le doti peculiari dell'uomo - trovavano un appagamento piuttosto nei "miti" letterari della bellezza, dell'armonia, della grazia, incuipareva di scorgere il riverberarsi di qualcosa di eternoe di divino. Queste qualità ideali ovviamente venivanoricercate anche esopra tutto nelle scritture, acuispessosi affidava la speranza di sopravvivereallamorte fisica; anzi il trattato, nella sua stessa struttura, cercava di raffigurare quell'azione scenica di cui parla l'Obizza. Pertanto,invece di rendere le idee essenziali per via di astrazione, i trattatisti le concretizzano e, mescolando l'universale con il particolare, le incarnano in personaggi che conversano ediscutono con urbanità in un armonioso gioco delle parti. Di qui la spiccata preferenza per il dialogo, che riproduce il ritmo di una ricerca a più voci,nella quale s'incontrano o si scontrano opinioni divergenti, eppure tutte in qualche misura dotate di verità,una verità che non si vuole o non si sa isolare. Il desiderio di realizzare edi partecipare auna civile conversazione erain parte soddisfatto anche dalle lettere, che talora sono vere lettere-trattato, in cui il dialogo fra dotti si svolgesenza le durezze del trattato dimostrativo per la presenza silenziosa, ma non dimenticata, di un interlocutore. Ma non èsolo per questo che ai trattati abbiamo accostato scelte di lettere: entro certi limiti, le lettere ci consentono di instaurare un confronto fra ideali e realtà; inoltre, osservando i cinquecentisti in panni più dimessi ealle prese con i problemi piccoli egrandi della vitaquotidiana, possiamo constatare quanto a fondo agissero i "miti" del Rinascimento.
Il valore letterario e l'importanza storica delle singole opere, com'è ovvio, è vario e dipende in gran parte dal modo in cui si realizza l'accordo difficile, e sempre precario, fra retorica e filosofia, fra ideale e reale: il dialogo cinquecentesco, anzi, sidissolve (o meglio, si trasforma) quando uno dei due elementi si impone sull'altro o acquista coscienza della propria autonomia. Setroppo prevale l'elemento letterario, il dialogo si muta in commedia o scade nella vacua retorica (quella che già allora venivadecisamente condannata); seinveceè il reale (o addirittura la cronaca) a imporsi, si giunge a dissertazioni tecniche che, perdendo di vista l'uomo nel suo insieme, preludono ai moderni trattati sulle varie professioni oppure costituiscono gli incunaboli delle moderne scienze umane: filologia testuale ecritica letteraria, esteticae linguistica, storia e politica, ecc. Nei tre tomi di cui si compone questa silloge assisteremo, dunque, a un vario processo di trasformazioni: dagli Asolani e dalle Prose della volgar lingua del Bembo alle Giunte e alla Poetica del Castelvetro, per segnare due punti estremi, mentre, per ragioni editoriali, restano esclusi e destinati ad altri volumi della collana non solo gli scritti su quelle che oggi chiamiamo arti, ma opere significative come il Cortegiano di Baldassar Castiglione e il Galateo di Giovanni della Casa.
Un rapporto saldo, anche se variamente dissimulato da "filtri" letterari, con la realtà e la vita sociale è comunque il carattere precipuo del trattato cinquecentesco; un carattere che spiega la sensibile differenza fra le singole opere (s'intende che parliamo di quelle non dozzinali e insignificanti, che esistono in ogni tempo e paese), in cui si rispecchiano le esigenze e si trasfigurano le condizioni di centri culturali assai diversi l'uno dall'altro. Appunto perché lo splendore della forma e la ricerca dell'euritmia nascondono, ma non escludono, il "certo" ricavato dall'esperienza, la trattatistica può subire le trasformazioni cui si è sommariamente accennato e giungere a un passo dalla commedia o concentrarsi sul proprio oggetto, fornendo in nuce verità di ordine estetico o linguistico. Questa concordia discors, questo canto a più voci, è immediatamente avvertibile in questo primo tomo che abbiamo voluto dedicare a tre personaggi "rappresentativi" di ambienti diversi e di diverse concezioni della cultura, capaci di fornire anche dal punto di vista tematico un campione abbastanza preciso delle discussioni che appassionavano i cinquecentisti.
Questo tomo, dunque, è formato da tre "monografie", da tre ritratti a tutto tondo; diversa la struttura degli altri due, articolati - pur senza dimenticare la personalità dei singoli autori - per questioni o problemi. In particolare, il secondo è dedicato alle discussioni linguistiche e ai trattati sul comportamento, l'amore, la grazia, la bellezza, la donna; il terzo alle poetiche e alle discussioni letterarie (sul poema cavalleresco, sulla tragedia, su Dante, sul Tasso, ecc.). Il commento -nelle intenzioni, almeno- si adegua al carattere particolare dei testi e della silloge in cui sono compresi. Pertanto è volto innanzi tutto a precisare i "filtri" di cui i singoli trattatisti si sono serviti per esporre le loro opinioni, e cioè le fonti o i modelli a cui si sono rifatti, senza trascurare il diffuso (e, in certo senso, analogo) fenomeno dello scrittore che rifà sé stesso. Il confronto, per esempio, fra i dialoghi e le Letture dantesche del Gelli non è, crediamo, meno illuminante di quello fra le sue pagine e le fonti plutarchee o ficiniane. Ad illustrare l'incessante ricerca di una forma che aderisca perfettamente al contenuto, è volta l'ampia citazione di varianti redazionali. La documentazione fornita dovrebbe consentire ai lettori di intendere la maniera complessa in cui i trattatisti miravano a un'originalità che non consisteva, o non consisteva soltanto, nella novità delle idee. Niente può essere detto che non sia già stato detto prima, sostengono all'unisono il Gelli, il Doni e il traduttore francese dello Speroni, Claude Gruget. Ma proprio la maniera in cui quest'ultimo si impadronisce di idee speroniane e le volge al servizio del nascente nazionalismo linguistico francese, mostra che non è questione di verità ma di assimilazione storica della verità. La Deffence del Du. Bellay, per esempio, non perde la sua importanza storica per essere una traduzione quasi letterale del Dialogo delle lingue dello Speroni: l'imitazione e l'assimilazione dell'altrui pensiero, infatti, non sono classificabili come inerte ripetizione o plagio, sempre beninteso che la traduzione o la parafrasi comportino l'adattamento di una verità a una nuova realtà, e quindi in certo senso una verità diversa.
Le .note, dunque, si propongono di chiarire fatti e rapporti culturali, di documentare discussioni e polemiche, di studiare l'incidenza delle singole opere sulla cultura italiana ed europea (compresa l'azione negativa esercitata dalla censura). Frequentemente anzi il commento più che un'esplicazione è un'integrazione del testo, o meglio vuol essere le due cose insieme, in quanto riproduce scritti - siano essi fonti, trattazioni similari o risposte polemiche - che, mentre spiegano il testo, ampliano il discorso e permettono al lettore di compiere confronti e approfondimenti. Trattandosi di opere che spesso vivono sopra tutto per la loro forma letteraria, una maggior attenzione si sarebbe dovuta prestare ai fatti stilistici, ma non si è creduto di dover appesantire ulteriormente un commento già massiccio, anche se non si è rinunciato a fornire qualche indicazione, là dove era indispensabile per intendere le caratteristiche di un'opera o di uno scrittore: lo stile degli Asolani, per esempio, o gli idiotismi del Gelli. Più in generale le note (non solo quelle a piè di pagina) risentono della varia situazione critica in cui versano i singoli autori; lo stesso si può dire dei testi proposti, tutti accertati con scrupolo, eppure di diversa "certezza" testuale perché, mentre per alcuni si disponeva di inappuntabili edizioni critiche, per altri non si poteva andare al di là dei primi sondaggi. Ma il commento, ancor più che lo stato dei testi, è destinato a essere una proposta che presto (ci si augura) altri supererà con un'altra migliore. Anche i commenti sono «un intervallo fra due letture»: lo scopo di questa sarebbe raggiunto se rendesse più facile e più proficua la successiva. E appunto in vista di ulteriori indagini si è creduto opportuno includere nel terzo tomo un Indice analitico generale che, raccogliendo e analizzando le molte trame della trattatistica, consenta preziosi confronti e costituisca- specialmente se accostato a quello analogo degli Scritti d'arte del Cinquecento - uno "spaccato" o, se si preferisce, un inventario nel complesso attendibile della cultura cinquecentesca.