Trattatisti e narratori del Seicento - Introduzione
«Secolo del genio», come volle definirlo lo Whitehead in rapporto alla stupefacente avventura della nuova scienza, il Seicento è un'epoca che lo storico può percorrere in più direzioni, con una varietà, un'ampiezza di prospettive, che legittima, si direbbe, l'idea, così corrente tra gli uomini di quel mondo, di vivere in un grande teatro da scoprire, da trasformare «a forza di canapi, d'argani e di taglie» giorno per giorno. Proprio per questo è forse legittimo che, in mancanza di un filo conduttore che si articoli nella storia di un «genere» o nel dialogo delle poetiche e delle scuole, il paesaggio letterario cui introduce il presente volume si configuri piuttosto come una successione di scene, come un gioco di voci e di parti in un trapasso continuo dalle ragioni stilistiche ai temi ideologici, dalle tecniche agli oggetti. E, probabilmente, sarà poi la maniera più opportuna per saggiare, al livello d'una testimonianza tutt'altro che sistematica, i valori di una prosa che integra la tradizione con i presentimenti di un nuovo orizzonte mentale, con la scoperta, tra fantastico e sensuoso, di una realtà umana più complessa, più ambigua e magari sofisticata sino all'assurdo, sino al furore effimero del cattivo gusto.
Di solito si parla del Tesauro come di un uomo del secondo Seicento, cui va attribuito il merito d'aver saputo codificare, con la lucidità propria di tutti gli epiloghi e di tutti i bilanci, le forme, i caratteri, i meccanismi dell'«argutezza», della letteratura ingegnosa moderna. Sfugge ai più che l'autore del Cannocchiale aristotelico appartiene alla generazione di Cartesio, di Mersenne, di Gassendi, di Velàzquez, di Callot, di Bernini, e che le sue analisi stilistiche, i suoi commentari retorici, come rivela soprattutto quel raffinato discorso che è il Giudicio, risalgono ai primi decenni del secolo, proprio negli anni eccitati e turbolenti del trionfo marinistico. Sebbene dunque il Tesauro si spinga con la sua vita più che ottuagenaria sin dopo il 1670, è giusto, ci sembra, cominciare da lui, tanto più che il titolo immaginoso che egli volle dare al suo trattato, con quell'allusione paradossale a una nuova astronomia poetica acquista la forza di un emblema e ratifica l'idea di una letteratura che considerò il mondo e il passato come un inventario di formule, come un museo di materie preziose e di prodigi analogici, come un «gabinetto di meraviglie» aperto alle esplorazioni e alle metamorfosi ottiche dell'ingegno.
Applicata di preferenza alle zone del classicismo manieristico, l'indagine del Tesauro procede in senso orizzontale, senza discutere tutti i fenomeni del gusto contemporaneo, limitandosi a proporre una linea storica di sviluppo dove la «svogliatura» del secolo, a parte i pericoli della bizzarria e del turgore decorativo, rappresenta la fase più alta, la pienezza dell'eleganza umanistica. Ma essa sa cogliere i moventi principali del concettismo e interpretarli con una acutezza a cui forse non giunge neppure l'intelligentissimo Graciàn. In questa sede basti accennare all'idea della metafora la quale, «portando a volo la mente da un genere all'altro, fa travedere in una sola parola più di un obietto» come «per un istraforo di perspettiva»; alla nozione di una lingua dinamica, fondata sulla velocità dei nessi intuitivi; alla proposta di una logica fantastica da inverare in una «insaziabile», arguta esperienza del reale; alla poetica della parola allusiva, «prestigioso incanto» che riconduce l'immaginazione alle «radici» dei concetti; al mito, infine, di una «civile giocosità» educata a un riso «placido e sereno, come quando veggiamo un caro amico o un bellissimo volto o una perfetta pittura o un'amena prospettiva o un mirabile ed improviso cangiamento di scena»...
Il fatto è poi che, a modo suo, il Tesauro ha anche le qualità di uno scrittore. Mentre ordina la sua materia, mentre scandaglia le sue miniere di «simboli», egli non dimentica mai il gioco degli umori e dell'invenzione personale. Ogni parola può divenire, così, un pretesto per un divertimento, per un «ghiribizzo» grottesco, per una stravaganza epigrammatica. Allorché il gusto emblematico si decanta in una grazia raffinata, scorre nelle sue pagine un sorriso intellettuale, discreto e sapiente, che frange il discorso in un movimento d'ironia tra la facezia e l’essay. E vi si accompagna, talora, una morbidezza aristocratica, un nitore insinuante e mondano, da far pensare a un'atmosfera preziosa di primo Settecento: ma sono, per la verità, brevi episodi, e più che al Cannocchiale, bisogna allora rifarsi a quella Filosofia morale che, dopo il trattato, segna il placido approdo del Tesauro filosofo e cavaliere.
Tutt'altro, invece, il temperamento del Peregrini, con la sua prudenza severa di uomo di legge, poco incline in fondo allo scherzo quanto il Tesauro appare libero, affabile e disincantato. In letteratura, anche se non disdegna poi, da scolaro cresciuto nella Bologna dell'Achillini, le prove poetiche di un Sempronio, di un Preti e forse di un Marino, ciò che lo interessa, soprattutto, è l'esperienza stilistica dei moralisti, la prosa robusta dei declamatori, densa di effetti patetici e di movimenti appassionati. Non estraneo dunque al gusto moderno, ma uomo d'ordine per istinto e per consuetudine, il Peregrini, come già aveva fatto qualche anno prima di lui il Mascardi, avverte che la moda delle acutezze, dopo aver oltrepassato i confini di un genere letterario, contamina la vera eloquenza e minaccia quell'ideale di prosa ragionata e gagliarda verso cui muove, prima ancora del critico, la sua intelligenza di scrittore. A una retorica della «ciurmeria», dell'improvvisazione, del grottesco anarchico, egli contrappone perciò una retorica del «buon giudicio», un'arte della dignità e della cultura secondo i paradigmi degli antichi, facendo insieme appello a una filosofia della «naturalezza» in modo, così, da riaffermare anche su di un piano speculativo il valore di una tradizione normativa, di una disciplina. Ma se il trattatista delle Acutezze, nello svolgere le sue analisi, non è inferiore al Tesauro e addirittura lo supera quando, armato di una chiarezza mordente che non a caso doveva poi piacere a un Croce, illustra i rapporti tra vero e bello, tra intelletto e ingegno, nell'insieme si ha l'impressione che la sua polemica conservi qualcosa di scolastico, di convenzionale: forse anche perché la struttura del suo discorso subordina la logica dell'analisi a un'operazione di polizia letteraria, a una riforma del decoro classico che, postulando come radice dell'errore l'ignoranza, il «fievole giudicio» degli «infarinati», non tocca mai, in effetti, i presupposti culturali del gusto contemporaneo. D'altro canto, una volta sancito questo programma di moderazione, di civiltà letteraria, il Peregrini torna ad essere un figlio del secolo, un letterato «moderno» convinto che l'ingegno, con i suoi «spiriti agilissimi, mobilissimi e però sempre guizzanti, svolazzanti e scintillanti», non «vuole né carcere né legame», ma ha solo bisogno - come sosterrà appunto nei Fonti, portando alle estreme conseguenze quel mito di un'arte consapevole già impugnato nel dibattito intorno alle acutezze - di un metodo inventivo coerente, tale da «farlo conoscitore e padrone de' suoi copiosissimi tesori». Anche in questa topica nuova, con cui il critico pensa di perfezionare, di estendere le incerte esperienze degli antichi, riemerge la volontà secentesca di concepire l'universo sotto la specie di un'immensa enciclopedia che l'uomo ha il compito di decifrare nella sua catena di «vicendevoli corrispondenze».
L'idea che il mondo, insomma, costituisca una «galleria di delizie» da conoscere così come si possono «vagheggiare curiosamente gli arazzi, le pitture, le statue, gli edifici di mirabil architettura, i giardini, le fontane», trova però una risonanza più suggestiva, verso la metà del secolo, nell'opera del Pallavicino, l'interprete ufficiale della cultura romana e del suo compromesso neoumanistico tra scolastica e naturalismo, tra eleganza e chiarezza, tra fantasia e ragione. Pur arrestandosi prudente dinanzi ai problemi che le nuove scoperte scientifiche impongono alla teologia e alla tradizione religiosa, l'amico di Giovanni Ciampoli sente come pochi altri che la «vastità dello scibile» offre alla «navigazione filosofica» paesi «non discoperti» e che «l'industria dell'uomo che spiana i monti, rivolge i fiumi, asciuga i mari» è la premessa di un impegno speculativo, il principio di un atteggiamento critico dinanzi al reale. Continuatore oculato della politica dei gesuiti e polemista abile anche nella ridondanza, il Pallavicino è inoltre consapevole che lo scrittore «cristiano», immerso, come egli lo concepisce, nel proprio tempo, deve formarsi uno strumento stilistico che sappia temperare lo splendore dell'eloquenza con l'esattezza del metodo scientifico e inserire l'analisi razionale, con la sua forza che nasce dalle «cose», in un'atmosfera di conversazione mondana, di dialogo semplice ma elegante. Di fatto poi, la posizione moderata a cui si ispira il Trattato dello stile nel tentativo, riallacciandosi in parte al Peregrini, di legittimare il discorso metaforico sul piano di un sensismo aristotelico ricondotto allo studio diretto delle cose, corrisponde alla stessa struttura mentale del Pallavicino, al suo abito di umanista devoto e di pensatore sensibile quanto preciso.
Quantunque gli manchi l'energia di un Malvezzi, che pure è uno dei suoi maestri, lo scrittore dei quattro libri Del bene, e più tardi dell'Arte della perfezione cristiana, possiede senza dubbio la fermezza, l'acume, la cautela di un autentico moralista. Pagine come quelle sulla «prima apprensione» non aprono soltanto una fertile prospettiva estetica, ma introducono anche a un quadro più sfumato della realtà psichica, a una più complessa descrizione della fantasia e dei suoi movimenti lungo il circuito della coscienza. Nella prosa del Pallavicino, in quella «modesta eleganza e gentilezza» che è il suo ideale di stile, la funzione didascalica si prolunga sempre, del resto, in un proposito amabile di edificazione, in una cordialità distaccata di gentiluomo e di erudito, e diviene poi senso della misura, rispetto della tradizione, ma con la consapevolezza che, per quanto venerabile, il passato deve essere anche discusso in nome dell'intelletto, di quel senso comune che la natura ha concesso a tutti gli uomini, perché sia possibile, entro i «cancelli» dell'umano sapere, «avanzare» verso una verità sempre «più chiara».
Se ora si prende questa confusa nozione di «progresso» - la parola però non è del Pallavicino, ma del Ciampoli - la quale, chi guardi bene, è desunta più dal sentimento cristiano dei limiti umani che non dalla fiducia in un mondo nuovo, e la si trasporta in un clima di paradosso, nella provincia pittoresca di un razionalismo ridanciano, gretto ma puntiglioso, si ha all'incirca l'ipotesi da cui è partito il Lancellotti per le sue escursioni sterminate attraverso le terre dell'Oggidì. Chi potrà mai dire la sua formidabile, eroica tenacia di lettore, la sua gioia di archivista ghiribizzoso? Per pagine intere egli accumula titoli, nomi, numeri, schede, trasformando la biblioteca del tardo umanesimo, dell'artigianato accademico, in una sorta di grande fiera secentesca dove i gesti, le voci, le risa, gli sberleffi si incrociano in un tumulto festoso. Certamente, il credito da attribuire alla battaglia culturale del Lancellotti non può essere molto alto: i suoi sfoghi, le sue bizzarrie, le sue variazioni restano, alla fine, al di sotto del ragionamento, mentre il leitmotiv degli antichi che non sono diversi dai moderni, a lungo andare, scade a filastrocca. Eppure è innegabile che l'incipiente naturalismo dell'Oggidì e dei Farfalloni, con la sua percezione aneddotica di un avanzamento tecnico, e soprattutto con la sua denuncia anarchica di una tradizione assurda e contraddittoria, porta più d'un argomento alla Querelle oramai prossima; e bene si capisce, allora, perché tra i lettori di quelle pagine vi siano stati anche i libertini di Francia. Attraverso la lanterna filologica del Lancellotti gli eroi del mondo greco-romano si riducono a maschere spesso grottesche, a uomini comuni da guardare in faccia senza tanti complimenti, come attori sorpresi fuori di scena. La commedia e il mimo irrompono così nei recinti dell'erudizione per mettere in crisi, con il gusto un po' cinico della parodia, l'enciclopedismo celebrativo. La prosa del Lancellotti è, in fondo, un genere a sé: con monologhi gesticolati ed esclamativi, con battute che esplodono o rimbalzano, con parentesi, interruzioni, brusii, che si mischiano alle solenni sequenze dei classici e delle loro favole. Questo chierico vagante della cultura porta nella sua pagina, tra le sprezzature e gli anacoluti di un compiaciuto disordine verbale, il sapore delle sue peregrinazioni, delle sue fughe attraverso l'Italia: è l'immagine di un'osteria, il ricordo di un paese, di una strada, e perfino (come quando gli accade di ragionare delle «montagne che calano») dei «fantasmi della fanciullezza», delle «impressioni giovanili» anteriori a quella «età del discorso e del giudizio nella quale ci si rappresentano tutte le cose minori assai e di numero e di valore».
Passare dal Lancellotti al Bartoli vuol dire abbandonare una piazza chiassosa, una cultura che si è vestita di cenci plebei, e trasferirsi nel placido raccoglimento di uno studio romano, tra le quinte di un teatro immaginoso che può affacciarsi sul mondo. Il piacere di contemplare gli oggetti nella loro pienezza, di perdersi nella dovizia della materia e delle sue forme per riscoprirvi i «meravigliosi rapporti» che, come dirà poi l'agostiniano Malebranche, Iddio ha stabiliti fra tutte le sue opere, guida lo scrittore della Ricreazione, dei Simboli, della Geografia a un lavoro paziente di preziosissime analisi, di mosaici decorativi, con un fervore untuoso di animo commosso e un'attenzione fertile, morbida e sensuale. Davanti all'occhio del «savio» cristiano la realtà si dispiega, allora, come una struttura pittorica di «colori carichi o dolci, taglienti o sfumati», come un quadro prodigioso di «imagini a capriccio»: «fabriche, prospettive, paesaggi, animali, fiori, frutti» che sono insieme le «cifre» copiose di una lettura metafisica dell'universo. Il rapimento di meraviglia, l'estasi tranquilla a cui il Bartoli mira nelle sue «nature morte», nelle sue sontuose sperimentazioni del reale, debbono poi disporre l'intelletto a cogliere lo «stupendo artificio» della macchina cosmica e a riconoscere, alle soglie del sublime, la «sapienza ingegnerà» che ne ha voluto la creazione. L'esercizio letterario del Bartoli non si può quindi disgiungere dalla sua spiritualità di gesuita che tenta di conciliare la tradizione umanistica e la scienza lungo la linea del simbolismo cristiano per promuovere, così, un'apologetica moderna dello «stupore» naturale, della commozione sensibile, in parte sull'esempio di un padre Mersenne. E questo spiega ancor meglio perché la vita gli appaia poi un «teatro», uno «spettacolo» edificante di avventure e di personaggi che popolano via via la grande scena del mondo.
Anche l'Istoria ubbidisce alla stessa logica teatrale, come apoteosi, più ancora che come cronaca, del sacrificio religioso e dell'eroismo cattolico moderno. In difetto, per di più, di un'esperienza personale, il Bartoli proietta la sua nostalgia di missionario mancato nel teatro della immaginazione. Egli dilata allora i ricordi giovanili delle sue traversate marine, delle sue marce notturne, in uno scenario pittoresco tra oceani in tempesta e montagne inaccessibili, e rivive i documenti umani con l'unica logica che ha familiare: quella del dramma devoto e della pittura sacra. Eppure, anche nei limiti di una concezione così sostanzialmente astratta, l'opera rivela un'architettura grandiosa e patetica, di un gusto, come potrà pensare qualcuno, non indegno di un Bernini e del suo senso dinamico dello spazio. E certo, il nome del Bernini è il solo a cui ci si possa richiamare per definire analogicamente una prosa quale è quella dell'Istoria, che conferisce movimento alla compostezza classica, che sa trascorrere dalla sinfonia descrittiva al racconto severo, dove alla pagina di eloquenza può fare seguito una partitura di grande, indimenticabile romanzo. Qui, senza dubbio, l'orizzonte «devoto» del Bartoli s'apre oramai su di un mondo di civiltà ignote, di terre e mari lontani, sotto l'immenso cielo che la nuova scienza ha svelato allo stupore degli uomini.
Mentre il patetico bartoliano ha per sfondo un paesaggio esotico e vive nelle dimensioni luminose dei «vastissimi spazi» ricreati dalla fantasia, quello del Segneri richiama piuttosto alla mente un oratorio saturo di incenso, un suono d'organo, di fanfare esultanti per le volte di una chiesa barocca. La retorica degli affetti, dell'emozione corale, della catarsi devota secondo gli schemi della psicologia e della propaganda gesuitiche, attinge nel Segneri una dignità severa, seppur macchinosa, svolgendosi, in contrasto con le spampanate eleganze della predicazione «analogica», su di un registro drammatico ora nelle forme di una disputa affettuosa, ora nelle cadenze di un lirismo iperbolico, e trascrivendo il discorso biblico in un declamato teatrale che non è privo di forza. L'oratoria del Segneri è fastosa ma commossa, concitata ma densa, spettacolare ma sensitiva: scandita da un gesto nobile e ampio, che amplifica l'evidenza di una lingua plastica, schietta, essa nasce, oltre che dalle ragioni di un genere letterario e dal gusto di una civiltà, dalla coscienza di un cattolico austero. Si sente nel Quaresimale la forza della Controriforma, l'eco delle missioni portate per le campagne dell'Italia, in un mondo di contadini e di poveri che bisogna consolare con l'immagine di un cielo sfolgorante, popolato di angeli e di beati. Ma questo assiduo, faticoso contatto con il peccato quotidiano educa anche a una saggezza realistica, a una minuziosa esperienza di uomini e cose. Più che la novità degli argomenti, ciò che si apprezza nell'apologetica del Segneri è la ricchezza dell'osservazione, l'arguzia del narratore con certi movimenti che sembrano già manzoniani, e soprattutto l'analisi di costume, il gusto dell'ambiente contemporaneo, dalle guerre che hanno desolato l'Europa alla vita di un paese con il suo ballo domenicale. Così, la società del Seicento sfila dinanzi a un pulpito per essere giudicata da un moralista che ferma lo spettacolo del mondo nei colori disfatti della decadenza.
In realtà, per avere un ritratto del secolo nella sua faccia positiva, nel gioco delle sue aspirazioni mondane e delle sue mode sentimentali, è necessario, voltando le spalle a chi, come il Segneri, è su di una posizione di denuncia, entrare nella sfera del romanzo. In un certo senso, il Seicento si può considerare il secolo del romanzo. Esaurito il ciclo vitale del racconto poetico dopo la Liberata, spetta ora alla prosa di interrogare l'esistenza per rappresentarla in una «favola ben tessuta» di «accidenti e colloqui patetici» con una tecnica scenografica che non è più la stessa della novella antica. Se dobbiamo stare al parere dei contemporanei, giudicando anche dal numero delle stampe, il maestro del romanzo eroico italiano è il genovese Giovanni Ambrosio Marini. Nelle sue mani il romanzo diventa davvero quella grande metafora in movimento, così come la definisce il Tesauro, dove un «equivoco fondamentale» genera «molt'altri equivoci episodici, avviluppamenti e peripezie meravigliose e istrane, che togliono la fede al vero e la danno al falso» per poi risolversi, alla fine, in una serie di «inaspettate e piacevoli agnizioni». Manca però al Marini - e in genere a tutti i romanzieri italiani della sua età - il genio dello stile, il senso autentico di un linguaggio narrativo. La sua scrittura a placche liriche trapianta moduli ariosteschi e più ancora tassiani negli schemi emblematici del preziosismo contemporaneo senza apporti di invenzione personale. Ma occorre appunto precisare che la novità di questa esperienza romanzesca va ricercata non tanto nell'area della forza stilistica, quanto in quella della tecnica, dell'impianto delle situazioni. La nuova macchina narrativa invita lo scrittore a intersecare i piani dell'avventura, a moltiplicare le linee dell'azione, a svolgere gli episodi nel quadro di un pluralismo prospettico. E anche il mondo che ne vien fuori, dopo tutto, risulta pieno di suggestioni, di temi che, almeno nell'attacco, hanno l'abbandono contemplativo di un'atmosfera lontanamente preromantica: con certe spiagge deserte, rovine di campagne solitarie, notti lunari di fughe e di naufragi, antichissime selve, caverne misteriose, giardini barocchi. Sono i miti sentimentali di un'epoca che ha riscoperto la grandezza dell'avventura cavalleresca: ma mentre la società europea li porta sugli oceani e sui campi di battaglia come misura ideale di uno stile eroico, quella italiana, di cui il Marini è in qualche modo portavoce, li rivive piuttosto nell'aria stagnante di un declino provinciale come simboli di evasione, per le «anime belle», nello «stupore» patetico.
Qualora il termine non fosse improprio e non avesse il torto di proporre un'antitesi cui non corrisponde un effettivo contesto sociale, si potrebbe dire che di fronte all'aristocratico Marini il veneto Brusoni, con la sua trilogia di Glisomiro, è il rappresentante di un romanzo «borghese». La verità è, su di un piano più modesto, che egli reagisce alla «favola» di fantasia, sottraendosi, ma fino a un certo punto, alla letteratura delle eleganze concettose, e riconduce il racconto dall'universo fittizio del Calloandro a uno spazio concreto, nel mezzo della vita contemporanea. Lo scrittore è uno che tira via, anche nelle pagine di «bello stile», con un gusto approssimativo e tutt'altro che omogeneo; in compenso però, dispone d'un occhio intelligente, da cronista di mestiere che conosce il mondo per averlo praticato, e ha il dono di cogliere le figure del costume moderno nelle zone ambigue della galanteria e dell'ozio cittadini. Per quanto i personaggi abbiano poca consistenza, a parte, forse, qualche ritratto di précieuse in versione veneziana, il quadro d'ambiente, che va da un matrimonio di sorpresa a un incontro in villa, da un intrigo amoroso a un'avventura di viaggio, da un ritorno a Venezia a un dialogo femminile tra le calli, cresce a poco a poco nel ritmo quasi pigro d'una commedia d'atmosfera, dove, per un istante, si può scoprire la noia dolciastra d'una villeggiatura o la gioia stupita d'un mattino autunnale. E intanto la conversazione umanistica degli Asolarti s'è trasformata in un discorso d'attualità, in uno scambio d'idee e di giudizi sulla letteratura, sulla morale e soprattutto sulla storia contemporanea: comodo pretesto poi, per il Brusoni, per inserire nella trama romanzesca, tra l'erotismo un po' squallido delle sue novelle libertine, un'erudizione inquieta di gazzettiere uso a percorrere le mappe dell'Europa politica e a registrare i drammi della ragion di Stato. Siamo ancora lontani, non vi è dubbio, dal romanzo storico; ma le pagine sul Wallenstein, per esempio, costruite sullo sfondo della guerra dei Trent'anni in un contrappunto di silenzio e di furore, tra funebre e pittoresco, paiono un preannuncio, una cauta promessa.
Il disperato bisogno d'essere moderno, d'adeguarsi alla moda d'una stagione, così vivo ed urgente per l'intelligenza recettiva di un Brusoni, perde, viceversa, ogni senso nel mondo in cui si muove l'anziano Giulio Cesare Croce. Per l'autore del Bertoldo, infatti, il tempo si confonde con la natura, con la secolare fatica degli uomini per il loro pane quotidiano. L'eroe che entra ora in scena, non è più il «cavaliere» spregiudicato ed elegante, ma il contadino sceso in città, provvisto soltanto d'un umore caparbio e d'un invincibile, cupo buon senso: una specie di Sancio Panza dell'Appennino bolognese, di Socrate paesano, che deve difendere la sua libertà di figlio della terra, facendo appello alla saggezza elementare dei proverbi, agli estri del buffone campagnolo. In una letteratura tradizionalmente aristocratica, incline a interpretare la campagna come un giardino arcadico, l'apparizione di Bertoldo e di Marcolfa introduce l'agrore di una schietta esperienza rurale con un accento di cordialità risentita. Non è il caso di insistere sull'impegno sociale, sulla coscienza di una protesta che termina nel paternalismo: così come conviene non esagerare i meriti artistici di un testo concepito con il piglio simpatico dell'autodidatta, un po' alla maniera di certe stampe popolari in cui, più che di un'invenzione, il linguaggio ha il valore di una testimonianza. Tuttavia questa franca parlata emiliana, colma di immagini rudi e angolose e di bizzarrie modeste ma vive, fissa per sempre il mito del popolano, del montanaro che ha fatto d'una piazza cittadina la sua scuola; mentre lievita in essa una vena di moralismo istintivo che, sotto la maschera di Bertoldino, tra apologhi e storielle animali, sa anche trovare gli accenti di una grazia grottesca, di una satira saporita e bonaria.
In un colore greve di brulicante affresco barocco, la satira è anche l'ambizione dell'autore del Cane di Diogene. Dopo essersi cimentato nei generi più diversi, dal romanzo devoto alla biografia celebrativa, dal panegirico delirante al racconto storico; dopo aver viaggiato per mezza Europa passando dalle accademie spagnole ai ridotti del demi-monde parigino, immerso sino al collo negli intrighi di una piccola Corte, il Frugoni tenta di fondere le sue esperienze di vagabondo e di lettore in una grande allegoria satirica del proprio secolo con un furore ostinato di sensazioni gigantesche e una scrittura gonfia di forzature e d'ibridismi, di paste acri e di proliferazioni quasi mostruose. La sua lente deformatrice di moralista saturnino esplora l'universo per scoprire un teatro grottesco di fantasmi, di scene assurde, sospeso tra il fascino e la repulsa, il macabro e il giocoso. Non v'è esperienza stilistica del secolo - nel versante, s'intende, della sua cultura allucinata - che lo scrittore non sappia mettere a profitto. Giustapposti o incrociati, si travasano così nel Cane di Diogene la novella picaresca, la miniatura surrealistica nel gusto dei Suenos di Quevedo, la parodia antiscolastica d'impronta rabelaisiana, la bambocciata maccheronica, il romanzo allegorico-politico alla Barclay, il dialogo lucianesco, la diceria paradossale, l'invettiva predicatoria, il colloquio erasmiano, la cronaca di costume, il ragguaglio critico. L'enciclopedia del Frugoni, ultima incarnazione, forse, dell'umanesimo anarchico barocco, non si arresta alle tecniche, ma coinvolge anche le aree linguistiche, poiché contamina con indiscutibile virtuosismo lingua dotta, gergo e dialetto, estendendosi sino al francese e allo spagnolo. A una ricchezza tanto stupefacente di possibilità espressive fa poi riscontro una vena caricaturale che, quando abbandona la grigia atmosfera di un cimitero metafisico, aggredisce la vita contemporanea nelle sue cerimonie e nei suoi manichini con la baldanza lesta e aggressiva di un'acquaforte. Ma è anche vero, infine, che di rado capita al Frugoni di fermarsi a tempo: travolto dalle macchine dell'«ingegno», l'entusiasmo inventivo dilaga quasi sempre nella pedanteria. Nel suo museo di geroglifici dell'umana esistenza, il piacere della collezione opprime nella pinguedine il movimento dell'avventura, e un'aria chiusa, che sa di tanfo e di polvere, avvolge i mascheroni, sgretola le scene e i capricci dei Sette latrati.
Ciò che fallisce al Frugoni sul tramonto del secolo, allorché il gusto è oramai attratto da una nuova letteratura, era riuscito, cinquant'anni prima, a Giambattista Basile. Restituendo il grottesco, in un'agile cadenza di opera buffa, alla vita del cuore e all'avventura degli affetti, la favola meridiana del Pentamerone attua come per prodigio quella poetica barocca a cui pensava anche il Tesauro, di convertire il fatto quotidiano in una perenne sorpresa. Con le sue esplosioni d'ardore fantastico, con la sua veemenza effusiva, l'innata letizia del dialetto rinnova i procedimenti inventivi dell'ingegno in una curiosità fertile e pittoresca, in un racconto ricco di colore e di forza vitale, dove il gioco delle metafore si apre, ma filtrato da una remota ironia, a un sorriso popolaresco. La parola del Basile è festosa e veloce persino nell'ingorgo di un'enumerazione; e nasce, anche quando entra nei labirinti dell'illusionismo analogico, dalla gioia del reale, da una rigogliosa esperienza del molteplice. Una folla di personaggi semplici ma immediati invade così le terre capricciose della fiaba: contadini, mercanti, popolani, osti, signori, giovinette, zitelle, madri, befane, truffatori, saltimbanchi, soldati, pellegrini, parassiti, straccioni, golosi; a cui si affiancano, con un'aria familiare, più di commedia che di mistero, maghe, orchi, folletti, gatti mammoni e grilli sapienti. Il repertorio umano che il Pentamerone proietta tra le quinte di una città fantasmagorica, non ha però perduto il gusto frizzante della strada, degli incontri quotidiani, dei dialoghi vocianti tra due finestre di quartiere. Ecco perché, dopo Callot, il Basile è forse nel suo secolo il poeta più affettuoso di quell'eterna fiera che è la vita dell'uomo nel suo fluire lento e confuso tra il riso e le lacrime, la speranza e la noia, la miseria e l'illusione. Questa grande commedia dell'arte, gremita di gesti, di grida, di episodi, come una piazza gigantesca spalancata a tutti i moti del cuore, dai toni crepuscolari di un trepido colloquio domestico alla violenza dell'istinto e all'apoteosi dell'accidia, resta nel paesaggio massiccio del barocco italiano come il culmine, la trionfante kermesse di una stagione felice.
Ma la città turbolenta di Giambattista Basile è anche il paese dove, come scrive qualche decennio più tardi un viaggiatore pieno, sì, di preconcetti, ma altrettanto armato d'esperienza e d'acume, i poveri «meurent de faim, mème dans les meilleures années» La verità è che sull'Italia del Seicento grava l'ombra del declino economico, che contribuisce a frenare o a ritardare la formazione di una classe borghese e mercantile. Mentre dunque la letteratura tenta di trasferire il reale nel teatro fastoso dell'»ingegno» barocco, il mondo di cui essa fa parte si chiude in un processo di ruralizzazione conservatrice che allontana l'Italia dall'Europa e irrigidisce le forze vive della sua società sottosviluppata. Il fervore dell'immaginazione si perde nell'atmosfera immobile di una provincia povera, senza poter trovare nel dialogo quotidiano di una società operosa, economicamente attiva, la misura del concreto, lo stimolo delle cose. Per questo, forse, l'impressione che resta dopo aver seguito i tentativi delle generazioni barocche che pure presero atto della metamorfosi dell'universo, è quella di una giovinezza mancata, di un gusto ridondante di esperimenti e di ricordi, ma incapace di creare una nuova letteratura.
Tocca allo storico, tuttavia, allorché egli riguarda i «grands courants d'idées, ces grands flux de sentiments qui, après savoir porté les pères et les aieux, s'enfoncent sous terre, y cheminent dans d'obscurs canaux et reparaissent ensuite, rajeunis, transformés, au temps des fìls et des petits-fils», di ricordare che, se la saturazione umanistica della cultura barocca conduce anche dialetticamente a un nuovo classicismo della naturalezza, l'esperienza di una scrittura che mirò a incorporare tutti gli aspetti dell'esistenza sul piano dello stravagante e del caratteristico, apre la strada a quella riconquista del reale a cui il Settecento darà il sostegno di una prima coscienza civile. Una riconquista, per noi Italiani, che dura ancora.