Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’ambito cinquecentesco della corte, che richiede una teorizzazione letteraria dei comportamenti e dei modelli sociali, i generi della trattatistica e del dialogo forniscono le regole della convenienza e della civil conversazione, proponendo nello stesso tempo uno stile dialettico fondato sul valore dell’argomentazione come scambio di opinioni e di saperi diversi e molteplici.
Premessa
Nel periodo travagliato delle guerre italiane, segnato dalla progressiva perdita di libertà degli Stati, gli intellettuali tendono a cercare sicurezza in un’identità culturale e linguistica comune, contro l’incertezza politica e storica che contraddistingue i primi anni del Cinquecento. La letteratura si trova così a essere uno strumento di aggregazione e di comunicazione di vitale importanza, comprovato dall’interesse suscitato in ambito nazionale dal dibattito sulla questione della lingua.
Nella piena stagione rinascimentale l’importanza attribuita alla “conversazione” testimonia il valore di una frequentazione comune che si sostituisce all’elogio della vita solitaria proclamato dagli umanisti come Petrarca. La nascita di una “società di scambio”, fondata sul riconoscimento della pluralità dei fatti e delle parvenze (di cui il dialogo è espressione essenziale), subentra alla civiltà dell’umanesimo che mirava a ricondurre tutto a unità e sancisce la “rivincita” della filosofia platonica, con il suo libero procedere dialogico, sulla sistematicità del pensiero aristotelico medievale.
Lo spazio privilegiato di questa conversazione sui temi dell’esistenza, alla quale appartengono peraltro la frequentazione e l’imitazione dei grandi modelli classici, non è più la vecchia università ecclesiastica o lo studio comunale o signorile, ma è l’ambiente della corte intesa come il luogo del potere centralizzato e della consuetudine, dell’esemplarità e del modello, al quale rapportare la molteplicità delle esperienze e delle opinioni. In questo senso la figura del cortigiano si definisce nel potere della parola come simulazione e dissimulazione, evidenza e nascondimento, fino a comprendere le forme più inquiete e complesse della reticenza, del silenzio e dell’ombra. Nel quadro non ancora irrigidito del classicismo del primo Cinquecento, rappresentato dal modello linguistico-letterario di Bembo e da quello cortigiano di Castiglione, le discussioni teoriche assumono un ruolo sempre più tecnico e specialistico, consacrando la fortuna dei generi della trattatistica e del dialogo, dove il consenso collettivo ha ormai preso il posto dell’autorità normativa.
Il modello del Cortegiano e i trattati sul comportamento
L’esigenza a un tempo pragmatica e filosofica di modelli di riferimento attivi, unita all’affermazione crescente del volgare e alla consapevolezza di rivolgersi a un pubblico più ampio, favoriscono la nascita e lo sviluppo della trattatistica sul comportamento civile. Nella grande fioritura dei trattati sul comportamento, il Libro del cortegiano di Baldassare Castiglione, elaborato nell’arco cronologico di vent’anni, tra il 1508 e il 1528, diviene l’esempio per eccellenza della legittimazione estetica e sociale della morale, una sorta di manifesto antropologico della società di corte fino alla Rivoluzione francese. Strutturata in forma di dialogo, l’opera di Castiglione si pone come compito la descrizione del perfetto cortigiano, nella cui figura ideale si ritrovano i tratti dell’homo universalis del Rinascimento.
L’ambientazione del dialogo è il locus amoenus della tradizione cortese, la corte di Urbino, descritta negli anni del suo maggiore splendore, nel cui elogio malinconico risuona il rimpianto dell’autore per un’età ormai conclusa. I valori consacrati nel Cortegiano sono quelli aristocratici dell’armonia, della grazia, dell’eleganza, e di una sapienza comportamentale che coincide con la qualità stessa dell’apparire, affidata a una retorica sospesa tra dono di natura e autocontrollo, dove la naturalezza coincide con il massimo dell’artificio, e la mediocrità va intesa come “giusto mezzo”, distanza dagli eccessi ed equilibrio insieme etico ed estetico.
Cifra ideale di quest’attitudine cortigiana è la sprezzatura, “regula universalissima” che consiste nel far apparire ogni azione del vivere sociale, frutto di riflessione attenta e misurata, come spontanea e immediata, priva di fatica e di controllo.
Come ogni altro strumento del perfetto cortigiano, anche l’uso del volgare appare indispensabile, in quanto legato a condizioni pratiche di impiego sempre mutevoli e all’uso sociale. Non meraviglia perciò che Castiglione dedichi una vasta sezione del suo testo alla questione linguistica, ritrovando peraltro nelle prove narrative di Boccaccio un esempio di prosa naturale o “sprezzata”, distante da schemi retorici.
A dispetto della sua ricerca dichiarata di equilibrio, il Cortegiano si rivela a tratti un testo contraddittorio e lacerato, che si regge sulla dialettica tra ideale e reale, e in cui il mito vitale della bellezza e della solarità piena si costruisce sempre in rapporto a una mancanza, come la morte dei protagonisti evocata nelle prime pagine del dialogo, la rievocazione malinconica di un mondo scomparso che fornisce il modello della corte ideale, o l’evidente difformità del principe Guidobaldo, in contraddizione con le doti di prestanza fisica attribuite alla figura del cortigiano perfetto. Rispetto alla trattatistica quattrocentesca italiana ed europea che ne costituisce le fonti, come il De cardinalatu di Paolo Cortesi o l’Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam, ciò che contraddistingue l’opera di Castiglione è proprio la percezione inquieta del mutamento, il senso profondo della trasformazione che incrina dall’interno l’ideale cinquecentesco dell’armonia. L’educazione alla misura tende allora a divenire un sogno impossibile, aprendosi ai tormenti dell’analisi psicologica.
Alla precettistica sul comportamento appartiene anche il Galateo di Giovanni Della Casa che, in una linea di discendenza diretta dal Cortegiano, persegue l’immagine dell’uomo civile e colto, affabile e misurato, insegnando a coltivare i modi discreti e piacevoli e a scansare tutto ciò che risulta strano, bizzarro o riprovevole. Come è stato osservato, ciò che divide i due modelli è la modalità differente del progetto, per cui alla ricerca dei valori ideali di Castiglione si contrappone la descrizione vivacemente realistica di Giovanni Della Casa, in fondo dubbiosa sulle effettive possibilità del discorso precettistico come regola superiore. Anche nel Galateo la categoria centrale dell’ammaestramento cortigiano è data dalla ricerca dell’equilibrio e dell’armonia, ma ciò che risulta alla fine non è la rappresentazione ideale di un mondo, quanto l’insieme delle indicazioni pratiche che circoscrivono il comportamento e la segmentazione degli exempla ai limiti del comico o del parodico.
Giovanni Della Casa
Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo
Galateo overo de’ costumi
E sappi che in Verona ebbe già un vescovo molto savio di scrittura e di senno naturale, il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti; il quale fra gli altri suoi laudevoli costumi si fu cortese e liberale assai a’ nobili gentiluomini che andavano e venivano a lui, onorandogli in casa sua con magnificenza non soprabbondante, ma mezzana, quale conviene a cherico. Avvenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo nomato conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più di costumati uomini e scienziati; e, perciocché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo commendarono e apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne’ suoi modi; del quale essendosi il vescovo, che intendente signore era, avveduto e avutone consiglio con alcuno de’ suoi più domestichi, proposero che fusse da farne avveduto il conte, comeché temessero di fargliene noia. Per la qual cosa, avendo già il conte preso commiato e dovendosi partir la mattina vegnente, il vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col conte per modo di accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare uomo già pieno d’anni, molto scienziato e oltre ad ogni credenza piacevole e ben parlante e di grazioso aspetto, e molto avea de’ suoi dì usato alle corti de’ gran signori; il quale fu e forse ancora è chiamato messer Galateo, a petizion del quale e per suo consiglio presi io da prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col conte, lo ebbe assai tosto messo in piacevoli ragionamenti e, di uno in altro passando, quando tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il conte ed accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: - Signor mio, il vescovo mio signore rende a Vostra Signoria infinite grazie dell’onore che egli ha da voi ricevuto, il quale degnato vi siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa; ed oltre a ciò, in riconoscimento di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo: e il dono è questo. Voi siete il più leggiadro e il più costumato gentiluomo che mai paresse al vescovo di vedere. Per la qual cosa avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere ed essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labbra e con la bocca masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire: questo vi manda significando il vescovo e pregandovi che voi v’ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione ed avvertimento; perciocché egli si rende certo, niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse. - Il conte, che del suo difetto non si era ancora mai avveduto, udendoselo rimproverare arrossò così un poco; ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: - Direte al vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono; e di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo senza fine, assicurandolo che io del mio difetto senza dubbio, per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; e andatevi con Dio.
in Opere di Baldassar Castiglione, Giovanni Della Casa, Benvenuto Cellini, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1960
Se, come è stato detto, il Galateo non esprime solamente una topica dei comportamenti, ma anche una retorica del parlare e dello scrivere bene, il trattato La civil conversazione (1574) di Stefano Guazzo rappresenta il testo più significativo di questa tradizione cinquecentesca intorno al valore assunto dalla parola nella società cortigiana.
Partendo dalla condanna della solitudine che conduce alla pazzia, Guazzo definisce infatti l’importanza della conversazione come modello di vita, struttura primaria del vivere sociale che comprende tutti i livelli, da quello privato della cerchia familiare agli ambiti universali dell’etica, dell’economia, dell’estetica e della conoscenza.
In una cultura che attribuisce importanza primaria ai temi dell’esistenza, la trattatistica sull’amore conosce un nuovo sviluppo. Il neoplatonismo di Marsilio Ficino si sovrappone e si combina al corpus della letteratura medievale cortese e laica sull’argomento, dal De amore di Andrea Cappellano, alla celebre Donna me prega di Guido Cavalcanti, alla tematica amorosa del Decameron e dei trattati minori del Boccaccio. Mentre il primo Quattrocento aveva parlato dell’amore in modo realistico e concreto, accentrando l’interesse su questioni pratiche della vita quotidiana (come il matrimonio e la dialettica tra istinti naturali e comportamenti sociali), il dibattito cinquecentesco sull’eros ha uno dei suoi maggiori esempi negli Asolani di Pietro Bembo, stampati in forma di dialogo nel 1505, nei quali il tema dell’amore sottintende quello più vasto della condizione umana e dell’educazione spirituale dell’uomo. Rispetto al modello ficiniano che ne costituisce lo sfondo, l’opera del Bembo si presenta come una sintesi eminentemente letteraria che unisce il concetto cristiano-platonico dell’amore come elevazione spirituale, lontana dal dominio delle passioni, al petrarchismo delle liriche introdotte nel testo.
D’altro canto, la struttura della cornice allude anche nella ripresa formale al modello di Boccaccio della conversazione come specchio di bisogni reali.
In particolare, lo sfondo mondano del dialogo, ambientato ad Asolo nella villa di Caterina Cornaro, dinanzi a una nobile brigata riunitasi per le nozze di una damigella della corte, si ispira alle atmosfere cortesi del Decameron, la cui influenza è evidente anche nella scelta delle forme linguistiche adottate da Bembo.
Contro il petrarchismo platonico del Bembo, che conosce subito uno straordinario successo nell’ambito della società cortigiana, si rivolge il Libro de natura de amore (1525) di Mario Equicola, allievo di Marsilio Ficino, che da un lato si richiama alla tradizione concreta e realistica di Francesco da Barberino e di Leon Battista Alberti, svolgendo d’altro canto il tema dell’amore come sede della sensualità e manifestazione psicologica. Probabilmente coevi all’opera di Equicola, anche se dati alle stampe nel 1435, sono anche i Dialoghi d’amore di Giuda Abarbanel (meglio conosciuto come Leone Ebreo) che, nato a Lisbona tra il 1460 e il 1465, è attivo in Italia fino al 1535. I tre libri dei Dialoghi, a noi noti in una versione italiana di un ignoto autore di lingua toscana del Cinquecento, coniugano platonismo e sapienza giudaica, e sono volti a definire i concetti di amore e desiderio, ad approfondire il tema della natura universale dell’amore e ad analizzare i suoi effetti.
Forme realistiche del dialogo
All’inizio degli anni Quaranta la rivolta antipetrarchista e antiplatonica che ha tra i suoi protagonisti Pietro Aretino finisce per influenzare anche il genere particolare dei trattati d’amore, che di questa filosofia si era nutrito.
Nel 1539 il discepolo dell’Aretino Alessandro Piccolomini, riconosciuto autore di liriche e di commedie, nonché di una Parafrasi del primo libro della “Retorica” di Aristotele, pubblica la Raffaella, dialogo della bella creanza delle donne, in cui la struttura del dialogo lascia il posto ai modi della teatralità e della commedia. Lo stile abbandona le forme della narrazione cortese, per ricercare l’impronta realistica e l’efficacia dell’immagine, raggiunta anche attraverso l’uso sapiente dei proverbi e dei modi di dire che costellano il testo. L’influsso esercitato dall’Aretino, mediato probabilmente attraverso Piccolomini, si ritrova anche nello Specchio d’amore del letterato piacentino Bartolomeo Gottifredi, pubblicato a Firenze dal poligrafo Anton Francesco Doni nel 1547. Si tratta di una preziosa testimonianza dei costumi sociali che accompagnano la casistica amorosa cinquecentesca, e nelle opere di letterati e poligrafi legati all’ambiente veneziano, come Betussi, Domenichi e Sansovino. Un esempio per tutti costituisce il Ragionamento nel quale brevemente si insegna a’ giovani uomini la bella arte d’amore di Francesco Sansovino (1545), figlio dell’architetto e scultore Jacopo Sansovino; nell’opera la discussione delle tematiche amorose, sorretta da un’ampia scorta di novelle ed exempla di tipo realistico, lascia trasparire l’antiplatonismo dell’autore e la sua distanza dalle atmosfere cortesi degli Asolani. Ugualmente lontano dal petrarchismo e dal platonismo proclamati da Bembo risulta il trattato Della infinità di amore, attribuito a Tullia d’Aragona (1547), un appello lucido e realistico contro l’inutilità mendace di tutte le teorizzazioni amorose, e testimonianza della difficile condizione femminile.
Fra platonismo e tradizione popolare: i dialoghi di Giambattista Gelli
L’opera dialogica di Giambattista Gelli, membro dell’Accademia fiorentina e difensore della lingua viva e parlata contro il sapere libresco, si situa nel punto d’incontro tra la tradizione fiorentina che fa capo a Machiavelli e gli sviluppi della filosofia ficiniana. All’ambientazione dei Capricci del bottaio (1546), dieci “ragionamenti” tra Giusto Bottaio e la sua anima, non è poi estranea la lezione di Alberti sulla filosofia come sapere concreto, che secondo l’insegnamento di Socrate deve farsi “artigianalmente” nelle botteghe e nei luoghi d’incontro popolari, come piazze e osterie.
La tesi di fondo di Gelli è appunto quella della diffusione della cultura e della necessità di far conoscere il pensiero antico a strati sempre più vasti di pubblico. I Capricci, che a dispetto del loro nome non sono dialoghi spontanei e bizzarri, ma si svolgono secondo un ordine e un intento precisi, sanciscono così l’incontro tra la cultura “alta”, aristotelica e neoplatonica, e la linea popolare dei detti e delle facezie, dei motti e dei proverbi.
Giovan Battista Gelli
Dialogo del bottaio con la sua anima
I capricci del bottaio
ANIMA: Tu fai buono adunque il detto mio: che e’ sono le cose, e non le lingue, che fanno gli uomini dotti; e se ben elle si significano con le parole, chi intendesse solamente le parole non sarebbe mai però da nulla. Dimmi un poco: se mi è detto questa proposizione di Aristotile: “ogni cosa e ogni arte e ogni disciplina desidera il bene” in vulgare, e io l’intendo, che bisogna che ella mi sia detta in greco o in latino?
GIUSTO: Io non so: e’ dicon così.
ANIMA: Dichino a lor modo, ché la verità è questa. Io ti vo’ dire ancor più là, che non basta lo intendimento delle cose a fare un uomo valente, ché bisogna ancora il giudizio.
GIUSTO: Questo credo io bene; ché io ho veduto a’ miei dì di molti litterati pazzi, e che non sono valuti due man di nòccioli, e pure hanno studiato assai. Anzi mi ricorda infra gli altri d’un certo Messer Michele Marullo, il quale fu un di quei Greci che si fuggiron di qua per la perdita di Costantinopoli, che era dottissimo, secondo che si diceva, e niente di manco era un certo uomo a casaccio e fantastico; onde gli fu un dì detto da un certo Bino de’ Corrieri, che praticava seco, questo bel tratto: “Messer Michele, costoro dicono che voi siate un gran savio in grammatica e in greco: e’ potrebbe essere vero, ché io non me ne intendo; ma in volgare, a me parete voi un gran pazzo”.
ANIMA: Vedi tu che tu cominci a vedere a poco a poco lume? Io ti dico che e’ dicon così solamente per invidia: e vuo’lo tu vedere? Ora che e’ veggono che le lettere latine si sono un po’ più divulgate che elle non solevano, e’ cominciano a dire che chi non sa greco non sa cosa alcuna; come se lo spirito di Aristotile e di Platone (come disse quel cortigian da bene) fusse rinchiuso ne l’alfabeto greco come in una ampolla, e che l’uomo imparandolo se lo beesse in un tratto, come si fa uno sciloppo
GIUSTO: In verità che tu di’ il vero: e’ lo dicono tutti.
ANIMA: O che faran eglin di qui a quindici o venti anni, che la lingua greca sarà anch’ella quasi commune: a tanti si vede oggi darvi opera? È saranno forzati a ricorrere a un’altra, e dire, verbigrazia, che chi non sa ebreo non sa nulla; e così di lingua in lingua saranno finalmente costretti pervenire alla biscania, dove non si potrà poi andare più là.
GIUSTO: Perché?
ANIMA: Perché ella è una lingua che non s’impara, e non la parla mai se non chi nasce in que’ paesi. Ma io ti so dire che e’ bisognerà fare altro a questi simili, s’e’ vorranno esser tenuti dotti: ché gli uomini cominciano a fare ancor eglino come e fanciugli, che non hanno più paura delle befane di cenci.
GIUSTO: E che vòi tu dire per questo?
ANIMA: Vo’ dire che e’ comincia oggi a non servire più il dire “egli è stato a studio”, o “e’ dà opera alle lettere”: ché gli uomini se ne fanno beffe, insino che non veggono qualche esperienzia di quel tale.
GIUSTO: Io intendo bene da certi giovani, che si è cominciato non so che Accademia, solamente perché gli uomini, sperimentandosi in quella, dieno qualche saggio di loro.
ANIMA: E tu vedi bene, come questi così fatti la disfavoriscono; e che, dapoi che e’ s’avvedono che qualche uno, che n’era fatto pochissima stima, si portava così bene come uno di questi tanto stimati, e’ non se ne è voluto esperimentare più nessuno: anzi vanno dicendo che ella è cosa che toglie di reputazione a le buone lettere, e che fa che gli uomini studiano solamente per apparenza; e non voglion dire come disse il Pulci, che il migliaccio era caldo. E così dico che ella ci farà finalmente vedere, come dice Burchiello,
che diavolo hanno in corpo questi bruchi,
che sempre mangian foglie e cacon seta.
GIUSTO: Questa Accademia debbe aver fatto a i litterati come fece l’assedio a i bravi: ché dove prima bastava solamente dire d’uno ch’egli era bravo, che ognuno aveva paura di lui; e oggi non fa così, e non si trova più nessuno che abbia paura de’ ma’ visi; anzi non c’è così piccol fanciullo, che, s’e’ gli fusse fatto dispiacere, non avessi animo di dar d’un coltello a qual si voglia soldato: e èssene veduto più d’uno esemplo.
ANIMA: Tu l’hai propriamente detto, Giusto; e se non possono, questi dico che non danno totalmente opera a gli studii, sopra avanzare questi che si tengono così dotti, al manco e’ gli scuoprono, e fanno che e’ non possono imboccare più gli uomini co’ cucchiaii vòti, come fu già detto a uno di loro, e come gli hanno potuto fare e fatto insino a ora. Ché in verità egli era pur una bella cosa per loro, che quando ei dicevano “ella sta così”, ognuno se ne stesse a lor detto, come facevano i discepoli di Pittagora: ma oggi bisogna che e’ mostrino e perché e per come, se e’ vogliono che e’ sia loro creduto. Ma lascia pur fare: io ti dico che lo aprir de gli occhi che ha fatto a gli uomini questa Accademia, è per essere la tiriaca loro.
GIUSTO: E credi tu in fatti che questi che io intendo che la favoriscono sieno per condurre perfettamente col tempo le scienzie in questa nostra lingua, come si dice che gli hanno voglia?
ANIMA: Quanto all’essere sufficienti, ti posso io dire che io ce ne conosco molti che sarebbono atti, e credo che ogni volta che vorranno, riuscirà loro il farlo bene: e di già se ne vede non piccioli segni. Quanto a l’esser la lingua atta a riceverle perfettamente, ti dico io bene risoluto, che la nostra lingua è attissima a esprimere qual si voglia concetto di filosofia o astrologia o di qualunche altra scienzia, e così bene come si sia la latina, e forse anche la greca, della quale costoro menano sì gran vampo: perché io mi ricordo già sentir dire che Messer Constantino Lascari, quel Greco di chi questi moderni fanno sì grande stima, usò di dir nell’orto de’ Ruscelli, a tavola, dove erano presenti molti gentil uomini, che ne è forse ancora vivo qualcuno, che non conosceva il Boccaccio inferiore ad alcuno loro scrittore greco, quanto a la facondia e al modo del dire, e che stimava il suo Cento novelle quanto cento de’ loro poeti.
GIUSTO: Ohimè, che mi di’ tu? Io non vorrei però che tu mi conducessi a creder qualcosa, che dicendola, poi, io facessi far beffe di me a le genti. Io sento pure, che e’ ci è di molti uomini da bene che la biasimo, questa nostra lingua.
ANIMA: E chi son questi?
GIUSTO: Dicon del Trissino per uno.
ANIMA: Questo non fa egli: anzi gli pare tanto bella, ch’ei ce la vorrebbe rubare; e dove ella è fiorentina propria, come dice il Boccaccio, per avervi parte la vuol fare italiana, o cortigiana che egli si dica.
GIUSTO: Io non l’ho letto, e anche ne ho udito ragionar a caso; come di quell’altro che fa il Dialogo delle Lingue, dove si dice che questa è biasimata tanto. E di questo che ne di’ tu?
ANIMA: Dico che non la biasima, anzi la onora. Egli è ben vero che fa dir a uno di quelle cose che si dicono per costor che la biasimano.
GIUSTO: Sta bene. Non ti pare che le dica egli, a questo modo? Anche Maumetto, quando e’ levò il vino a gli uomini suoi, acciò che e’ non diventassino e di maggior animo e di miglior ingegno, e non volessin star più sotto la legge sua, lo fece dire all’Agnolo Gabriello. Ma se e’ faceva per lodarla, come tu di’, perché non risponde egli a quelle cose?
ANIMA: Dirotti. A una parte non rispond’egli, perché elle non vaglion nulla: come è quella che, per esser questa la corruzione della lingua latina, ella non possa esser buona. Con ciò sia che egli si è veduto infinite volte per ogni uomo della corruzione d’una cosa nascerne una più bella e una miglior di quella: come avviene, verbigrazia, nella generazione de l’uomo. E che vuoi tu anche rispondere a chi dice che quella consonanzia che si sente nella nostra lingua è simile a un’armonia o musica di tamburi, o, per me’ dire, d’archibusi o di falconetti?
GIUSTO: O non doveva egli rispondere a cotesto?
ANIMA: No: ché, come dice il tuo Dante, e’ non sarebbe manco stolto colui che rispondesse, a chi domandasse se fusse fuoco in una casa per le finestre della quale uscissi fiamma, di sì, che colui che ne domandasse; e oltre di questo, non risponde a questo assai il Trissino, avendo fatto il libro della Poetica, dove e’ dimostra quanto maravigliosa arte si ritrovi ne’ nostri versi?
GIUSTO: A me par che tu dica il vero; ma guarda che l’amore non te n’inganni, come e’ fa la maggior parte de gli uomini, ne le cose lor proprie.
ANIMA: Io non ti niego che l’amore non possa fare assai. Ma dimmi: donde potrebbe mai venir che ella è oggi tanto apprezzata per ogni corte, tal che pare che ciascuno s’ingegni di scrivere in quella il meglio e ’l più che può, se non dalla stessa bontà e maravigliosa bellezza sua?
GIUSTO: Credo certo come tu di’; ma quel meglio, che tu di’, come è fatto?
ANIMA: Ne’ versi per molti assai ragionevolmente; ma nella prosa per pochissimi, e meno assai che nel verso.
GIUSTO: A questo mi fai tu ben maravigliare: io mi sarei creduto che gli uomini facessin meglio quel che fanno più spesso, che è il parlar in prosa e non in versi. Ma quale è la cagione di questo?
ANIMA: Dirottela, e notala bene. La bellezza e la grazia della lingua nostra non procede solamente dalle parole, ma dal modo di tesserle e ordinarle insieme; e chi vuol vedere come in uno specchio quel che può questa seconda parte ben usata, conferisca gli scritti de’ Fiorentini con gli scritti de gli altri che non son Toscani, e sentirà (se gli ha orecchie però) la dolcezza che universalmente è nelle clausule di questi, e la durezza di quegli altri. E questo ordine e questa facilità non si può così osservare né mantenere ne’ versi, rispetto alle misure, al suono e a le rime; e però pare che gli uomini, convenendo insieme a certe leggi particulari, si possin più egualmente riscontrare nel modo del comporre, e così far meglio i versi che le prose.
GIUSTO: Di questo non saprei dare giudizio, se ben ho letto Dante; ma io dico ben che io ho conosciuto subito alla pronunzia uno se egli è fiorentino o no: e sforzisi di parlar bene quanto e’ sa.
ANIMA: Questo non ha dubbio. E sia certo di questo ancora, che, se tu avvertirai bene, tu conoscerai s’uno è nato o allevato in Firenze, o nel contado: perché questi comunemente ritengono ancora un certo che di rozzo nel pronunciare, e non posson lasciarlo senza qualche difficultà.
GIUSTO: Oh, questo non cred’io già che importi, perché anco chi è del contado si chiama e parla fiorentino.
ANIMA: Come, non importa! Anzi v’è una differenza grande, se non vi si rimedia col buon uso.
GIUSTO: O che mi di’ tu? non fu il Boccaccio da Certaldo? E è pur de’ più famosi scrittori fiorentini.
ANIMA: Sì, i suoi antichi, donde la casa si riserbò poi sempre il nome, ma non già egli; e se tu non mi credi, leggi quel libro che fa de’ fiumi, dove, parlando dell’Elsa, dice che ella passa a’ piedi del castello di Certaldo, patria già de’ suoi antichi, inanzi che Firenze gli ricevesse per suoi cittadini.
GIUSTO: Adunque la lingua di che si fa oggi tanto conto è fiorentina propria?
ANIMA: E chi debbe dubitarne? non lo pruova sì bne Lodovico Martelli in quella risposta che fece al Trissino? E sappi che chi non è nato e allevato in Firenze, non la impara mai perfettamente; e per questo avviene che molti, disperati del parlar o scriverla bene, si son gettati a dirne male e a vituperarla. E credo certamente che egli avvenisse loro come a un gran maestro de’ tempi nostri ne’ casi di Dante.
GIUSTO: Che fece?
ANIMA: Dirottelo. Volendo egli esser reputato de’ primi nella lingua, e credendosi giostrare al pari del nsotro Petrarca, lo loda maravigliosamente, parendogli a un tempo medesimo lodare anche se stesso; ma accorgendosi dipoi (come ingegnoso pure che egli è) di non poter appressarsi a Dante in modo alcuno, sospinto dall’invidia, il meglio che seppe s’ingegnò di biasimarlo.
GIUSTO: Egli ha dunque fatto come si dice che feciono il Conte della Mirandola e fra Girolamo: l’uno de’ quali prevedendo per astrologia che doveva morir giovane, e l’altro per le mani de la giustizia, cominciarono a volersi persuadere che ella non fusse vera, e a dirne e scriverne male. Ma avvertisci, che io mi ricordo che e’ lo biasima solamente nella lingua; la qual cosa non arebbe né egli né altri forse fatto, se gli avessino considerato bene in che termine ella si trovava a i tempi suoi: e che egli, cavandola del fango, le dette molto più aiuto, che forse non fece poi il Petrarca conducendola a tanta perfezione.
ANIMA: Cotesto sarebbe un bene. Io dico nelle scienzie ancora: dicendo che egli, solamente per volersi mostrare maestro di quelle, aveva fatto un poema che poteva simigliarsi veramente a un gran campo ripieno di molte erbacce; e mille altre cose ancora più immodeste e più scostumate: che mi maraviglio, quando e’ fusse bene il vero, che per riverenzia d’un tanto uomo egli non se le tacesse.
GIUSTO: Oh! se egli non fusse gran maestro come tu di’, e se dice cotesto di Dante, io direi bene io che fusse un prosontuoso.
ANIMA: Dillo pure arditamente, poi che e’ parla così senza rispetto alcuno di Dante, a chi egli è molto più inferiore che non sei tu a lui: se già non si misura la perfezione umana col favore della fortuna, come usano fare oggi molti. Ma lascia fare: egli ha oggi in mano la penna tale, che, dimostrando la grandezza e la bellezza di questo poeta, scoprirà o la temerità, o il poco sapere, o l’invidia di costui.
GIUSTO: È farà molto bene: ché chi è invidioso non merita altro che essere scacciato e fuggito da ogni uno, come si farebbe una fiera.
ANIMA: Tu parli come un filosofo, Giusto: ché l’invidia è quella, la quale, più che altra cosa, guasta il consorzio umano; e tanto peggiori effetti produce, quanto ella è in uomini più ingeniosi e più valenti. Ma egli è di già alto il sole: io vo’ che tu ti lievi e vada a le sue facende; e un’altra volta ragioneremo di questo più a pieno.
in Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1978
Particolarmente significativa è dunque la figura del protagonista, esperto nell’arte dei negozi ma tutt’altro che digiuno di lettere e convinto assertore dell’importanza di una sapienza morale e civile.
Composta contemporaneamente ai Capricci, l’altra opera dialogica di Gelli, La Circe, ha un intento più scopertamente filosofico e letterario, comprovato da una scelta linguistica e stilistica più elegante e ricercata. Rispetto allo sfondo popolare dei Capricci, l’ambientazione è mitologica e astratta e il dialogo è giocato intorno ai personaggi di Ulisse e di Circe, le cui vicende vogliono esprimere la rievocazione nostalgica della natura e il distacco dell’uomo da essa. Attraverso l’allegoria dei compagni di Ulisse, trasformati in animali da Circe, le pagine di Gelli svolgono il motivo umanistico e neoplatonico degli uomini che, troppo intenti alle cose del mondo, dimenticano la propria destinazione razionale e superiore.
Nella seconda metà del Cinquecento il dialogo, rifiutato da Lodovico Castelvetro come forma ibrida estranea alla codificazione aristotelica dei generi, trova la sua giustificazione teorica, letteraria e filosofica nell’Apologia del dialogo di Sperone Speroni e nell’Arte del dialogo di Torquato Tasso.
Allievo del filosofo Pietro Pomponazzi e membro dell’Accademia padovana degli Infiammati, che sotto la sua guida diviene l’espressione di una cultura che lega strettamente letteratura e filosofia, Speroni scrive nel 1574 l’Apologia a difesa dei suoi Dialoghi, accusati di offesa alla morale. Secondo Speroni, che si serve del richiamo ai precetti aristotelici in modo libero e consapevole, il dialogo è una forma di prosa vicina al poema, la cui caratteristica consiste non nell’imitazione della realtà, bensì delle idee che vengono presentate e dibattute come avviene tra i personaggi delle commedie sulla scena. Il modello è quello socratico-platonico, poi ripreso da Luciano e da Plutarco, che comprende vari interlocutori a sostegno delle diverse tesi. La giustificazione del dialogo come genere antico non si fonda però solamente sulla letteratura classica, ma ha autorevoli precedenti nella scrittura, ad esempio nel dialogo sulla natura del dolore contenuto nel Libro di Giobbe, o nelle interrogazioni di Dio ai peccatori biblici, Adamo, Caino e Satana. Oltre che “piacevole labirinto” poetico, il dialogo è un genere filosofico in quanto delinea un cammino verso la verità. Esso è immagine e figura del destino stesso dell’uomo che la natura indirizza originariamente verso il sapere, fornendogli nel contempo gli strumenti per conseguirlo.
L’apologia del genere ritorna nel Discorso dell’arte del dialogo, composto da Tasso nel 1585 dopo aver portato a termine i dialoghi Del Rangone, overo de la pace, e Della Cavaletta, overo della poesia toscana. Come già Speroni, Tasso distingue due tipi di imitazione, l’imitazione delle azioni degli uomini, su cui si fondano i generi della commedia e della tragedia, e l’imitazione dei “ragionamenti”, propria del dialogo.
Sebbene interessi le idee e non i fatti veri e propri, il dialogo partecipa sia del comico che del tragico, perché l’azione è parte integrante dello svolgimento del discorso e, a differenza di quanto avviene in altre forme filosofiche, la sua soppressione comporta il dissolversi stesso del dialogo. Esempi per eccellenza del dialogo tragico sono secondo Tasso il Critone e il Fedone di Platone, incentrati su argomenti nobili come l’immortalità dell’anima, mentre comico è il Convito, in cui compaiono elementi bassi propri della commedia.
La lingua del dialogo non può che essere la prosa, in quanto forma del parlare che conviene alle speculazioni e all’uomo civile che ragioni intorno ai doveri e alle virtù. Sillogismi, entimemi – vale a dire sillogismi abbreviati in cui una delle due premesse è sottintesa – ed esempi non potrebbero infatti venire trattati in poesia. Infine, riprendendo alcune considerazioni dal De dialogo liber di Carlo Sigonio, Tasso conclude affermando che propria del dialogo è l’impostazione dialettica, necessaria a una disputa che non procede per dimostrazioni incontrovertibili (come avviene nel trattato che enuncia un’unica verità già contenuta nelle premesse), ma si fonda sull’argomentazione, ovvero sul libero confronto delle opinioni. Formulata in termini che ricordano la distinzione novecentesca del filosofo polacco Chaim Perelman tra dimostrazione e argomentazione, l’apologia del dialogo di Tasso finisce così per cogliere pienamente, attraverso l’analisi consapevole delle sue forme, l’essenza retorica della civiltà cortigiana del Cinquecento.