TRATTATO internazionale
Col nome di trattato, convenzione, dichiarazione, protocolli, accordi, patti, si indica genericamente ogni atto giuridico originato dall'incontro delle volontà di due o più soggetti internazionali, e cioè ogni atto bilaterale internazionale.
Il procedimento maggiormente in uso nella pratica internazionale per conseguire l'incontro o l'accordo di volontà necessario per dar vita al trattato è il seguente. Ciascuno degli stati che intende partecipare al trattato nomina dei proprî plenipotenziarî, i quali si riuniscono tutti insieme, e cercano di redigere un progetto di trattato tale da incontrare l'approvazione dei rispettivi stati. Se i plenipotenziarî riescono in questo loro compito, sottoscrivono, per accertarne il contenuto, il testo da loro redatto, e lo trasmettono agli organi competenti dei rispettivi stati, di solito i capi degli stati. A questi altri organi spetta o di non approvare l'operato dei plenipotenziarî, rifiutando la ratifica, o di approvarlo ratificando il testo loro presentato. Gli atti di ratifica vengono poi comunicati da ciascuno stato agli altri contraenti (scambio delle ratifiche), oppure depositati presso lo stato incaricato di raccoglierli e di notificarli (depositi delle ratificlle). Con lo scambio delle ratifiche, o con il deposito delle ratifiche nel modo e nel numero previsti dalla convenzione medesima, il trattato ha origine e diventa impegnativo secondo il diritto internazionale per i soggetti tra i quali tali atti sono intervenuti. Vi sono inoltre delle convenzioni dette "aperte", nelle quali gli stati contraenti consentono agli altri di partecipare al trattato, aderendo o accedendo, come si dice, al trattato. In questa ipotesi i terzi stati originariamente estranei alla convenzione, divengono parti di questa e anch'essi godono dei diritti e sono sottoposti ai doveri che ne derivano.
Quanto ai requisiti di validità dei trattati anche nell'ordine internazionale si può, sebbene con molta prudenza, trasportare la teoria dei vizî del consenso, e ritenere nullo il trattato quando la volontà dell'organo che è addivenuto alla sua conclusione fosse viziata da dolo, da violenza o da errore. Almeno nei casi più gravi, gli stati non hanno mancato di riferirsi a questi vizî come a cause di nullità dei trattati da loro sottoscritti.
Non vi sono invece limiti di forma: i trattati possono essere conchiusi per iscritto, oralmente, tacitamente. L'accordo tra le varie volontà può indifferentemente formarsi con uno o altro procedimento, e quello sopra indicato è solo il più frequente e consueto, non quello esclusivamente in uso nei rapporti internazionali, e tanto meno quello imperativamente richiesto dal diritto internazionale.
Nemmeno vi sono limiti quanto all'oggetto dei trattati. I contraenti possono darvi qualunque contenuto, disciplinare qualunque loro rapporto, regolare qualsivoglia materia. Fanno eccezione solo alcuni interessi generalissimi tutelati da generali norme internazionali, alle quali i trattati particolari non possono contraddire. Così non sarebbe valido un trattato con cui due o più stati si accordassero per spartirsi la sovranità di un tratto dell'alto mare, contravvenendo alla norma internazionale che sancisce la libertà dell'alto mare.
Un particolare obbligo incombe ai membri della Società delle nazioni, in virtù dell'art. 18 del patto: quello di sottoporre ogni convenzione da loro conchiusa alla registrazione presso il segretariato della società. Il segretariato provvede poi alla pubblicazione del trattato, inserendolo nel suo testo originale, accompagnato talvolta dalla traduzione nelle lingue ufficiali della Società, in una speciale raccolta intitolata "Raccolta dei trattati e degli impegni internazionali registrati dal segretariato della Società delle nazioni".
Particolare menzione meritano infine alcune convenzioni, specie quelle conchiuse in tempo di guerra dai comandanti militari per provvedere a esigenze militari, come le tregue, gli armistizî, le capitolazioni, i cartelli, ecc. Queste convenzioni offrono la peculiarità di venire conchiuse da organi (i comandanti militari) diversi da quelli per cui mezzo gli stati di solito assumono impegni internazionali, e inoltre di divenire obbligatorie appena i competenti organi militari le abbiano conchiuse, senza necessità di ulteriore ratifica da parte dei capi di stato. Le esigenze belliche e la necessità di una immediata esecuzione, fanno in questo caso derogare alle consuete regole vigenti per i trattati internazionali.
Già dicevamo che i trattati internazionali producono effetti solo tra le parti contraenti. Per queste fanno sorgere l'obbligo di un comportamento conforme a quanto è concordato nel trattato medesimo: ciascun contraente dovrà svolgere quella attività o astenersi dallo svolgere quella attività che dal trattato è imposta o vietata. Si ricollega a questo proposito il problema della interpretazione dei trattati. La regola fondamentale internazionale è che i trattati vanno interpretati non secondo una gretta interpretazione letterale, ma conformemente alle reali intenzioni delle parti; da alcuni si è espresso questo principio anche dicendosi che nel diritto internazionale domina la regola della buona fede. La regola ora enunciata serve anche a eliminare alcune particolari difficoltà a cui dà origine la mera interpretazione letterale, come quelle insorgenti dall'uso, intensificatosi in questi ultimi anni, di redigere un trattato in più testi in lingue diverse e dotati ciascuno di pari autorità. Il trattato di Versailles, ad es., è redatto in francese e in inglese e i due testi hanno eguale autorità; donde la impossibilità, quando i due testi non concordano pienamente, di riferirsi alla sola interpretazione letterale.
I trattati internazionali possono estinguersi per adempimento della prestazione promessa, per estinzione di una delle parti che lo ha conchiuso, per inadempienza di una delle parti, per scadenza del termine, quando, come non raramente avviene, il trattato è stato conchiuso a termine. Altre volte il trattato è conchiuso a tempo indeterminato, ma ciascuna delle parti ha la facoltà di denunciarlo a epoche determinate (ad es. allo scadere di ogni anno o di ogni 5 anni o di ogni 10 anni), sciogliendosi così dall'osservanza del trattato.
Discusso è se i trattati si estinguano per effetto della cosiddetta clausola rebus sic stantibus, e cioè se i trattati si estinguano allorquando mutano sostanzialmente le condizioni di fatto in vista delle quali sono stati conchiusi. Ma la pratica internazionale, e specie in questi ultimi anni, sembra essersi andata sempre più recisamente orientando nel senso di riconoscere questa causa d'estinzione. Allorquando sopravvengono nuove circostanze di fatto, diverse da quelle esistenti al momento della conclusione del trattato, e tali da rendere l'osservanza di questo inutilmente ed eccessivamente gravosa, oltre quanto poteva attendersi il soggetto che si è impegnato, esso può liberarsi dall'impegno assunto.
Infine sono anche discussi gli effetti della guerra sui trattati, ritenendosi da alcuni che la guerra estingua tutti i trattati tra i belligeranti avversarî, da altri che la guerra li estingua solo in parte, e da altri ancora che la guerra solo sospenda e non estingua i trattati. Certo il rapporto di belligeranza interferisce notevolmente sui trattati che i belligeranti avevano tra loro conchiuso, e ne impedisce l'osservanza e l'esecuzione, fatta eccezione per ben pochi, ed esclusi inoltre quelli che gli stati avevano conchiuso appositamente per il periodo bellico, come le convenzioni con cui si impegnano a condurre in un determinato modo la guerra. Che cosa debba avvenire al ritorno della pace dei trattati anteriormente conchiusi fra i belligeranti, è di solito determinato dai trattati di pace, i quali provvedono a rimetterne in vigore alcuni o a dichiarare la estinzione di certi altri (cfr. articoli 282, 286, 289 del trattato di Versailles).
Un problema assai dibattuto in questi ultimi tempi è stato quello della revisione dei trattati. Può essere che un trattato non sia più conforme alle nuove esigenze dei tempi mutati; eppure se non si è verificata alcuna delle cause di estinzione innanzi elencate, e se non si è formato un accordo unanime di tutti i contraenti per abrogare o modificare il trattato (accordo ben difficile da ottenere, perché vi sarà spesso un qualche stato interessato al mantenimento del trattato, e che, a causa di questi suoi particolari interessi, rifiuta di rinunciare ai vantaggi che gliene derivano), il trattato continua ad avere vigore. Per ovviare a questo inconveniente si sono studiati varî mezzi e invocate varie riforme per consentire la revisione dei trattati, anche qualora non siano consenzienti tutte le parti. Ma tali tentativi hanno incontrato insuperabili difficoltà, data l'attuale organizzazione del diritto internazionale, e non hanno sinora quasi dato risultati concreti. Da ricordare a questo riguardo è soltanto l'art. 19 del patto della Società delle nazioni, secondo il quale l'assemblea può di tempo in tempo invitare i membri della Società a procedere a un nuovo esame dei trattati divenuti inapplicabili come pure delle situazioni internazionali il cui perdurare potrebbe mettere in pericolo la pace del mondo. Anche questo articolo è ben lontano dal risolvere la questione, limitandosi esso a formulare degl'inviti, senza porre alcuna norma imperativa.
Bibl.: S. B. Crandall, Treaties, their making and enforcement, Washington 1916; D. Basdevant, La conclusion et la rédaction des traités, in Recueil des Cours de l'Académie de droit international, V, Parigi 1926; D. Chailley, La nature juridique des traités internationaux selon le droit contemporain, ivi 1932; E. Fraugulis, Théorie et pratique des traités internationaux, ivi 1935.
Trattati politici. - È impossibile voler dare una definizione precisa di ciò che si intende per trattato politico in contrapposto alle altre specie di trattati internazionali, perché la denominazione ha un valore esclusivamente pratico, a cui non ne corrisponde alcuno teorico e giuridico. Il diritto internazionale non conosce infatti la distinzione fra trattati politici e altri; ivi esistono solo i trattati in genere, e tutti sono sottoposti alle medesime norme, e per tutti vigono le medesime regole, senza che alcuna categoria si distacchi con caratteri suoi proprî e riceva un proprio particolare regolamento. Si parla tuttavia correntemente, se non nel linguaggio giuridico, in quello storico e diplomatico, di trattati politici, per designare i trattati attinenti a materie di interesse prevalentemente e più direttamente politico, in contrapposto a quegli altri trattati che attengono invece piuttosto agl'interessi economici, culturali, sociali o giuridici degli stati. Quindi trattati politici si possono dire, per quanto imprecisa necessariamente sia ogni definizione in questa incerta materia, quei trattati che provvedono a comuni interessi politici di due o più stati, oppure che risolvono o regolano conflitti di interessi politici fra due o più stati. Nell'esame delle varie definizioni, avanzate dai singoli scrittori, e del resto assai simili, salvo che nelle parole, le une alle altre, non vi è bisogno di inoltrarsi. E nemmeno vi è da fare anche soltanto cenno a una teoria generale dei trattati politici, poiché, conseguentemente a quanto or ora abbiamo avvertito, non vi è a questo riguardo che da rinviare alla teoria dei trattati in genere, la quale vale in tutto e per tutto anche per quelli detti politici. Sono invece da ricordare le varie categorie di trattati politici, che sono certo i più importanti che si conchiudano nel diritto internazionale.
Le alleanze sono trattati con i quali due o più stati si impegnano a fornirsi reciprocamente un aiuto militare nel caso che l'uno di essi si trovi involto in una guerra. Le alleanze possono essere offensive, se i contraenti s'impegnano a prestarsi mutua assistenza bellica, anche nel caso di guerra provocata da uno di essi; oppure possono essere difensive, se l'obbligo di assistenza sussiste solo nel caso che si sia avuta un'aggressione non provocata contro l'uno o l'altro dei contraenti. D'altronde ogni singolo trattato specifica quali siano i casi in cui l'assistenza è obbligatoria, e quali siano le misure militari da prendere e l'aiuto da fornire da parte di ciascun alleato.
Affini ma distinti dai trattati di alleanza, sono i trattati di garanzia per i quali due o più stati s'impegnano o a prestare una certa attività o genericamente a svolgere la loro opera affinché venga mantenuta una data situazione di fatto o vengano osservati certi impegni internazionali. Particolarmente importanti sono i trattati di garanzia di territorî, per i quali gli stati s'impegnano a garantire che dati territori rimangano allo stato che li possiede, e si obbligano a ricorrere eventualmente anche alla forza delle armi per ottenere questo fine. Così l'integrità dell'Impero ottomano fu garantita dalle potenze con l'atto generale del congresso di Parigi del 30 marzo 1856; così pure l'art. 10 del patto della Società delle nazioni garantisce l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di tutti i membri; così infine con il patto di Locarno del 16 ottobre 1925 l'Italia e l'Inghilterra hanno garantito gli attuali confini tra la Germania da un lato e il Belgio e la Francia dall'altro. Importanti pure sono i trattati di garanzia dei prestiti effettuati da uno stato: in questa ipotesi gli stati garanti s'impegnano al pagamento degl'interessi, al rimborso del capitale, ecc., nel caso che lo stato debitore non paghi alla scadenza e nei modi stabiliti.
Dato lo scarso credito di cui godevano certi stati, essi dovettero spesso, per poter lanciare dei prestiti, ottenere a favore dei loro futuri creditori la garanzia di altri stati, i quali la accordavano, esigendo però di solito un qualche compenso d'ordine finanziario o politico o altro.
Appartengono pure a un genere affine i trattati di neutralizzazione, per i quali uno stato s'impegna a restare estraneo a ogni conflitto bellico futuro, e gli altri stati s'impegnano o semplicemente a rispettarne la neutralità, o anche a garantirla e a proteggerla contro gli eventuali attacchi. Stati neutralizzati furono il Belgio, il Lussemburgo e la Svizzera.
Vi sono poi trattati che neutralizzano non un intero stato, ma una sola parte del suo territorio: gli stati s'impegnano allora a non compiere operazioni belliche in quel territorio, e lo stato, che ne ha la sovranità, s'impegna inoltre a non tenervi truppe e a non compiervi opere militari. Neutralizzate erano un tempo, a favore della Svizzera, le zone di Chablay e di Faucigny nell'Alta Savoia, neutralizzate sono tuttora le isole Aland, appartenenti alla Svezia (trattato di Ginevra del 20 ottobre 1921) e la zona di Tangeri (convenzione di Parigi del 25 luglio 1928); inoltre sono neutralizzati numerosi fiumi, e alcuni stretti come il canale di Suez (dal 1888), il canale di Panamá (dal 1850), lo stretto di Magellano (dal 1881).
Altri trattati politici hanno per oggetto di prevenire o d'impedire i conflitti bellici fra gli stati. Sono qui da annoverare in primo luogo i trattati di arbitrato. Ne furono conchiusi numerosissimi a partire dal secolo scorso e per essi gli stati s'impegnano a sottoporre al giudizio di arbitri da essi designati o una controversia già insorta, o intere categorie di controversie, qualora tra di essi insorgano in futuro. Il procedimento pacifico dell'arbitrato diviene in tale ipotesi obbligatorio per la risoluzione della controversia; se questa sorge, gli stati non possono ricorrere alla guerra o ad altri mezzi violenti per far valere le loro pretese, ma devono far funzionare il procedimento arbitrale, e poi conformarsi a quanto gli arbitri hanno deciso. Altre volte gli stati non sottopongono agli arbitri per intero la controversia, ma affidano a speciali commissioni, dette commissioni d'inchiesta, il compito di accertare certi fatti sulla cui valutazione esiste divergenza tra gli stati interessati, e il cui apprezzamento è d'altra parte influente per la risoluzione di una controversia internazionale. In questo caso la controversia è risolta dagli stati medesimi, ma questi devono tener conto dei risultati della commissione d'inchiesta e attenersi per la valutazione dei fatti a quanto questa ha deciso.
A questo genere appartengono numerosi trattati conchiusi dagli Stati Uniti a partire dal 1913. Conformandosi, inoltre, a un voto della 3a assemblea della Società delle nazioni, gli stati hanno in questi ultimi anni conchiuso numerosi trattati di conciliazione: le commissioni istituite da questi trattati non hanno, a differenza di quelle arbitrali, il potere di troncare la controversia, e le loro risoluzioni non hanno alcun valore impegnativo per gli stati, che sono liberi di accettarle o meno. Si tratta soltanto, come d'altronde indica chiaramente la denominazione adoperata, di un tentativo di porre le parti d'accordo, di un'opera di conciliazione, che quelle commissioni devono svolgere, senza che, qualora la conciliazione non riesca, ne consegua alcun obbligo giuridico per le parti di conformarsi a quanto la commissione ha ritenuto.
I trattati di cui abbiamo sinora discorso, istituendo varî procedimenti per la risoluzione delle controversie fra stati o per la risoluzione di singoli punti attinenti a controversie fra stati, cercano d'impedire che il dissidio fra questi si acuisca, offrono loro una soluzione della controversia proveniente da un terzo disinteressato e cercano così di rendere più raro il ricorso alla violenza bellica per troncare il litigio. Ma nei tempi moderni sono state conchiuse in questo campo anche convenzioni generali, con le quali gli stati si sono impegnati a non ricorrere in certi casi alla guerra. Tali sono il patto della Società delle nazioni, premesso al trattato di pace di Versailles del 28 giugno 1919 e al trattato di pace di San Germano del 10 settembre 1919, che numerosi divieti ha apportato alla libertà degli stati di ricorrere alla guerra; il trattato di Locarno del 10 dicembre 1925, con il quale tra alcuni stati membri della Società delle nazioni e per certe ipotesi ivi previste, sono stati rafforzati gl'impegni che a essi già derivavano dal patto della Società delle nazioni; il patto Kellogg, sottoscritto a Parigi il 27 agosto 1928 per il quale "le alte parti contraenti dichiarano solennemente in nome dei loro rispettivi popoli, di condannare il ricorso alla guerra per il regolamento dei conflitti internazionali, e di rinunciarvi in quanto strumento di politica nazionale nei loro mutui rapporti".
Altri trattati disciplinano il procedimento bellico, nel caso che a questa estrema misura gli stati ricorrano, e che siano stati inoperanti i varî procedimenti pacifici ora indicati. Sono da ricordare a questo riguardo le convenzioni di Ginevra del 22 agosto 1864 per il miglioramento delle sorti dei militari feriti nella guerra terrestre, e la dichiarazione di Pietroburgo dell'11 dicembre 1868 sui proiettili esplosivi. Opera assai più importante e completa fecero le due convenzioni dell'Aia del 1899 e del 1907, che emanarono numerose convenzioni (all'atto finale della conferenza del 1907 ne furono annesse 14) che regolano in modo preciso quasi tutte le più importanti materie del diritto bellico. Nei tempi più recenti il diritto bellico fu assai trascurato, tendendosi invece ad abolire la guerra fra gli stati, tuttavia alcune convenzioni vennero emanate. Così le due convenzioni sottoscritte a Ginevra il 27 luglio 1929 e riguardanti l'una i prigionieri e l'altra i feriti e i malati di guerra. Inoltre la convenzione di Washington del 6 febbraio 1922 e quella di Ginevra dell'11 giugno 1925 hanno proibito l'uso in guerra di gas asfissianti tossici o simili, come pure di qualunque liquido, materia o processo analogo. La convenzione di Washington ora citata si occupa anche della guerra sottomarina, ed è stata poi completata dal trattato di Londra del 22 aprile 1930 che sottopone anche i sottomarini alle norme vigenti per le altre navi da guerra. Tutte queste convenzioni sono state sottoscritte da un gran numero di stati.
A tutt'altra specie appartengono i trattati riguardanti i fiumi oppure anche certi tratti di mare che cadono sotto la sovranità di uno stato. Questi trattati sanciscono di solito la libera navigabilità di quelle vie acquee o per tutti gli stati che hanno sottoscritto la convenzione, o per tutti gli stati in genere, e talvolta impongono determinati oneri allo stato che del fiume o del tratto di mare ha la sovranità, obbligandolo a curarne la manutenzione e a fare le opere necessarie per la navigabilità; talvolta vengono inoltre istituite particolari commissioni internazionali. Le convenzioni in questo campo si sono moltiplicate nei tempi recenti, e ve ne sono per quasi tutti i fiumi internazionali; e talora, come per il Danubio, hanno dato luogo a non poche competizioni fra stati e difficoltà internazionali. Queste convenzioni riguardano di solito una via acquea determinata, ad esempio il Reno, o il Danubio, o il canale di Suez, ecc.; tuttavia la conferenza di Barcellona del 20 aprile 1921 ha emanato una convenzione contenente delle disposizioni generali.
Trattati politici sono anche quelli con i quali uno stato concede a un altro in affitto o in amministrazione una parte dei suoi territorî. Di questo tipo sono le varie concessioni europee in Cina, come la concessione italiana di T'ien-tsin, derivante dall'accordo italo-cinese del 7 giugno 1902 per il quale il territorio di T'ien-tsin resta cinese, e i suoi abitanti conservano la nazionalità cinese, ma l'Italia ne assume l'amministrazione dietro corrispettivo annuo al governo cinese di circa 3000 lire oro.
A questo proposito vanno annoverati anche i trattati di cessione di territorî, per i quali il territorio passa sotto la sovranità di uno stato diverso da quello che prima la possedeva. La cessione può essere dovuta a diverse cause. A permuta, quando uno stato cede territorî proprî in cambio di altri; così nel 1890 la Germania cedette all'Inghilterra alcuni territorî sulla costa orientale dell'Africa e ne ebbe in cambio l'isola di Helgoland, così pure nel 1901 la Francia e la Germania si scambiarono alcuni territorî nell'Africa equatoriale. Altre volte il territorio è venduto dietro corrispettivo di una somma di denaro: così gli Stati Uniti d'America acquistarono con la convenzione del 4 agosto 1916 le Antille danesi, e la Germania acquistò con la convenzione del 12 febbraio 1899 le Caroline spagnole. Altre volte il territorio è ceduto dietro compensi d'altra natura, come fu per la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia.
Di notevolissima importanza politica sono i trattati di protettorato (v.) per i quali uno stato (protettore) assume l'obbligo di proteggere e difendere un altro (protetto) da ogni aggressione esterna, e acquista correlativamente il diritto di ingerirsi nei suoi affari interni ed esteri, ingerenza che talora è assai ampia e pone il protetto in uno stato di quasi assoluta soggezione rispetto al protettore. Il protettorato, istituito per lo più con popoli di civiltà inferiore, divenne praticamente una forma di espansione coloniale, di cui gli stati europei si sono serviti per assicurarsi certi territorî, pur senza direttamente farli proprî. Altre volte, tuttavia, il protettorato serve ad altri scopi, come quello recentemente istituito dalla Polonia e dalla Società delle nazioni sulla città di Danzica.
Talora gli stati ricorrono a trattati per fissare la loro linea di condotta avvenire nel campo internazionale. Fra questi trattati rientrano le convenzioni dirette a mantenere lo statu quo territoriale, come quella di Pietroburgo del 23 aprile 1908 per il Baltico, e di Berlino del 23 aprile 1908 per il Mare del Nord.
Una certa importanza conservano tuttora i trattati con i quali le potenze europee hanno stabilito varî privilegi a favore dei loro sudditi nei paesi di civiltà inferiore. Questi trattati, detti capitolazioni, sottraggono in buona parte i cittadini europei all'autorità degli stati orientali ove si trovano e li sottopongono invece all'autorità dei consoli dei loro rispettivi stati. Questo sistema fu assai diffuso in Oriente e in Estremo Oriente, ma tende ora a scomparire.
Fra i trattati politici sono anche da annoverare i trattati delle minoranze (v.) conclusi dopo l'ultima guerra europea con numerosi stati, per proteggere le minoranze etniche di religione o di lingua che in essi si trovino.
Infine di particolare importanza politica sono i trattati di pace. Non è esagerato dire che a questa categoria appartengono i trattati politici più importanti che l'ordine internazionale conosca. Oltre, infatti, a occuparsi delle numerose materie destinate a regolare il ritorno al normale stato di pace, come la restituzione dei prigionieri di guerra, la restituzione della proprietà privata confiscata durante la guerra, la determinazione delle eventuali indennità di guerra, le sorti dei trattati la cui efficacia è rimasta sospesa durante le ostilità, ecc., questi trattati apportano spesso sostanziali innovazioni all'anteriore reciproca posizione degli stati. Infatti sono talora profonde le trasformazioni che gli stati subiscono in virtù di un trattato di pace, dovendo adattarsi a perdere parti anche notevoli dei loro territorî, e piegarsi a concessioni di vario genere a favore del vincitore, o riuscendo invece ingranditi e con nuova importanza politica. Anche molte riforme, e, tra le più importanti, del diritto internazionale, si poterono ottenere solo per questa via.
Bibl.: Si veda, oltre a quella data per i trattati internazionali in genere: P. Albin, Les grands traités politiques, Parigi 1923; K. Strupp, Documents pour servir à l'histoire du droit des gens, ivi 1930.
Trattati di commercio.
"Trattato di commercio è qualunque accordo tra due o più stati allo scopo di determinare rapporti giuridici da cui scaturiscano reciproci vantaggi economici" (L. Fontana-Russo). In senso più ristretto e nel linguaggio comune si chiamano trattati solo i patti aventi maggiore importanza di contenuto, specie quelli cui sono annesse tariffe convenzionali all'entrata in ognuno degli stati contraenti, e sono detti invece convenzioni o accordi quelli meno rilevanti, privi per esempio di tariffe e limitati per lo più alla sola clausola della nazione più favorita.
I trattati di commercio si stipulano per mezzo di negoziatori tecnici i quali non godono però mai dei pieni poteri, ma agiscono in base alle istruzioni e col vincolo del ad referendum, sotto la responsabilità dei ministri competenti. Le convenzioni vengono invece quasi sempre stipulate direttamente tra i singoli governi. Perché i trattati acquistino forza esecutiva occorre che siano ratificati secondo le norme costituzionali dei singoli paesi. In Italia, per l'art. 5 dello statuto, spetta al re di concludere patti di commercio e quelli tra essi che importano onere finanziario (cioè praticamente quasi tutti, dato che ogni modificazione del regime daziario vigente, e ogni assunzione di vincoli per il futuro, sia pure attraverso la sola estensione della clausola della nazione più favorita, incide o potrà incidere sul gettito delle dogane) non hanno effetto che dopo l'approvazione del parlamento. Nello stesso senso dispongono quasi tutte le costituzioni degli stati civili. In Germania, secondo la costituzione del 1871, e negli Stati Uniti per il Tariffa Act 1897, il consiglio federale e il senato erano rispettivamente chiamati a integrare la capacità del capo dello stato a conchiudere trattati, ferma restando la necessità della successiva approvazione del parlamento. Gli esempî di mancata approvazione del parlamento sono assai rari, nonostante che i governi si siano spesso avvalsi della prerogativa del capo dello stato per mettere le assemblee, d'idee prevalentemente protezioniste, di fronte a fatti compiuti, nella fiducia che considerazioni d'ordine politico potessero indurle all'approvazione di trattati poco graditi dal punto di vista economico.
I trattati di commercio obbligano non solo a tutto ciò che fu formalmente promesso ma anche a ciò che secondo equità si deve considerare come virtualmente compreso nelle clausole convenute. Il metodo di risolvere le controversie riguardanti l'applicazione, l'interpretazione e l'estensione dei trattati di commercio mediante arbitrato, per quanto applicato parzialmente e tardivamente, è ora abbastanza diffuso.
L'importanza dei patti in materia di scambî internazionali è connessa all'indirizzo di politica commerciale seguito dai varî stati. Come è noto alcuni paesi preferiscono il sistema dell'autonomia daziaria, per cui il governo, non vincolato da trattati a tariffa, conserva sempre la possibilità di modificare i dazî doganali in qualunque momento lo ritenga opportuno. Possono avere in tal caso una tariffa unica, a tutti applicabile e difficilmente mutabile, come gli Stati Uniti, o una doppia tariffa, come la Francia, cioè una tariffa minima, adattata agli effettivi bisogni di difesa della produzione interna e accordabile solo dietro corrispettivo adeguato, e una tariffa massima, applicabile a tutti coloro che non concedano il trattamento più favorevole alle merci nazionali o che, pur concedendolo, colpiscano le merci stesse con dazî ritenuti sempre troppo gravosi. Altri paesi, e sono la maggioranza, preferiscono invece avere una tariffa generale negoziabile, ovverossia una tariffa che sorpassi i bisogni di difesa della produzione nazionale in modo da consentire un margine di negoziazione sufficiente per ottenere delle controconcessioni. La politica commerciale di questi ultimi paesi si impernia quindi soprattutto su trattati che concordino effettive reciproche concessioni daziarie oltre a estendere la clausola della nazione più favorita; e l'insieme dei dazî in essi ridotti o vincolati viene a costituire la cosiddetta tariffa convenzionale, sostituendo spesso in pieno la tariffa generale originaria, la quale conserva applicazione solo per i paesi con cui non siano stati stretti o siano decaduti accordi commerciali o per le voci non vincolate o ridotte. Si ha così anche in questo caso una specie di tariffa doppia, ben diversa però nello spirito e nell'uso da quella del sistema autonomo cui spetta più propriamente tale denominazione.
Assai minore importanza hanno evidentemente i patti commerciali per i paesi ad autonomia daziaria, i quali in genere stipulano solo convenzioni basate sulla clausola della nazione più favorita, scambiando cioè la concessione della loro tariffa minima, quale risulta e risulterà dalle leggi in vigore, con quella delle tariffe convenzionali straniere. In tali accordi non è stabilito, naturalmente, alcun vincolo di tempo; il che sarebbe inconciliabile con la piena libertà di aumentare i dazî che i paesi a regime autonomo intendono conservare; l'altra parte contraente ha però, s'intende, diritto di far cessare gli effetti degli accordi stessi qualora venga meno per questa ragione l'equivalenza economica delle concessioni reciproche.
La precarietà di questi accordi è evidente e non c'è bisogno di insistere sulla maggior stabilità assicurata agli scambî da quei trattati che vincolano i paesi contraenti per una certa durata di tempo. Superfluo pure sarebbe insistere sull'efficacia dei trattati stessi come misure temperatrici del protezionismo e sugli ostacoli che alla loro stipulazione possono derivare dagl'interessi antagonistici delle varie categorie economiche. Abbassando le barriere doganali i trattati di commercio facilitano infatti il collocamento all'estero delle merci nazionali e d'altra parte permettono l'entrata a migliori condizioni del prodotto straniero con conseguente riduzione dei prezzi interni. Giovano quindi in definitiva a esportatori e consumatori ma possono nuocere alle industrie che lavorano soprattutto per il mercato interno e che non siano in grado di concorrere vittoriosamente con le industrie straniere.
Caratteristica generale dei moderni trattati di commercio è la clausola della nazione più favorita, ovverosia l'obbligo di applicare reciprocamente le tariffe minime, convenzionali o autonome. Essa è inclusa in tutti i patti commerciali, compresi quelli stipulati dai paesi ad autonomia daziaria, come si è già detto, e spesso costituisce l'unica base di accordo anche tra paesi a tariffa convenzionale. La clausola può essere incondizionata o condizionata; vale a dire le riduzioni concesse da ciascuna parte contraente a terzi stati possono essere senz'altro estensibili alle parti stesse o solo dietro corrispettivo adeguato, qualora i terzi stati le abbiano a lor volta ottenute contro compenso. La clausola inoltre può aver vigore soltanto per le merci contemplate nelle tariffe vincolate dal trattato, oppure, intesa neI suo senso più largo, estendersi a tutte le merci e anche ai sistemi di pagamento dei dazî e agl'istituti finanziarî che si collegano ai dazî stessi (clausola limitata o illimitata). Fanno eccezione alla clausola i regimi preferenziali che gruppi di stati limitrofi hanno voluto preservare nei loro rapporti (p. es. clausola "iberica" negoziata nel trattato spagnolo-portoghese del 9 maggio 1911, e clausola "baltica", relativa ai rapporti tra Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e U.R.S.S., ecc.) e i regimi preferenziali che legano le varie nazioni alle loro colonie. La clausola è in genere bilaterale, si dà però anche il caso di clausole unilaterali, come quelle ottenute dai paesi europei nei loro rapporti con i paesi orientali e come quella imposta alla Germania nel trattato di Versailles e rimasta in vigore fino al 1925.
Oltre alle tariffe convenzionali e alla clausola della nazione più favorita i trattati di commercio possono comprendere:
1. Disposizioni circa la durata del patto e le modalità della denuncia. I trattati commerciali possono conchiudersi a scadenza fissa, a scadenza prorogabile e a scadenza indeterminata. Nel primo caso non è indicato in genere il termine di denuncia; quasi sempre però l'epoca della scadenza s'intende prorogata quando la denuncia non sia intervenuta nel frattempo. Nel secondo caso, invece, è prevista dal trattato stesso la proroga per un certo numero di anni, qualora un anno o sei mesi prima della scadenza non intervenga denuncia. Anche dei trattati sine die può prevedersi la cessazione sei o dodici mesi dopo l'avvenuta denuncia, a meno che gli accordi stessi non facciano parte di trattati di pace, nel qual caso sono legati alla sorte degli stessi, indipendentemente da qualsiasi mutamento della politica daziaria. I trattati possono poi venir meno in qualunque epoca per reciproco consenso delle parti o per la perdita della personalità internazionale di uno dei contraenti. La guerra non è invece considerata come causa estintiva dei trattati, che, sospesi durante la lotta, riprendono vigore col ristabilirsi della pace senza che sia necessaria alcuna dichiarazione espressa. L'estensione dei trattati ai paesi volontariamente o coattivamente uniti a uno degli stati contraenti non può avvenire che col consenso dell'altra parte, date le sostanziali modificazioni che la struttura produttiva dei nuovi territorî può portare all'equivalenza economica delle concessioni stipulate, base di ogni patto di commercio.
2. Disposizioni varie circa il commercio d'importazione, d'esportazione e di transito, le importazioni ed esportazioni temporanee, i drawbacks, i magazzini generali, ecc.
3. Clausole per la marina mercantile e per i trasporti. I trattati di commercio più completi dei paesi marittimi sono anche trattati di navigazione; comprendono cioè la reciproca concessione del trattamento previsto per la marina nazionale, sia per quanto riguarda l'esercizio della navigazione (particolare regolamento ha in genere la navigazione di cabotaggio) e sia per il trasporto delle merci. Disposizioni analoghe, tendenti a garantire contro il pericolo di un trattamento differenziale, sono in genere stabilite per il trasporto delle merci esportate per via di terra.
4. Clausole intese a regolare l'emigrazione, l'immigrazione e la residenza dei connazionali all'estero, e a tutelare i loro diritti (specie in materia di commercio, d'industria, di navigazione, di tributi, ecc.), nonché i brevetti d'invenzione, i marchi di fabbrica e la proprietà artistico-letteraria. Per quel che riguarda la tutela della proprietà intellettuale, alle semplici clausole dei trattati sono però da preferirsi le apposite stipulazioni internazionali, secondo giustamente propose il congresso internazionale di Parigi del 1878.
5. Norme regolanti l'ammissione di rappresentanze diplomatiche e consolari, le loro prerogative e funzioni. Nei trattati negoziati coi paesi orientali, i consoli degli stati occidentali hanno particolari funzioni giurisdizionali per le quali v. capitolazioni.
6. Cartelli doganali, ossia accordi per cui le parti, specie se limitrofe, si obbligano ad adottare tutte le misure preventive e repressive ritenute necessarie per la lotta contro il contrabbando.
7. Convenzioni sanitarie, tendenti ad ostacolare il contagio epizootico, e nello stesso tempo a frenare gli abusi cui può dar luogo il controllo veterinario di frontiera.
8. Clausola relativa all'adozione dei certificati d'origine (documenti rilasciati dalle camere di commercio, municipî e altre autorità del paese esportatore e vidimati dalle autorità consolari e diplomatiche del paese importatore risiedenti nell'altro stato), i quali, descrivendo per qualità, quantità e luogo di provenienza le merci destinate all'esportazione, servono a garantire che i favori reciprocamente concessi siano effettivamente usufruiti solo dagli stati che ne hanno acquistato il diritto.
Le obbligazioni imposte alle parti dai patti di commercio sono per lo più di contenuto positivo, ma possono essere anche negative (come p. es. il divieto di imporre proibizioni all'entrata, all'uscita e al transito o di aumentare i dazî d'uscita), o condizionali (soggette cioè all'adempimento di una condizione per entrare in vigore), o anche alternative (con facoltà di scelta dell'oggetto dell'obbligazione riservata ora all'una ora all'altra parte).
Storia. - Scambî commerciali tra popoli e relativi accordi diretti a tutelare gli scambî stessi sono sempre esistiti. Mentre però la regolazione del commercio internazionale mediante accordi liberamente e reciprocamente assunti è caratteristica dell'età moderna, nelle epoche precedenti il diritto al commercio si considerava per lo più tra le spoglie di guerra; e i paesi vinti dovevano quasi sempre assoggettarsi a concedere privilegi ai mercanti dei paesi vincitori e a tutelarne l'attività contro la diffidenza e l'ostilità dei loro sudditi. Ciò non toglie che la stessa età classica ci offra esempî di veri accordi commerciali, come quelli stipulati tra Roma e Cartagine nel 509 e nel 348 a. C.
Né è da credere che i patti più o meno imposti dalle grandi potenze politiche dell'antichità abbiano tutti lo stesso carattere. Basti accennare al tipico contrasto tra i sistemi proibitivi e limitativi portati all'estremo dalla politica monopolistica di Cartagine, e il principio della libertà del commercio e dei mari sempre riconosciuto da Roma sia nei territorî in cui stabilì la sua diretta dominazione, sia in quelli con cui strinse trattati.
Allargatisi sempre più i confini di Roma, venne poi naturalmente meno la base degli accordi commerciali internazionali, essendo ormai la materia in grandissima parte regolata da leggi e consuetudini interne dell'Impero, e solo quando l'autorità imperiale s'indebolì risorse la necessità d'imporre o di stipulare norme regolatrici del commercio internazionale.
La consuetudine romana tacitamente mantenuta in vigore anche dopo il tramonto dell'Impero seguitò per lungo tempo a dare la sua fisionomia ai rapporti commerciali europei; ma su questa base cominciarono ben presto a innestarsi concessioni particolari a singoli mercanti (rafforzate da documenti formali) e accordi generali - per lo più legati alla durata dei sovrani contraenti e inseriti come clausole nei trattati di pace - che assicuravano il ripristino dei rapporti personali e commerciali interrotti da periodi di guerra.
È solo nel sec. XII che vennero contratti i primi veri accordi autonomi, da cui traggono origine i moderni trattati di commercio. Furono le repubbliche marinare italiane che, già forti dei molti privilegi ottenuti in Oriente, ricorsero, per maggiormente sviluppare i loro traffici e tutelare le comunità nazionali all'estero, alla stipulazione di reciproci impegni, sia tra loro sia con altri paesi mediterranei; e a poco a poco, per il suo carattere di maggiore stabilità e generalità, la politica dei trattati prevalse sull'uso delle clausole dei trattati di pace e su quello delle concessioni personali.
Particolarmente interessanti sono gli accordi stipulati nei secoli XIII e XIV dalle città anseatiche, accordi che si distinguono dagli altri patti commerciali per essere dovuti all'iniziativa delle gilde di mercanti e non delle pubbliche autorità. Espressione estrema dello stesso indirizzo esclusivista che anima le rivalità mediterranee e si manifesta nella politica differenziale, essi realizzarono in pieno nel Mare del Nord, attraverso la pacifica intesa, una potente organizzazione monopolistica a base preferenziale, l'Ansa teutonica, cui nel periodo del massimo splendore (dopo il patto di Colonia del 1364) aderirono fino a 90 città.
Sulle prime i trattati si limitavano a regolare esclusivamente i traffici dei paesi contraenti e non avevano effetto per i terzi stati. L'esigenza dell'eguaglianza di trattamento tra i paesi concorrenti, base necessaria della stabilità dei traffici, doveva però ben presto manifestarsi e già nel sec. XIII, nei trattati conclusi da Pisa con i paesi dell'Africa settentrionale (1230 e 1264) e dalla Sicilia con la Catalogna (1288) si hanno le prime embrionali formule di parità. Ed è naturale che ciò si verifichi nel Mediterraneo occidentale anziché in quello orientale dove ogni allargamento del privilegio altrui si considerava lesione del diritto di chi prima lo aveva ottenuto e dove gli stati concedenti si rifiutavano di vincolare per il futuro la loro politica preferenziale, arma efficace per ottenere aiuti militari, rompere alleanze nemiche, o sottoporsi trattando alla pressione dei più forti.
Più lentamente si manifesta poi questa esigenza nei rapporti terrestri continentali, per la molteplicità delle autorità aventi diritto d'imporre dazî, pedaggi, ecc. intralciati da una fittissima rete di ostacoli, che offre larghe possibilità alla politica di trattamento differenziale. Quando un principio in questa frammentarietà comincia a delinearsi è quello della reciprocità, in cui è sempre implicita la differenziazione e anche quando, come nei trattati del sec. XV stipulati da Firenze con l'Egitto e con l'Impero d'Oriente, si includono formule generiche di parità, esse significano soltanto l'intenzione della Signoria di eguagliare Venezia demolendone il privilegio, per costruirne un altro a suo danno e a proprio favore in un secondo tempo. Sono sempre infatti clausole pro praeterito. La sostanza della clausola della nazione più favorita pro praeterito e pro futuro si trova invece, anche se non precisamente formulata, nel trattato tra Firenze ed Enrico VII d'Inghilterra del 1490: nello spirito che l'anima essa è però ancora espressione della politica differenziale e non ha nulla a che vedere con la clausola moderna, fattore di pace economica e base delle tariffe convenzionali.
Non grande interesse dal punto di vista dell'evoluzione dei trattati, presenta il primo secolo dell'età moderna, benché in esso gradualmente si formino le premesse della nuova politica economica che si svilupperà nel sec. XVII. Declinano rapidamente i traffici col Levante, dove si è iniziato verso la metà del secolo un nuovo tipo di politica differenziale: trattamento di favore agli stati che hanno concluso capitolazioni - i quali mercé la clausola di parità, voluta soprattutto dalla Francia, vengono a trovarsi in condizioni di uguaglianza tra loro - e trattamento di sfavore per tutti gli altri (gli stati italiani sono tra questi ultimi). Si aprono d'altra parte le vie dell'Occidente e il monopolio, estremo limite della politica differenziale, caratterizza i traffici coi paesi nuovi. Decade la funzione intermediaria delle città mercantili e viene meno la ragion d'essere dei loro privilegi. Sorgono le grandi unità politiche a base nazionale e si formano i loro imperi coloniali mentre l'afflusso d'oro dall'America riorganizza e potenzia la vita economica. La base e le correnti degli scambî internazionali si trasformano, e lentamente si evolvono anche i criterî di politica economica. Ma solo quando i nuovi fattori saranno giunti a piena maturità, gli stati unitarî saranno in grado di concludere trattati di vera importanza storica.
Sarà il mercantilismo a dare la giustificazione teorica della politica differenziale, che con la politica di esclusione e di monopolio coloniale, con i trattati differenziali e di privilegio e con i trattati di assiento (con i quali si concede a un determinato paese il monopolio della navigazione con le colonie per il traffico degli schiavi e spesso anche per parte del traffico generale) giungerà nei secoli XVII e XVIII al suo apogeo, mentre, ora in contrasto ora come complemento della stessa, tornerà dalle capitolazioni levantine la clausola della nazione più favorita e assumerà nuovi aspetti e sviluppi. È col trattato anglo-portoghese del 1642 che riappare la clausola negli accordi tra europei, ancora però, come nelle capitolazioni, a carattere unilaterale (a vantaggio dell'Inghilterra); ma solo pochi anni dopo, nel trattato del 1654, tra Inghilterra e Svezia, essa si è già trasformata in clausola reciproca.
Gli elementi fondamentali della moderna politica commerciale (stabilità e regolarità degli accordi; completa sostituzione di diritti, costituiti nell'interesse generale, agli antichi privilegi personali; reciprocità; eguaglianza di trattamento coi terzi stati, assicurata anche per il futuro; assimilazione degli stranieri ai nazionali in materia d'industria e commercio; ecc.) si possono così dire già virtualmente delineati nel sec. XVII. I trattati di questo secolo e del successivo sono tuttavia ben lontani dalla complessa struttura dei trattati del sec. XIX e spesso consistono in elementari formule di stabilimento e di garanzia senza né riduzioni doganali né clausole di parità. Anche le tariffe convenzionali, già usate dalle repubbliche marinare nelle stipulazioni col Levante e rinate in questo periodo in una caratteristica evoluzione, non sono di fatto incluse nella maggioranza dei trattati, né hanno generalmente notevole ampiezza, ma sono piuttosto considerate come mezzo di stretta unione economica complementare tra paesi già legati da vincoli di dipendenza politica, anziché come normali stipulazioni commerciali.
Il mercantilismo infatti - che valutava l'attività economica dal solo punto di vista dello stato e l'interesse dello stato stesso vedeva essenzialmente come interesse di potenza - fece, sì, largo uso dei trattati di commercio, ma soprattutto con indirizzo discriminatorio e in armonia con quella che può dirsi la caratteristica principale della sua politica: l'organizzazione economica di guerra, cioè, e la guerra, alternativamente in potenza e in atto. I trattati di commercio di questo periodo, più che su reciproche valutazioni economiche dei vantaggi scambiati, si fondano perciò sulla potenza politica di uno dei contraenti, che ne rende possibili le clausole differenziali a danno di terzi e ne assicura la durata nel tempo. Il Portogallo concede i suoi primi favori commerciali in cambio non di vantaggi economici ma di aiuti nella lotta con la Spagna, e il famoso trattato di Methuen del 1703 viene concluso contemporaneamente a un trattato di alleanza politica che frutta al Portogallo stesso, per secoli, la protezione inglese. La Spagna è continuamente sotto la pressione politica degli stati privilegiati e la stipulazione di Barcellona prima e quindi quella di Utrecht (che segna il trionfo della politica differenziale col trattato di assiento, per cui l'Inghilterra aggiunge a quelli già ottenuti dal Portogallo un nuovo privilegio iberico e coloniale, rifiutando d'altra parte alla Francia la clausola della nazione più favorita) non sono che conseguenze di guerra. Né senza una base di potenza è concepibile la stessa politica autonoma dei varî stati mercantilisti, tutta volta a discriminare, anche in tempo di pace, tra amici e nemici presunti (tipica la secolare politica doganale antifrancese dell'Inghilterra), nonché tra popoli coi quali la bilancia commerciale è favorevole e popoli dai quali s'importa più di quel che si esporta.
Il vantaggio dell'uno non si capisce in quest'epoca senza danno dell'altro e la politica differenziale si diversifica e perfeziona servendosi di tutti i mezzi possibili: dal più violento, la guerra di esclusione dai mari e dalle colonie, al più velato, la clausola di parità affiancata da eccezioni che senza parere la svuotano di contenuto. Divieti e dazî proibitivi, riduzioni ed esenzioni doganali, ostacoli fiscali e amministrativi di ogni genere e facilitazioni varie, formalità rigorose ed esenzioni da qualsiasi controllo, permessi più o meno apparenti di contrabbando, monopolî di servizî accordati a speciali paesi e compagnie, veti coloniali neutralizzati da particolari licenze, disposizioni navali diverse, regolano, o meglio deformano i rapporti economici internazionali. Di scarso valore sono, come s'è detto, i trattati di commercio, a meno che non siano diretti a stabilire una particolare situazione di favore, e la clausola della nazione più favorita, ancora di rara applicazione e intesa soprattutto pro praeterito, è considerata come privilegio e anzi, specie se vincolante anche per il futuro, come coronamento di privilegio.
È vero che diviene sempre più evidente la tendenza della politica differenziale ad essere meno manifesta e quella del diritto alla parità a farsi sentire, ed è anche vero che la politica preferenziale cerca di acquistare stabile consistenza, indipendentemente dalle stesse forze che l'hanno imposta, ma la situazione non muta ancora sensibilmente nel sec. XVIII, nonostante che i fisiocrati neghino l'opportunità di qualsiasi dazio e di qualsiasi discriminazione. Solo verso la fine del secolo la politica economica sembra decisamente avviarsi verso la parità e la libertà, ma le guerre del periodo della rivoluzione francese e del periodo napoleonico, sopra tutto il blocco continentale, portano subito dopo a un'accentuata ripresa di ostilità doganali, e regimi proibitivi e differenziali seguitano a prevalere in Europa anche nella prima metà del sec. XIX.
Le teorie economiche liberali andavano però frattanto conquistando la maggior parte degli spiriti, mentre lo sviluppo della produzione e dei mezzi di trasporto poneva le basi per un grande incremento dei traffici internazionali. Così che, quando il trattato Chevalier-Cobden del 1860 segnò il passaggio della Francia a una protezione moderata e l'abbandono completo da parte dell'Inghilterra della protezione economica, la tendenza a sostituire l'accordo alla lotta doganale e a regolare stabilmente e uniformemente i commerci, poté manifestarsi vivacemente dappertutto e alla politica differenziale, essenzialmente deformatrice degli scambî, successe in breve una lunga serie di trattati, non più tendenti a costituire particolari situazioni di privilegio, ma a provocare un generale abbassamento di tariffe.
L'eguaglianza di trattamento nei riguardi dei cittadini di tutti gli stati con cui sono stretti patti di commercio e in alcuni campi anche l'assimilazione degli stranieri ai nazionali diventa regola generale e la clausola della nazione più favorita, nella sua più larga espressione di clausola incondizionata, reciproca e illimitata, soprattutto per influenza dell'Inghilterra (che avendo abolito la tariffa doganale non aveva più modo di contrattare) acquista sempre più larga diffusione, dando unità e uniformità alla politica economica mondiale. Solamente gli Stati Uniti rimasero fino al 1922, fedeli al principio della clausola condizionata, adottato nel trattato con la Francia del 1778, soprattutto come reazione contro la politica discriminatoria degli stati europei. La forte posizione di fornitori di materie prime e nello stesso tempo di consumatori di prodotti manufatti europei permetteva loro infatti di conservare questo atteggiamento, che indubbiamente non facilita la conclusione dei trattati internazionali, implicando nuove e spesso complicate trattative per la stipulazione di ciascun trattato. I paesi europei - che dopo la formulazione americana avevano spesso preferito la clausola condizionata a quella incondizionata (ma fortemente limitata) dei trattati settecenteschi, specie per difendersi dalla soverchiante concorrenza britannica - dopo la conversione liberista dell'Inghilterra pongono invece da parte ogni diffidenza, unicamente preoccupati di facilitare l'incremento degli scambî.
Non erano però ancora passati vent'anni quando nei paesi tedeschi, sulla base delle teorie di F. List, si manifestò netta una reazione protezionista all'indirizzo liberale di marca britannica. Reazione che, un po' perché rispondeva alla delusione dei paesi europei che avevano creduto di poter raggiungere lo sviluppo industriale dell'Inghilterra solo adottandone la libertà doganale, un po' perché permetteva di combattere il pericolo britannico, così come il mercantilismo era stata l'arma contro quello olandese, un po' per effetto della pressione delle classi agrarie danneggiate dalla concorrenza dei paesi d'oltremare, ebbe larga ripercussione in tutta Europa e suscitò un movimento antiliberale nella stessa Inghilterra. Non si trattò tuttavia che di una revisione parziale del principio di libertà, per cui la protezione fu giustificata solo in determinati casi e come politica transitoria. Né in alcun modo intaccò il principio di parità il quale giunse anzi alla sua massima espressione col sistema della tariffa massima e minima; preventivo e autonomo riconoscimento legale di un diritto di parità tra loro non solo degli stati con cui si stipuleranno trattati ma anche di quelli che resteranno fuori dei rapporti convenzionali (uniche eccezioni le varie forme di preferenza che legano le colonie alla madrepatria, ben lontane dalla politica coloniale esclusivista, e alcuni speciali favori di vicinanza).
Queste le basi su cui, nella seconda metà del sec. XIX e negli ultimi anni precedenti la guerra mondiale, fu elaborata la fitta rete di trattati che diede stabilità e grande impulso al commercio. Restrizione del commercio internazionale e instabilità dei rapporti economici sono invece le caratteristiche del dopoguerra, dominato dal disordine economico e monetario e da sempre crescenti preoccupazioni politiche. Frequenti sono le revisioni di tariffe, tutte orientate a una sempre più accentuata difesa del mercato interno, e i provvedimenti complementari destinati a rendere effettivamente efficace la protezione. Durata assai più breve che nell'anteguerra hanno i trattati, sia quelli provvisorî dell'immediato dopoguerra, sia quelli definitivi (in genere 1 anno contro un minimo di 10). Si rafforzano i legami di trattamento economico preferenziale che uniscono madrepatria e colonie, anche se queste ultime hanno raggiunto un notevolissimo grado di autonomia politica. Rinasce l'idea di unioni doganali a base preferenziale all'interno e differenziale verso i terzi. Sorgono e si moltiplicano nuovi tipi di accordi: di contingentamento (v. App.), di compensazione (v. App.), diretti a regolare i traffici tra paesi in modo soprattutto da salvaguardare la stabilità monetaria, equilibrando forzatamente la bilancia dei pagamenti. Accordi che naturalmente riguardano esclusivamente i paesi contraenti, tenendo conto di situazioni strettamente particolari. Si delinea d'altra parte, per opera soprattutto della Società delle nazioni, la tendenza verso forme di stipulazioni collettive, ritenute più adatte dei trattati bilaterali a realizzare un allentamento della tensione doganale (per es., convenzione internazionale dell'8 novembre 1927, per l'abolizione dei divieti d'importazione e d'esportazione, e convenzione del 24 marzo 1930 per la proroga degli accordi doganali esistenti).
Per quel che riguarda in particolare la politica commerciale italiana basti ricordare che l'Italia, avendo adottato fin dal principio il sistema della tariffa generale negoziabile, già seguito dal Piemonte, ha sempre fatto largo uso di trattati - trattati che naturalmente risentono del momento in cui sono stati stipulati, ma che tutti si basano sul principio di reciprocità effettiva e sulla clausola della nazione più favorita - e che solo in questi ultimissimi anni, premuta dallo sbilancio commerciale crescente e dalla politica internazionale, si è decisa a ricorrere ai clearings e anche a divieti e contingentamenti. V. anche dazio e dogana: La tariffa doganale italiana, XII, p. 427.
Bibl.: L. Fontana Russo, I trattati di commercio e l'economia nazionale, Roma 1902; id., Trattato di politica commerciale, Milano 1907; id., Lezioni di politica economica, Roma 1933; F. W. Taussig, Free trade, the tariff and reciprocity, New York 1920; P. Ashley, Modern Tariff history: Germany, United States, France, 3a ed., Londra 1920; P. Bonfante, Lezioni di storia del commercio, voll. 2, Roma 1924-25; I. Mazzei, Politica doganale differenziale e clausola della nazione più favorita, I, Firenze 1930; id., Parità e preferenza doganale nel dopoguerra, ivi 1933; id., Schema di una storia della politica economica internazionale nel pensiero dei secoli XVII, XVIII e XIX, in Nuova collana di economisti, diretta da G. Bottai e C. Arena, III: Storia economica, Torino 1936; G. Battista, La politica commerciale italiana nel dopoguerra, Roma 1932.