trattino
Si tende abitualmente a confondere sotto un unico segno grafico quelli che sono invece due distinti segni interpuntivi: la lineetta (o trattino lungo: ‹–›) e il trattino (o trattino breve o corto o trattino d’unione, con calco del francese trait-d’union: ‹-›) (➔ punteggiatura).
Essi differiscono invece tanto nella forma grafica quanto nelle funzioni: la lineetta ha un tracciato più lungo e sottile, il trattino «è più corto e ha più spessore, almeno nelle stampe più precise» (Mortara Garavelli 2003: 36); se la prima ha in genere il ruolo di separare, operando sia entro la stessa frase sia tra frasi diverse, il trattino breve serve invece a unire le parole tra le quali è inserito, agendo sia entro una stessa parola sia tra parole diverse.
«Segno paragrafematico costituito da un breve tratto orizzontale posto ad altezza media rispetto al rigo» (Corno 2008: 601), la lineetta può presentarsi da sola oppure, a differenza del trattino, in coppia, formando un segno composto da due elementi correlati, di cui il secondo può essere assorbito da un altro segno di interpunzione più forte (ad es., il punto fermo).
Nell’antichità greca non esisteva il segno di parentesi, ma «per marcare un inciso si premetteva qualche volta un trattino orizzontale (parágraphos)» (Geymonat 2008: 47).
«In testi letterari vergati su papiri del IV secolo a.C., in capo alla riga in cui ha inizio un nuovo argomento si trova una linea orizzontale detta parágraphos (o paragraphḗ [grammḗ] “lineetta fatta a lato”)» (Mortara Garavelli 2003: 118) e, nei testi dei copisti antichi, quando ancora vigeva la scriptio continua, prima dell’introduzione delle scritture minuscole fra il VII e l’VIII secolo,
qualche volta erano i lettori a marcare l’inizio di capitoli o paragrafi con un segno verticale o anche orizzontale, per distinguere ad esempio le battute dei personaggi nei testi teatrali e nei dialoghi e facilitare così gli interpreti successivi (Geymonat 2008: 33, nota)
Il parágraphos dei Greci, diventato paragraphus presso i Romani, simplex ductus con Isidoro di Siviglia, fu riscoperto intorno al 1760, diventando il celebre Shandean dash (dall’impiego larghissimo che ne fece Laurence Sterne in The life and opinions of Tristram Shandy), una lunga lineetta d’inserzione-segnalazione del discorso diretto (ma non solo), in funzione sia aprente sia chiudente.
A differenza dell’inglese e del tedesco, «l’italiano, con i termini lineetta e trattino, non distingue» fra il valore omissivo o «sospensivo» (Gedankenstrich in tedesco, dash in inglese) analogo a quello dei puntini, e il valore «connettivo o separativo» (Bindestrich in tedesco, hyphen in inglese): una «mancanza di precisione terminologica [che] indica come questo fenomeno abbia un’importanza minore nella tradizione italiana rispetto a quella inglese e tedesca» (Lepschy & Lepschy 2008: 17).
Non a caso il segno fu introdotto nella letteratura italiana attraverso il medium delle traduzioni dall’inglese, a cominciare da quella di ➔ Ugo Foscolo, tra il 1807 e il 1813, di A sentimental journey through France and Italy (1768) di Sterne. Lo stesso Foscolo nell’Ortis (forse anche per influenza del coevo stile epistolare) ricorre alla lineetta «con grande frequenza come marca espressiva, soprattutto per segnalare cambi di progetto, prima o dopo avverbi di giudizio o interiezioni primarie e per mettere in evidenza singoli costituenti frasali» (Antonelli 2008: 203).
La prima funzione della lineetta è quella di introdurre il ➔ discorso diretto, specie quando si tratti di scandire le battute nei dialoghi.
Generalmente si adopera solo un segno, poiché «a differenziare i turni di parola – funzione indispensabile per il senso del discorso – bastano le lineette di apertura e l’“a capo” alla fine di ogni turno» (Mortara Garavelli 2003: 32). La lineetta di chiusura compare se si rende necessaria in funzione disambiguante per determinare il confine tra citazione ed enunciato citante, cioè tra discorso diretto e didascalie (indicazioni di chi ha parlato ed eventuali commenti del narratore).
Le lineette correlative (di apertura e di chiusura, quest’ultima espressa o assorbita dal segno di fine frase) ben si prestano, in alternanza con le virgolette (alte o basse, singole o doppie, a seconda del costume tipografico), a indicare un’opposizione grafico-visiva tra il trattamento riservato, da un lato, al discorso dialogato (virgolette) e, dall’altro, al discorso pensato (lineetta):
(1)
– Che abbia qualche pensiero per la testa, – argomentò Renzo tra sé, poi disse: “son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa”.
“Di che giorno volete parlare?” (Alessandro Manzoni, I promessi sposi II)
Attualmente nella prosa narrativa le parti sono di solito invertite: le lineette scandiscono le battute dei dialoghi, le virgolette circoscrivono il discorso pensato, a testimoniare che le prime (segno orizzontale) si sono ormai imposte – nei dialoghi – sulle concorrenti virgolette (segno verticale):
(2)
– È già venuta, – disse Anne; e gli indicò la vetrata.
– Vada al telefono, la chiamano da Tolone.
“È già ora?” egli disse a se stesso (Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, p. 59)
La seconda funzione della lineetta è quella di contrassegnare «in modo marcato l’inciso» (Serianni 2003: 48). Quale «marca dell’enunciazione», la lineetta – al pari delle parentesi e delle virgole correlative – si incunea nella linearità del discorso scritto, in corrispondenza di “salti” intonativi nell’orale, provocando «discontinuità nell’enunciazione», «stratificazioni discorsive», «effetti polifonici: intrecci di voci o di toni»; «i segmenti in posizione parentetica […] rappresentano altrettante modulazioni nell’enunciazione di un discorso che – sul piano della sintassi – apparirebbe compiuto anche senza le precisazioni introdotte espletivamente rispetto alla struttura di frase» (Mortara Garavelli 2003: 105-106).
Alla lineetta sono da preferire le ➔ parentesi, marcatori ancor più decisi dell’«estraneità strutturale», quando si debba evitare l’ambiguità (ad es., in caso di più incisi vicini, di cui diventerebbe arduo distinguere l’inizio dalla fine usando le lineette) o per «ragioni di coerenza tipografica» (ad es., in caso di prossimità con discorsi diretti a loro volta introdotti da lineette); la lineetta a sua volta è da preferire alle virgole correlative, che marcano uno stacco più blando, quando si tratti di evidenziare la posizione parentetica in un periodo già affollato di occorrenze di virgole (ibid.).
È classificato da Catach (19962) tra i «segni di punteggiatura della parola», in quanto interviene tra due unità o due parti di unità grafiche.
Originariamente, l’antesignano del trattino può essere individuato in quel segno grafico che, sul finire del Duecento, l’ignoto scoliaste volgarizzatore e commentatore dell’Ars dictaminis di Giovanni di Bonandrea annoverò tra i «punti accidentali» (contrapposti ai «sostanziali»): il semipunctus (‹./› o ‹=›), usato «per indicare che la parola è interrotta e che continua nella riga successiva» (Mortara Garavelli 2003: 122).
In un’Ars punctandi attribuita a Iacopo Alpoleio da Urbisaglia, conservata da manoscritti e da stampe quattrocenteschi, nell’«inventario dei segni interpuntivi correnti all’epoca» troviamo al sesto posto il «semipunctus, cioè iacens virgula ‹-› (segno posto a indicare un nome omesso o una parola interrotta in fin di riga)» (Coluccia 2008: 96).
Più recenti, nella lingua italiana, le attestazioni del trattino con funzione di unire le parole, «considerato, per tutto l’Ottocento, un francesismo», come è attestato in Giuseppe Rigutini (La unità ortografica della lingua italiana, Torino, Paggi, 1885), che lo inserisce tra i «segni modernamente introdotti» (cfr. Antonelli 2008: 207).
Per una breve rassegna delle principali funzioni del trattino ci si avvale delle parti ad esso dedicate in Serianni (1988) e in Mortara Garavelli (2003). L’uso più frequente è quello puramente strumentale di ricostruire, nella scrittura a stampa, l’unità di una parola che è stata divisa in fin di riga andando ► a capo (nella scrittura a mano si ricorre prevalentemente al segno ‹=›).
Il trattino d’unione può invece assumere valori sintattici e morfologici, a partire da quello di segnalare relazioni sintattiche tra unità linguistiche:
(a) equivale a una congiunzione indicante unione o alternativa, ad es. quando è posto tra due numerali in sequenza, sia in cifre sia in lettere (due-tre compresse al giorno);
(b) mette i componenti di una coppia in rapporto analogo a quello che si stabilirebbe ricorrendo a costrutti analitici (del tipo da ... a, tra ... e, di ... e), instaurando quindi formazioni ellittiche, istituzionalizzate al punto da risultare, in molti casi, insostituibili: ad es., la (autostrada) Salerno-Reggio Calabria «da Salerno a Reggio Calabria»; la partita Italia-Germania «tra Italia e Germania»; la (legge) Bossi-Fini «di Bossi e Fini»;
(c) marca vari tipi di legami tra due nomi, di cui, ad es., il secondo può fungere da attributo o predicato del primo (Stato-nazione, ascolti-record, incontro-scontro); oppure legami che si prestano a più interpretazioni del ruolo sintattico tra i due membri (narrativa-saggistica); spesso queste formazioni sono calchi di costruzioni dall’inglese (ad es., calcio-mercato, Mao-pensiero) che rovesciano l’ordine, normale per i costrutti italiani, Determinato-Determinante («il mercato del calcio»), a favore di quello Determinante-Determinato;
(d) è segno della giustapposizione di aggettivi, il primo dei quali è nella forma del maschile singolare (comunicazione tecnico-scientifica);
(e) indica l’unione di un prefisso o un prefissoide a una parola, di preferenza nei composti occasionali (vetero-forense) e, in genere, nella prima fase della diffusione di un nuovo composto (eco-incentivi); di norma sparisce nei composti stabili, anche se si danno casi opposti;
(f) svolge una funzione morfologicamente rilevante quando, specie nei testi scientifici, in presenza di due parole composte consecutive aventi in comune il secondo elemento, la parola iniziale, per esigenze di sintesi e brevità, si riduce al solo primo elemento (➔ prefissoidi), seguito dal trattino (epato- e nefro-patie).
Infine, il trattino è usato anche in neoformazioni polirematiche (➔ polirematiche, parole), talvolta veri e propri ➔ hapax d’autore (➔ parole d’autore), divertissement realizzati forzando i confini lessematici, come in questi esempi di scrittori contemporanei (cit. in Antonelli 2008: 207): occhiali-monocolo-con-banda-nera-bastone-da-cieco (Aldo Busi), delusione-noia-silenzio-frigo-soffitto-terrazzo-gatto (Simone Consorti), storie-che-durano-un-mese-e-si-buttano-via (Giovanna Bandini).
Antonelli, Giuseppe (2008), Dall’Ottocento a oggi, in Mortara Garavelli 2008, pp. 178-210.
Catach, Nina (19962), La ponctuation, Paris, Presses Universitaires de France (1a ed. 1994).
Coluccia, Rosario (2008), Teorie e pratiche interpuntive nei volgari d’Italia dalle origini alla metà del Quattrocento, in Mortara Garavelli 2008, pp. 65-98.
Corno, Dario (2008), Repertorio analitico dei segni paragrafematici e della loro storia, in Mortara Garavelli 2008, pp. 591-614.
Geymonat, Mario (2008), Grafia e interpunzione nell’antichità greca e latina, nella cultura bizantina e nella latinità medievale, in Mortara Garavelli 2008, pp. 25-62.
Lepschy, Anna L. & Lepschy, Giulio (2008), Punteggiatura e linguaggio, in Mortara Garavelli 2008, pp. 3-24.
Mortara Garavelli, Bice (2003), Prontuario di punteggiatura, Roma - Bari, Laterza.
Mortara Garavelli, Bice (a cura di) (2008), Storia della punteggiatura in Europa, Roma - Bari, Laterza.
Serianni, Luca (1988), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni forme costrutti, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Torino, UTET.
Serianni, Luca (2003), Italiani scritti, Bologna, il Mulino.