Trauma
Con il termine trauma (dal greco τραῦμα, "ferita") in medicina si indica una lesione prodotta nell'organismo da un qualsiasi agente capace di azione improvvisa, rapida e violenta. In psicologia e in psicanalisi, viene definito trauma psichico un turbamento dello stato psichico imputabile a un avvenimento dotato di notevole carica emotiva.
Il concetto di trauma, inteso come ferita, si è via via ampliato nel tempo, coinvolgendo un insieme molto vasto di patologie, sia per la variabilità della natura degli agenti vulneranti, sia per la molteplicità delle strutture corporee che possono essere interessate. La crescente motorizzazione, gli incidenti sul lavoro, la diffusione delle armi da fuoco e della pratica di attività sportive hanno notevolmente incrementato l'incidenza e la gravità dei traumatismi, facendo sì che questa realtà sia sempre più preponderante nelle attività sanitarie: di qui la necessità di creare centri e personale altamente specializzati per fronteggiare tutti gli aspetti medici a essa correlati. Gli agenti lesivi possono essere di varia natura (meccanica, termica, elettrica, luminosa, sonora ecc.) e la loro conoscenza è fondamentale per il corretto trattamento. Gli effetti possono ripercuotersi su tutti gli organi e apparati corporei, andando quindi a provocare danni di pertinenza medica plurispecialistica (chirurgica, ortopedica, oculistica, neurologica, vascolare, odontoiatrica, dermatologica ecc.). Gli effetti di un urto sono proporzionali all'energia coinvolta e, cioè, al prodotto della massa per il quadrato della velocità. Esiste, inoltre, uno stretto rapporto con l'area della superficie corporea colpita (superficie d'impatto), in quanto, a parità di forza, più essa è limitata, maggiore sarà la pressione e, quindi, l'effetto dannoso, ovvero la profondità di penetrazione. Sono comprese nella traumatologia tutte le lesioni violente che possono verificarsi per l'azione dinamica endogena. Se infatti sono da considerarsi traumatiche le ferite susseguenti all'impatto di un proiettile sparato da un'arma da fuoco, dobbiamo considerare allo stesso modo anche una distorsione del ginocchio determinata esclusivamente dall'azione muscolare senza l'intervento di forze esogene. In tal caso l'azione vulnerante viene provocata da un corpo in movimento contro una qualsiasi altra parte corporea, la quale opponga resistenza. La contusione (v.) è una lesione prodotta dall'urto di un corpo che comprime e schiaccia i tessuti sottostanti senza determinare soluzioni di continuo a carico della pelle. L'entità del danno è condizionata dalla quantità d'energia trasmessa nell'urto dal corpo contundente, dallo spessore, dalla consistenza delle parti molli interposte tra quest'ultimo e il piano di resistenza (scheletro, suolo) e da condizioni predisponenti, come per es. una milza ingrossata e fragile per patologie concomitanti. Anche nel caso che i tessuti superficiali siano scarsamente interessati, possono essere presenti gravi lesioni viscerali sottostanti: rotture di piccoli vasi, di grosse arterie, degli organi parenchimatosi e del retroperitoneo, scoppio di organi cavi, quali stomaco, intestino e vescica, per il brusco aumento di pressione dei liquidi o gas in essi contenuti, soprattutto se predisposti in quanto meno resistenti o troppo pieni. La contusione cranica può provocare un danno cerebrale a prescindere dalla lesione cutanea e ossea eventualmente associata; traumi di questo tipo sono suddivisi in commozioni e contusioni, ma è più opportuno suddividerli in base ai segni clinici e alla durata della sintomatologia. Il quadro clinico può manifestarsi con una sindrome psichica, vegetativa o neurologica di vario grado. Per distorsione (v.) s'intende l'escursione di un'articolazione oltre i limiti fisiologici, tale da determinare una progressione di eventi lesivi a carico delle strutture capsulolegamentose che tentano di contrastarla. Può essere determinata direttamente da una forza esogena che agisce violentemente sull'articolazione o, come più spesso accade, a distanza dal punto d'applicazione della forza. A seconda dell'entità della distorsione le strutture capsulolegamentose interessate, dapprima allungate al massimo della loro resistenza, cominciano a strapparsi, fino alla rottura completa se non si arresta l'abnorme sollecitazione. Il segno clinico più comune è il dolore spontaneo, associato alla tumefazione e al versamento ematico intra- o extra-articolare. La lussazione (v.) è la perdita dei rapporti articolari completa e permanente tra i capi ossei di un'articolazione. Si parla di sublussazione quando tale perdita è parziale e si riduce spontaneamente. Solitamente le lussazioni prendono il nome dell'articolazione colpita e della direzione dello spostamento del segmento distale (anteriore, posteriore, inferiore ecc.). La sintomatologia è rappresentata da dolore e impotenza funzionale; all'esame obiettivo si osserva spesso un'alterazione della morfologia e del profilo esterno, e può anche palparsi l'anomala posizione dell'osso al di fuori dalla sede naturale. La frattura (v.) è l'improvvisa soluzione della continuità di un segmento osseo, parziale o totale, in seguito all'azione di una forza che ne supera la resistenza. Quando si verifica per una causa violenta su di un osso sano si definisce traumatica, quando invece è dovuta a cedimento strutturale, perché il tessuto osseo è alterato nella sua resistenza meccanica, si definisce patologica o spontanea o torpida. Il punto d'applicazione della forza può essere a livello della lesione (trauma diretto) o a distanza, con meccanismo in flessione, torsione, trazione e sfondamento. A seconda che l'interruzione dell'osso sia parziale o totale le fratture si definiscono incomplete o complete. Le prime si osservano soprattutto nei bambini o sono secondarie a osteopatie. Le fratture complete si distinguono usualmente in base alla sede (epifisarie, metafisarie e diafisarie), ai rapporti con le articolazioni (endo- o extra-articolari e miste), alla forma della rima di frattura (trasversale, obliqua, spiroide, longitudinale), allo spostamento dei frammenti (laterale, angolare, circonferenziale, longitudinale), al numero di frammenti ossei, all'integrità del rivestimento cutaneo (fratture chiuse o esposte). I sintomi più comuni a livello locale sono il dolore, l'aumento della temperatura, la deformità, l'impotenza funzionale, i rumori di scroscio e anomalie della mobilità. A livello generale possono presentarsi i segni di shock, embolia adiposa, osteomielite e febbre. Il termine ferita (v.) definisce la recente interruzione di continuo dei tessuti corporei. L'energia di un qualsivoglia agente traumatico, superando l'elasticità dei tessuti molli, può arrestarsi a livello superficiale o interessare i tessuti profondi, raggiungendo anche cavità contenenti organi interni. Per le caratteristiche dell'aspetto e dell'agente vulnerante, la ferita viene definita da taglio, da punta, da arma da fuoco, contusa, lacera, lacerocontusa. Si parla di politraumi quando nel corso di un incidente la vittima subisce più lesioni contemporaneamente. In questo caso il pericolo per il paziente è notevolmente superiore a quello che corrisponderebbe alla somma delle singole lesioni. La presenza di fratture multiple, o contemporanee a lesioni parenchimali di organi importanti, rende più difficile il riconoscimento di singole e spesso essenziali componenti delle lesioni stesse. L'identificazione, la valutazione e il trattamento di pazienti politraumatizzati è perciò di estrema importanza. Essendo tali pazienti ad alto rischio, è necessario assicurarsi che le funzioni vitali siano nella norma e occorre tenerle sotto controllo costantemente mentre si procede nella valutazione delle altre lesioni; anche nel trattamento dovrà tenersi conto di un principio di priorità, determinato dall'esigenza di trattare prima le strutture vitali. I traumi cranici possono essere chiusi, quando non si è formata una comunicazione fra gli spazi sottodurali e l'esterno, o aperti, quando una frattura cranica determina, attraverso una lacerazione della dura madre, una comunicazione tra lo spazio sottodurale e l'esterno o cavità comunicanti con l'esterno. Non è raro che i traumi chiusi determinino fenomeni commotivi o contusivi più gravi rispetto ai traumi con frattura: ciò sarebbe dovuto al fatto che la frattura ossea interrompe l'onda di forza dovuta all'impatto, diminuendo in tal modo la sofferenza encefalica diretta, e soprattutto quella da contraccolpo. I traumi cranici, specie quelli chiusi, possono determinare una lesione cerebrale diretta in corrispondenza della zona di impatto, e indiretta per contraccolpo in sedi distanti, per trasmissione dell'onda d'urto in accelerazione e decelerazione attraverso la massa encefalica. Pertanto quando il trauma determina un dislocamento della massa encefalica che supera il limite d'elasticità del parenchima cerebrale si realizza la sofferenza traumatica delle strutture nervose. Il danno può essere a livello della struttura protoplasmatica della cellula, comportando la rottura del citoplasma con morte cellulare, lesioni vascolari locali, piccoli focolai d'emorragia, edema cerebrale, ipertensione liquorale da ipersecrezione dei plessi corioidei, alterazioni specifiche del tessuto nervoso, reazioni vegetative, endocrine e metaboliche, compressione cerebrale conseguente a edema, a coni di pressione ed ematomi subdurali, subaracnoidei o intracerebrali.
La nozione di trauma psichico riveste un ruolo fondamentale nelle teorie psicodinamiche, essendo al centro di diversi nodi problematici, come il rapporto tra realtà esterna e realtà psichica, singolarità e generalizzazione, eventualità e costituzionalità, caso e necessità. Nella sua accezione più ampia la locuzione trauma psichico viene usata per indicare l'effetto di un'azione o di un evento, perlopiù di violenta e inattesa intensità, che colpisce una struttura psichica incapace sia di difendersene sia di comprenderne e tollerarne il senso. Nella definizione del trauma psichico sono quindi implicate sia le caratteristiche dello stimolo patogeno (intensità, forza) sia quelle del soggetto (capacità di resistenza, vulnerabilità). Il concetto fu originariamente utilizzato da J.-M. Charcot (1888), per spiegare alcune forme di isteria (v.). Si trattava di casi in cui la sintomatologia isterica si presentava in concomitanza della riproposizione allucinatoria di un antico evento traumatico, per es. un terremoto; l'impatto emotivo, correlato alla situazione traumatica, era ritenuto tanto violento e destrutturante da non poter essere elaborato, permanendo così 'incistato' nella psiche alla stregua di un corpo estraneo, capace di autonoma attività. Alle osservazioni di Charcot fecero inizialmente riferimento J. Breuer e S. Freud (1895), estendendo e rendendo più complessa l'applicazione del modello a tutte le forme di isteria. In realtà una concettualizzazione come quella cui si è accennato, fondata sull'applicazione analogica di un modello fisicalistico-energetico, può essere proficuamente utilizzata soltanto in prima approssimazione: in essa restano infatti inevase almeno due questioni non eludibili, entrambe inerenti alle distorsioni che sono prodotte dall'attribuzione della connotazione psichica al concetto di trauma. In primo luogo è implicata una concezione dello psichismo sostanzialmente inteso come apparato di resistenza e di opposizione al reale, che assume così, tendenzialmente, un'ubiquitaria potenzialità traumatica. In secondo luogo (più rilevante dal punto di vista teorico), se il trauma di cui si tratta deve essere inteso in senso psichico, allora la questione è se l'azione del reale, che irrompe nella psiche scompaginandone l'assetto difensivo, debba essere considerata come sostanzialmente destrutturante, oppure, al contrario, se a tale azione possano essere comunque riconosciute caratteristiche in grado di risignificarla in qualche modo nei termini di un'esperienza, e cioè di un evento psichicamente significativo. È dall'elaborazione di questi interrogativi che, a venti anni di distanza, ebbe origine nella teorizzazione freudiana la nozione di 'fantasma'. I racconti delle prime pazienti isteriche avevano indotto Freud a ipotizzare all'origine delle nevrosi (v.) la carica patogena di eventi infantili fortemente traumatici, soprattutto di natura sessuale (seduzione a opera di adulti affettivamente legati al soggetto). In un secondo momento, egli aggiunse che in certe situazioni l'esito traumatizzante può derivare, oltre che da un trauma unico, da esperienze ripetute, la cui connessione produce effetti di sommazione. Questa prima messa a punto si rivelò ben presto inadeguata a reggere la complessità delle esperienze cliniche. In una famosa lettera all'amico W. Fliess del 21 settembre 1897 (pubblicata postuma nel 1950), comunemente considerata l'atto di nascita della psicoanalisi, Freud dichiara l'abbandono - o, più ancora, il ripudio - della teoria traumatica della seduzione. Tra le cause determinanti delle nevrosi isteriche non figurano più necessariamente traumi infantili legati a episodi di seduzione. Le successive esperienze terapeutiche, con il superamento del modello dell'abreazione e della catarsi, ma anche l'esigenza di dar conto del funzionamento psichico attraverso riferimenti originati all'interno del mondo psichico stesso, contribuirono in maniera incisiva a produrre l'avvio di quel profondo rimaneggiamento teorico che nella letteratura psicoanalitica è spesso indicato come 'la svolta del 1897'. È da questo momento che la questione del trauma comincia a svelare la sua eccedenza teorica rispetto ai limiti in cui era stata inizialmente inquadrata. In realtà, Freud aveva dovuto rinunciare non tanto a 'tenere', quanto piuttosto a 'trattenere' il concetto, che, uscendo dallo stretto ambito di un capitolo di psicopatologia, era destinato a trascinare il suo autore verso temi di più vasta portata epistemologica: l'origine dello psichismo e la concorrenza della realtà esterna alla sua fondazione. L'approdo di questo lungo e mai definitivamente concluso ripensamento potrebbe essere sinteticamente formulato come 'teoria fantasmatica', immaginando così una sorta di pendant simmetrico e contrapposto nei confronti della vecchia 'teoria traumatica'. In questa fase dell'elaborazione freudiana, l'attenzione è sempre più indirizzata alla fantasia inconscia, considerata come luogo matriciale di produzione e organizzazione di esperienza psichica, di 'realtà' psichica, di potenza traumatica, la cui corrispondenza con la realtà dei fatti non può essere garantita da alcun criterio derivativo univocamente applicabile. Non si tratta evidentemente della revisione, per quanto estrema, di un'ipotesi eziopatogenetica: è piuttosto tutta la rappresentazione del funzionamento mentale che ne risulta 'disordinata', richiedendo una drastica ricostruzione. Basti pensare, per fare soltanto un esempio, alla crisi che, in ragione di questa impostazione, investe i concetti di memoria e di ricordo. L'esito più radicale e più problematico di questo percorso consiste nella concettualizzazione dei 'fantasmi originari', concepiti come organizzatori dell'inconscio: sono, nel linguaggio freudiano, le Urphantasien (vita intrauterina, scena primaria, seduzione, castrazione), attraverso le quali, data la loro natura innata e universalmente ereditaria, la vita psichica individuale svela una sorta di struttura trascendentale, affrancandosi dai vincoli dell'esperienza, che risultano insufficienti a reggere l'impegno di generalizzazioni presentabili come 'scientifiche'. Sarebbe tuttavia un errore pensare a questo movimento teorico come a un percorso lineare. Il concetto di trauma, apparentemente messo in disparte fin dal 1897, si sarebbe svelato come un vero e proprio punto di fissazione: esso spinse Freud verso nuove sfide teoriche e lo trattenne da soluzioni troppo semplicistiche. Una conferma di questo assunto può venire da un'attenzione più ravvicinata a quelle che potremmo definire le vicissitudini della cosiddetta teoria fantasmatica: nata dall'esigenza di superare i problemi teorici e le discordanze cliniche che l'originaria teoria traumatica nel suo ingenuo realismo aveva posto, essa non fece che riproporre l'esigenza di un'intersezione fondante tra fatto e significato, tra evento e senso, attraverso la postulazione di una condizione preistorica dell'umanità, in cui quei fatti, oggi rintracciabili come fantasmi nella psiche del singolo individuo, fossero effettivamente accaduti. Appoggiandosi a un'ipotetica trasmissione psichica ereditaria, Freud sembra così aver saldato il suo conto teorico più ambizioso e significativo: la linea che considera la psiche come processo storico e quella che la pone come struttura si compongono in un'alleanza teorica che intende dar conto non solo del funzionamento psichico ma anche della produzione di psichismo. In effetti, nessuna delle due teorie tramonta veramente: resta costante in tutta l'opera freudiana l'oscillazione tra la costitutività dell'esperienza effettivamente vissuta e la possibilità del ricorso a una sua funzione sostitutiva. In Al di là del principio del piacere (1920), Inibizione, sintomo e angoscia (1926), Mosè e la religione monoteistica (1939) l'antica definizione del trauma trova ulteriori possibilità di elaborazione e sistemazione attraverso nuovi supporti concettuali, ma, nel suo nucleo essenziale, continua a indicare la risultante dell'impatto di un eccesso di eccitazioni che la struttura psichica non riesce ad assorbire. Ne risulta una 'breccia' nella barriera protettiva fisiologica antistimolo che consente il dilagare delle eccitazioni e l''inondazione' dell'Io. Viene meno, in queste condizioni, anche la funzione di segnale esercitata dall'angoscia, in quanto la sorpresa e lo spavento, indotti dall'eccesso di eccitazioni, immobilizzano l'Io in una situazione di impotenza: in luogo dell'angoscia come segnale, si scatena uno stato di 'angoscia automatica' che sommerge il soggetto, rendendolo incapace di reagire al trauma. Più variabili concorrono quindi alla produzione dello stato di impotenza dell'Io derivante dal processo traumatico: l'intensità e la qualità dello stimolo, che devono essere tali da consentire il superamento della soglia della barriera antistimolo, ma anche le esperienze vissute fino all'evento traumatico, comprensive dell'effetto di traumi precedenti che, insieme alla 'costituzione', configurano le condizioni di traumatizzabilità del soggetto. Attraverso il 'punto di vista economico' (si tratta di uno dei criteri indicati da Freud come necessari a una piena comprensione teorica nella sua Metapsicologia) è indicato il principio organizzatore di questo percorso e si dà meglio conto della rottura del legame di senso nell'impatto dell'apparato psichico con eccitazioni troppo intense da poter essere tollerate: in siffatte condizioni traumatiche si produce un effetto inibitorio sulla rappresentabilità della scena traumatizzante, che viene deformata e sostituita mediante la formazione di simboli mnestici, investiti dalle cariche energetiche in luogo delle tracce mnestiche. Si tratta di un'antica ma assai significativa precisazione: ancora una volta è in questione l'esigenza di recuperare il momento irrinunciabile dell'attività della psiche nella scena e nelle vicissitudini del trauma, altrimenti portatrici di una cifra di inelaborabile passività. Alla stessa esigenza sembra voler rispondere la concezione freudiana della temporalità, che assegna il pieno effetto dell'evento traumatogeno alla sommazione di due fasi. Una prima, forse la più incisiva, molto precoce, non è riconosciuta nel suo significato a causa dello scarto tra immaturità del soggetto e natura dell'evento (spesso una seduzione, non necessariamente sessuale, da parte dell'adulto sul bambino). Questo primo tempo - di fissazione, ma non di elaborazione - resta a lungo ignorato, in uno stato di latenza di senso, fino a quando non ne sia resa possibile la riattualizzazione attraverso la seconda fase. In questo secondo tempo, lo stesso soggetto, che ha ormai raggiunto sufficiente maturità e competenza psichica, assegna a un evento attuale, che consente per via di associazioni inconsce la cattura del primo, quell'efficacia traumatica che è dovuta in realtà al suo carattere di completamento. Ognuna delle due fasi è necessaria, nessuna delle due è da sola sufficiente: è questo il senso della Nachträglichkeit, ossia del concetto in base al quale il trauma viene interpretato come effetto di un doppio movimento rielaborativo trasformazionale: quello del passato sul presente ma anche quello del presente sul passato, ciascuno con le proprie peculiarità contestuali. Esistono infine traumi che avvengono in età non precoce. Essi non hanno, di regola, conseguenze psicopatologiche, considerata la maggiore 'robustezza' della struttura psichica. In circostanze eccezionali essi possono tuttavia essere talmente intensi da superare ugualmente le capacità di resistenza dell'Io: in questi casi si possono esprimere quei quadri sintomatologici descritti come nevrosi traumatiche, ritenute a prognosi più favorevole proprio in considerazione dell'importanza preponderante del fattore oggettivo esterno rispetto a quello propriamente psichico. Come si è già detto, l'elaborazione del concetto di trauma è stata segnata dall'esigenza di restituire al polo dell'attività del soggetto traumatizzato ciò che la sua passività nei confronti del trauma sembrava dovergli sottrarre; e anche dalla necessità di ricostituire la continuità della vita psichica, là dove era stata interrotta, mutando la perdita in un recupero di senso. In questo percorso era inevitabile che cominciassero a farsi strada idee e teorizzazioni più esplicitamente tese a ricercare la genesi e la natura stessa dei fatti traumatici all'interno di dinamiche relazionali intrafamiliari psicologicamente disturbate, comunque nell'ambito di una rete di scambi psichici interattivi e reciprocamente significativi. Questa evoluzione teorica è divenuta evidente soprattutto negli autori posteriori a Freud. M. Khan (1963), per es., sulla base delle prime indicazioni freudiane, ha sviluppato l'ipotesi che sia la madre a fornire un contributo qualitativamente e quantitativamente determinante per la formazione dello scudo protettivo antistimolo, e che dunque le modalità della relazione madre-bambino siano discriminanti per la possibilità di strutturazione delle resistenze agli agenti traumatogeni: in altre parole, che all'origine del trauma si trovi di frequente un difetto della relazione stessa. Difetto che ha suggerito a D.W. Winnicott (1974) l'ipotesi che lo stato deficitario nel quale il bambino può venire a trovarsi sia in relazione al mancato sostegno offerto da una madre non 'sufficientemente buona'. Secondo Winnicott inoltre, quando le aspettative ambientali impongono al bambino richieste eccessive per il suo livello di maturazione psichica, si configura uno stato di emergenza che è definibile come 'trauma relativo'. Più recentemente anche A.H. Modell (1991) ha indicato nelle carenze affettive del bambino, conseguenti a un ambiente familiare frustrante, una delle possibili cause di incidenza traumatica, specialmente in occasione delle fasi di transizione - e quindi di maggiore vulnerabilità - dello sviluppo infantile. Comunque sia, l'Io in stato di impotenza non è più in grado di organizzare difese funzionali al superamento della lacerazione traumatica e lascia libero il campo all'intervento di forze che tendono a isolarne o cancellarne il ricordo, quali la rimozione o la negazione.
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