VENEZIE, TRE
. L'espressione Tre Venezie è divenuta di uso comune, dopo che, in seguito alla guerra mondiale, furono ricongiunte all'Italia le regioni poste al di qua dello spartiacque principale delle Alpi Orientali e già facenti parte dell'impero austroungarico. Al Veneto nei suoi antichi confini, o Venezia Euganea, furono perciò aggiunti la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia. L'area complessiva è di 47.978 kmq. e la popolazione al 31 dicembre 1936 era di 5.834.816. Alla Venezia Giulia viene poi di solito aggregata la provincia di Zara (kmq. 110,2 e 21.680 ab.). Le tre regioni hanno tuttavia caratteristiche geografiche notevolmente diverse e, poiché anche ufficialmente, sono oggi individuate come tre compartimenti distinti, si tratta qui di seguito separatamente di ciascuno di essi.
Sommario. - Geografia: Veneto (p. 78); Venezia Tridentina (p. 84); Venezia Giulia (p. 90). - Preistoria (p. 95). - Storia (p. 97). - Arte (p. 97). - Dialetti (p. 103). - Letteratura dialettale (p. 104). - Musica popolare (p. 105). - Folklore (p. 106). - Tavv. XXI-XXXIV.
Veneto. - Il Veneto (A. T., 24-25-26), è il terzo per superficie fra tutti i compartimenti italiani, il secondo dopo il Piemonte nell'Italia settentrionale, con 25.517 kmq.
Comprende la sezione nord-orientale (Pianura Veneta) della grande pianura distesa ai piedi delle Alpi, dal Mincio e dal Po fino all'Isonzo; parte del versante italiano delle Alpi Orientali, e quasi per intero la zona prealpina che a oriente del Lago di Garda e fino all'Isonzo s'interpone fra queste e la pianura.
Accanto al nome Veneto, che è in effetto il più comune nell'uso popolare e il più frequente nella cartografia moderna, si trova anche la forma Venezia (Venezia propria o Euganea), che è quella stessa degli scrittori classici, Venetia.
Nell'antichità romana si usò certamente il nome Venetia riferendolo a una regione intesa come unità fisica, ma senza confini ben precisi. La X Regio di Augusto Venetia et Histria, che non coincideva né con la Venezia fisica né col territorio abitato dai Veneti, si estendeva dall'Oglio al Quarnaro e dalle Alpi al Po; e ancora più ne furono allargati i confini da Diocleziano, raggiungendo il Lago di Como a O., la Sava a E. Nel Medioevo il nome Venetia, che fu usato anche al plurale, Venetiae (forse per distinguere la Venezia terrestre occupata dai Barbari da quella marittima), si andò riferendo ad una zona sempre più ristretta: alla sola regione marittima e quindi al ducato, fino a che s'indicò con esso soltanto più la città di Venezia, e si perdette per alcuni secoli anche il concetto di un'unità fisica della regione. Altre denominazioni, di circoscrizioni politiche, si diffusero nell'uso del Medioevo e dell'età moderna, tra cui quelle di "Marca Trevigiana", estesa talora all'intera regione veneta, e di "Patria del Friuli" furono le più durevoli e importanti. Il nome Veneto, per indicare complessivamente la regione, tornò in uso nel sec. XIX, dopoché l'Austria introdusse la circoscrizione politico-amministrativa del Lombardo-Veneto, dal quale era separato il territorio dell'attuale Venezia Tridentina, che faceva parte del Tirolo, mentre ad oriente il territorio oltre l'Isonzo era compreso in altre circoscrizioni austriache. Qui si considera la Venezia propria o Veneto (come ormai è detto concordemente nelle pubblicazioni ufficiali) nei suoi attuali confini amministrativi.
Molti nomi regionali, d'origine e significato geografico etnico o storico, sopravvivono tuttora nel Veneto: oltre a quelli già ricordati di Marca Trevigiana, ora ristretto al territorio di Treviso, e di Friuli, citiamo quelli di Carnia (alto bacino del Tagliamento) e di Cadore (alto . bacino del Piave) nella parte alpina, di Polesine nella bassa pianura fra Adige e Po, per non ricordare che i principalissimi: ma molti altri sono vivi nell'uso, soprattutto nella più frammentata regione montuosa.
Morfologia. - Il Veneto, esteso dal cuore delle Alpi alla riva dell'Adriatico, è caratterizzato da una grande varietà di paesaggi e di struttura. La prima e più ovvia divisione è quella fra una regione montuosa alpina e una regione di pianura, ma in ciascuna di queste si possono distinguere alcune regioni naturali. Nella regione montuosa si distinguono anzitutto una zona alpina vera e propria e una zona prealpina (v. alpi). La prima appartiene ai gruppi delle Dolomiti e delle Alpi Carniche; inoltre rientra nei confini del Veneto anche un lembo delle Alpi Giulie. Delle Alpi Dolomitiche il confine amministrativo assegna al Veneto tutta la sezione a oriente del Cordevole e anche una parte a occidente di questo fiume fino al gruppo della Marmolada; delle Carniche gli appartiene l'intero versante italiano. Tipico paesaggio di alta montagna quello delle Dolomiti, cui la natura e le forme di queste montagne (v. dolomiti) conferiscono una sua peculiare quanto mai pittoresca individualità: aspri e frammentati massicci montuosi, separati da vallate e da bacini, talora ampî e ben assolati, in cui si concentrano la vita e l'attività dell'uomo, zone di nude rocce cui seguono le fasce dei pascoli e dei boschi fino ai prati e alle colture delle valli. Più severo, unito e aspro il paesaggio delle Alpi Carniche (v. carnia), quantunque la loro altezza sia minore: dal crinale della catena montuosa, che si svolge compatta ed elevata dal Passo di Montecroce a quello di Tarvisio, i suoi contrafforti - costituiti per la massima parte di rocce calcaree del Trias, mentre nella sezione più interna si trovano terreni molto più antichi, del Paleozoico - scendono verso la valle del Tagliamento separati da valli trasversali parallele, assai spesso strette e selvagge, i cosiddetti "Canali".
Anche la zona comunemente denominata prealpina presenta caratteri diversi nella parte occidentale e orientale (Prealpi Carniche). A ovest, dove sono più frequenti le forme degli altipiani, le Prealpi sono costituite da massicci ben individuati che hanno ciascuno proprî caratteri e sono separati da valli le quali segnano altrettante vie di comunicazione fra la pianura e la zona montuosa interna. Anzitutto l'altipiano calcareo dei Monti Lessini (Cima Carena 2263), ricco di prati e di pascoli, che si sfrangia alla base in una serie di contrafforti piatti, separati da un ventaglio di valli e di forre (progni). Oltre la valle del Leogra s'innalza il gruppo del Pasubio, con le Prealpi Schiote o Monti di Arsiero; quindi fino alla valle del Brenta l'altipiano calcareo di Asiago o dei Sette Comuni (Cima Dodici 2341). Tra il Brenta e il Piave si levano i nudi dossoni cupoleggianti del Grappa (1775), e oltre il Piave la catena delle Prealpi Bellunesi, che chiude verso valle l'ampio bacino bellunese. Le Prealpi Carniche, che toccano nella Cima dei Preti 2703 m., s'innalzano fra la pianura e le valli del Tagliamento, del Piave e del Meschio: benché non si distinguano in esse gruppi montuosi isolati e individuati come nelle Prealpi Venete, sono tuttavia frammentate da vallate grandi e piccole e costituiscono nel complesso una zona aspra e poco popolata.
A occidente come a oriente le Prealpi sfumano generalmente verso la pianura attraverso una zona collinosa, di varia ampiezza, struttura e origine, la quale, dotata di un clima privilegiato e rivestita di una ricca vegetazione, forma alcune fra le zone più ridenti del Veneto. Dalle dorsali lunghe e appiattite con cui si perdono nella pianura le digitazioni dei Lessini; alle caratteristiche "corde" del Trevigiano, serie di dossi lunghi e paralleli, la cui formazione è dovuta all'alternarsi di terreni del Terziario recente di diversa erodibilità; al colle del Montello, formato di alluvioni terziarie stratificate; all'anfiteatro morenico che chiude lo sbocco in piano della valle del Tagliamento, mostrando l'estensione raggiunta dal grande ghiacciaio quatemario scendente in questa valle; ai rilievi dell'anfiteatro morenico del Garda, spettante in parte al Veneto, e a quelli dell'anfiteatro del Meschio (Colle Umberto), depositati da un ramo del ghiacciaio plavense; ai rilievi infine dei Berici e degli Euganei, residui di antiche eruzioni vulcaniche protrattesi forse negli Euganei fino al Quatemario.
Anche la Pianura Veneta è tutt'altro che uniforme di struttura e di aspetto, e vi si possono distinguere alcune regioni naturali: vi si ritrovano anzitutto l'alta e la bassa pianura. L'alta pianura, ciottolosa, ghiaiosa e arida, è più ampiamente estesa nel Friuli dove si mostra anche più tipica la struttura a grandi conoidi; si interrompe in corrispondenza alle sorgenti della Livenza e alla zona collinosa dei Berici e degli Euganei, cosicché risulta divisa in tre sezioni: friulana, vicentino-trevigiana e veronese. La bassa pianura, formata di alluvioni minute e assai poco permeabile, onde si sono resi necessarî fino da epoca remota lavori di prosciugamento e di regolamento delle acque, è separata dalla prima dalla linea delle risorgive o risultive, la quale, se nel Veneto non assume l'ampiezza e l'abbondanza che ha nella vicina Lombardia (zona delle marcite), tuttavia ha grande importanza antropica ed economica. Ma nel Veneto si ritrova anche un terzo aspetto della pianura, che forma un tipo peculiare di paesaggio, quello della zona lagunare e sublagunare (v. laguna: La laguna veneta): il paesaggio lagunare si estende con aspetti diversi dal delta del Po, che il confine amministrativo lascia per intero al compartimento del Veneto, fino a Grado. Il maggiore contrasto si ha, come è noto, fra la Laguna Veneta, nella quale l'uomo è intervenuto da tempo remoto a modificare le forme del paesaggio naturale soprattutto nell'intento di conservare la laguna, soggetta a trasformarsi e ad interrirsi; e le lagune del litorale friulano, dove le forze della natura hanno potuto esercitare assai più liberamente la loro opera mutando notevolmente l'aspetto della regione anche in epoca storica.
Ma la Pianura Veneta mostra ancora un'altra forma di paesaggio, che si può distinguere dall'"alta", dalla "bassa" e anche dalla zona lagunare e deltizia vera e propria: il paesaggio polesano, che non comprende soltanto il Polesine di Rovigo, ma anche, in continuazione di questo, lembi della pianura veronese, padovana e veneziana. Esso si può considerare come una zona di transizione fra la regione deltizia e la bassa pianura; situato a bassissime quote e talvolta anche sotto il livello del mare, naturalmente acquitrinoso e paludoso, costituisce, così come lo vediamo oggi, bonificato dall'opera secolare dell'uomo, che si continua con rinnovata energia sotto ai nostri occhi, un tipico esempio di paesaggio artificiale, il cui aspetto è cioè principalmente dovuto all'opera dell'uomo, che ha incanalato e regolato le acque, introdotto le colture, costruito la rete regolare dei canali e delle strade. Si è parlato di "Olanda Veneta", e veramente in questa regione si trovano esempî di veri e proprî polders, cioè zone mantenute asciutte con il sollevamento meccanico delle acque. Anche l'agricoltura assume nel Polesine aspetti diversi da quelli delle altre parti della Pianura Veneta.
Riassumendo, si calcola che della superficie del Veneto il 34% spetti alla regione di montagna, il 17% alla regione di collina e il 49% a quella di pianura.
Clima. - Gli stessi contrasti che si notano nelle forme del paesaggio si ritrovano anche nelle condizioni del clima: dalle zone montuose interne, che presentano clima alpino, con caratteri spesso assai crudi, si passa alle zone litoranee con clima marittimo, di tipo mediterraneo. Dal punto di vista delle temperature, i valori più bassi, sia annuali sia dei mesi invernali, si registrano nell'alto bacino plavense (Cadore), ma anche la Carnia ha basse temperature e clima alpino. Un clima privilegiato, con inverni assai miti ed estati non troppo calde, presentano i versanti ben esposti della fascia collinosa, specialmente nel Veneto occidentale, dove infatti può vegetare l'olivo; mentre una vera e propria oasi climatica è rappresentata dalla riviera del Garda.
Quanto alle piogge, caratteristica comune a tutto il Veneto è la loro abbondanza; tuttavia si notano grandi diversità tra una zona e l'altra: le zone meno piovose sono quelle marittime, le più piovose sono i versanti delle Prealpi, che sono investiti dai venti carichi di umidità provenienti dall'Adriatico; nel Friuli si registrano quantità di precipitazioni che sono le più alte di tutta l'Italia, e anche nel cuore della zona alpina (Carnia) si notano fortissime precipitazioni (oltre 2 o anche 3000 mm.). Nelle Alpi e Prealpi Carniche la grande quantità delle precipitazioni, assai maggiore che nel Veneto occidentale, ha per conseguenza l'abbassarsi di tutti i limiti: delle nevi permanenti (nel Cadore, dove pure è già assai più basso Che nelle Alpi Occidentali, è a 2950 m., nelle Alpi Carniche scende a 2650), del pascolo, del bosco, delle colture e quindi anche delle abitazioni. Quanto al regime delle precipitazioni, nel complesso in tutto il Veneto le stagioni più piovose sono la primavera e l'autunno; ma questi due massimi, mentre tendono a unirsi in un unico invernale nella zona marittima verso il delta del Po, avvicinandosi così al regime caratteristico del clima mediterraneo, nella zona montuosa tendono invece a unirsi in un unico estivo, secondo il tipo proprio dell'Europa centrale; anche tra la regione occidentale e l'orientale vi è differenza: nella prima l'estate tende ad essere la regione più piovosa, nella seconda invece la primavera. Nella zona montuosa le precipitazioni avvengono in parte più o meno grande sotto forma di neve.
Idrografia. - Appartengono al Veneto alcuni dei maggiori bacini fluviali italiani. Il Po a valle di Ostiglia segna il confine con la vicina Emilia, ma il delta, con i suoi lobi, le sue sacche, le sue foci ramificate, appartiene per intero al Veneto. L'Adige gli appartiene per un tratto della media valle e per tutta la bassa valle; in questa esso scorre quasi per intero in un letto sopralluvionato (presso Albaredo d'Adige il fiume è già pensile) e quindi è accompagnato da potenti argini e le sue piene sono molto temibili. Del Brenta rimane fuori dai confini del Veneto solo l'alta valle; gli appartengono invece quasi per intero i bacini del Piave e del Tagliamento e quello della Livenza. Il regime dei fiumi veneti è tanto più instabile quanto più le loro sorgenti sono nella zona prealpina, anziché in quella alpina, e li alimentano le acque di pioggia: presentano perciò fortissime piene primaverili e autunnali. L'Adige, che ha l'alto bacino nel cuore della zona alpina, presenta acque abbondanti nella tarda primavera per lo sciogliersi delle nevi, e nell'autunno per le piogge. Degli altri fiumi, il Piave è il più ricco di acque e il meno torrentizio. Il fenomeno per cui i fiumi, giunti nell'alta pianura, perdono le loro acque nel suolo ciottoloso allargandosi in enormi letti e dividendosi in numerosissimi rami, si verifica caratteristicamente nel Friuli (Tagliamento). Sono frequenti nel Veneto, data l'estensione delle zone calcaree, gli esempî di fenomeni carsici; soprattutto negli altipiani dei Lessini e di Asiago e anche nelle Prealpi Bellunesi: povertà di acqua in superficie, inghiottitoi e voragini carsiche (Spluga della Preta nei Lessini, ritenuta la più profonda della Terra), mentre alla loro base sgorgano copiose sorgenti. L'idrografia del Veneto è stata molto modificata dall'uomo soprattutto nella bassa pianura a occidente del Piave; qui si può parlare d'idrografia artificiale; l'intento di allontanare i corsi d'acqua dalla Laguna Veneta per impedire che fosse colmata dalle loro alluvioni, le opere per, prosciugare e bonificare le basse terre inondabili e acquitrinose sono stati i moventi principali per cui l'uomo è intervenuto a modificare, dove gli era possibile, l'opera della natura. Tutta una rete di canali antichi e recenti percorre la pianura veneta.
Il Veneto si affaccia sul maggior lago italiano, del quale il confine amministrativo gli assegna la riva orientale. Gli altri laghi del Veneto sono piccoli e poco numerosi. Nella regione montuosa ve ne sono, come altrove nelle Alpi, di origine glaciale, di frana (il più noto è quello di Alleghe, 52 ha.), di erosione. Il maggiore è il Lago di S. Croce, che è stato ampliato artificialmente (in tutto ora misura 8 kmq.) per utilizzazione idroelettrica: è parte integrante del grandioso impianto Piave-S. Croce, il quale utilizza anche il Lago Morto sfruttando il dislivello (oltre 100 m.) fra questo e il Lago di S. Croce. Nella zona delle Alpi compresa entro i confini del Veneto non si trovano ghiacciai importanti: le Alpi Carniche ne sono del tutto sprovviste; le Dolomiti comprendono solo la vedretta della Marmolada sulla quale passa il confine amministrativo, e qualche altro piccolo ghiacciaio locale di scarsissima entità.
Flora e fauna. - La vegetazione originaria, mentre si conserva ancora in gran parte nella regione montuosa, è stata quasi del tutto sostituita nelle colline e nel piano dalle colture introdotte dall'uomo fin da epoca assai remota. Nella pianura e nelle colline la vegetazione spontanea doveva essere rappresentata dal bosco, in prevalenza di querce, che si spingevano fin presso il margine interno della zona lagunare; sui lidi sabbiosi si sviluppavano le pinete (di cui rimane un relitto in quella alla foce del Tagliamento); ma nelle zone sabbiose lungo il litorale o lungo il margine della zona lagunare, là dove l'azione delle acque salmastre impediva il formarsi della vegetazione-arborea, vi erano estese aree coperte di canneti o di prati; questa zona fu anzi allargata a spese del bosco per esercitarvi l'allevamento. I lembi più aridi dell'alta pianura (magredi) erano originariamente coperti da vegetazione di tipo steppico; infine sulle rive del Garda e alle falde dei Berici e degli Euganei compariva la macchia di tipo mediterraneo. La flora della zona montuosa è in complesso quella comune a tutte le Alpi; ai boschi formati di latifoglie più in basso, di aghifoglie più in alto, succede la zona dei pascoli montani e quindi quella delle nevi perenni o delle roccie nude. I limiti del bosco, e conseguentemente del pascolo e della zona a coltura, sono stati artificialmente modificati dall'uomo; tuttavia è da notare in generale che essi si abbassano gradualmente verso oriente, tanto sulle Alpi che sulle Prealpi, in conseguenza della minore altezza delle catene e dell'aumento della piovosità. Il bosco, che nella Marmolada arriva fin sopra i 2000 m., non supera i 1600 nelle Prealpi Carniche; contemporaneamente si abbassano i limiti del pascolo ed anche le piante tipiche della flora alpina raggiungono nel Veneto orientale limiti fra i più bassi di tutte le Alpi: così la "stella alpina" a Tarcento (Friuli) si trova a 750 m. È poi da notare che le Dolomiti e le montagne calcaree presentano in genere maggiore varietà di flora che non le montagne silicee e vi si trovano anche dei casi di endemismo.
Anche la fauna è stata profondamente modificata dall'azione dell'uomo. In genere si può notare che il Veneto rappresenta da questo punto di vista una zona di transizione, poiché, mentre vi mancano delle specie proprie delle vicine zone lombarda e piemontese, vi se ne trovano altre proprie delle regioni orientali: tra queste ultime la Vipera ammodites (vipera del corno) che si spinge fino nelle Prealpi del Friuli e nel Bellunese. Dei mammiferi sono scomparsi il cervo e il cinghiale, che dovevano vivere numerosi nei boschi della pianura e che sopravvivevano ancora nei Medioevo; scomparsi sono pure dalle montagne venete il lupo, la lince, l'orso; vi si trova invece ancora qualche capriolo e camoscio. Dei grossi uccelli da caccia ricordiamo il gallo cedrone (Tetrao urogallus) e il gallo di monte (Lyrurus tetrix), il francolino, la pernice di monte, ecc. Nelle valli lagunari vivono ancora numerosissime anitre e folaghe; per la fauna ittica v. pesca.
Popolazione. - Sembra che in età romana, anche nei periodi di maggior fiore, la popolazione del Veneto non abbia mai raggiunto il milione di abitanti. I secoli dell'alto Medioevo corrispondono all'epoca di massimo spopolamento della regione: ancora verso il 1000 la Venezia propria non avrebbe raggiunto il mezzo milione di abitanti; ma tre secoli dopo, nel sec. XIV, quando Venezia toccava i 100.000 ab., è probabile che la popolazione fosse più che raddoppiata e superasse il milione; nei secoli seguenti le vicende politiche, a cui si aggiungono le epidemie, fecero oscillare la popolazione così che a periodi di aumento (sec. XVI) si alternarono periodi di diminuzione. Ma dal sec. XVIII in poi complessivamente la popolazione è stata sempre in aumento, come si può controllare sulla scorta di dati sempre più frequenti e attendibili. Nel 1795 la popolazione del Veneto raggiungeva circa 1.835.000 ab.; nel 1820 circa 1.875.000; poco più di un secolo dopo, nel 1931, la popolazione appare più che raddoppiata (4.123.000 ab.), ma questo aumento complessivo è la risultante di cifre molto diverse tra una zona e l'altra e di coefficienti assai differenti nelle varie epoche. Dal 1871 in poi si può seguire l'andamento della popolazione nelle provincie venete sulla scorta dei censimenti; i dati si trovano riuniti nella seguente tabella (agli abitanti delle provincie di Belluno e di Udine sarebbero da aggiungere, per i censimenti dal 1871 al 1911, gli abitanti dei comuni a esse aggregati dopo la guerra mondiale).
La demografia del Veneto è caratterizzata, e più lo era in passato, da una forte natalità: alla fine del sec. XIX questa era del 37‰; negli anni 1933-35 è stata del 24,5‰, tuttavia è più elevata della media del regno e superiore a quella di tutti gli altri compartimenti dell'Italia settentrionale; l'eccedenza dei nati sui morti (12,9‰) si mantiene elevata anche perché è grandemente diminuita la mortalità (19‰ nel 1872-75, 19‰ nel 1906-10; 15‰ nel 1933-35). La natalità è più forte nelle regioni di pianura che in quelle di montagna (al primo posto è infatti la provincia di Rovigo col 30,5‰ nel 1933-35, all'ultimo quella di Belluno col 20,5‰), e, secondo la norma generale, è assai più forte nelle campagne in confronto ai centri urbani. Il Veneto è ancora la regione che vanta il primato per il numero medio dei componenti la famiglia.
Nell'alto Medioevo si trapiantarono nel Friuli (Valle di Resia, ecc.) colonie slave, i cui linguaggi si sono ormai del tutto fusi con il dialetto locale; più recenti (forse nei secoli XII e XIII) sarebbero le immigrazioni di coloni tedeschi, di cui si formarono nel Veneto due gruppi: quelli di Sauris, Sappada e Timau, dove fino a qualche anno fa si parlava tedesco, e quelli dei Sette e Tredici Comuni, dove i dialetti tedeschi non si parlano più.
I movimenti emigratorî hanno avuto nel Veneto assai minore importanza di quella che a tutta prima sembrano denunziare le statistiche. Per tacere di emigrazioni temporanee tradizionali interne ed esterne, che si esercitano da tempo remotissimo, il Veneto negli ultimi decennî del sec. XIX e nei primi del XX ha segnato coefficienti di emigrazione tra i più elevati del regno. Essi sono indici della grande mobilità e attività della popolazione veneta. Si tratta però soprattutto di emigrazione nei paesi dell'Europa e del Mediterraneo a carattere temporaneo e stagionale, e quindi assai meno preoccupante dell'emigrazione transoceanica; è stata alimentata prevalentemente dalle regioni di montagna (toccarono i massimi le provincie di Belluno e del Friuli) ed è formata specialmente dalla classe operaia. L'emigrazione transoceanica ebbe un periodo di culmine negli anni 1888-89, in cui numerosissimi lavoratori, provenienti questa volta anche dalle regioni di pianura, abbandonarono la patria per recarsi soprattutto nel Brasile; ma si contrasse subito e rimase sempre inferiore alla media del regno, anche negli anni più critici dell'emigrazione transoceanica. Nel 1887 lasciarono il Veneto 2424 ab. su 100.000 e nel 1888 la cifra salì a 4473 (con un complesso di 131.834 emigranti), toccando un valore molto superiore a quello medio del regno e a quello di ogni altra regione italiana: vi contribuirono in questi anni sia l'emigrazione continentale sia quella transoceanica. Ma, mentre la prima si mantiene negl; anni seguenti molto elevata, anzi si accresce superando nell'ultimo decennio del secolo i 3000 ab. su 100.000, risultando sempre molto superiore a quella di ogni altra regione, l'emigrazione transoceanica si riduce immediatamente e si mantiene poi quasi sempre nell'ambito di proporzioni assai modeste. Nell'immediato dopoguerra l'emigrazione continentale riprende notevolmente elevata, e così pure quella transoceanica, specialmente in confronto all'anteguerra. In seguito il numero degli espatriati diventa esiguo: nel 1935 quelli diretti a paesi continentali non hanno superato i 10.000, quelli per oltre oceano sono stati circa 2500.
Il Veneto, zona densamente popolata e caratterizzata, come si è visto, da una demografia sana, ha fornito e fornisce contingenti di popolazione anche alle emigrazioni interne; di queste alcune hanno carattere permanente e sono state disciplinate e inquadrate nell'ambito della bonifica integrale: famiglie di coloni veneti si sono trapiantate nelle zone di recente bonifica (Maremma, Regione Pontina), alleviando l'eccesso di popolazione di alcune aree venete. Della mobilità dei Veneti attesta anche il numero di operai e operaie (soprattutto domestiche) che si recano per periodi più o meno lunghi a lavorare in altre regioni italiane.
Il Veneto, con 162 ab. per kmq., viene quarto fra i compartimenti italiani per la densità di popolazione. E non bisogna dimenticare che sul valore complessivo incidono quello relativamente basso della provincia di Belluno (57,3), tutta montuosa, e quello mediocre della provincia di Udine (100,3), che lo è in gran parte; ma tutte le altre provincie hanno densità superiori alla media del regno, e Padova, la più popolata (295,2), è superata soltanto da quattro provincie italiane. L'altissima densità di popolazione del Veneto non è generalmente dovuta a immigrazioni esterne richiamate dallo sviluppo moderno della grande industria, anche se le massime densità sono date dai comuni industriali; le grandi aree densamente popolate sono quelle di più ricca agricoltura, ed è stato l'aumento naturale della popolazione, intensissimo soprattutto nei primi decennî del sec. XX, a determinare un così forte addensamento.
Centri abitati. - Della popolazione totale del Veneto si calcola che poco più di metà viva raccolta in centri (58%; regno 73,6%) e il 42% in case sparse nella campagna. Il numero dei comuni è di 746. I comuni con oltre 100.000 ab. sono 3 e raccolgono il 13,1% della popolazione totale (1931): sono quelli di Venezia (260.247 ab.), Verona (153.925 ab.) e Padova (131.066); altri tre (Udine, Vicenza e Treviso) superano i 50.000 ab. Il Veneto conta dunque solo tre o meglio una grande città, perché la popolazione dei comuni di Padova e Verona vive in parte sparpagliata nella campagna circostante; il fenomeno dell'urbanesimo non vi ha assunto le proporzioni raggiunte negli altri compartimenti dell'Italia settentrionale; d'altra parte è da notare che quasi tutti i maggiori centri del Veneto hanno avuto importanza fin dall'antichità. Uno solo, Venezia, si trova sul mare, e questo si spiega con la natura della costa; una serie di centri si allinea al margine della pianura ai piedi delle Alpi: il maggiore è Verona, che beneficia di una posizione favorevole presso allo sbocco in piano della via segnata dalla valle dell'Adige, e posizione analoga ha anche Udine; altre città invece devono la loro origine alla rete dei fiumi e canali navigabili: sono sorte o si sono sviluppate lungo le vie d'acqua o là dove si incrociano vie d'acqua e terrestri, comunque in località segnalate per il commercio: così Padova e Treviso.
Agricoltura, allevamento, pesca. - L'agricoltura costituisce la base dell'economia nel Veneto. Lo provano l'elevata percentuale della popolazione occupata nel lavoro dei campi e i cospicui quantitativi di alcuni prodotti agricoli, per i quali il Veneto è in grado, non solo di contribuire al consumo delle altre regioni italiane, ma altresì di alimentare l'esportazione all'estero. Delle persone di oltre 10 anni addette a una professione, si dedica all agricoltura il 518,2‰: percentuale notevolmente più elevata di quella media del regno, che è del 468,3‰.
La varietà della struttura fisica trova riscontro nella varietà delle condizioni agricole. Si può fare anzitutto una distinzione nelle tre grandi zone della montagna, della collina e della pianura. La prima è caratterizzata dall'economia silvo-pastorale; l'allevamento del bestiame, che si basa sui prati e le colture foraggere delle vallate e dei bacini, e sui pascoli di alta montagna, alimenta l'industria del caseificio, che insieme con i boschi dà i prodotti di più alto rendimento; le colture dei cereali, patate, fagioli, ecc., si fanno solo per uso della popolazione locale, la quale deve per alcuni generi integrare il fabbisogno con l'importazione. La zona collinosa, favorita da un clima privilegiato, mostra, specialmente su versanti bene esposti, ricche zone agricole, caratterizzate dall'associazione dei seminativi con le colture arboree, le quali si trovano anche specializzate (vite e, in qualche plaga, olivo): le colture arboree specializzate hanno appunto nella zona delle colline la più grande estensione relativa (5% della superficie agraria e forestale). Anche nel piano si associano ai seminativi (cereali, foraggere, prati asciutti e irrigui, piante industriali) le colture arboree, anzi il paesaggio della pianura veneta alta e bassa trae il suo carattere appunto dall'abbondanza degli alberi (gelso, vite, fruttiferi, ecc.). Vi è però una parte della pianura che presenta aspetto alquanto diverso ed è la zona polesana: essa è caratterizzata, soprattutto nelle aree di più recente bonifica, dall'assai minore frequenza di alberi, e, quanto ai seminativi, dalla grande importanza che vi assumono le colture industriali, specialmente quelle della barbabietola da zucchero e della canapa, prodotta soltanto in questa regione, mentre i cereali dànno un rendimento molto elevato, tanto che alimentano anche l'esportazione; inoltre al mais e al frumento, che sono i cereali veneti per eccellenza, si aggiunge qui la risaia. Un'altra zona agricola distinta dalle precedenti è quella degli orti, a cui si associano la vite e il frutteto, che si estende nei lidi e nelle isole sabbiose della laguna e nelle aree che a questa immediatamente si affacciano: il tenace lavoro di generazioni ha trasformato queste zone in ricchi giardini e nuovi lembi di territorio vengono continuamente strappati al mare. Si può infine ancora ricordare come zona a sé stante la riva veneta del Garda, dove il clima permette il maturare, non solo degli olivi, ma anche degli agrumi, la cui coltura è però decaduta.
Nel 1930 furono censite nel Veneto 433.974 aziende agricole su un territorio di 1.106.300 ha., per più di metà appartenente ad aziende agricole ad economia diretta; segue la forma dell'affittanza, poi quella a colonia e mista. Prevale la media azienda: un terzo del territorio censito è diviso in aziende da 5 a 20 ha., ma è molto frequente anche la piccola azienda; invece sono assai poco estese la piccolissima e la grandissima. Quest'ultima si riscontra nella zona di montagna, dove ha carattere silvopastorale, o in qualche area di recente bonifica, dove corrisponde a un tipo di agricoltura molto progredito.
La superficie agraria e forestale abbraccia complessivamente 2.208.019 ettari (86,5% della superficie territoriale). I seminativi (1.144.473 ha., di cui 325.660 ha. semplici) occupano il 44,8% della superficie territoriale; questa cifra, che è superiore a quella media del regno (41%) è il risultato di dati assai diversi fra le varie provincie, dalle elevatissime percentuali delle provincie di Padova e Treviso a quella bassissima della provincia di Belluno, situata per intero nella zona montuosa, a quelle medie della provincia di Udine, la quale partecipa sia della montagna sia del piano. I prati permanenti occupano l'11,1% della superficie territoriale, percentuale molto superiore a quella del regno, e appena superata da quella del Piemonte. É molto grande l'estensione relativa dei prati-pascoli permanenti (3%, regno 1,3%), mentre i veri e proprî pascoli occupano solo il 4,7% del territorio (regno 14,5%). Le colture legnose specializzate occupano il 2% della superficie (regno 7,4%; più frequenti che nella I. ombardia, ma molto meno che in Piemonte); infine i boschi e castagneti occupano il 14,1% della superficie (regno 17,9%).
Fra i cereali dominano il frumento e il mais. Il secondo, la cui coltivazione fu introdotta nel Veneto nel sec. XVII, si diffuse rapidamente fino a diventare la coltura dominante, base del nutrimento della popolazione, tanto da avere ripercussioni di ordine sociale e sanitario (pellagra). Quantunque la sua coltura si sia poi successivamente contratta, e il frumento abbia assunto pari estensione, la produzione di mais conserva grandissima importanza nel Veneto, che dà circa 1/4 della produzione totale italiana; la coltura del mais prevale nella parte orientale della regione, ma i più elevati rendimenti li dà il Polesine. La produzione di frumento è cresciuta da 4.875.000 q. nel 1923-28 a 6.635.466 nel 1932-34: tale aumento è in parte dovuto all'estendersi della coltura, ma in parte pure all'aumento del rendimento medio (21,3 q. nel 1932-34), molto superiore a quello del regno (14,7) e inferiore soltanto a quello della Lombardia e dell'Emilia. Al primo posto è la provincia di Rovigo (28,8; la supera soltanto la provincia di Cremona). La produzione del riso è trascurabile in confronto a quella del Piemonte e della Lombardia, e inferiore anche a quella dell'Emilia.
Delle colture industriali, grandissima importanza ha la barbabietola da zucchero, della quale il Veneto dà circa la metà dell'intera produzione italiana; tuttavia la produzione è diminuita da 16.151.000 q. nel 1923-28 a 11.170.030 nel 1932-34. Più di metà della produzione è data dalla provincia di Rovigo. Per la canapa, coltivata, come si è detto sopra, solo nel Polesine, il Veneto è terzo tra i compartimenti italiani dopo l'Emilia e la Campania, e dà circa il 10% della produzione italiana. Più estesa area di diffusione ha il tabacco, che si coltiva soprattutto nella provincia di Verona e per il quale il Veneto occupa il secondo posto dopo la Puglia e fornisce circa 1/5 del prodotto italiano. Molto diffusa è la coltivazione delle patate; delle leguminose da granella hanno grandissima diffusione in tutto il Veneto i fagioli; le colture orticole, che si esercitano oltre che nella zona della Laguna veneta, anche altrove (Veronese, Vicentino) e mandano cospicui quantitativi all'estero, dànno soprattutto cavoli e cavolfiori, cipolle e agli, poponi e cocomeri, asparagi, cetrioli, patate precoci, ecc.
Delle coltivazioni legnose, le più diffuse sono la vite e il gelso; il Veneto vanta alcuni vini assai pregiati: Valpolicella, Conegliano, S. Erasmo e altri della zona lagunare; le regioni dove è più frequente il vigneto specializzato sono quelle di collina; ma la vite si trova anche in tutta la pianura, associata ai seminativi. L'olivo è limitato ad alcune aree collinose più riparate. La frutticoltura industriale si va diffondendo e perfezionando sempre più; la più importante è la coltura del pesco, esercitata soprattutto nelle provincie di Venezia e di Verona, che esportano forti quantità di questo frutto, per il quale il Veneto contende il primato alla Liguria e dà oltre 1/5 della produzione totale del regno.
La tabella a piedi della pagina seguente riassume i dati dei principali prodotti (media del triennio 1932-34), distribuiti per provincia.
Non si può chiudere anche un brevissimo cenno all'agricoltura veneta senza ricordare l'importanza che in passato e al presente hanno avuto l'irrigazione e le opere di bonifica. Queste ultime, già vanto della repubblica veneta, si continuano ai nostri giorni e conquistano all'agricoltura nuove zone della bassa pianura acquitrinosa e malsana (delta padano, zona sub-lagunare) o dell'alta pianura, ciottolosa e arida. Al 1° di aprile 1935 i comprensorî di bonifica occupavano nel Veneto 1.047.011 ha. superando solo, e di poco, la cifra dell'Emilia e abbracciando circa 1/8 delle bonifiche italiane. L'irrigazione si è resa necessaria, fino da epoca remota, soprattutto sul suolo arido dell'alta pianura, ma solo in questi ultimi anni il problema è stato affrontato a fondo e inquadrato nel piano della bonifica integrale, estendendo questa a tutte le regioni naturali della pianura veneta. Dei canali irrigui derivati da corsi d'acqua, i più importanti sono i canali Brentella di Pederobba (27.360 ha. di comprensorio) e della Vittoria (25.894 ha.) derivati da destra del Piave rispettivamente in località Fener e Nervesa della Battaglia, il Canale dell'Alto Agro Veronese derivato a Rivoli Veronese da destra dell'Adige, e la Fossa di Pozzolo derivata da sinistra del Mincio a Marmirolo; vi è poi tutta la rete dei corsi d'acqua originati da resorgive, fontanili e scoli.
Grande importanza ha in tutto il Veneto l'allevamento del bestiame bovino. Nelle zone di montagna, costituisce una delle basi della vita economica; per lo sfruttamento dei pascoli elevati si esercita in estate l'alpeggio, onde è familiare alla montagna veneta, come alle altre regioni alpine, la presenza di abitazioni temporanee estive (malghe) per la dimora dei pastori. Accanto alle malghe sono frequenti anche altre abitazioni temporanee: si trovano nelle "prealpi", zona di transizione fra quella delle malghe e quella delle abitazioni permanenti e si chiamano "stavoli", presso gli stavoli non sono infrequenti zone coltivate. Più intensivo è l'allevamento bovino nelle zone di pianura. Le gravissime perdite subite dal patrimonio bovino durante la guerra mondiale sono state quasi dovunque ricuperate. Nel 1930 furono censiti nel Veneto 1.047.000 capi di bestiame bovino, alquanto meno della Lombardia e dell'Emilia, ma un po' più del Piemonte; la densità del bestiame bovino rispetto alla popolazione (0,25 per ogni ab.) e soprattutto rispetto alla superficie (41 per kmq.) è molto superiore alla media del regno. All'allevamento dei bovini (sul numero totale, 537.443 sono vacche da latte) si accompagna una fiorente industria dei latticinî (soprattutto produzione di burro) che costituisce una delle occupazioni fondamentali nella montagna e dà prodotti non meno pregiati nel piano. Tuttavia per l'industria casearia il Veneto rimane molto indietro alla Lombardia.
I suini nel 1930 erano 331.000, molto meno che nell'Emilia e nella Lombardia; ma il loro allevamento è importante in talune zone (Udinese, Vicentino, Polesine, ecc.) e la lavorazione delle carni suine assume in alcune località grande rinomanza (prosciutti di S. Daniele). Gli equini nel 1930 erano 152.453. L'allevamento degli ovini ebbe grande importanza in epoche passate, quando si praticava una transumanza a grande raggio fra le montagne e la pianura; ora, scomparsa questa forma di allevamento, esso è accantonato in alcune aree montuose: in tutto, nel 1930, gli ovini erano 123.112 e 61.501 i caprini.
Ma il Veneto ha raggiunto il primato fra i compartimenti italiani per l'allevamento del baco da seta, superando in questi ultimi anni anche la Lombardia: dà ora circa metà del totale nazionale dei bozzoli. Il gelso è pianta caratteristica del Veneto e si trova dovunque in collina e in pianura, ma le zone più specializzate nell'allevamento del baco si trovano lungo la fascia prealpina: il primato spetta alle provincie di Treviso e di Udine. L'allevamento, che si iniziò nel Veneto nel sec. XV, è diffuso soprattutto come industria domestica, ma non mancano gli essiccatoi cooperativi, stabilimenti moderni per la produzione del seme bachi, ecc.
Un'altra attività importante del Veneto, perché dà lavoro a un ragguardevole numero di abitanti e fornisce prodotti anche all'esportazione, è la pesca. Si possono distinguere tre tipi di pesca: quella di alto mare, quella vagantiva di laguna e quella delle valli. La prima è esercitata per lo più da pescatori chioggiotti lungo le due rive dell'Adriatico; la seconda è esercitata da numerosi pescatori nelle acque della laguna, ma solo come occupazione secondaria. La terza è la più caratteristica e importante. Si esercita nelle cosiddette valli da pesca: zone delle lagune dove, sfruttando le migrazioni naturali del pesce (anguille, muggini), che esce ogni autunno dalla laguna per riprodursi nelle acque marine, mentre il novellame vi rientra ogni primavera, sono state collocate opere di pesca; il pesce viene fermato nella sua uscita e catturato durante i mesi invernali; ne viene altresì curata la riproduzione, con la sistemazione, nell'ambito delle opere di pesca, di veri e proprî vivai. Specialmente in passato, a questo tipo di pesca erano adibite abitazioni temporanee (casoni). È fiorente, in laguna, anche la caccia agli uccelli acquatici.
Al 31 dicembre 1935 il compartimento marittimo di Chioggia contava 1868 battelli da pesca per un tonnellaggio di 7942 tonn.; quello di Venezia 2070 battelli per un tonnellaggio di 2464 tonn. (nel complesso 1/10 di tutto il regno).
Industria. - L'industria ha nel Veneto importanza secondaria in confronto all'agricoltura, come dimostra la percentuale della popolazione che vi trova lavoro e il fatto che questo compartimento non vanta nessun grande organismo urbano industriale. Le industrie sono piuttosto distribuite in diversi centri medî e piccoli, alcuni dei quali però hanno grande rinomanza e mandano i loro prodotti sui mercati italiani ed esteri. Inoltre le industrie venete contano pochi grandi stabilimenti, mentre è ancora abbastanza diffusa la piccola industria e l'industria artigiana. Tuttavia anche questo ramo dell'attività economica sente l'impulso animatore dei tempi nuovi: basti ricordare il recente centro industriale di Porto Marghera.
Secondo il censimento industriale del 1927 gli addetti alle industrie erano 331.209 (8,3% della popolazione industriale italiana, mentre la Lombardia raggiunge il 26,1% e il Piemonte il 13,7%); per la forza motrice il Veneto veniva solo al 60 posto fra i compartimenti italiani, con 495.727 cav. (Lombardia: 1.074.034). Al primo posto per numero di addetti erano le industrie tessili (72.209); seguivano quelle dei trasporti e comunicazioni (38.153), le industrie alimentari (33.466), quelle del vestiario e abbigliamento (32.919), quelle meccaniche (30.598), le industrie del legno e affini, ecc.
Le più importanti sono le industrie tessili: il lanificio, che vanta a Schio uno dei massimi centri italiani per la produzione dei tessuti; il cotonificio, che ha i più grandi centri di produzione a Venezia; il canapificio e il linificio. Il setificio ha importanza in relazione all'intenso allevamento dei bozzoli: numerose sono le filande, ma la seta greggia viene in gran parte esportata, essendo poco sviluppata l'industria della tessitura.
Le industrie metallurgiche sono poco sviluppate in relazione alla scarsità di minerali: le miniere più importanti sono quelle di piriti di di ferro del Bellunese. Più numerose e importanti le cave di marmo del Veronese e del Vicentino, le trachiti dei Colli Euganei, le pietre molari di Belluno, il caolino di Vicenza, ecc.
Per le industrie meccaniche il maggior concentramento è quello di Porto Marghera e così per le industrie chimiche. Venezia e Chioggia sono centri dell'industria navale; soprattutto la prima, con l'antico arsenale.
Per l'industria elettrica il Veneto viene al quarto posto, a grande distanza dal Piemonte e dalla Lombardia, e subito dopo la Venezia Tridentina, con 463.000 kW. di potenza installata e oltre un miliardo di kWh di energia, prodotta per la massima parte da centrali idroelettriche. L'impianto più potente è quello del Piave-Lago S. Croce, il quale, derivata dal Piave presso Soverzene una portata di mc. 33 al secondo, la convoglia mediante canale nel Lago di S. Croce, invaso di 120 milioni di mc. e la porta con altro canale nella provincia di Treviso, dove, con successivi salti e utilizzando altre acque, genera una potenza di 137.250 cav. trasformata in energia elettrica in 5 centrali con una produzione annua complessiva di circa 600 milioni di kWh.
Il Veneto vanta da secoli un primato di qualità per alcune industrie artistiche: quella del vetro che da Murano manda i suoi prodotti, si può dire, in tutto il mondo; quella delle conterie, che si concentra a Venezia; quella dei merletti, che ha il maggior centro a Burano.
Di alcune industrie alimentari già s'è fatto cenno: oltre a quella dei salumi, vanno ricordate quelle dei dolciumi, delle conserve, della conservazione del pesce (anguilla marinata). Numerosi e importanti gli zuccherifici.
Si devono, inoltre, ricordare le industrie delle costruzioni (fornaci), le cartiere, le industrie poligrafiche, ecc., alcune delle quali hanno importanti stabilimenti.
Infine il Veneto è ai primissimi posti fra i compartimenti italiani per un'altra forma d'industria: quella turistica e delle stazioni di villeggiatura e di sport. Basti ricordare la grande attrazione che sui turisti di ogni paese esercita Venezia; fra le stazioni balneari ha fama mondiale il Lido di Venezia; fra le stazioni di montagna Cortina d'Ampezzo. La provincia di Padova, ad Abano-Terme, negli Euganei, vanta una delle più note stazioni idrominerali italiane.
Commercio e vie di comunicazione. - Il movimento commerciale marittimo si concentra nel porto di Venezia, che per movimento di merci ha raggiunto il secondo posto in Italia dopo quello di Genova, e il primo nell'Adriatico, sorpassando quello di Trieste, al quale però rimane molto inferiore per il movimento dei viaggiatori.
Data la sua posizione, il Veneto ha importanza internazionale per le comunicazioni, soprattutto per quelle fra l'Italia e l'Europa balcanica. La stazione di Tarvisio è fra quelle italiane che hanno maggior movimento di merci, sia importate sia esportate.
Le ferrovie misurano in complesso nel Veneto 1697 km. Le linee di maggior traffico corrono longitudinalmente alle Alpi mettendo in comunicazione la Lombardia e l'Emilia, attraverso il Veneto, con l'Austria, con la Venezia Giulia e la Iugoslavia. Le strade statali misurano 757 km., cifra molto bassa rispetto alla superficie del compartimento. Esse sono integrate dalla rete delle strade provinciali e comunali. Sono percorse da circa 300 servizî automobilistici pubblici per 8483 km. Le autovetture nel 1935 erano 22.831, a cui vanno aggiunti un migliaio di autocarri e autobus, e 16.500 motocicli. Venezia, provvista di aeroporto e d'idroporto è importante stazione delle linee aeree civili.
Bibl.: Si citano qui solo le opere di carattere generale; per le altre si rimanda alle voci delle singole regioni e città del Veneto. A. A. Michieli, Venezia Euganea, in La patria. Monografie regionali illustrate, Torino 1927; Guida d'Italia del T.C.I.: Il Veneto, Milano 1935; G. Bigon, Grotte del Veneto, in Le grotte d'Italia, VI (1932), pp. 143-55 e 177-84; G. Crestani, Alcune caratteristiche climatiche e meteorologiche della pianura veneta, in La meteorologia italiana, XII (1934), pp. 254-62; C. Grinovero, Risultati economici delle irrigazioni nel Veneto, Istit. naz. di economia agraria, Milano-Roma 1933; Min. dei LL. PP. Servizio idrografico, Carta delle irrigazioni venete, Roma 1934; M. Pilla, Il movimento della popol. veneta nel dopoguerra, in Rivista italiana di statistica, II (1930), pp. 21-67; D. Zucchini, Nuove costruz. rur. in Italia (Emilia, Romagna, Veneto), Roma 1929; E. Scarin, Sull'estensione delle "corti" nel Veneto orientale, in Mem. della R. Soc. geogr. ital., XVII (1932), pp. 73-77.
Venezia tridentina. - Nome, caratteri generali, area. - Il nome di questa regione (A. T., 24-25-26) fu proposto fino dal 1863 da Graziadio Ascoli ppr designare "con unico e appropriato e opportuno vocabolo tutto ciò che nell'Italia nordico-orientale ancora ci manca", cioè il territorio "che pende dalle Alpi Tridentine e può aver per capitale Trento" territorio detto dai Tedeschi, con vocabolo assai improprio, "Südtirol". L'Ascoli suggeriva anche, come alternativa, la denominazione di Venezia Retica, certo meno opportuna, onde la prima fu preferita, si diffuse durante e dopo la guerra mondiale, e ora è entrata nell'uso ulficiale come nome regionale.
La regione ha indubbiamente, nel complesso, una sua individualità geografica, poiché corrisponde allo spazio interposto fra l'arco delle Alpi prevalentemente scistoso-cristalline che dall'Adamello alle Carniche formano lo spartiacque principale, e le Prealpi che limitano la pianura veneta dal Garda al Brenta. Questo spazio tra le catene displuviali alpine e le Prealpi, che altrove è limitato, qui è molto più ampio, sì che entro di esso si è sviluppato tutto un sistema di valli, le quali in basso si riuniscono per la massima parte in un unico solco con direzione meridiana, il solco della valle atesina, strozzata poi, al suo passaggio attraverso le Prealpi, in una chiusa (di Verona o di Rivoli), il che vale ad accentuare l'individualità della regione.
L'esistenza dell'ora menzionata chiusa ha reso, specialmente in passato, difficili le comunicazioni fra la media valle dell'Adige (Trento) e la pianura (Verona), ma tali comunicazioni sono agevolate da solchi laterali, che da Trento mettono a occidente nella valle del Sarca (Lago di Garda) e poi anche in Val Giudicaria (Chiese), a oriente in Valsugana. Chi possedette Trento cercò di assicurarsi anche il dominio di questi sbocchi laterali verso la pianura padano-veneta: essi perciò erano inclusi nel Südtirol austriaco e sono rimasti inclusi nella Venezia Tridentina. Ne furono invece staccati nel 1923 l'Ampezzano (alto bacino del Boite) e l'alto Agordino (alto bacino del Cordevole), riuniti, come era naturale, alla provincia di Belluno. L'attuale Venezia Tridentina abbraccia dunque tutto il bacino atesino, a monte della Chiusa di Verona, tranne la Val Monastero, svizzera, ma con l'aggiunta della testata di una valletta affluente dell'Inn a nord del Passo di Resia e dell'inizio della valle della Drava con la Val di Sesto; inoltre la Val Giudicaria, la valle del Sarca col lembo settentrionale del Lago di Garda e la Valsugana.
L'area totale è, secondo i dati ufficiali, di 13.652 kmq., cioè un po' più della metà della Venezia Euganea, quasi identica all'area della Campania. L'estremo punto settentrionale, la Vetta d'Italia è anche il più settentrionale d'Italia (lat. 47°5′30′′), l'estremo meridionale è sui M. Lessini. Il compartimento formò dapprima una provincia unica: dal 1927 è distinto nelle due provincie di Bolzano (kmq. 7085) e Trento (kmq. 6567).
Rilievo. - La Venezia Tridentina è una regione prevalentemente montuosa. Il suo confine settentrionale è formato dal ricordato arco di potenti catene prevalentemente scistoso-cristalline, che si sviluppa fra l'Ortles e il Pizzo dei Tre Signori con vette molto spesso superiori a 3000 m. (Ortles 3989, Cevedale 3778, Palla Bianca 3736, Similaun 3607 m., ecc., nelle Venoste; Gran Pilastro 3510, Mesule 3479 m., ecc. nelle Aurine); imponente baluardo ricco di aree culminali impervie e nevose, e di ghiacciai, rotto solo da due passi molto depressi e perciò facili; quello di Resia (1810 m.) e il Brennero (1375 m.). Alla serie dei massicci cristallini appartengono pure l'Adamello (3554 m.) che con le sue propaggini scende fino al Chiese e forma così il confine occidentale della regione, e, all'estremo opposto, la catena da taluno detta Alpi Pusteresi (Collalto, 3435 m.) sulla quale corre il confine orientale fino alla bassa insellatura di Dobbiaco (1255 m.). Notevoli diramazioni si staccano verso sud dalle catene principali; tra esse si ricordino i contrafforti tra Passirio e Isarco, che, divisi a forchetta, ricingono la Val Sarentina (P. Cervina, m. 2781 nel ramo occidentale; Cima S. Cassiano 2581 nel ramo orientale). Per una più ampia descrizione vedi alpi.
Delle Alpi calcaree meridionali, appartengono alla regione per intero il gruppo di Cima Brenta (3150 m.) tra Adige, Sarca e Noce, e in gran parte le Alpi Dolomitiche, sulle cui vette corre, a sud della Pusteria, il confine orientale della Venezia Tridentina. Appartengono per intero alla regione le Dolomiti di Gardena (Sass Rigais, 3025 m.), il gruppo di Sella (Boè, 3181 m.), del Sasso Lungo (3178 m.), i gruppi dello Sciliar (2564 m.), del Catinaccio (3004 m.) e del Latemar (2846 m.), quello di Cima d'Asta (2848 m.). Vedi, del resto, dolomiti.
Il confine meridionale corre in genere su rilievi prealpini, come le Prealpi delle Giudicarie, il Baldo, i Lessini, il Pasubio, l'orlo settentrionale dell'Altipiano di Asiago; qui le massime altezze si mantengono, con notevole costanza, intorno ai 2200-2300 m.
Il solco vallivo principale, via maestra per le comunicazioni nella regione, è costituito dall'Adige, la cui direzione, a monte di Bolzano, è continuata dall'Isarco fino al Brennero. Immettono in esso quattro principali valli laterali: da sinistra quella della Rienza (Pusteria), da destra quella dell'alto Adige (Venosta) e più a sud quella del Noce (valli di Sole e di Non), a sinistra quella dell'Avisio (valli di Cembra, Fassa e Fiemme). Queste valli, e molte delle minori, notissime come soggiorni estivi (Val Gardena, Val Passiria, Val Sarentina, ecc.), sono spesso recinte da pareti ripide o a picco, mentre altrove si allargano in conche ridenti. Tra le "chiuse" più notevoli, oltre a quella di Verona, sono da notare quella di Salorno, tra Bolzano e Trento, assunta sovente come confine fra il Trentino e l'Alto Adige, quella di Bressanone sull'Isarco, quella di Terlano a monte di Merano; esse circoscrivono dei territorî, ciascuno dei quali ha, in certo modo, una sua individualità. Altre chiuse strozzano in basso parecchie delle valli secondarie, che formarono perciò per lungo tempo cantoni segregati, nei quali tenacemente si conservarono peculiari costumanze, forme di abbigliamento tipiche, parlate locali (Val Gardena, Val Badia, Valle Aurina, ecc.).
Le accennate caratteristiche morfologiche sono, come è noto, in gran parte conseguenze del modellamento glaciale e del sollevamento postglaciale. Il glacialismo ha lasciato anche altre tracce cospicue: valli con fondo ampiamente escavato a U, favorevoli alle comunicazioni e all'insediamento, ma non esenti da residui acquitrinosi, oggi soggetti a bonifica; fianchi a pendii alternati di terrazzi, spesso in più serie sovrapposte; circhi con laghi, grandi apparati morenici, ecc. Anche i valichi più depressi (Resia, Brennero, Dobbiaco) sono stati modellati da ghiacciai transfluenti sui due versanti. I numerosi laghi, che formano una caratteristica e un'attrattiva del paesaggio della Venezia Tridentina, sono quasi tutti in relazione diretta o indiretta col glacialismo (laghi di circo, laghi di escavazione al termine della lingua ghiacciata, laghi intermorenici, ecc.); una statistica recentissima ne ha noverati 511. Tra essi il più vasto (prescindendo dal Garda), è il Lago di Caldonazzo (kmq. 5,38). Circa 250 sono ad altezza superiore ai 2000 m. e tre, nelle Alpi Venoste, superano i 3000 m.
A fenomeni postglaciali si riconducono le vaste conoidi di deiezione che formano una caratteristica di talune vallate (Val Venosta), i grandi accumuli detritici ai piedi delle pendici calcaree, dovuti a ripetuti scoscendimenti, come le Marocche in Val Sarca, gli Slavini di Marco, ecc., frane di vario tipo, alterazioni di spartiacque, piramidi di terra.
I ghiacciai attuali hanno notevole sviluppo nell'Ortles, nell'Adamello, nella Palla Bianca, nelle Venoste; altrove sono assai più limitati o si riducono a vedrette.
Per le caratteristiche idrografiche della Venezia Tridentina v. adige (e anche brenta, ecc.), e per altre notizie morfologiche le voci sulle singole vallate.
Clima. - Le condizioni climatiche sono molto varie, come avviene in tutte le regioni a grandi contrasti altimetrici e orografici. Tra i fattori di valore più generale si deve menzionare l'azione protettrice contro le influenze nordiche esercitata dall'arco montuoso principale, onde le temperature sono in genere più alte di quanto comporterebbe la latitudine; poi il fatto che i venti settentrionali sono in genere secchi, mentre l'umidità è apportata dai venti di sud e ciò, a pari altitudine, la piovosità diminuisce in genere da sud a nord e da est a ovest. Grande influenza ha l'esposizione: nelle valli orientate da ovest a est, profondo è spesso il contrasto tra il versante a solatio e quello a bacio; il primo è tuttavia di solito più esteso. La protezione dalle influenze nordiche e la concomitanza di un'ottima esposizione spiegano le temperature eccezionalmente miti anche d'inverno di alcune zone, come la Val d'Adige fra Bolzano e Merano, la conca di Bressanone, la Val di Sole, ecc.; sulla riva settentrionale del Garda si aggiunge, terzo fattore, l'influenza mitigatrice del lago. Meno favoriti sono naturalmente i tronchi di valle profondamente incassati tra pareti ripide e perciò poco visitati dal sole, come la Val d'Adige fra Mezzolombardo e Salorno: in queste valli è frequente d'inverno il fenomeno dell'inversione della temperatura. Nelle vallate settentrionali non sono rari, in primavera, venti di nord caldi e asciutti di tipo föhn.
Le più alte temperature medie annue si riscontrano naturalmente sul Garda (Arco, Riva: 12°,5-13°), a Merano, a Bolzano (i i°,5-i i°,7), nella sezione inferiore della Val d'Adige (Rovereto-Ala: 11°-11°,5). A Trento la media è di circa 11°, a Bressanone ancora 8°,7. Le più basse medie annue si hanno nell'alta Pusteria (Dobbiaco: 3°,5), ma qui siamo già a 1200 m. e più. La media del mese più freddo non scende sotto zero sul Garda e neppure a Bolzano e a Merano; è di pochi decimi sotto zero nella media Val d'Adige (Trento -1°) e nella conca di Bressanone, mentre nell'alta Pusteria scende a -6°, -7°. Le medie del mese più caldo salgono fino a 22°-23° nella media Val d'Adige (Trento 22°,1), nella Valsugana, nella Val d'Avisio, ecc., e superano i 22° a Bolzano, i 19° a Bressanone; mentre a Dobbiaco arrivano a 13°. L'escursione annua è perciò quasi dovunque assai notevole.
Differenze locali cospicue si hanno per la piovosità. La pioggia cade prevalentemente in estate (luglio-agosto) nell'Alto Adige, nel primo autunno (settembre-ottobre) in Trentino, dove un altro massimo secondario si ha in maggio. D'inverno piove poco e anche l'innevamento non è, nelle regioni basse, né molto cospicuo né durevole. L'Alto Adige orientale ha 800-1100 mm. di pioggia, che si riducono a circa 700 lungo l'asse principale (Bolzano, Bressanone) e diminuiscono ancora verso ovest: un cantone riparato nel fondo dell'alta Val Venosta non riceve che 500 mm. di pioggia annua, onde vi si è accantonata una sopravvivenza di vegetazione steppica interglaciale. Il Trentino riceve in genere precipitazioni maggiori perché più vicino all'Adriatico: i versanti rivolti a SE. delle Prealpi a est dell'Adige e quelli delle Dolomitiche hanno fino a 1600 mm. di pioggia: mentre nella Val Lagarina se ne hanno intorno a 1000, e più ad ovest, in Val Sarca e altrove, si scende anche verso 800.
Come si è già detto, la neve nelle zone basse non resta molto a lungo sul suolo, se non in condizioni particolari di esposizione o di protezione; invece un mantello nevoso copre da dicembre alla fine di marzo le regioni al disopra di 1000 metri: qui sono pertanto numerosi i centri di sport invernale.
Vegetazione. - La vegetazione della Venezia Tridentina presenta caratteristiche che riflettono soprattutto le condizioni litologiche, morfologiche e climatiche. Quanto alle prime, notevole è il contrasto fra la flora della grande zona granitica, che presenta forme comuni a quelle di tutta la cintura granitica alpina, e la flora della fascia calcareo-dolomitica, che è molto più ricca e offre un numero considerevole di specie endemiche o per lo meno reperibili solo in pochi altri cantoni delle Alpi Orientali. Nella flora dell'alta montagna si ha un numero non piccolo di specie rare. Le condizioni morfologiche, che determinano, come altrove si è detto, cantoni e bacini ben riparati, unitamente alle caratteristiche climatiche, spiegano la presenza di specie proprie delle regioni mediterranee sul Lago di Garda e anche sul Lago d'Idro, come l'olivo, l'erica arborea, la Gypsophila hispanica, e poi il cipresso, l'alloro, il rosmarino, il fico, il cappero, ecc., che si incontrano fino nelle conche di Bolzano e Merano. Per la vite e gli alberi da frutta, v. appresso: Agricoltura. A condizioni di clima (scarsezza di piogge) si devono pure le sopravvivenze di una flora steppica in alcuni fondovalle, e soprattutto nell'alta Val Venosta (Stipa pennata, St. capillata, Achillea sp., ecc.). Nei fondovalle si mescolano poi spesso a piante mediterranee od orientali piante proprie dell'alta montagna, discese dalle regioni più elevate. La flora insubrica è rappresentata da un numero notevole di specie.
Fauna. - La Venezia Tridentina aveva un tempo notevoli rappresentanti della grande fauna alpina. Tra essi il lupo, la lince e il gatto selvatico sono scomparsi, al pari del cervo, salvo forse qualche esemplare sporadico; l'orso sopravvive solo in un cantone dell'alta Val Sarca. Invece non rari sono ancora i camosci (al disopra di 1300 m. fin verso i 3000) e i caprioli. Tra i Rosicanti, assai ristretta ormai la marmotta, in passato oggetto di assidua caccia; frequente la lepre grigia, assai meno la bianca (sopra i 1000 m.). Frequente lo scoiattolo.
Quasi tutti gli uccelli stanziali di alta montagna s'incontrano: rari ormai i Rapaci, numerosi i Tetraonidi, tra i quali il gallo cedrone e il francolino. Parecchie specie nordiche stanziano poi di qua dalle Alpi nell'inverno. I Rettili e gli Anfibî non mostrano caratteristiche speciali: la vipera risale a nord fino alla Val Venosta e alla Pusteria; caratteristici la salamandra nera e il tritone alpestre (Molge alpestris).
Tra i Pesci, molto diffuse nei fiumi e nei laghi, varie specie di salmonidi e di trote; il ripopolamento delle acque è oggi molto curato.
Per il lago di Garda v. a questa voce.
Popolazione. Dati demografici. Movimento della popolazione. Densità. - La popolazione presente della Venezia Tridentina, secondo le circoscrizioni attuali, era alla data del 21 aprile 1931 di 660.137 abitanti e al 21 aprile 1936 di 662.504 abitanti, ripartiti fra le due provincie di Bolzano e Trento, nel modo che risulta dalla tabella a piede di questa pagina, nella quale sono, per confronto, esposti i dati di sei censimenti precedenti.
Da questi dati risulta che in tutta la regione la popolazione nel periodo 1869-1931 è stata complessivamente in aumento, ma con ritmo molto diverso: il minimo aumento si è avuto nel decennio 1880-1890, il massimo nel decennio 1900-1910. La provincia di Trento, considerata separatamente, presenta invece due periodi di diminuzione, il decennio 1880-90 e il decennio 1921-31. Facendo uguale a 100 la popolazione al 1869, quella al 1931 risulta di 124 per tutta la regione, di 149 per la provincia di Bolzano, di 111 per la provincia di Trento. I massimi aumenti furono accusati dalla conca di Merano, la cui popolazione è poco meno che triplicata tra il 1869 e il 1931, dalla regione bassa intorno a Bolzano, dalla conca di Bressanone, dal basso Sarca, dalla Val d'Adige a sud di Salorno. Nella provincia di Bolzano non vi furono zone con diminuzione di popolazione, se si eccettuino alcuni cantoni elevati di scarsa importanza (altipiani di Avelengo e Verano): la diminuzione dimostrata dalla Val Venosta nel sec. XIX si è arrestata dopo il 1900. Nella provincia di Trento, invece, diminuzione di popolazione si è avuta in Val Rendena, nel Vezzanese, in Val dei Mocheni, nelle valli del Vanoi, dell'alto Cismon, nella conca di Tesino e in qualche altro cantone, in genere dei più montuosi. Veri e proprî fenomeni di spopolamento montano, peraltro senza caratteri di gravità, sono segnalati in alcuni comuni circostanti al gruppo di Brenta, nel bacino del Leno, nei Mocheni, in qualche comune di Val Badia e dall'alta Venosta. Ma casi più gravi di sviluppo demografico negativo si ebbero anteriormente al 1869, come dimostra un'indagine recente: probabilmente anche in passato si alternarono periodi d'incremento notevole con altri di stasi o diminuzione, specie in talune zone.
Il diverso comportamento delle due provincie dal punto di vista dell'incremento demografico, dipende soprattutto dalle condizioni profondamente diverse nei riguardi dell'emigrazione. Il Trentino è un paese nel quale l'emigrazione è abitudine antica: masse di lavoratori da tempo remoto si recavano in autunno nella Pianura Padana, ritornando in primavera; altri si assentavano per un tempo più lungo recandosi a lavorare come braccianti, operai, domestici, nel Veneto, in Lombardia, in Austria, ecc. Ma, quando il Trentino nel 1866 rimase avulso dal Veneto e dalla Lombardia, si determinò una grave crisi economica, che provocò intense correnti di emigrazione permanente, diretta dapprima prevalentemente nell'Argentina e nel Brasile, poi negli Stati Uniti: inoltre in Austria, in Svizzera, in Germania. Questa emigrazione permanente si è attenuata solo verso il 1900, perdurando tuttavia, in alcuni cantoni montani, fino alla guerra mondiale. Invece l'Alto Adige era, prima della guerra, teatro d'immigrazione, dal Trentino e da altre regioni: tra il 1900 e il 1910 immigrarono quasi 12.000 persone. L'emigrazione permanente era modestissima e anche quella temporanea era - eccezione assai notevole per un paese alpino - assai limitata.
Dopo la guerra mondiale, riunita la Venezia Tridentina all'Italia, la corrente migratoria verso l'estero si è considerevolmente contratta e oggi non sottrae più che aliquote modeste della popolazione: nel 1924 ancora circa 9000 persone (tra emigrazione per paesi europei e transoceanici), negli anni seguenti intorno a 5000, nel 1928 poco più di 2600. Le statistiche degli anni successivi distinguono gli emigranti lavoratori dai non lavoratori, i quali ultimi sono quasi tutti emigranti temporanei: i primi erano poco più di 4000 nel 1931, poco più di 2000 nel 1932, appena 1775 nel 1934. Ridotta in tal modo la corrente migratoria, i provvedimenti presi per attenuare le cause dello spopolamento montano e per favorire lo sviluppo della natalità e le famiglie numerose porteranno d'altra parte indubbiamente i loro frutti in un prossimo avvenire, nel senso di eliminare il movimento demografico negativo, dove esso ancora sussiste, e di accrescere il ritmo dell'incremento della popolazione.
La densità media della popolazione era (1931) di 48 abitanti per kmq. per l'intera Venezia Tridentina, di 59 per la provincia di Trento, di 38 per quella di Bolzano; ragguagliata alla sola superficie produttiva i valori corrispondenti sono 55, 68 e 44.
Ma tali valori medî hanno scarso significato, perché, come avviene di solito nelle regioni montuose, i contrasti tra le varie parti sono molto profondi, come si rileva subito dall'annessa carta, costruita prendendo a base le aree comunali. Tale carta non porge tuttavia che un quadro approssimativo, perché in seno a uno stesso comune la stratificazione non è affatto uniforme: all'opposto, in moltissimi comuni che si estendono dal fondovalle alle limitrofe creste montane, si verifica che la densità è altissima in basso, mentre le aree elevate sono pochissimo popolate o del tutto deserte.
In ogni modo si rivela a primo aspetto dalla carta l'influenza di taluni fattori orografici e morfologici e innanzi tutto quello dell'altezza. Tutta la zona propriamente montana, comprese alcune valli alpestri (Val di Genova, Val di Daone, Val d'Ultimo, Sarentina, Valle Aurina, Val Badia e Marebbe) hanno densità inferiori a 25 ab. per kmq.: cinque comuni scendono sotto i 10 (Braies, Martello, Moso, Senales e Val di Vizze), tutti e cinque, salvo Moso, aventi il capoluogo sopra i 1200 m. Le aree sopra i 1500 m. sono, salvo poche eccezioni, del tutto disabitate: vi sono una trentina di centri sopra i 1500 m., tutti piccolissimi e solo tre o quattro sopra i 1800 m. Il più alto di tutti, S. Martino di Monteneve (2355 m.) probabilmente il più elevato villaggio di tutta la regione alpina, che noverava 139 ab. nel 1931, è ora abbandonato. La popolazione si raccoglie per contro nelle maggiori vallate: la carta della densità mette di per sé stessa in vista l'asse principale della Val d'Adige, con le Valli di Sole e di Non, la valle del Brenta, la valle dell'Isarco; più densamente popolate sono anche, relativamente alle aree elevate circostanti, la Val Venosta e la Pusteria, ma entrambe, situate a un'altezza media più notevole e meno favorite per il clima, restano al disotto delle altre valli precedentemente ricordate. I due grandi solchi, che a est e a ovest di Trento dànno passaggio alla pianura padana, sono pure zone di densità assai elevata, mentre la valle principale dell'Adige presso la Chiusa di Verona è meno popolata. E un attento esame della carta permette di riconoscere altri punti a densità relativamente bassa, corrispondenti ad alcune altre "chiuse" sopra menzionate (Chiusa di Bressanone). I valori massimi di densità sono dimostrati da talune ampie conche particolarmente favorite, quelle di Rovereto, Trento, Bolzano, Merano, Bressanone; inoltre dalla soleggiata e aperta Anaunia, e dalle rive del Garda. Anche le conche di Vipiteno e Brunico risaltano bene sulla carta. I valori più alti di densità sono dati dai comuni di Bolzano (779), Merano-Avelengo (575), Rovereto (408) e Trento (372).
La popolazione della Venezia Tridentina è in grande maggioranza italiana per origine, lingua, caratteristiche etniche e culturali. In seguito all'espansione romana, tutta la regione fu latinizzata anche nelle valli più remote, come è provato dalla sopravvivenza, fino ai nostri giorni, delle parlate ladine, che sono vere e proprie varietà dialettali italiane e che oggi permangono, ad occidente nella Val Monastero, svizzera, mentre nell'alta Venosta si sono spente in epoca recente, e a oriente nelle valli di Gardena, Badia, Marebbe e nell'alta Val di Fassa; esse sono manifesti residui di una stratificazione ben più estesa. Nel Medioevo la penetrazione dell'elemento tedesco nell'alto bacino atesino fu resa possibile dalla presenza delle tre grandi porte segnate dai passi di Resia, del Brennero e di Dobbiaco, immettenti nei solchi vallivi principali dell'Isarco e dell'Adige; per esse discesa, si attenuò a mano a mano che procedeva verso sud e rifluì non senza contrasti verso le minori valli laterali: fu arrestata nettamente nel solco principale alla stretta di Salorno, oltre la quale non si ebbero che infiltrazioni insignificanti (Mocheni di Val Fersina). Anche a monte di quella stretta rimasero aree bilingui. L'ultimo censimento austriaco (1910) registrava poco più di un terzo (38%) di tedeschi in tutta la regione; il primo italiano del 1921 ne registrava il 31% (meno di 205.000). I successivi censimenti non hanno più noverato separatamente gli alloglotti; ma il loro numero è certamente diminuito, e soprattutto si è accresciuto notevolissimamente il numero di coloro, che, pur mantenendo come lingua familiare il tedesco, non solo tollerato, ma rigorosamente rispettato, usano abitualmente l'italiano nei rapporti esterni.
L' analfabetismo è pressoché sconosciuto nella Venezia Tridentina (poco più di 1,5% di analfabeti sopra i sei anni).
Popolazione sparsa e accentrata. Villaggi e centri maggiori. - Secondo i dati ufficiali, nel 1931 circa il 77,5% della popolazione della Venezia Tridentina viveva in centri, il 22,5% in case sparse, e i centri erano in numero di 1139. Ma tale distinzione presenta non poche incertezze, sia perché vi sono molti centri piccolissimi (258 avevano meno di 100 ab.), sia perché nelle valli altoatesine sono frequenti i villaggi sparsi, costituiti cioè da parecchi piccoli aggregati separati gli uni dagli altri. Questo modo di abitare si ritiene d'importazione transalpina. Non vi erano nel 1931 che 27 centri con più di 2000 ab. e di questi appena 6 superavano i 5000 e 4 i 10.000.
Riguardo alla situazione, si nota una prevalenza assoluta dei centri di fondovalle (più spesso marginali che centrali) nelle valli maggiori, e dei centri di terrazzo (orografico o anche alluvionale); frequenti anche i centri di conca, di conoide, di pendio. L'esposizione al sole ha nella postura dei centri una grande influenza.
Rispetto all'altimetria, si avevano nel 1931: al disotto di 200 m 65 centri con 65.672 ab.; tra 200 e 500 m., 206 centri (183.027 ab.); tra 500 e 1000 m., 565 centri (190.545 ab.); tra 1000 e 1500 m., 264 centri (57.738 ab.), sopra i 1500 m., 36 centri (3859 ab.).
Lungo il solco principale si trovano quattro delle città principali: Trento (35.225 ab. nel centro e 56.760 nel comune), nella conca dove sboccano nella valle dell'Adige le due già ricordate comunicazioni laterali segnate dalle valli del Sarca e del Brenta; Rovereto (11.602 e 20.568 ab.) più a sud, in una conca ben soleggiata, allo sbocco della valle del Leno; Bolzano (25.647 e 40.759 abitanti), presso alla convergenza dei due solchi dell'Adige e dell'Isarco, e Bressanone (7668 e 10.576 ab.) in un'altra conca riparata, dove l'Isarco è raggiunto dalla Rienza. Un'altra delle maggiori città, anzi la terza per popolazione, è Merano (26.761 e 30.349). Si ricordino ancora Riva (6334 ab. nel centro) sul Garda e Arco (3774 ab. nel centro) nella piana a nord del lago, Pergine (3838 ab.), Levico (3969 ab.) e Borgo (3957 ab.) in Valsugana, Brunico (3459 ab.) in Pusteria. Vedi per ciascuna alle singole voci.
Agricoltura, allevamento, miniere. - Fondamenti dell'economia per la Venezia Tridentina sono l'agricoltura, la utilizzazione del bosco e quella dei pascoli montani: lo sfruttamento del sottosuolo ha importanza modesia, l'attività industriale, se si eccettuino alcune tradizionali forme domestiche, si è sviluppata solo in epoca recente, al pari dell'industria del forestiero, che è una fonte di lucro ogni anno più cospicua.
La ripartizione dei terreni secondo la loro utilizzazione è dimostrata dalla tabella a pag. 89.
In questa tabella colpisce anzitutto l'alta percentuale dell'area boscata, per la quale la Venezia Tridentina non è superata che dalla Liguria, anzi è assolutamente al primo posto se si considera il vero bosco (senza il castagneto, meno di 2000 ha. nella Venezia Tridentina); e in secondo luogo l'estensione considerevolissima dei pascoli montani, rispetto ai seminativi, ai prati permanenti e alle colture legnose. Tra le due provincie vi sono poi notevoli differenze, essendo nella provincia di Bolzano più largamente rappresentato il pascolo montano, in quella di Trento il bosco.
Per quanto concerne i boschi, prevalgono (56%) le conifere (abete bianco e rosso, larice e cembro), soprattutto nell'Alto Adige, mentre i latifogli (faggio, quercia, betulla, frassino) sono più diffusi nel Trentino. L'industria del legname è perciò una di quelle tradizionali: non c'è valllata che non abbia segherie, per le quali l'acqua offre abbondante forza motrice; assai numerose sono anche le fabbriche di mobili (Bolzano, Trento, Brunico, Bressanone, Predazzo, Pedres in Badia, Tione, Pergine, ecc.); e degna di speciale ricordo la fabbricazione di statue e arredi di legno, e di giocattoli in Val Gardena (v.). L'utilizzazione del legname per carbone non ha invece più l'importanza che aveva un tempo.
Tra le colture cerealicole le più estese sono quelle del grano, del mais, della segale. Il grano occupa un'area superiore a 13.000 ettari (1929) e, con un rendimento medio di 14-15 quintali, dà 180-190.000 quintali annui, per tre quarti nella provincia di Trento; nelle zone più elevate tendeva, per il passato, a contrarsi. La segale occupa un'area presso a poco uguale, ma è per quattro quinti compresa nella provincia di Bolzano, dove arriva talora a 1300-1400 m.; la produzione è lievemente inferiore a quella del grano. Il mais, con circa 11.000 ettari e 200.000 quintali annui, viene terzo, ed è quasi esclusivamente limitato al Trentino. Orzo e avena hanno importanza assai minore. Coltura di notevole rilievo come integrante dei cereali è quella della patata (15.000 ha., per oltre due terzi nel Trentino); si vengono estendendo gli ortaggi (cavoli, fagioli; nel Trentino anche cipolle, pomodori, sedani, ecc.). Tra le colture legnose primeggia la vite (a coltura specializzata; nel Trentino anche promiscua), che nelle pendici sdraiate e ben soleggiate risale fino a 700-800 m., occupa larghi spazî ancora sui margini della conca di Bressanone, si affaccia alla Val di Sole fino a Dimaro, in Val di Fiemme fino a Carano. I vini più pregiati sono quelli della conca di Merano (Terlano), del Bolzanino, di Caldaro, i "vini santi" del Trentino, ecc.; si ottengono anche buone uve da tavola.
La frutticoltura ha grandissima importanza nelle conche di Merano e di Bolzano, nella zona di Caldaro; inoltre in Val di Sole, nella bassa Val di Non, in Valsugana, ecc.: si producono mele (circa 300.000 quint.; terzo posto dopo Piemonte e Campania), pere e cotogne, susine, pesche, albicocche, che dànno luogo a una notevole esportazione e alimentano la fiorente industria delle marmellate e delle conserve (Bolzano, Lana presso Merano, Brunico, ecc.).
La produzione delle piante foraggere, a causa della grande estensione dei prati e dei pascoli, è assai importante: nella media del quinquennio 1923-1928 essa raggiunse la cifra cospicua di quattro milioni e mezzo di quintali (fieno normale).
La consistenza del patrimonio zootecnico (v. specchietto che segue, relativo al censimento 1930), è modesta, a paragone di molti altri compartimenti del regno, e ciò malgrado che le aree a pascolo siano molto estese. Ma è da osservare che la maggior parte di esse è data dai pascoli montani estivi, mentre i prati utilizzabili d'inverno sono poco sviluppati. E perciò, quando la regione era unita al Lombardo-Veneto, una parte dei greggi svernava nella Pianura Padana; pratica che venne a cessare dopo il 1866 ed ora soltanto può essere ripresa. Gli ovini si sono particolarmente ridotti: alla metà del secolo XIX erano forse in numero cinque volte maggiore.
Tuttavia, per quanto riguarda i bovini, vi sono nell'Alto Adige talune razze pregiate per carne (Pusteria), per lavoro e latte (Val d'Adige). Ma la produzione del burro e del formaggio - che si fa nelle malghe di alta montagna, spesso ancora attrezzate in modo arretrato - non ha una importanza pari a quella di altre regioni delle Alpi Orientali, come la Carnia o il Cadore: i formaggi si usano largamente per consumo locale, ma non si esportano che in misura limitatissima. Si allevano cavalli anche per uso militare; in alcune valli dell'Alto Adige è diffuso l'allevamento del maiale (Sarentina, Passiria). Altrove si sperimenta ora l'allevamento di animali da pelliccia (visone, volpe argentata). Nel Trentino è tradizionale la coltura del gelso e con essa l'allevamento del baco da seta: molte aree a gelso erano state, per vero, dopo il 1866 sostituite da vigneti, ma una ripresa si era avuta in seguito alla riunione all'Italia della Venezia Tridentina: di fatto dal 1919 al 1927 la produzione dei bozzoli si era più che raddoppiata (circa 7000 quintali nel 1919, 15.300 nel 1927); in seguito alla crisi dell'industria serica, è nuovamente scesa a 7-8000 quintali (7950 nel 1933; 6750 nel 1934). Trento è sede di un importante istituto bacologico.
La Venezia Tridentina ha notevole quantità e varietà di giacimenti minerarî degni di rilievo: ma pochi tra essi così ricchi ed estesi da consentire, in tempi normali, uno sfruttamento durevole e vantaggioso. Nelle montagne che circondano la conca di Vipiteno si trovano minerali di zinco, piombo, rame e ferro: fino al 1931 era in attività la miniera di zinco di S. Martino di Monteneve a oltre 2300 m. di altezza. Minerali di rame e volframio si trovano in Val di Fiemme; minerali di rame anche a Canal S. Bovo, a Mezzavalle, nella valle dei Mocheni; galena argentifera sul Calisio e presso Primiero; pirite di ferro a Comasina (Val di Sole) e a Calceranica; pirite cuprifera presso Pergine; piombo a Bosentino in Valsugana; barite sul Calisio, e a Storo; fluorite a Corvara di Val Sarentina; scisti bituminosi a Cirò presso Taio. L'utilizzazione di questi giacimenti fu spesso in passato intermittente: dal 1934 l'industria mineraria si va meglio organizzando: parecchie miniere si riaprono, specie in Val di Fiemme e in Val d'Adige. Notevole è la produzione delle cave (circa 200): a Lasa e a Morter si scavano magnifici marmi bianchi e colorati; granito e porfidi in più luoghi. Numerose le fabbriche di cemento.
Una ricchezza degna di particolare menzione è costituita dalle acque minerali. Di larghissima fama sono quelle di Levico, Roncegno e Vetriolo (arsenicali), di Peio e Rabbi (ferrugginose), di Comano (alcalino-bromo-iodiche); frequentissime sono le sorgenti in Pusteria e valli confluenti, dove gli stabilimenti di bagni sono numerosi e frequentati. Recente è la scoperta di acque fortemente radioattive presso Merano.
Industrie, commercio e vie di comunicazione. - Tra le industrie - prescindendo da quelle minerarie, da quelle del legname e da quelle fondate sull'allevamento, tutte già ricordate - vengono in prima linea quelle chimiche, sviluppatesi quasi unicamente nel dopoguerra: alluminio (stabilimenti a Mori e Bolzano), azoto sintetico (Sinigo presso Merano, il più importante d'Italia), acido solforico e nitrico, nitrato di ammonio e di calcio, solfato ammonico, ecc. Il setificio, un tempo fiorente, sopravvive a Rovereto; il lanificio ha qualche importanza a Brunico (tessuti tipo loden), a Rovereto, ecc. A Sacco presso Rovereto ha sede una manifattura di tabacchi, a Foresta presso Merano un'importante fabbrica di birra e altre minori altrove.
Nelle valli più alpestri si conservano piccole industrie domestiche, spesso assai antiche e caratteristiche per il buon gusto (oggetti di legno; ferro battuto; filigrane di argento; merletti, ecc.).
Un più vivace impulso delle industrie si manifesta dal 1935; a Bolzano si va costituendo un grande centro industriale. Elemento di grande importanza è la ricca disponibilità di forze idriche: la potenza installata raggiungeva i 520.000 kW nel 1934. La centrale idroelettrica di Cardano sull'Isarco (182.970 kW) è la più potente d'Italia: seguono quelle del Ponale, di Cògolo presso Peio, quella di Marlengo, quelle sul Sarca e sul Noce, quelle di Marco, Pozzolago, Tel, ecc. Gran parte dell'energia prodotta viene esportata con linee ad altissima tensione di ardita costruzione.
Importantissima l'industria del forestiero, che ha assunto negli ultimi anni uno sviluppo imponente, favorita dalla sempre migliore attrezzatura di molte località, famose per il soggiorno estivo per i diporti invernali; alcune di esse (Merano, Dobbiaco, Colle Isarco, Ortisei, Madonna di Campiglio, Riva sul Garda, ecc.) hanno fama mondiale.
Il censimento del 1927 ha rilevato, in confronto a 13.649 esercizi industriali con 54.215 addetti, 13.319 esercizî commerciali con 31.316 addetti. Centri commerciali importanti sono Trento, Bolzano, Merano; inoltre Rovereto, Bressanone, Brunico, Riva e qualche altra località. Fiere annue di prodotti agricoli, di bestiame, ecc., si hanno anche in molti centri minori. Organi importanti del commercio sono anche le cooperative - cantine e latterie sociali, cooperative di economia alpestre, di frutticoltori, ecc. Le relazioni commerciali col Veneto e con la Lombardia, che in molti casi riprendevano, dopo la guerra mondiale, una tradizione interrotta da mezzo secolo, si vanno intensificando.
La rete stradale è in generale ottima; le grandi vallate dell'Adige, dell'Isarco, della Rienza con le valli laterali del Sarca e del Brenta, ne indicano le direttrici principali: ma tutte le valli minori sono oggi risalite da strade, e numerosi valichi permettono il passaggio da una valle alle contigue, caratteristica notevole, che giova soprattutto al movimento turistico estivo. Transiti d'importanza internazionale sono quelli di Resia, del Brennero e di Dobbiaco; tra le grandi strade statali frequentatissime, quella del Brennero, quella dello Stelvio, quella di Alemagna e la "strada delle Dolomiti" celebre per la magnificenza dei paesaggi. Nel 1935 vi erano 1067 km. di servizî automobilistici normali e 2571 km. di servizî di gran turismo estivi. La rete ferroviaria conta 525 km. di linee statali e 120 km. di linee private. Due ferrovie hanno importanza per il transito internazionale: quella del Brennero, elettrificata (Verona-Innsbruck- Monaco) e quella di Dobbiaco (Merano-Vienna); alle comunicazioni con Venezia serve anche la ferrovia della Valsugana (Trento-Venezia). Altre ferrovie servono al traffico di singole vallate o al movimento turistico. Tra queste ultime la Dobbiaco-Calalzo, la Chiusa-Plan (ferrovia della Val Gardena), la Ora-Predazzo, la Bolzano-Mendola, la Rovereto-Riva.
L'accesso dei turisti in alte zone di montagna è agevolato anche da teleferiche, che si vanno moltiplicando.
Bibl.: Manca una monografia geografica completa e recente sull'intera regione; ineguale nelle sue parti è il volume di G. Poli, Venezia Tridentina, Torino 1927; molto buono il cenno generale premesso al volume Venezia Tridentina della Guida d'Italia del T. C. I. (1932).
Per gli scritti particolari più recenti vedi: E. Migliorini, Bibliogr. geografica della Venezia Tridentina, in Boll. della Soc. geogr. ital., 1930 (350 numeri per il periodo 1925-30; la bibliografia continua nelle annate degli Studi trentini).
Per la geologia: R. v. Klebesberg, Geol. von Tirol, Berlino 1935. Per la flora: K. W. v. Dalla Torre e L. v. Sarnthein., Flora v. Tirol, Voralberg und Liechtenstein, voll. 6, Innsbruck 1900-13. Si possono consultare poi, per singoli argomenti: G. Morandini, Considerazioni generali sulla distribuzione dei laghi nella Venezia Tridentina, in Boll. di pesca, piscicultura, ecc., 1933; F. Sacco, Il glacialismo atesino, in L'Universo, 1935 (con bibl. e carte); A. R. Toniolo, Il Tirolo unità geografica?, Firenze 1921; id., Fattori geogr. e storici dell'insediamento umano nella Venezia Tridentina, Trento 1925; Ist. Naz. di Economia Agraria, Lo spopolamento montano in Italia, III: Le Alpi Trentine: vol. I, Provincia di Bolzano; vol. II, Prov. di Trento, Roma 1935 (nel vol. I anche dati generali su tutta la regione); Comitato per l'Ingegneria del Cons. Naz. delle ricerche, L'attività svolta dallo stato italiano per le opere pubbliche della regione tridentina restituita alla patria, Venezia 1930; A. Lorenzi, Dizionario toponomastico tridentino (a puntate nell'Archivio per l'Alto Adige, terminate nel 1932). V. poi la bibl. speciale nelle voci alto adige; trentino; trento.
Venezia Giulia. - La Venezia Giulia (A. T., 17-18-19; 24-25-26) è regione storica dell'Italia continentale, compresa tra la frontiera iugoslava, il Quarnerolo, l'Adriatico e il confine orientale della provincia di Udine (Friuli). Rappresenta in sostanza il territorio orientale liberato per effetto della guerra mondiale e degli avvenimenti che le tennero immediatamente dietro (Marcia di Ronchi; Reggenza del Carnaro), e ha perciò avuto la sua delimitazione internazionale solo dopo l'accordo di Roma del 27 gennaio 1924. Anche più recente è la sistemazione amministrativa nelle attuali quattro provincie di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, delle quali la prima creata il 2 gennaio 1927, a spese di quella del Friuli, in cui era stata fino ad allora compresa.
Importa non dimenticare il carattere artificiale di buona parte di questi limiti, tanto nella zona che guarda alla Iugoslavia, a S. di Idria, quanto fra le finitime provincie di Udine e Gorizia, dove il confine amministrativo ricalca per lo più (eccezion fatta cioè per l'ex-circondario di Cervignano, passato dalla seconda alla prima) quello fissato dopo la guerra del 1866, smembrante in due, a tutto vantaggio dell'Austria, l'unità regionale del Friuli. Non senza ragione i limiti attuali della Venezia Giulia non coincidono a rigore cen nessuna delle unità storiche realizzate, dopo la conquista romana, in questo lembo orientale della penisola; l'unica partizione che, caso mai, possa essere avvicinata all'odierna, è quella dei quattro , "circoli" di Gorizia, Trieste, Adelsberg e Fiume, ch'ebbe vita tra il 1813 e il 1822, per quanto i territorî assegnati ad ognuno dei circoli stessi non trovino rispondenza nelle provincie italiane. Anche il nome della regione è moderno - fu proposto da Graziadio Ascoli nel 1863 - e si riconnette a un precedente romano che aveva in origine significato orografico (indicante cioè l'estrema sezione orientale delle Alpi), non regionale. Solo con Plinio il Vecchio si cominciano a chiamare Iulienses gli abitanti di una parte di questo settore, nel quale però il nome Giulio ricorre in più luoghi (Forum Iulii = Cividale, Iulium Carnicum = Zuglio, Pietas Iulia = Pola, Iulia Parentium = Parenzo), sì che in periodo umanistico con l'espressione Regio Iulia si allude, insieme con il Friuli, all'Istria e alla Liburnia. La lunga dominazione austriaca ha indubbiamente contribuito a ottundere, nella coscienza popolare, così il significato della tradizione, come il riconoscimento di un'unità geografica che si andava dissolvendo anche quale conseguenza della favorita immigrazione delle genti slave. N'è risultato che relativamente pochi sono oggi, nel territorio giulio, i nomi regionali, quando si prescinda dal Friuli, massime dal Friuli occidentale, dove invece alcuni di questi han potuto mantenersi con spontanea persistenza e soprattutto con ben chiara accezione (per es., quello di Carnia). Per il resto, invece, si hanno toponimi di estensione indecisa e di sapore piuttosto erudito (per es., Istria Bianca, Grigia e Rossa, o Istria Montana, o Carsia Giulia), o riferiti a sfere d'influenza, per lo più amministrativa, di singoli centri abitati (quali Carso Idriota, Goriziano, Tergestino, ecc.). Maggiore evidenza e più largo riconoscimento hanno forse i nomi Collio - per l'area collinare compresa fra Prepotto, Cormons e Gorizia - Cicceria - come zona a caratteri etnici abbastanza ben individuati, nell'Istria montana, - Istria - come penisola, - Carnaro o Liburnia - quali lembi gravitanti su Fiume. È tuttavia da notare che queste ultime due regioni, mentre non coincidono esattamente l'una con l'altra, sono state delimitate in vario modo verso oriente, dove, quali che siano i criterî geografici da cui si parte nel tracciare il confine, è fuori dubbio che quello odierno non può avere se non un significato meramente convenzionale. L'estremo tratto di SE. di questa frontiera è stato sempre molto discusso; sembra però difficile contestare, quando si porti la discussione sul terreno geografico, che i limiti naturali d'Italia vadano qui spostati d'assai oltre gli odierni, almeno fino ad una linea che dal Nevoso per il Risniak ed il Bitorai scenda al mare a N. di Segna, includendo il Vinodol in territorio italiano. A semplice convenienza pratica è infine da ascrivere la riunione, nel compartimento, della provincia dalmata di Zara, con la sua appendice insulare del gruppo di Lagosta.
Prescindendo dal gruppo insulare di Lagosta, la Venezia Giulia ha, nei suoi limiti amministrativi, una superficie di appena 8843 kmil., è cioè il più piccolo dei compartimenti italiani dopo la Liguria l'Umbria, alla quale ultima, anzi, resta addietro qualora si tolgano dal computo le isole, che rappresentano poco meno del 6% del suo territorio.
Comprendendo invece nella Venezia Giulia tutto il Friuli, cioè aggregandole la provincia di Udine, il compartimento raggiungerebbe un'estensione (16 mila kmq.) di poco inferiore a quella che cosi verrebbe attribuita al Veneto proprio. In questo caso la penisola istriana costituirebbe 1/4 all'incirca della regione, mentre ne rappresenta da sola poco meno della metà nei limiti convenzionali delle pubblicazioni statistiche, anche qui adottati.
Morfologia. - L'individualità della Regione Giulia, non pure nel ristretto dominio delle Venezie, ma nel complesso dei territorî del regno, è determinata in definitiva dall'estensione e dall'importanza che vi assume il carsismo, con alcune, se non proprio con tutte le sue forme tipiche (doline, polje, campi carsici, grotte, queste ultime in numero di oltre 3 mila; v. carsici, fenomeni). Lembi propriamente alpini non si hanno se non nella parte nord-orientale della provincia di Gorizia, nella quale si continua il largo gomito orografico disegnato verso SE. dalle Giulie. Per altro, già in questo più elevato e massiccio settore montano, è chiaro il distacco morfologico dalle vicine Carniche: le potenti pile di calcari triassici che lo costituiscono sono sormontate qua e là da creste e cime (più elevata di tutte quella del Tricorno, m. 2863, sulla frontiera) che corris pondono non di rado a banchi dolomitici (Mangart m. 2678), ma più spesso ancora si estollono in ripiani profondamente solcati dal copioso deflusso delle acque meteoriche, con largo sviluppo di cavità carsiche, che riducono notevolmente la densità del reticolo idrografico superficiale. Costituzione in sostanza non dissimile ha l'esile striscia prealpina che si stende sulla destra dell'Isonzo, con anzi maggior proporzione di masse calcaree, alle quali è dovuto, come per il settore precedente, il carattere di accentuata asprezza che il rilievo assume anche dove le quote altimetriche si mantengono relativamente modeste. Ma il vero e proprio Carso ha inizio oltre il solco segnato dall'Idria, a S. del quale dilata con livelli diversi, così verso il seno tergestino e la Penisola Istriana, come lungo l'asse orografico delle Giulie, che qui saldano l'arco alpino al grande bastione calcareo delle Dinaridi. Si cadrebbe in errore, tuttavia, immaginando, nel dominio carsico, uniformità e monotonia di paesaggio. Le zolle che lo costituiscono, digradando a ripiani da N. verso S., fanno posto, tra l'uno e l'altro livello, a fasce depresse argilloso-arenacee, e anche a serie di colline scistoso-arenacee, mentre vengono poi frammentate da solchi profondi, i così detti "valloni", che rappresentano la preesistente organizzazione idrografica, abbandonata per il successivo prevalere del ciclo carsico. Questo, avendo in definitiva più conservato che distrutto le superficie sottostanti all'abraso mantello arenaceo-marnoso, ne mette in luce, localmente, il diverso grado di evoluzione raggiunto nello stadio morfologico anteriore all'attuale. In linea di massima, tuttavia, le differenze maggiori si riportano o alle condizioni altimetriche complessive dei singoli gradini, o alla più o meno intensa trasformazione operata dall'uomo sul tegumento vegetale, o, più ancora, all'alternarsi che si è detto di terreni meno permeabili in seno ai banchi prettamente calcarei. Sotto questo riguardo la Venezia Giulia risulta compartita in tre grandi distretti carsici, allineati da NO. a SE. e perciò paralleli, grosso modo, all'asse orografico delle Giulie; separati l'uno dall'altro da due strisce di depositi arenaceo-marnosi, che si orientano nello stesso senso e si vanno come i primi riducendo di lunghezza procedendo verso il mare. Oltre il medio Isonzo s'allarga prima il breve altipiano della Bainsizza, superiore in media ai 500 m., e ormai spoglio d'alberi, che il breve solco di Chiapovano isola dalla più ampia Selva di Tarnova, elevata oltre i 1000 m. e ricoperta da boschi di faggi e d'abeti. Tra le alte valli del Vipacco e dell'Idria questa zona si continua nell'altipiano della Selva di Piro, che si mantiene tra i 700 e i 900 m., per rialzarsi verso SO. fino a 1299 m. col M. Re e, più oltre, tra il Timavo Superiore e il confine, con quello della Piuca o della Recca, chiuso a SE. dal potente baluardo del Nevoso (metri 1796). Da Gorizia a Fiume l'orlo meridionale di questa fascia sovrasta una lunga depressione tettonica, colmata da deposizioni eoceniche, tra le quali e le rughe delle assise cretaciche che racchiudono, s'interpongono i tipici calcari bituminosi e lignitiferi del Liburnico. Tutto il settore stacca, per la morbida ondulazione del paesaggio, per la sua ben definita idrografia superficiale (Vipacco, Piuca, Timavo Superiore), e soprattutto per il vigore e la varietà delle colture introdotte dall'uomo, così dalle macchie che ammantano le più elevate chiostre montane, come dalle nude e arsicce pietraie che la interrompono in corrispondenza alle larghe plaghe dell'altipiano carsico. Il carattere di questo torna a mostrarsi con anche maggiore evidenza nel settore goriziano e triestino, continuandosi anzi addirittura fino al basso Isonzo (il Carso monfalconese, di epica memoria), mentre verso SE., nella cosiddetta Istria Bianca, le rughe si accentuano fino a prender figura e consistenza di cimali montuosi, e questi si sollevano in più luoghi oltre i 1000 m., culminando a 1396 m. nel M. Maggiore, a poca distanza dal Canale di Farasina. Qui mette capo, tra Albona e la P. Nera, la seconda grande depressione tettonica, che attraversa l'Istria fino al Golfo di Trieste: dove i terreni che la colmarono non corrispondono ai piani inferiori, calcarei anch'essi, dell'Eocene, il paesaggio si fa prevalentemente collinare, a pendii dolci, con larghi sviluppi di valli e vallecole di erosione, e così rivestito di vegetazione, da meritare, in contrapposto con la precedente, il nome d'Istria Verde. Per contro Istria Rossa vien detto tutto il rimanente lembo meridionale della penisola, nel quale il debole rilievo (in media 200 m.) ha consentito che il residuo ferruginoso della degradazione del calcare si conservasse in situ, costituendo sui banchi cretacici un velo di fertile terriccio rossastro.
Nel complesso le altezze vanno, su ognuno di questi gradini, crescendo verso SE., e nello stesso senso aumenta la loro efficienza come barriere naturali. Ne consegue che l'accesso alla regione è più facile in corrispondenza alla parte mediana dell'attuale frontiera, dal valico di Piedicolle alla larga breccia della sella di Postumia, poiché lungo la fascia alpina la chiostra montuosa su cui corre il confine mantiene un dislivello di 1800-2000 m. sul fondovalle dell'Isonzo, del cui bacino è tributaria. La pressione delle masse umane provenienti da E. si è incanalata di regola lungo le vie maestre così segnate dalla natura, sulle quali la colonizzazione romana, che procedeva in senso opposto, aveva fissato i suoi punti d'appoggio e le sue difese (i "valli"). Agli sbocchi di queste vie sono sorti i centri abitati più importanti, la cui funzione non ha cessato col tempo: Cividale, Gorizia, Gradisca, Trieste, Pinguente, Volosca, Fiume, mentre altri se ne sviluppavano agl'incroci delle vie stesse, come Caporetto, Tolmino, Aidussina, Prevallo, Postumia, ecc. L'irrigidirsi, per dir così, della barriera montuosa e carsica alle spalle della Penisola Istriana (l'Istria Bianca o Montana) non ha mancato di avere conseguenze sul popolamento di questa e sullo sviluppo dei due grandi centri che si sono formati sul mare alla sua base.
Clima. - Le condizioni climatiche della Venezia Giulia sono dominate dal contrasto fra i regimi a tipo marittimo proprî della lunga fascia costiera e delle isole, e quelli a tipo continentale che tendono a farsi sempre più evidenti a mano a mano si procede verso l'interno. Il contrasto è esasperato dal comportamento dei venti, dalla disposizione delle masse orografiche, e temperato localmente dalle condizioni della topografia. Alla ben nota inversione della temperatura, propria delle depressioni più ampie (come, per es., della valle del Frigido e di quella dell'alto Timavo) e perfino delle maggiori doline (per es., della conca di Orle), che finisce con l'accentuare i disquilibrî termici, si contrappone così l'eccezionale mitezza di stazioni quali Gorizia (che fu detta, sia pure con evidente esagerazione, la Nizza del Friuli), Abbazia, Portorose, Cigale, ecc., dove alcune delle cause di perturbazione vengono eliminate, o prevale decisamente l'azione moderatrice del mare. In complesso, però, le temperature medie annue denunciano un clima mite e anche nelle zone interne i valori delle escursioni non appaiono mai veramente eccessivi. Le medie annue oscillano di poco sulla costa, tenendosi da 3° a 5° sopra lo zero, mentre scendono anche al disotto dello zero in alcune località entro terra, sopra tutto come conseguenza dell'altezza e dell'esposizione alla "bora". Postumia, che è a oltre 500 m. d'altezza, ha la stessa escursione annua di Trieste, che pure ha un inverno molto più dolce. Il mese più freddo è sempre il gennaio, il più caldo sempre il luglio, ma mentre lungo le coste e nelle plaghe più basse la primavera è precoce - si annuncia già in marzo - nelle regioni più elevate del Carso e del bacino dell'Isonzo l'inverno si continua di fatto sino ad aprile e anche oltre. Per contro, le temperature estive sono di regola più alte sul litorale e sui margini degli altipiani, dove hanno anche maggior durata, mentre tendono a deprimersi e a mantenersi meno nell'interno e nei settori più elevati. Il carattere di continentalità di questi è così inasprito dal contrarsi delle stagioni intermedie.
Sulle correnti aeree bora e scirocco hanno un assoluto predominio, determinando in definitiva, col loro contrastante influsso, almeno per un lungo periodo dell'anno (da novembre a marzo), così le condizioni generali del tempo, come in particolare il regime delle precipitazioni. Il primo è vento tipicamente freddo e asciutto, il secondo caldo e umido: quanto a frequenza, però, il rapporto reciproco è all'incirca come 3 a 1.
La piovosità della Venezia Giulia spicca soprattutto per i suoi forti quantitativi medî annui, i quali anzi, in alcune zone, figurano tra i massimi registrati nel regno. Sulla destra dell'Isonzo superiore si oltrepassano i 3 m. l'anno e valori più alti di 2 m. sono segnati anche nella regione prossima a Fiume e sulle falde meridionali del M. Maggiore. Nonostante il vario comportamento delle precipitazioni nei differenti settori, queste non scendono di regola al disotto degli 800 mm. nelle regioni interne, e si mantengono prossime a tale cifra anche sulla costa occidentale dell'Istria, dove tuttavia e precisamente nel settore fra Rovigno e C. Promontore, si giunge al minimo assoluto del compartimento (Pomer, 540 mm.). La distribuzione geografica delle piogge è in rapporto soprattutto con le correnti aeree di S. e di SO., ciò che determina il condensarsi dell'umidità ch'esse apportano sui maggiori dislivelli orografici e sugli orli dei gradini carsici volti in queste direzioni. I quantitativi sono in genere ben ripartiti durante l'anno, ma di regola con un minimo invernale (gennaio, febbraio) ed un massimo autunnale (ottobre, novembre).
La neve è copiosa e costante d'inverno, ma tende a diminuire procedendo verso S.: sull'altipiano carsico le giornate nevose oscillano tra le 15 e le 20 all'anno. Solo eccezionalmente, tuttavia, il suolo ne resta coperto per più di una settimana, eccezion fatta, s'intende, per le zone più elevate.
Idrografia. - Il reticolo idrografico della Venezia Giulia riflette in modo patente il carattere carsico del territorio. Un'idrografia superficiale ben organizzata è possibile solo nelle fasce arenacee interposte ai gradini calcarei, ma, data la distribuzione di queste, nessuno dei corsi d'acqua della regione si sottrae alle conseguenze del prevalente tipo litologico, per il quale una parte più o meno cospicua degli afflussi meteorici ha esito per via sotterranea. Più che i fiumi hanno importanza le sorgenti di origine locale e le resorgive di acque carsiche, le quali ultime, d'altronde, condizionano l'esistenza e l'importanza dei primi, e appaiono di regola al contatto delle masse calcaree con quelle impermeabili, e perciò in prevalenza ai piedi dei singoli gradini orografici. La disposizione delle une e delle altre dà ragione del caratteristico alternarsi di correnti subaeree a correnti ipogee in uno stesso bacino, di cui il Timavo Superiore o Recca - che s'inabissa nelle voragini di S. Canziano per riapparire alla luce dopo 34 km. di corso, presso Duino - e la Piuca - il cui alveo superficiale, interrotto a Postumia, si continua oltre confine nell'Uncia e poi nella Ljubljanska, affluente della Sava - sono gli esempî più noti. È appena necessario aggiungere che i tratti inferiori di questi fiumi raccolgono spesso tributi diversi, oltre a quelli del corso superficiale cui si connettono: così, per es., il Timavo Inferiore, che ha a Duino una portata media di 1,2 miloni di mc. nelle 24 ore, rappresenta il deflusso non della sola Recca, ma di tutte le acque di una larga zona del Carso goriziano e tergestino, non esclusa parte di quelle dello stesso Frigido. Il regime di tutti questi corsi d'acqua, sia subaerei sia sotterranei, è in genere più o meno spiccatamente torrentizio, con piene che corrispondono ai periodi di maggiore precipitazione, e magre estive e invernali, salvo naturalmente quelli alimentati anche dalla fusione delle nevi. A questo alimento, e alle condizioni del suo alveo spesso rinserrato fra strette pareti rocciose, deve l'Isonzo (136 km. di lunghezza) il carattere di corso montano, che conserva sino a Gorizia: la molto maggiore ampiezza del suo bacino (3470 kmq.) non impedisce che tra Cassegliano e Pieris, per un tratto di qualche chilometro, il letto del fiume rimanga talora quasi asciutto.
Origine carsica hanno anche quasi tutti i laghi della regione, il più esteso dei quali, quello di Arsa (kmq. 6,58), è stato prosciugato nel 1932 a scopo di bonifica. All'incirca una quarantina di ettari di superficie misura, in media, il laghetto di Doberdò, reso famoso dalla guerra mondiale. Il più ampio dei laghi della Venezia Giulia è ora quello di Vrana, nell'Isola di Cherso. Elevato 16 m. s. m. e profondo fino a 78 m., racchiude una criptodepressione. La sua area è di poco superiore ai 5 kmq.
Flora e fauna. - Tanto sotto il riguardo floristico, quanto sotto quello faunistico, il territorio della Venezia Giulia ha caratteri di transizione fra dominî diversi, che vi vengono in contatto senza decisamente soverchiarsi. Al disotto del livello pertinente alla tipica vegetazione alpina, che corona il più elevato distretto montano a cavallo tra Isonzo e Sava, la flora baltica - che è la più ricca di specie - occupa l'alto Carso, la conca di Postumia e la valle superiore del Timavo, spingendosi fino in quella del Vipacco. Meno copiosa ed estesa, la flora pontica interessa con i suoi elementi l'altipiano della Ciceria e il territorio intorno a Fiume, mentre a S. dell'Istria bian-a app: iiono frequenti endemismi in una con piante proprie dell'Europa centrale. Il dominio floristico mediterraneo, oltre a una sottile striscia fra Duino e Miramare, comprende nella Penisola Istriana l'intera costa occidentale fino al suo margine di NO., senza però oltrepassare, ad E., il canale dell'Arsa.
Gran parte dei boschi della Venezia Giulia sono cedui, ridotti in cattivo stato in seguito ai continui tagli e alle devastazioni dei pascoli: li costituiscono, in prevalenza, querce, carpini, frassini, aceri, faggi, olmi e castagni. Le conifere sono piuttosto rare e rappresentano talora formazioni artificiali, create sia per rimboschire, sia per valorizzare terreni aridi, sia, non di rado, per costituire barriere frangivento. Fatto tipico della vegetazione della Venezia Giulia è che il limite inferiore di molte specie si porta sensibilmente più in basso che nel resto della regione cisalpina (in media di circa 400 m.).
Intensa è stata quasi dovunque l'opera di trasformazione compiuta dall'uomo sul mantello vegetale originario e non meno sulla fauna, che segna, per i suoi caratteri, un chiaro confine tra specie orientali e occidentali. Le prime raggiungono, attraverso la Dalmazia, l'Istria meridionale, le seconde si sono propagate dalla pianura Padana fino all'agro monfalconese e più innanzi anch'esse nell'Istria. Ben nota è poi l'originalità della fauna cavernicola delle wone carsiche, propria delle quali è del pari l'abbondanza di selvaggina stanziale. Importante infine, per i suoi riflessi economici, è la varietà e la copia dell'ittiofauna, che trova condizioni favorevoli alla propria permanenza specialmente lungo le coste istriane (Canale di Leme).
Popolazione. - Nei limiti già accennati, la Venezia Giulia, che costituisce il 2,806 del territorio del regno, ne rappresentava nel 1931 non più del 2,4% della popolazione totale, che è così ripartita fra le sue provincie:
La densità della popolazione è perciò sensibilmente al disotto della media del regno, così nell'insieme del compartimento, come nelle singole provincie, eccezion fatta, tra queste, per Trieste e Zara, in ambedue le quali appare decisiva, nel computo, l'influenza dell'entità demografica dei rispettivi capoluoghi. Ma è da tener conto che quasi 2/5 del territorio della Venezia Giulia sono superiori ai 500 m., mentre poco meno di 3/5 della popolazione vivono al di sotto dei 150 m.
L' aumento demografico tra il 1921 e il 1931 è stato del 5,35%, inferiore cioè a quello del regno (8,43%), con un minimo di 2,55% nella provincia di Gorizia e un massimo di 10,64% in quella di Fiume. Nel 1935 le cifre del bilancio demografico erano tutte più basse della media nazionale, salvo quella della nuzialità (9,1‰ contro 6,7‰), sì che l'attivo del bilancio stesso si riduceva a 6,3‰, contro 9,4‰ nel regno. Quanto alle provincie, però, è patente il contrasto fra il debole tasso di accrescimento di Trieste (2,8‰) e di Gorizia (5,7‰) e i corrispondenti valori di Pola (9,9‰) e di Fiume (11,4‰) ambedue più elevati della media italiana. Non va dimenticato che, nonostante la sua tendenza a contrarsi, l'emigrazione ha pesato in misura non trascurabile su questo bilancio: così, per es., nel solo biennio 1930-1931, essa ha causato, nella provincia di Gorizia, una perdita del 13,3‰.
Nella popolazione della Venezia Giulia, entrano, accanto all'elemento italiano, che ha sempre prevalso, per numero, civiltà e sviluppo economico, alloglotti, di pertinenza soprattutto slava, dovuti a un travalico etnico favorito da note cause storiche. Sloveni e Croati, che non superano ormai in complesso i 400 mila abitanti, si sono insediati essenzialmente come popolazione rurale - pastori non meno che contadini - ai due lati di una linea che dalla foce della Dragogna per Castelnuovo mette a Ruppa, a N. di Fiume. Insignificante è invece l'entità numerica delle isole romene (Castelnuovo, Valdarsa).
Centri abitati. - Nella Venezia Giulia l'insediamento è a tipo spiccatamente accentrato. Appena il 19,1% degli abitanti vivono fuori dei centri: che è il valore più basso di tutta l'Italia settentrionale e più basso che nel complesso del regno. I centri abitati erano nel 1931 in numero di 1073, ripartiti in 128 comuni. Si avevano così, in media, 8,4 centri in ogni comune, contro 3,7 nel regno. Di questi più di 2/3 sono al disotto di 500 m. s. m., e comprendono il 92,9% della popolazione del compartimento. Dei tredici centri che superavano nel 1931 i 5 mila ab., solo due (Gorizia con 32 mila e Idria con 6 mila abitanti) non solo sul mare. Marittimi sono, oltre a Monfalcone (15 mila abitanti), tutti i più popolati centri istriani: Rovigno con 9 mila ab., Capodistria con 8 mila, Isola d'Istria e Pirano con 6 mila, Volosca-Abbazia (6 mila abitanti) in provincia di Fiume, Grado (6 mila abitanti) in quella di Trieste, Zara (17 mila ab.) e tutt'e tre le città che oltrepassano i 40 mila ab.: Pola (42 mila abitanti), Fiume (50 mila ab.) e Trieste (234 mila ab.).
Agricoltura, allevamento e pesca. - Sebbene l'agricoltura rimanga l'occupazione prevalente (33,4% della popolazione superiore ai 10 anni), essa non tiene, nel quadro delle attività regionali, il posto che ha, per es., nel vicino Veneto. Alla scarsa fertilità naturale dei terreni, specie carsici, vanno uniti il forte richiamo del mare e la funzione di transito internazionale che la Venezia Giulia ha esplicato e continua ad esplicare, data la sua peculiare posizione geografica.
Il territorio ha, nel complesso, piuttosto fisionomia silvo-pastorale: i seminativi si riducono ad appena il 14,1% (contro 44,8% nel Veneto e 41,4% nel regno), mentre il pascolo vi occupa più di 1/3 (34,2%) e quasi 1/3 il bosco (31,9%). Circostanza sfavorevole allo sviluppo dell'agricoltura è inoltre il forte parcellamento della proprietà terriera, che è del resto congiunto anch'esso alla debole produttività del suolo carsico: su 1000 famiglie agricole 814 figurano con a capo un conducente in proprio, valore più che doppio del corrispondente per il regno. Le condizioni del suolo spiegano da un lato l'intensità che i movimenti migratorî hanno in passato assunto in molta parte della Venezia Giulia, dall'altro la politica seguita dal governo fascista, tendente ad assicurare, per mezzo di un'intensa opera di bonifica (3364 kmq. di compiensorî al I° giugno 1933, cioè oltre 2/5 del territorio del compartimento), il massimo possibile di nuove terre all'eccedenza della popolazione agricola.
I boschi (compresi i castagneti, 285 mila ha., cioè il 5% di quelli del regno), tra i quali alcuni maestosi (Roccalba, Tarnova, M. Nevoso, Montona) rappresentano indubbiamente una delle principali risorse della Venezia Giulia, soprattutto dove, come nelle regioni carsiche più povere, consentono l'unico sfruttamento razionale del suolo, e determinano in pari tempo l'attività di un non trascurabile artigianato. Per ciò che riguarda la produzione foraggera, alla prevalenza del pascolo povero, che è caratteristica del compartimento, va congiunta quella del bestiame ovino sul bovino (150 mila capi contro 125 mila, rispettivamente, nel 1930).
Nella produzione agraria le colture legnose hanno in definitiva importanza non minore delle cerealicole, il cui raccolto, normalmente, non copre il consumo. Notevole è anche il quantitativo delle patate, degli ortaggi (cavoli, pomodori soprattutto), dei legumi (fagioli, piselli, fave) e più ancora della frutta (frutta polposa, ciliege, mele): i secondi coltivati specialmente in Istria, le ultime in prevalenza nel Goriziano. L'Istria ha un assoluto primato nel compartimento per la vite che dà prodotti tipici assai noti (vini bianchi del Collio e del Vipacco; Prosecco, Refoschi, Refoscato, moscato rosa, Pinot, ecc.). Scarso interesse ha invece l'oliveto, che è ormai in decadenza (da 133 mila q.li nel quinquennio 1923-28 a 23,4 mila nel 1935).
Merita un cenno la pesca, principalmente per i progressi realizzati negli ultimi anni con la motorizzazione del naviglio, e per le connessioni che questa attività ha avuto e continua ad avere con l'industria istriana della preparazione delle sardine in scatola. Notissima infine l'ostricoltura del Canale di Leme.
Miniere e industrie. - L'attività industriale del compartimento è attestata dalla percentuale della popolazione di età superiore ai 10 anni che vi è impegnata: 35,7%, valore più alto della media del regno e superato solo dalla Liguria e dalla Lombardia. La Venezia Giulia è anche una delle regioni italiane più ricca di miniere, e la più ricca, anzi, se si prende per base il prodotto di queste in valore. Mercurio, bauxite e carbone rappresentano le tre voci più cospicue. Le miniere d' Idria assicurano infatti una metà, in media, del quantitativo italiano di mercurio (ora assai contratto; la produzione locale è però giunta in passato a superare le 800 tonn. annue), e preponderante è ancora la parte che nella produzione nazionale di alluminio ha la bauxite, estratta in numerose località dell'Istria (bacino del Quieto e dell'Arsa). Quanto al carbone liburnico, prescindendo dai minori depositi di Lipizza (miniera Adria), sul Carso, di Pinguente e di Montona, la quasi totalità proviene dal bacino della Val di Càrpano (27 km. di lunghezza per 3 di larghezza), che dà in media 250 mila tonnellate annue.
Il censimento industriale del 1927 assegna al compartimento 13.755 esercizî industriali, con 113.344 addetti: questi rappresentano perciò il 12% della popolazione giuliana. In confronto con le altre regioni italiane, si ha qui maggiore sviluppo delle grandi che delle piccole aziende: 14 di queste impiegano oltre 1000 operai ognuna, con una media, anzi, più che doppia (2218 addetti). Prevalgono su tutte le industrie meccaniche: tale ramo rappresenta da solo più di 1/5 di tutta l'attività industriale del compartimento, che è valore massimo fra i compartimenti del regno. Le costruzioni navali (Monfalcone, Muggia, Trieste, Pola, Fiume) hanno dato nel dopoguerra fino all'85% del tonnellaggio annuo varato nei cantieri italiani. Notevole è anche lo sviluppo dell'industria aeronautica (Trieste) e quello delle industrie siderurgiche e meccaniche (Servola, Fusine, Fiume). Evadono da un interesse puramente regionale, inoltre, così gli stabilimenti di prodotti chimici (soda caustica a Monfalcone; concimi, acido solforico e colori a Fiume; raffinerie di olî minerali a Fiume e a Trieste), come quelli per le conserve di pesce (Pola), che sono tra i più importanti d'Italia.
Non va infine dimenticato come anche per l'industria turistica, la Venezia Giulia abbia non solo conservato, ma accentuato il forte richiamo di una clientela, massime estera, che l'aveva resa nota ancor prima della sua redenzione. Abbazia, Laurana, Portorose, Brioni, Grado, Lussinpiccolo, ecc., figurano tra le più frequentate stazioni balneari europee, e in aumento è il movimento turistico alle celebri grotte di Postumia.
Commercio. - La posizione geografica della Venezia Giulia ne fa uno dei settori più delicati dei rapporti dell'Italia con l'estero, poiché il naturale retroterra medieuropeo della regione è oggi pertinenza di almeno sei unità politiche diverse, alcune delle quali interessate a stornare, anche oltre le convenienze economiche, le correnti tradizionali del traffico che facevano capo, e continuano a far capo almeno in parte, ai grandi porti dell'alto Adriatico. L'equilibrio prebellico stenta a ricostituirsi; con tutto ciò, Trieste conserva il secondo posto fra gli emporî marittimi del regno, e Fiume viene subito dopo Trieste e Venezia tra quelli dell'Adriatico. La crisi mondiale ha depresso l'entità di questi traffici, senza però alterare decisamente i rapporti reciproci dei tre massimi centri commerciali. L'importanza internazionale dei porti giuliani poggia anche sulla loro organizzazione commerciale, cui l'attività di potenti istituti di credito e di assicurazione (Assicurazioni Generali, Riunione Adriatica di Sicurtà) ha impresso una fisionomia peculiare ancor prima dell'annessione.
Quanto al traffico interno, varie ragioni spiegano lo sviluppo relativamente modesto del suo reticolo di vie di comunicazione (anche per le ferrovie, delle quali possiede appena 520 km., cioè 5,8 km. per ogni 100 kmq. e 0,5 ogni 1000 ab., il compartimento è al disotto della media del regno), e in primo luogo le difficoltà del terreno, la relativamente scarsa popolazione e la stessa facilità delle vie di mare. Grandi progressi sono stati tuttavia compiuti in regime fascista, sia migliorando e moltiplicando le vie ordinarie, sia organizzando convenientemente il traffico ferroviario che comprende ben tre transiti internazionali (Piedicolle, Postumia, Fiume), ancorché volti tutti alla Iugoslavia.
Bibl.: B. Benussi, La regione Giulia, Parenzo 1903; O. Marinelli, Guida delle Prealpi Giulie, Udine 1912; D. Tamaro, L'agricoltura nella Venezia Giulia, Casale Monferrato 1920; C. Battisti, La Venezia Giulia, Novara 1920; O. Marinelli, La divisione dell'Italia in regioni e provincie con particolare riguardo alle Venezie, in Universo, IV (1923), pp. 839-58, 915-54; G. Palese, La Venezia Giulia, ibid., V (1924), pp. 106-46; Istit. Statist. Econ. di Trieste, L'economia della regione giulia, Trieste 1925 segg.; G. Cumin, L'Istria montana, in L'Universo, VIII (1927), pp. 471-503, 693-727; G. Depoli, La provincia del Carnaro, Fiume 1928; S. Squinabol e V. Furlani, Venezia Giulia, Torino 1928; D. De Castro, La composizione della popolazione giuliana per sesso e per età dal 1910 al 1921, in Boll. Istit. Stat. econ. univ. di Trieste, 1928, pp. 67-80; Soc. Alp. delle Giulie, Guida della Carsia Giulia, Trieste 1929; E. Boegan, La distribuzione e la densità delle grotte nella Venezia Giulia, in Le grotte d'Italia, III (1929), pp. 123-41; A. Scala, Il patrimonio silvo-pastorale della Venezia Giulia e le possibilità di aumentarne la produzione, in La porta orientale, I (1931), pp. 286-298; B. Coceani, La situazione industriale nella Venezia Giulia, ibid., I (1931), pp. 47-77; U. Cobolli, Le alterazioni dei toponimi nella Venezia Giulia, ibid., I (1931), pp. 574-83; 921-38; G. Cumin, Appunti geografici sulla funzione di frontiera della Venezia Giulia e sul confine italo-iugoslavo, ibid., III (1933), pp. 568-94; E. Massi, L'ambiente geografico e lo sviluppo economico nel Goriziano, Gorizia 1933; A. Chini, Rapporti fra proprietà, impresa e mano d'opera nell'agricoltura italiana, XVI: Venezia Giulia e Zara, Roma 1934; T. C. I., Venezia Giulia, in Boll. Soc. Adriat. di scienze naturali, XXXIV (1935), pp. 5-95.
Preistoria.
I primi indizî della presenza dell'uomo nelle Venezie risalgono al Pleistocene e precisamente a quel periodo dell'era glaciale caratterizzata dall'ultima grande avanzata dei ghiacciai alpini (Wurmiano). Prima di questa glaciazione non s'incontrano resti d'industrie umane, per quanto nelle grotte e nei depositi prewurmiani della Venezia Giulia e del Veronese si siano scoperti numerosi avanzi faunistici (contenenti specie di clima caldo), i quali rivelano l'esistenza di condizioni ambientali molto favorevoli alla vita umana. Non si può escludere tuttavia che più estese ricerche abbiano a rivelare anche nelle Venezie l'esistenza di depositi antropozoici chelleani o acheuleani, contemporanei a queste faune di tipo tropicale. Le notizie relative all'esistenza d'industrie del Paleolitico antico sui Colli Euganei (Padova) non hanno base sicura.
Le genti vissute nelle Venezie durante la glaciazione wurmiana lasciarono i resti delle loro industrie in tre località soltanto: nella caverna Pocala, nel Carso Triestino (Aurisina), ad Asolo, in provincia di Treviso e sull'altipiano di S. Anna d'Alfaedo, nei Monti Lessini. Il deposito più importante per copia e caratteri etnografici del materiale è la caverna Pocala. Gli utensili e le armi sono ricavati da piccole schegge di selce o di altra roccia, da ossa di Ursus spelaeus e di altri Mammiferi fossili. Le selci sono lavorate con la tecnica caratteristica del Mousteriano, ma sarebbe imprudente identificare senz'altro l'industria carsica col classico Mousteriano francese. Tenendo conto delle scoperte fatte nelle grotte della Franconia, della Svizzera, della Stiria e della Iugoslavia si può riferire l'industria della caverna Pocala, come quella delle grotte ora nominate, a un gruppo culturale particolare, che per la sua localizzazione nelle regioni alpine si può denominare Mousteriano alpino (v. mousteriana, civiltà), e che è caratterizzato tra altro da un largo uso delle ossa per la fabbricazione di utensili. Le poche selci scoperte nelle ghiaie del torrente Musone ad Asolo sono lavorate sommariamente e non è possibile pertanto riferirle con sicurezza al Mousteriano alpino o a quello cosiddetto di tipo piccolo. La loro importanza sta nel fatto che esse erano associate a resti scheletrici di Mammut (Elephas primigenius). Le selci trovate entro la terra rossa pleistocenica del Monte Loffa (S. Anna d'Alfaedo), priva di avanzi faunistici, si distinguono per la bellezza della forma e la perfezione dei lavoro; forma e tecnica che permettono di riferirle al Mousteriano tipo La Quina. Accanto ad alcuni manufatti finiti (raschiatoi, cuspidi) esistono abbozzi e rifiuti di lavorazione, particolare che fa supporre l'esistenza di qualche centro abitato o di qualche stazione temporanea sugli altipiani dei Lessini. Caratteri mousteriani presenta infine un manufatto siliceo proveniente da S. Giovanni Ilarione (Vicenza).
Mancano in tutta la regione abitati e resti industriali appartenenti alla civiltà miolitica (v.). Quest'assenza risulta evidente anche dalla sezione stratigrafica dei depositi quaternarî della caverna Pocala. Le ghiaie grossolane e le argille rosse wurmiane, con selci di tipo mousteriano alpino e fauna fredda, sono coperte in certi punti da una crosta stalammitica, corrispondente con ogni probabilità ai tempi post-wurmiani (Miolitico), e alla quale seguono immediatamente le argille gialle oloceniche con fauna di tipo attuale e resti d' industrie neolitiche. Va notato tuttavia che in territorî prossimi a quelli ricordati, nel Modenese e in una caverna non distante dal territorio di Fiume, ma situata entro i confini della Iugoslavia, furono scoperti manufatti miolitici: la qual cosa lascia sperare di scoprire anche nelle Venezie manufatti umani appartenenti alla civiltà miolitica.
Nel corso dell'età neoeneolitica il quadro etnografico di queste regioni appare più vario e complesso di quello dei precedenti periodi pleistocenici. Le culture che meglio caratterizzano questa età sono, in ordine d'importanza, quella trogloditica della Carsia Giulia e quella delle stazioni all'aperto del Veronese.
La civiltà trogloditica della Venezia Giulia, caratterizzata dall'uso di abitare nelle caverne, presenta numerosi caratteri comuni con quella svoltasi nelle caverne della Liguria e della Toscana e anche con quella dei fondi di capanna della pianura emiliana. Giova ricordare che nelle Isole Brioni furono scoperti i resti di un abitato di capanne semisotterranee, contenenti un materiale uguale a quello delle caverne del Carso. La lavorazione dell'osso e del corno era molto diffusa e i manufatti silicei, piuttosto scarsi, erano ricavati da piccole lamelle silicee, a causa probabilmente della scarsità di questa roccia nella regione. La freccia è molto rara. Abbondantissima la ceramica, tra cui meritano di essere segnalate alcune pintadere. È probabile che le differenze osservate tra il materiale delle caverne carsiche più che a variazioni locali siano dovute a differenze di età. Ma nessun elemento stratigrafico positivo permette ancora di ricostruire l'evoluzione cronologica della civiltà trogloditica del Carso.
Un quadro ben diverso presentano le stazioni all'aperto e i ripari sotto roccia (covoli) del Veronese: prevalenza assoluta dei manufatti silicei, lavorati a larghe scheggiature secondo la tecnica campignana (v. campignana, civiltà), comune a molte industrie protoneolitiche europee; rarità di oggetti d'osso e di corno, scarsezza di ceramica, quasi sempre rozza e grossolana. I prodotti caratteristici della litotecnica veronese sono le cuspidi di lancia o di pugnale foliate, le punte di giavellotto sessili, le accette e i picchi simili a quelli del Campignano, ma di regola molto più piccoli. Le stazioni più antiche, che probabilmente ebbero inizio nel Neolitico, sono quelle di Rivoli Veronese e forse anche il grande riparo delle Scalucce a Molina, dove però apparvero anche cuspidi lavorate con la fine tecnica eneolitica. La grande stazione della Sassina dovette perdurare invece fino alla prima età del bronzo, perché malgrado la grande quantità di oggetti e di schegge silicee conteneva alcuni pezzi di ceramica caratteristica dell'età enea. Un prodotto peculiare dell'industria silicea dei Monti Lessini sarebbero state le così dette selci enigmatiche di Breonio, raccolte nel passato in grandissima copia e intorno all'autenticità delle quali si accesero appassionate dispute, l'ultima eco delle quali non è ancora spenta; perché l'eterna questione di Breonio, ora definitivamente risolta e in senso nettamente negativo, trova ancora qualche tardo paladino, che ne sostiene l'autenticità. Col preciso scopo di risolvere la questione, R. Battaglia ha condotto una serie di campagne di scavo dal 1930 al 1936, nel corso delle quali furono esplorate le stazioni note nel passato per l'abbondanza di tali selci enigmatiche e nuove località, tra cui il grande abitato all'aperto della Sassina: neppure una sola selce tipo Breonio ritornò in luce in questi scavi, mentre in gran copia apparvero le comuni cuspidi foliate, le accette scheggiate e i raschiatoi caratteristici della civiltà litica veronese.
Abitati neoeneolitici in caverne, in ripari sotto roccia - curiosa l'utilizzazione dei pozzi glaciali di Mori nel Trentino - e in capanne all'aperto furono scoperti nella pianura veneta, nel Trentino e nel Friuli. Nell'Alto Adige resti appartenenti all'età eneolitica sono molto scarsi. I resti più significativi sono le tre tombe a cassetta con scheletri rannicchiati, scoperte ad Appiano ai piedi della Mendola. Riflessi di una corrente eneolitica, che mette capo probabilmente a quella iberica del vaso "a campana" presenta la tomba di Villafranca Veronese, contenente una grande alabarda di bronzo e un pettorale di argento, e le due statue-stele di pietra scoperte a Lagundo (Merano).
I monumenti architettonici più importanti di tutta la regione sono, per le età dei metalli, i castellieri della Venezia Giulia, i quali, almeno in Istria, ebbero origine nell'età enea (v. castellieri). La civiltà dei castellieri giuliani presenta numerosi caratteri peculiari, differenti tanto da quelli della civiltà terramaricola padana, quanto da quella appenninica: ciò nonostante i castellieri giuliani attirano ben poco l'attenzione dei paletnologi. Villaggi su colline circondati da mura di pietre a secco esistono anche nel Vicentino, nel Trentino e nell'Alto Adige; ma pochi dati sicuri si conoscono ancora su queste stazioni. La frequenza dei castellieri del Trentino venne molto esagerata, specie dalle indagini di D. Reich, al quale si devono le principali notizie, spesso basate su dati toponomastici. Più caratteristiche sono le cinte costruite con grossi blocchi di porfido, qualche volta squadrati, dell'Alto Adige; ma anche questi monumenti sono ancora poco conosciuti. Alcuni di essi sono privi di strati antropozoici (Monticolo). A quanto sembra, la maggior parte di queste costruzioni risalgono alla tarda età del ferro. Tra i manufatti dell'età del ferro atesina molti presentano affinità con quelli del gruppo giuliano, sicché non si può escludere l'ipotesi dell'esistenza di connessioni etniche tra i castellieri atesini e quelli della Venezia Giulia.
Nella Pianura Padana troviamo nell'età del bronzo un tipo di abitato del tutto diverso: le palafitte. Importanti centri palafitticoli furono scoperti nei laghetti di Fimon e di Arquà Petrarca e nel Lago di Garda. Nel Trentino sono note le palafitte del Lago di Ledro e quelle probabili di Castel Toblino e di Fiavé. Si deve osservare che nella pianura veneta, nelle Prealpi Veronesi e nel Trentino materiale di tipo palafitticolo si trova anche in stazioni di collina. Il sistema di bonificare il terreno mediante palafitte o gettate di legname si perpetuò durante tutta l'età del ferro (Este, Adria). Le genti venete, che per sfuggire agli attacchi dei barbari cercarono rifugio nelle Insulae Venetiae, costruendo le loro abitazioni su palafitte, in piena laguna, non adottarono quindi un mezzo di fortuna suggerito dalle contingenze del momento, ma usarono un sistema tradizionale, che nella pianura veneta e padana aveva origini antichissime. Venezia costituisce quindi l'ultima e più grandiosa fase evolutiva delle palafitte dell'età del bronzo.
In questa età continua ugualmente l'uso di abitare in capanne circolari, talvolta semisotterranee. Il villaggio di Marendole nei Colli Euganei appartiene a questo tipo.
Durante l'età del bronzo nell'Istria meridionale - e probabilmente in tutta la Venezia Giulia - vigeva l'uso d'inumare i cadaveri. Nell'agro di Pola essi venivano deposti entro ciste formate da lastroni calcarei e monocellulari a pianta circolare ricoperte a loro volta da un tumulo di pietra. Queste ultime costruzioni riproducono probabilmente un tipo di abitazione molto diffuso tra le genti dei castellieri, il quale persiste tuttora nell'architettura rurale dell'Istria meridionale, non più quale abitazione, ma quale riparo temporaneo durante i lavori campestri: sono le casitte, costruzioni in pietra a secco di forma cilindrica e col tetto a falsa cupola. Resti di numerose capannucce di pietre a secco, a pianta circolare, furono scoperte nel castelliere di Pulaz presso Fiume. A Povegliano nella pianura veronese venne scoperta una necropoli d'inumati. Inumati e tombe a incinerazione uguali a quelle padane di tipo terramaricolo conteneva il sepolcreto di Bovolone.
Col diffondersi della civiltà del ferro, l'uso della cremazione e della sepoltura entro urne cinerarie di terracotta, accompagnate da ricchi corredi e deposte nella nuda terra oppure entro cassette di lastre di pietra, diviene generale in tutto il territorio delle Tre Venezie dal Brennero alle isole del Carnaro. In queste necropoli però accanto agl'incinerati si trovano spesso anche scheletri d'inumati, normalmente privi di corredo e sepolti per lo più distesi secondo un rito diffuso nell'età del bronzo tra le genti appenniniche. Un tempo si riteneva che si trattasse di resti appartenenti a servi o a schiavi. Può darsi che in qualche caso particolare questa ipotesi sia esatta; ma tenuto conto della relativa frequenza d'inumati specie in certe necropoli atestine e dell'agro di Pola, l'idea che si tratti di individui appartenenti alle classi sociali più basse e quindi più conservatrici e legate ai rituali funerarî del passato sembra essere la più accettabile.
Giudicando in base ai dati ricavati dall'esplorazione delle necropoli, i principali centri della civiltà paleoveneta si trovano nel territorio atestino, nelle Alpi Giulie (alto Isonzo) e nel territorio di Pola in Istria. Necropoli e sepolcreti importanti furono scoperti anche ad Angarano (Bassano), nel Bellunese, nel Cadore (Lozzo e Valle di Cadore), a Padova, nel Veronese (Gazzo Veronese e Sorgà) e nella Venezia Tridentina (Vadena, Meluno; v. este; ferro, civiltà del). I principali gruppi regionali presentano nella forma e nella decorazione del materiale fittile ed eneo, oltre che nella varietà e nei tipi dei corredi, differenze più o meno grandi dovute a indipendenza di sviluppi evolutivi e a rapporti con altri popoli. È interessante notare inoltre che anche necropoli di regioni molto vicine presentano variazioni locali, come, per es., le necropoli patavine e quelle veronesi rispetto al grande centro atestino. L'Istria risentì forte l'influsso di Este, mentre Vadena, nella Val d'Adige, mostra di aver avuto connessioni abbastanza vive con Felsina. Meluno, nella Val dell'Isarco, accanto a certe forme vascolari caratteristiche (bicchieri rostrati), presenta nei manufatti enei caratteri affini a quelli delle necropoli delle Alpi Giulie. Comunque, sono le necropoli atestine del II e III periodo quelle che meglio rappresentano i caratteri della civiltà paleoveneta nel suo pieno sviluppo. Abbiamo detto nel suo pieno sviluppo, perché il cosiddetto I periodo atestino è, si può dire, ancora sconosciuto, essendo note nel territorio di Este due sole tombe che sono riferite a questo periodo, vale a dire alla prima fase della civiltà paleoveneta. E siccome dopo oltre un cinquantennio di scoperte fortuite e di esplorazioni sistematiche la scoperta di necropoli atestine appartenenti a questo primo periodo diviene molto problematica, sembra di poter concludere che i Veneti, quando fondarono Ateste, avevano già superata la prima fase della loro evoluzione culturale. In questo caso, naturalmente, tutto il materiale fittile trovato negli abitati atestini e riferito al I periodo (probabilmente perché molto grossolano), deve attribuirsi invece ai periodi successivi. Nuova luce su questo importante problema potrà portare lo studio del materiale del sepolcreto di Angarano, il quale contiene un materiale ceramico che sembra essere anteriore al secondo periodo veneto.
Le notizie che si possiedono sugli abitati e sulle istituzioni sociali ed economiche dei Paleoveneti sono molto scarse e frammentarie. Gli abitati erano costituiti da modesti aggruppamenti di capanne circolari o quadrangolari, costruite su terra asciutta, talora semisotterranee, oppure - nei terreni paludosi o esposti alle inondazioni dei fiumi - sopra gettate o impalcature di legname. È probabile che una delle forme di abitazione paleoveneta persista tuttora nei casoni, dal tetto piramidale di paglia, della pianura padovana. Villaggi di piccole capanne in terra asciutta furono scoperti a Lozzo Atestino, a Rovalora e nel sobborgo di Canevedo a Este. Piccoli gruppi di capanne circolari semisotterranee furono scoperti recentemente nel sottosuolo di Padova. In certe zone di Ateste e ai piedi del Monte Rosso (Colli Euganei) l'abitato poggiava - come ad Arquà Petrarca nell'età del bronzo - su gettate e impalcati di legname. Singole capanne quadrangolari con muriccioli di pietra a secco furono scoperte a Lozzo Atestino, a Castel Manduca (Vicenza). Caratteristici sono i villaggi di capanne rettangolari, costruite con grandi lastroni di pietra, del Monte Loffa nel Veronese e di Rotzo nel Vicentino. Nella Venezia Giulia e nell'Alto Adige persistette l'uso di abitare in villaggi racchiusi da mura di pietre a secco.
In alcune località del territorio atestino, delle Prealpi Venete e dell'Alto Adige furono scoperte tracce di antichi santuarî o comunque di luoghi dedicati al culto. A Este esisteva un santuario dedicato alla dea Rehtia nel fondo Baratela, dove fu scoperto un numero grandissimo di bronzetti votivi, molti dei quali con iscrizioni paleovenete. Un santuario dello stesso tipo venne scoperto recentemente nel sobborgo Caldevigo. Una stipe votiva, contenente alcuni bronzetti e numerosissimi vasetti di terracotta esisteva a S. Pietro Montagnon presso le sorgenti termali. Al culto delle acque termali si collega pure la stipe di S. Maurizio (Bolzano), dove insieme con poche fibule e con una laminetta enea rappresentante una figura femminile furono raccolte parecchie centinaia di anellini di bronzo di diversi tipi. Altre credenze e altre forme rituali rivelano il santuario di Magrè nel Vicentino, contenente numerose corna di cervo lavorate e iscritte, le terrazze a gradini del Monte Loffa, appartenenti al periodo veneto-gallico, e la contemporanea Frana del Diavolo, presso Caldaro, lungo la strada della Mendola (Bolzano), gigantesca costruzione piramidale in pietre a secco. Dovevano far parte di un sacrario o di un tempio, infine, le grandi statue e i lastroni scolpiti di pietra calcarea trovati a Nesazio, e che costituiscono i piu cospicui e singolari monumenti dell'arte paleoveneta. Le statue rappresentano figure virili, talune itifalliche, una donna nuda che allatta un bambino e porta una mano alla vulva vigorosamente scolpita, e un cavaliere. Della stessa provenienza è certamente una doppia testa virile. I lastroni portano scolpiti motivi spiraliformi e meandriformi, particolare che fece ritenere trattarsi di prodotti dell'arte micenea. Si tratta invece di creazioni di un'arte locale, che risalgono al sec. VII-VI a. C. e che, specie nelle figure virili, mostrano influenze dell'arte ellenica. Il rilievo dato agli organi genitali dei due sessi e il particolare dell'allattamento lasciano supporre che tali figure fossero legate al culto della fertilità.
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Storia.
Le Tre Venezie, anche quando - come, per l'ultima volta, durante il dominio austriaco - sono state parte di un unico organismo politico, non hanno mai avuto una storia propria, unitaria, sì che la storia delle Tre Venezie è in sostanza, la storia delle organizzazioni politiche che sono venute fiorendo in questa parte d'Italia durante i secoli. Si indicano qui, affinché il lettore possa farvi riferimento, le voci principali nelle quali questa storia è esposta.
Per la Venezia Tridentina nell'antichità, v.: venezia e istria; per il periodo successivo v. alto adige: Storia (II, pp. 713-718); bressanone: Vescovato e principato vescovile (VII, pp. 823-824); trentino: Storia (XXXIV, pp. 266-268); trento: Storia (XXXIV, pp. 271-272) e inoltre le voci dedicate alla storia delle principali città come: bolzano; bressanone; merano; rovereto; trento; vipiteno, ecc., nonché di alcune delle minori regioni geografiche come: cadore; gardena, valle; giudicarie; venosta, valle.
Per il Veneto e la Venezia Giulia nell'antichità v. la già citata venezia e istria. Per il periodo seguente oltre alla voce dedicata, in questo stesso volume, alla storia della repubblica di Venezia e al suo impero coloniale si vedano le voci aquileia: Patriarcato di Aquileia (III, pp. 805-808); carnia (IX, pp. 101-102); dalmazia: Storia (XII, pp. 251-256); friuli: Storia (XVI, pp. 97-99); gorizia: La contea di Gorizia (XVII, pp. 560-561); istria: Storia (XIX, pp. 684-687); lombardo-veneto (XXI, pp. 440-441), nonché le voci dedicate alla storia, delle principali città: aquileia; belluno; capodistria; caporetto; chioggia; cividale del friuli; fiume; gradisca d'isonzo; grado; monfalcone; padova; palmanova; parenzo; pisino; pola; rovigo; treviso; trieste; udine; verona; vicenza; vittorio veneto; zara.
Arte.
Notizie generali e architettura. - I limiti del Veneto, politico e artistico, furono sempre al di là e al di qua dei suoi confini naturali. Succeduta all'euganea, la gente veneta, che ebbe per centro Ateste, dando o ricevendo il nome dall'Adige, il vivo fiume che le scorreva accanto, legata alla illirica (come provano anche i viaggi della sua caratteristica situla (v.), studiati dal Ghirardini) venne a trovarsi avvolta dalla celtica, che domina la Lombardia e l'Emilia, rispunta lungo la chiostra dei monti che la cerchiano, e dilaga nuovamente nel Friuli. Fu quindi una civiltà più litoranea e marinara che terragna, ed ebbe, oltre ad Este stessa, il suo sbocco antichissimo in quel porto di Adria che diede il nome al mare su cui doveva imporsi; quasi a segno del destino. La cultura veneta non era allora molto differente da quella di ogni altra civiltà protostorica, sebbene con alcune caratteristiche, le quali sono il segno di un particolare gusto e di una notevole bravura, e si fonde con i modi proprî dell'età del ferro, per avvicinarsi al tipo detto della Certosa e perdersi infine quetamente nella romana, quando ad Ateste prevalse Patavium. Era del resto naturale che dopo alcuni pochi contatti con la civiltà greca, la quale faceva scalo ad Adria e con l'etrusca, il Veneto, tanto affine al Latino, si adattasse filialmente alla nuova dominazione, prendendo viva parte ai trionfi di Roma, e dandole uomini insigni, specialmente nel campo delle lettere: Catullo e Tito Livio, nonché il grammatico Donato. Ne fu arricchita da monumenti bellissimi, che ancor oggi s'impongono, a Verona, a Padova, a Trieste, ad Aquileia, a Pola, giù giù sino a Salona e a Spalato (v. sotto ciascuna voce).
La sua funzione attiva di porta d'Italia le venne però dagli ultimi tempi del dominio romano, allorché urgevano le minacce Ravenna, nuova capitale dell'Impero d'Occidente (402 d. C.), ma che non è in fondo se non tardo-romana, con notevoli influenze orientali, che il sorgere di Costantinopoli aveva naturalmente eccitate, fu anche la sua cadenza. Si ricordi in proposito l'importanza che ebbe allora Aquileia, cui succedette quale sede patriarcale Grado, non appena i barbari sopraffecero i Romani. A quest'arte paleocristiana, sempre più attenta all'Oriente, che era impero, e dominava le terre costiere, non si è data ancora tutta l'attenzione che merita. È poco ricordare il carattere basilicale, quindi italico, dell'Eufrasiana di Parenzo e delle chiese di Grado, dove le forme care a Ravenna, con predominio della decorazione bizantina giustinianea, accennano indiscutibilmente, in certe particolarità dell'abside, involta entro il perimetro rettangolare delle mura (S. Maria delle Grazie a Grado e chiesa preeufrasiana di Parenzo), a derivazioni dalla Siria o dall'Asia Minore, eccezionali nella penisola, per comprendere quanto in questo periodo fosse l'apporto del Veneto. Chiese di tale tipo, cioè paleocristiane, non dovettero essere rare anche nella terraferma; lo attestano i pavimenti del duomo di Verona, affini a quelli di Aquileia e di Grado, e della basilica dei Ss. Felice e Fortunato a Vicenza. Recenti restauri hanno anche rivelato a Verona mura di tipo ravennate, a larghe finestre, nella nave centrale di Santo Stefano.
Ma il gruppo basilicale non è che uno degli aspetti, e il più noto, dell'arte veneta in questo interessantissimo momento. Chiese di ben altro tipo, a pianta centrale e a cupola su strombi, rispetto ai quali il battistero di Sotere a Napoli appare esempio sporadico, vi sono numerose e benissimo conservate. La sola illustrata finora, cioè la chiesetta di San Prosdocimo, connessa alla basilica di Santa Giustina a Padova, a croce libera, senza abside, ma con l'antica iconostasi e con iscrizione che la riferisce a Opilione (seconda metà del sec. V), a cupola illuminata da quattro finestruole, è di gran lunga superata però per importanza da quella di S. Maria Mater Domini, che oggi funge da sacristia della basilica dei Ss. Felice e Fortunato; martirion con atrio innanzi, che l'avvicina per iconografia alla più immatura cappella dell'arcivescovado di Ravenna certo costruito dal referendario Gregorio prima del 548, tempo dell'invasione longobarda, e ci offre, oltre all'integrità del perimetro, un'abside tutta adorna di marmi greci, e nella cupola, testé apparsa sotto il graticcio, ampî strombi e resti di musaici a clipei con busti di santi, su fondo azzurro, di tecnica ancora totalmente romana. Né si dimentichi che fa parte dello stesso complesso la chiesetta detta dei Pagani, innanzi alla cattedrale di Aquileia. È tutto un mondo ignorato che così risorge e si allea a quelle costruzioni barbariche che nel Veneto, centro di alcuni dei più ambiti dominî teutonici, attraverso Verona, ove Santa Teuteria (772) è a croce greca libera anch'essa, e, attraverso Cividale (si ricordi S. Maria in Valle, decorata dai celebri stucchi attribuiti anche all'età ottoniana) aveva importanza non solo locale, ma più che italiana, ad esempio attraverso i bani di Croazia, che vi accorrevano in pellegrinaggio e ne traevano maestranze e indirizzi. In Dalmazia infatti la tradizione ravennate (Battistero di Zara, sebbene dell'VIII secolo, S. Orsola ivi e SS. Trinità a Spalato) e quella carolingia di S. Donato hanno riflessi interessantissimi. E gli sviluppi paralleli al Veneto non cessano nemmeno nel tempo romanico bizantino, come provano le chiese di S. Nicolò e specialmente di Santa Croce a Nona.
Sembra pertanto inutile riferirsi a Pomposa anche per altri sviluppi locali dell'architettura, ormai al di là non solo dell'arte ravennate ma anche dell'esarcale (così intendendo quella altrimenti detta deuterobizantina) quando questa ultima tappa rappresenta uno stanco finale; mentre per il Veneto siamo proprio all'aurora. Il campanile rotondo, del tempo di quello a Santa Maria Maggiore di Ravenna, a semplice canna, e a giorno solo nella cella campanaria, di Tessèra presso Mestre, del sec. X, può dirsi indice di tutto un mondo quasi scomparso, simile all'altro da non molto tempo distrutto, di San Paterniano a Venezia.
Di fronte a questa corrente aulica si affaccia naturalmente anche nel Veneto l'arte romanica più schietta, almeno nella terraferma. Quanto vi fossero alte le espressioni ci rivela appieno quella parte absidale svolta a guisa di segmento di cerchio, a tre piani, echeggianti le antiche arene, di Santa Sofia a Padova, ora che gli scavi e gli studî hanno provato la sua evidente appartenenza, preveduta dal Dartein, a un'imponente chiesa circolare, di piano ancora carolingio; chiesa fiancheggiata ivi dal vecchio duomo e dalla primitiva Santa Giustina. Magnifico preludio di un mondo non sorto se non nelle terre più prossime alla Lombardia. A Verona se si è tentato invano risalire a vestigia del tempo dell'arcidiacono Pacifico, esiste in città, attorno a San Zeno (che è il capolavoro dell'arte romanica nel Veneto, di un carattere più coloristico e minuto, sebbene non approdato, forse per la soverchiante ampiezza delle navi, alla copertura a vòlte) e nel contado, tutto uno sciame di chiesette antichissime, protoromaniche come a S. Giorgio di Valpolicella, o romaniche come a S. Salvaro di Legnago, a S. Pietro in Valle, a Caldiero, ecc. Il timbro lombardo prevale più decisamente nel duomo di Trento, ideato e costruito da una famiglia comasca. Caratteri alquanto tedeschi affiorano invece a Udine e nelle chiese di Gemona e Venzone della provincia, ristretti in Verona a qualche branca delle arti plastiche, e massime alle famose porte di bronzo di San Zeno, una delle più alte espressioni dell'arte in questo campo; ben distinte dalle bizantine, diffuse per tutta Italia e anche accolte in San Marco, e da quelle nostrane sul tipo di Bonanno. Modesti del resto i trionfi romanici nel Veneto, se si guarda alla Lombardia e all'Emilia e subito troncati dalla vittoria degli schemi ravennati, che, dopo il primo periodo, totalmente esarcale, visto a Tessèra di Mestre, si affermano in sviluppi che saranno solo veneti. Subito dopo San Giovanni Decollato di Venezia (1007), a tre navate, con capitelli romanici bizantineggianti, di una foggia tutta litoranea, con finestrelle a feritoie, arriviamo a quella singolare affermazione del duomo di Caorle, che una trentina d'anni dopo (1038) ci dà il prototipo della chiesa lagunare, quella che doveva essere stata non solo la chiesetta di San Teodoro, ma anche la prima basilica dogale, dedicata a San Marco dai Partecipazî nell'828, prospettata però dal Cattaneo con il pontile sulla cripta, di attrazione lombarda; quella riconsacrata e rinnovata per opera dell'Orseolo nel 976, tutta adorna di marmi e sculture bizantine poi utilizzate nella terza San Marco, costruita da Domenico Contarini. Fervorosa continuazione delle antiche tradizioni si osserva a Caorle: accanto alla chiesa a tre navate - una, la maggiore, ad abside sporgente e fittamente poligonale all'esterno (come San Vittore a Ravenna) le altre ad absidi ricavate nella grossezza del muro, divisa da colonne con capitelli sempre più bizantineggianti alternate da pilastri semplici - un campanile rotondo, che sviluppa, anche per l'apparire della loggia sotto la cella campanaria, quello del duomo ravennate, ma anche emula i fratelli romanici nella pungente terminazione a pigna, poi sempre tipica nel Veneto. Torcello con il suo duomo, Murano con il suo San Donato, e a Venezia stessa, l'antica San Zaccaria, S. Eufemia, ecc., sono di questa tendenza, sebbene con apporti più romanici nelle logge dell'abside a Murano, e nei campanili, divenuti prima poligonali poi decisamente quadrati. È subito dopo Caorle che quella penetrazione delle maestranze bizantine, già apparsa fra le Lagune con i Partecipazî (Leone V le manda per abbellire San Zaccaria) e più decisamente con l'Orseolo, s'impone durante la costruzione dell'ultimo S. Marco, che, nel 1063, rappresenta il loro trionfo. Allora è un dilagare di quelle raffinate decorazioni a nicchie di mattoni, pulite e poco penetranti, le quali raggentiliscono lo sperone absidale di Santa Sofia a Padova, incavano blandamente la sua facciata, si lanciano in ritmi, che si trovano identici a Costantinopoli (S. Teodosia e il Pantocratore, ecc.), lungo le canne dei campanili, attorno e dentro alle nuovamente predilette costruzioni a pianta centrale (Battistero di Concordia, Santa Fosca di Torcello, Battistero di Zara, Santa Croce di Nona, ecc.), sempre presenti (corridoio fra la chiesa dei Pagani e il Battistero ad Aquileia), specie nelle costruzioni litoranee.
E con queste particolarità di indubitabile fonte bizantina, rimaste come peculio della tradizione veneta, che le echeggiò in chiese tardo-romaniche o già gotiche (Sant'Antonio ed Eremitani a Padova) viene tutta una serie di capitelli e di cornici dalle mode macedoni, ove le influenze arabe loro proprie, evidenti nell'uso del niello a paste multicolori (pulvini a S. Sofia di Padova, e presso il duomo di Verona, capitelli ai Ss. Vittore e Corona di Feltre), rivelano raffinatezze e insistenze implicanti un intervento diretto continuato e diffuso delle maestranze bizantine. Il culmine di questa penetrazione, il suo suggello e anche la sua fine memorabile sono rappresentati dal terzo San Marco.
Questo odierno San Marco fu costruito sotto la direttiva di maestri venuti da Costantinopoli, sull'esempio di quell'Apostoleion che è ricordato al paragone da tutte le cronache. Il quale non va inteso per l'Apostoleion di Giustiniano ma per quello rinnovato per opera di Basilio con cupole sporgenti, su uno schema volutamente arcaico, come prova il ritorno all'abside a cinque facce, e legato alla destinazione funeraria. Così, per opera di maestranze locali, evidenti in molte peculiarità struttive, ben notate dal Cattaneo, divinatore di questo oscuro periodo, sorse, conglobando, in modo da disperderne però ogni traccia, l'antica chiesa dei Partecipazî e dell'Orseolo, questa miracolosa costruzione, tutta coperta da cupole, cinta da un nartece che giunge sino alle braccia della crociera, e che la decorazione dei marmi colorati e dei preziosi musaici (i più antichi naturalmente ligi a schemi bizantini - si confronti la Pentecoste con quella di S. Luca nella Focide e quella dell'Ascensione con S. Sofia di Salonicco) fa apparire per l'armonia dell'insieme, sebbene raggiunto con modi sempre più nostrani, il vertice della civiltà di Bisanzio non mai conservata altrove in modo tanto perfetto; quella che una voce unanime ha definito la "basilica d'oro". Alle sue vicende è naturale si sia lungamente rivolta la scienza, poco modificando però quanto il Cattaneo ha stabilito non solo nei riguardi della basilica precedente, ma anche rispetto all'andamento dell'esterno, a mattoni a vista, raggentilito da quelle nicchie che sono tipiche del gusto bizantino di questo momento; esterno cui, moltiplicando con indirizzo proprio lo splendore dell'interno, i Veneziani aggiunsero, dopo il bottino di Costantinopoli, l'odierna ricchissima rivestitura di marmi e di colonne.
San Marco rimane per il Veneto, e per la civiltà romanica tutta, un'eccezione che ne chiarisce l'origine, appena echeggiata con modi nostrani nella pittoresca chiesa del Santo a Padova, ove le cupole appaiono come un mondo inconsueto, non collegato armonicamente alla massiccia struttura dell'imponente edificio. Con più sapienza saprà l'arte valersi di questa suggestione nel Rinascimento a Venezia (S. Maria Formosa) e a Padova stessa in Santa Giustina.
Solo dopo aver compreso questo compito singolare di messaggera dell'Oriente, il che non vuol dire ancella, si potranno cogliere quegli altri aspetti sempre più italici, ma tanto particolari di Venezia, divenuta centro di un governo sapiente e di uno stato che vanta la più mirabile storia dopo Roma; tutto proteso verso il mare e, fino alla scoperta dell'America, mediatore indiscusso tra l'Africa, l'Asia e l'Europa. Questo mondo rimasto appartato dalle grandi correnti romaniche, sebbene anchr in San Marco, come a Santa Giustina di Padova, si possano notare saggi di stupenda scultura di sapore antelamico, non poteva naturalmente offrire la base a sviluppi architettonici sostanzialmente gotici, male accetti del resto a tutta l'Italia; essi vi divennero, nel loro aspetto più decorativo, quello fiammeggiante, un altro di quegli elementi pittoreschi che formarono la trama della sua arte e anche della sua architettura. Per quanto più ariose e limpide, le chiese dei Frari e di S. Giovanni e Paolo non differiscono da quelle di Santa Anastasia e del duomo di Verona; né Santo Stefano fra le lagune molto si allontana da San Fermo a Verona e dagli Eremitani a Padova. Nasce così quell'architettura veneziana, tutta risolta nella preponderanza dei vuoti sui pieni, tutta trine e scherzi, che forma il più singolare contrapposto a Firenze e dà a Venezia un volto il quale conferisce alla città un andamento quasi di sogno che, pur essendo arte, non può essere mai definito struttura. Venezia sarà tanto gelosa di questa sua particolarità e di questa sua pittoresca unità da ripudiare ogni tentativo di offenderla; e riuscirà quindi vano parlare fra le lagune di un'architettura non risolta fatalmente in questa negazione. Dai palazzi romanico-bizantini (palazzi Da Mosto-Loredan e Giustinian, Fondaco dei Turchi), dalla facciata della Ca' d'Oro, sciorinata come un merletto, e tutta risolta in superficie, dovuta al lombardo Matteo Raverti ma realizzata da Bartolomeo Bon (1430 circa), autore della non meno inconsistente Porta della Carta (1438 circa), si arriva, attraverso all'albertismo di Mauro Coducci, cui si devono, insieme con la ricca facciata di S. Zaccaria, il Palazzo Salom e lo scenario bilanciatissimo del Palazzo Vendramin Calergi (di quel Mauro Coducci che, visto in tal modo, relega entro modesti confini la fama di Pietro Lombardo architetto, al quale si deve solo l'artificioso e punto risolto palazzetto di Ponte delle Torricelle a Padova e lo scrigno marmoreo della chiesetta dei Miracoli) a Baldassarre Longhena, certo il massimo dei realizzatori lagunari, che giunge sin quasi alle soglie del Settecento, cioè al barocco, senza che sia turbata l'essenza di questa architettura.
La grandezza del Longhena starà appunto nell'averla non solo servita ma esaltata al massimo, convogliando nei suoi due potenti palazzi, dal gagliardo chiaroscuro e dalla rastremazione monumentale, il Rezzonico più giovanile e quello Pesaro della maturità e nella Chiesa della Salute, raccolta attorno a una cupola, sempre di carattere veneto, tutte le esperienze che l'arte aveva suggerito alle costruzioni lagunari. Il Longhena continua in fondo quella architettura che Iacopo Sansovino aveva trattato felicemente sfoggiandovi, da toscano, elementi veneti. Con la forza di Michele Sanmicheli presente a Venezia con il severo Palazzo Grimani, il Longhena ha pure rapporti; e d'altra parte deriva da Andrea Palladio, a Venezia relegato nella costruzione di alcune chiese, il riposato interno della Salute, lo scalone per il monastero di S. Giorgio. Il Palladio, che, inteso nel senso meno vivo, darà agli ultimi architetti veneziani che sboccano nel neoclassico (Giacomo Quarenghi, il maggiore, esulò per costruire Pietroburgo) gli ultimi suoi grandi, in questo campo: Giorgio Massari, l'autore del Palazzo Grassi, e Antonio Selva, il costruttore della Fenice (1793).
L'architettura veneta nella terraferma passò mirabilmente dal pittoresco al pittorico. La inizia, certo precorso da fra Giocondo, Giovanni Maria Falconetto, veronese, a Padova, in una serie di mirabili architetture, ove i ritmi bramanteschi e peruzziani si sciolgono in accentuazioni spaziali che preludono chiaramente Palladio e, sotto certi aspetti, anche Sansovino (Villa di Ponte Casale) e Sanmicheli (Porte San Giovanni e Savonarola). Quest'ultimo rimasto, per l'attaccamento ai sistemi dei Sangallo, da cui direttamente procede, più un superbo tecnico che un rinnovatore, massimo fra gli architetti militari per la nettezza delle membrature di un lindore quasi greco e per il senso dei rapporti (Porta Palio a Verona e il Forte di S. Andrea al Lido sono in tal campo veri capolavori). Nei palazzi, specie in quello Bevilacqua a Verona e Grimani a Venezia, nella squisita Cappella Pellegríni a San Bernardino (Verona), non ostante la sua fedeltà alla Toscana, prelude al barocco; con precorrimenti sfruttati appieno dal Longhena. Ma l'espressione pittorica attraverso alle masse e ai volumi, non più elemento secondario del barocco locale, ma fondamento del barocco universale, è raggiunta in modo pieno superando le origini falconettesche, rimaste invece modulo costante dell'architettura padovana (S. Giustina-università-municipio), e gl'impacci del Serlio, da Andrea Palladio. Dalle esperienze prime, quali la Villa di Cricoli, costruita sulla falsariga del Falconetto, e dalla basilica, ideata secondo suggeriva il Serlio; dalle ville di andamento frontale (tipica quella Barbaro a Maser) egli arriva al mondo ricco e inesplorato delle architetture raggruppate, disponendo in larghi accordi i rusticali intorno alle ville (villa Badoer a Fratta e quella di Meledo) o le logge come ali e gli atrî come tentacoli (Rotonda e Palazzo Chiericati a Vicenza). Architettura ariosa la quale sbocca nel teatro, organizzando locali chiusi su moduli antichi e spalancando dinnanzi a essi la scena con efficaci prospettive. Questa splendida architettura, che, non appena sorta, avrà tagliata nel Veneto la via da Vincenzo Scamozzi, ristrettosi più all'apparenza esterna e a certi accenti di pacate colonne che a una vera comprensione del suo spirito più schietto, sarà poi uno degli elementi vitali dell'architettura barocca, giunta a Roma attraverso Camillo Mariani, palladiano in architettura e seguace del Vittoria in scultura.
Pittura. - Soprattutto nel campo del colore trionfa il genio di Venezia, la cui civiltà fu sempre pittorica, sia che si esprimesse per questa via più sua, sia per quella, lo abbiamo visto, dell'architettura e, lo vedremo, della scultura. Perciò, dopo la Toscana, madre del Rinascimento, è certo il Veneto la regione più importante per la storia dell'arte italiana e mondiale, quella più prossima poi alla sensibilità moderna. E anche questo si collega alla sua nascita bizantina e ai reiterati influssi dell'Oriente. Le due tendenze: orientale e occidentale vi si contesero a lungo il predominio, sinché non vi si acquetarono in questa che è una delle espressioni più alte e ricche che vanti l'umanità. Contribuì ad alimentare le differenze il distacco che fino al Quattrocento, vi fu tra la Dominante e la terraferma, per cui se sul litorale prevale quasi ininterrotta l'arte orientale, nella terraferma sono le influenze romaniche che s'impongono, quelle tanto ricche dell'Italia settentrionale. Verona, a scolta delle vie alpine, vi rappresenta il centro delle tradizioni lombarde e di quelle romaniche germaniche, ed ecco perché fu sempre al polo opposto di Venezia, in mezzo alle quali sta mediatrice Padova. Verona accolse subito le forme della rinascenza postcarolingia, specialmente della branca ottoniana, che lasciarono le loro tracce abbondanti nel Trentino, specie nella Val Venosta (Naturno-San Benedetto a Malles, notevole non solo per gli affreschi, ma altresì per la ricca decorazione in stucco) ma anche in Val d'Adige (Montemaria di Burgusio-Castel Appiano) congiungendosi però qui a tendenze bizantineggianti, le quali hanno il loro massimo risultato nella stupenda serie degli affreschi nella cripta della basilica aquileiese, dipinta sul finire del sec. XII. Affreschi che trovano riflessi, sia nel carattere ottoniano, in esemplari di Padova (Annunciazione sull'arco trionfale di S. Sofia), sia nel carattere bizantineggiante nella chiesa benedettina di Sumaga e agli Eremitani, per cui arriviamo all'aulica Deposizione ai Ss. Apostoli a Venezia. Lo stesso carattere si nota nei non ancora ben studiati musaici di San Marco.
Spetta a Padova di aver chiamato i più alti campioni dell'arte italiana con Giotto e Giovanni Pisano. Ma la loro luce troppo alta però avrebbe più spaurito che vinto, se non fosse giunta un'altra corrente, più affine per il gusto ritmico e decorativo, quella della pittura riminese e romagnola e dei miniatori della dotta materna Bologna. Da un capo all'altro del Veneto troviamo infatti i rappresentanti di questa scuola (a Trento, Monte da Bologna nel duomo; a Udine, Vitale da Bologna; oltre agl'imitatori a Venzone, a Spilimbergo, a Collalto, a Padova), la quale ebbe non solo fra i Veneti rappresentanti secondarî, ma anche, e Vitale insegni, di rara valentia; massimo quel Tomaso da Modena che, facendo centro della sua attività Treviso, ebbe campo non solo di preparare con i suoi modi gotico-narrativi, seneseggianti, il fiorire della scuola veronese, la più grande dopo Giotto del Trecento italiano, ma perfino di attrarre l'arte boema. È attraverso Tomaso che comprendiamo il formarsi del veronese Altichiero, attivo massimamente a Padova (cappelle di S. Felice e Lupi al Santo), e quindi tutta la scuola che ne discende e che già con Martino da Verona (operoso anche a Vienna) si fonde con quelle correnti colonesi o meglio gotiche austriache e renane, che generarono la scuola di Bressanone da un lato (Bressanone e i Mesi nel castello del Buonconsiglio a Trento) e quella di maestro Stefano nella città dell'Adige. Ne nacque così il più grande maestro dell'arte internazionale d'Italia, sebbene anche sotto l'influenza di un altro campione di quella branca, Gentile da Fabriano; molto attivo a Venezia cui in parte si collega la sua educazione: Antonio Pisano detto Pisanello (gli unici suoi affreschi a Verona in S. Fermo e in S. Anastasia). La cui singolarità, che giunge al margine del Rinascimento, con le sue celebri medaglie, per chiaro contatto con i Toscani e specialmente con Paolo Uccello, è forse il massimo che questa corrente potesse darci, senza transigere con le sue direttive.
Questo gotico internazionale meglio di ogni altra tendenza si fonde con l'arte lagunare, ove maestro Paolo porta un deciso indirizzo bizantino, che ne fa i raggiungimenti simili a quelli non meno alti dell'arte paleologa a Qahryyeh Giāmi'. Nella sua maniera, la quale si diffonde anche in terraferma con il. Semitecolo e con il padovano Guariento (da escludersi dalla schiera dei giotteschi, se mai attratto dalle forme più agevoli del toscano Giusto dei Menabuoi, divenuto cittadino di Padova, dove ha le sue opere maggiori nel Battistero del duomo e al Santo) il gotico internazionale s'innesta, prima con accenti bolognesi, in Lorenzo Veneziano, poi con accenti gentileschi e pisanelliani, in Iacobello del Fiore, dal quale si giunge, con sempre maggiori e diretti apporti fabrianesi, a Iacopo Bellini e ad Antonio Vivarini, cioè al preludio gotico del Rinascimento.
Padova allora colse il frutto di quel contatto prodigioso, voluto dapprima dalla Serenissima con la chiamata a Venezia dei massimi rappresentanti di quella scuola fiorentina che il Rinascimento primo aveva creato. La provvida direzione data a loro dei lavori di San Marco, nel 1419 devastato da un incendio, fece giungere a Venezia i maestri del Rinascimento, e basti ricordare Paolo Uccello e Andrea del Castagno, rinnovatori dell'arte del musaico (da cui mossero i maestri Antonio e Silvestro), Filippo Lippi (cappella del Podestà e affreschi al Santo) maestro di Ansuino da Forlì e di Niccolò Pizzolo, il compagno corroborante di Andrea Mantegna, discepolo di Francesco Squarcione nella cappella Ovetari agli Eremitani di Padova, dove il Rinascimento vinceva, ispirato anche da Niccolò Baroncelli e ben più da Donatello (attivo a Padova dal 1443 al 1453) la sua più grande battaglia fóndamentale per tutta l'Italia settentrionale. Attraverso Andrea Mantegna (1431-1506) tutti dipesero dal Rinascimento del nord, sia direttamente come i Ferraresi e i Veneziani, sia indirettamente, come i Lombardi (Foppa, Butinone, Bramantino). Ma questa singolare e provvidenziale vittoria fu per i Veneziani un preambolo per arrivare a un'arte la quale non era più soltanto forma e spazio, ma, attraverso il colore inteso nei suoi compiti costruttivi, appunto la pittura veneziana, privilegio e grandezza dei Veneti sino all'ultimo Settecento.
I confini delle sue influenze vanno ben oltre il suo territorio geografico; poiché la Serenissima possedette, come parti fedeli del suo dominio, la metà della Lombardia, Cremona cioè, Bergamo e Brescia, centri di scuole le quali non si possono scindere dagli sviluppi della Dominante. Quasi ogni città del Veneto ne ebbe del resto una; se finì presto quella di Padova, dove il mantegnismo fu preso come legge insormontabile, e degenerò in strani manierismi fuori tempo (da Iacopo da Montagnana volto a Venezia, al Parenzano volto a Ferrara sino all'orribile Corona della Scuola del Santo), ebbe grande importanza la Veronese, tutta ravvivata dall'arte del Mantegna maturo, trasferitosi quale pittore di corte a Mantova (F. Bonsignori, D. e F. Morone, Gir. dai Libri, Liberale da Verona, F. e G. Caroto) e la Friulana, la quale con i pittori Tolmezzini ebbe importanza non solo per l'arte del Cinquecento locale, ma anche per gli sviluppi di Michele Pacher (Domenico e F. da Tolmezzo). A Venezia la scuola iniziata da Giovanni Bellini, figlio di Iacopo e cognato di Andrea Mantegna, ebbe sviluppi meravigliosi, adoprando il colore nei suoi rapporti di tono per esprimere forma, luce e aria. È inutile fermarsi sulle troppe tappe di questa gloriosa scuola, nei cui principî intervenne anche l'opera a Venezia di Antonello da Messina. Ci basti ricordarne gli indirizzi. Da Giambellino procede, influenzata dal grande colorista suo discepolo, attraverso anche al fratello Gentile, e a Vittore Carpaccio, la famiglia maggiore; quella che diede il padre della pittura moderna, puramente ottenuta con il tocco, senza residui lineari e plastici, con Giorgione da Castelfranco; donde viene da un lato, per filiazione diretta, il più grande colorista della scuola veneta, Tiziano Vecellio, e dall'altro, per filiazione indiretta, la vena più ricca, perché ne dipendono inizialmente anche lo Schiavone e Paris Bordone, di Bonifacio: Iacopo Bassano e Iacopo Tintoretto; quello il maestro della pittura idillica, questo dell'eroica. Da Giorgione procedevano d' altra parte, con accenti nordici e correggeschi argutissimi, Lorenzo Lotto e il placido Palma il Vecchio, entrambi a capo della scuola di Bergamo, di cui il secondo era figlio. Così gli si collega la scuola bresciana attraverso il Romanino (esemplare anche per la cremonese dei Campi), famosa per le opere del Moretto e di G. B. Moroni e la ferrarese del focoso Dosso Dossi; ma quest'ultima con naturali mistioni correggesche, sempre più palesi in Niccolò dell'Abate e nel Primaticcio e utilissime, accanto ai modi bresciani, nella formazione di Paolo Caliari, detto il Veronese, che si può dire l'inventore della grande pittura decorativa, quella che ebbe poi fra le lagune il compito di mantenere quell'amore al colorito cantante, arioso, non troppo affogato nel tono, che tanto Tiziano, quanto il Bassano e il Tintoretto, avevano abbandonato per i fuochi segreti del notturno.
Da Antonello da Messina era d'altra parte nata una schiera ligia a una forma più costruita, la quale non è stata ancora abbastanza tenuta presente nelle sue ultime altissime conseguenze. Tanto l'arte antonellesca di Bartolomeo Montagna (fondatore della scuola Vicentina che vantò interessanti artisti quali il Buonconsiglio e il Fogolino), quanto la non meno antonellesca di Alvise Vivarini (alla quale per tanti lati si congiunge il primo Lotto) convergono nel genio di Giovanni Antonio da Pordenone, l'emulo di Tiziano, il quale dopo i primi passi fatti nel Friuli sotto la guida dei Tolmezzini, poté farsi corifeo delle influenze romane, attinte in due viaggi a Roma.
Dopo la breve sosta del manierismo di Palma il Giovane e della sua scuola e dell'accademismo del Padovanino, di sull'esempio dei tre grandi venuti a prender luce dalla famosa pittura veneziana e a morirvi (Tiziano moriva nel I576; Paolo nel 1588; Tintoretto nel 1594) Domenico Fetti romano (morto nel 1624), Giovanni Lys tedesco (morto nel 1629-30), Bernardo Strozzi genovese (morto nel 1644), la pittura lagunare ritornò alla sua comprensione antica, massime con Francesco Maffei (morto nel 1660) e con Sebastiano Mazzoni, sebbene di nascita fiorentino (morto nel 1685). Riconquistata così la pae del senso decorativo, non senza contributo delle scuole provinciali: di Verona con Antonio Balestra (donde i Cignaroli, il Bazzani e i settecentesehi trentini e austriaci), di Brescia con Giacomo Cerruti (attivo per un decennio a Padova intorno al 1740), del Friuli con Antonio Carneo (donde il Bombelli e quindi Nicola Grassi, e il primo Pittoni), Venezia incominciò con Iacopo Amigoni, con Gianantonio Pellegrini e con Sebastiano Ricci a ristabilire l'antico primato e a riconquistare il mondo. Proprio quando la tradizione prospettica dei bolognesi, incontrandosi con il paesaggio di Marco Ricci, ritrovava anche le vie della scenografia e delle vedute, per cui, non senza contributo dell'udinese Luca Carlevaris e dello svedese Giovanni Richter, poteva approdare a Francesco Zuccarelli, a Giuseppe Zais e soprattutto al Canaletto e al Bellotto.
Più grandi ancora erano le sue affermazioni nel campo della pittura maggiore, dove Giambattista Piazzetta (1682-1754) ristabilì l'importanza. della forma pittorica, che (non senza piacevoli diversioni della pittura di genere con Pietro e Alessandro Longhi) doveva dominare con il pittore forse più ricco di fantasia, di facilità e di sicura bravura nell'arte: Giambattista Tiepolo (1696-1770), il quale dipinse vòlte e pareti nei palazzi principeschi di mezza Europa.
Ma è in Francesco Guardi (1712-1793), l'artista più sensitivo e più squisitamente pittore che Venezia vanti dopo Giorgione e dopo Tiziano, aperto a tutte le forme, il paesaggio, la veduta, la scenografia, l'affresco, la pala chiesastica, la scena di genere, che si raccolse in una suprema espressione (in parte non compresa per l'appressarsi del neoclassicismo), specialmente nelle sue luminose o accorate rievocazioni della città e della Laguna, l'ultimo respiro della Serenissima preludente alla scuola moderna dell'impressionismo. Così morivano a Venezia, a un tempo, libertà e arte.
Scultura. - Anche la scultura paleocristiana nel Veneto aveva assunto forme tardo-romane, probabilmente elaborate nell'Oriente mediterraneo, e forse filtrate attraverso Ravenna: come attestano sopra tutto il prezioso "templon" del sacello di S. Prosdocimo a Padova, esemplare rarissimo, per il sec. V cui appartiene, di una suppellettile che diverrà comune nel mondo bizantino solo dal sec. X in poi e varî sarcofagi e urne, riportabili ai primi tempi cristiani, affini ai ravennati. La basilica di S. Marco a Venezia particolarmente, s'arricchì di spoglie scultorie protocristiane: tralasciando i capitelli rimessi in opera qui come in altre basiliche, basterà accennare alla cattedra di S. Marco, con accenti antiocheni, al bassorilievo con la Natività e a quello con un angelo nella cappella Zen, all'architrave della prima porta sinistra del nartece. È controversa l'attribuzione a epoca paleocristiana delle quattro colonne scolpite del ciborio.
Il periodo longobardo sparse per tutto il Veneto monumenti scultorei di fondamentale importanza, specie a Cividale, che fu una vera capitale longobarda, nel famoso altare di Ratchis (744-46) in S. Martino, nel ciborio frammentario di S. Maria in Valle, nel fonte battesimale di Callisto; e via per tutta la regione veneta, dal ciborio di S. Giorgio in Valpolicella nel Veronese ai resti da S. Martino a Padova, dei Ss. Felice e Fortunato a Vicenza, e fino a Cattaro in Dalmazia. Nei secoli IX e X la maniera "longobarda" venne maturando e trasformandosi, non senza influssi bizantini, in carolingia: a tale ambito appartengono numerose sculture decorative, specialmente plutei, a Concordia, per es. (Battistero), ad Aquileia, a Grado, e poi nell'Istria (Pola) e nella Dalmazia, a Zara, a Spalato, a Cattaro. Anche Venezia serba, in qualche vera da pozzo, e nei resti, forse da S. Teodoro, incorporati in S. Marco, tracce di questa maniera. Si potrà discutere ancora sull'età dei mirabili stucchi, ispirati ad avorî bizantini, di S. Maria in Valle a Cividale, ora affermati dell'evo ottoniano.
La seconda età dell'oro bizantina, con la sua vasta espansione, agì profondamente sulle sculture del Veneto, soprattutto di Venezia, non solo trasportandovi opere compiute, specie capitelli, transenne, bassorilievi figurati, che si ritrovano messi in opera e variamente incorporati nelle chiese di S. Marco, di S. Giovanni e Paolo, ecc., e di Torcello, di Caorle, di S. Sofia di Padova, di Portogruaro, di Zara, ecc., ma anche importandovi maestranze, le quali lavorarono nella regione e iniziarono artigiani locali, che poi lentamente si sostituirono a esse, contemperando i loro insegnamenti con le proprie tradizioni "adriatiche" e con gl'influssi romanici. Di contro al bizantinismo persistente nelle regioni marittime, nella semilombarda Verona l'espressione prettamente romanica tedesca trionfò in un gruppo di riquadri delle porte bronzee di S. Zeno (facciata), al quale si uniscono, nelle medesime porte, altri riquadri in parte dovuti a nuovi influssi germanici e in parte a scultori di tradizione lombarda. Questa s'afferma, in Verona stessa, per opera di Nicolò, il quale nei portali del duomo e di S. Zeno attenua con levità pittoriche (attenuazione già verificatasi nell'architettura), il duro modello di Wiligelmo, e di Guglielmo, che sulla facciata di S. Zeno lasciò la sua firma. E pure occidentali furono le sculture venete, di trapasso fra il romanico e il gotico, riportabili al sec. XII: ma d'intonazione prevalentemente antelamica e quindi francese, come quelle dell'antico portale di S. Giustina a Padova, sebbene talora subissero, dalle esperienze bizantine,, qualche attenuazione, come nel sarcofago dei Ss. Sergio e Bacco, e nel fonte battesimale di S. Giovanni a Verona. L'ormai formato e italico linguaggio antelamico ebbe eco, a Verona, nell'iconostasi di S. Zeno, e soprattutto a Venezia (dove s'affiancò a una persistente corrente bizantineggiante), nel Sogno di Giuseppe del Museo di S. Marco, e negli arconi del portale maggiore della basilica. È possibile credere che intorno a quest'opera grandiosa e di estrema importanza, si sia costituita nel sec. XIII una scuola scultorica propriamente veneta, contemperante la tradizione lombarda protogotica con suggerimenti bizantini di classicismo e di pittoricità: a essa appartennero quel Radovano, che nel 1240 decorava splendidamente, firmandovisi, il portale del duomo di Traù, e gli altri scultori dalmati duecenteschi (Andrea Buvina, autore delle porte intagliate del duomo di Spalato, e specialmente quelli che scolpirono l'Annunciazione e la Natività nell'atrio della stessa chiesa), il cui potente e scabro linguaggio non fu senza influsso sugli stessi scultori dalmati del Rinascimento. Nel Trecento determinante stilistica della scultura veneta fu l'opera dei Pisani; di Giovanni, la cui Madonna tra Angeli, eseguita agli albori del secolo per la cappella degli Scrovegni a Padova, influì sugli scultori locali; di Nino, specialmente, la cui azione fu viva soprattutto a Venezia, nel monumento Corner in Ss. Giovanni e Paolo (1368), e in altri che ne echeggiarono le forme. Indirettamente, attraverso i seguaci di Giovanni di Balduccio, l'insegnamento pisano fu recato a Verona (dove da esso dipesero i Campionesi autori delle arche scaligere); ma a Venezia germogliò in una vera e propria scuola di tagliapietra (di cui il maggiore rappresentante fu Andriolo de Sanctis: continuata dopo la morte di Andriolo dal figlio Giovanni), elaboratrice del linguaggio di Nino pisano in forme venete; la quale lasciò opere numerose e varie a Padova, a Verona, a Venezia, a Treviso, a Udine e a Capodistria. Dalla bottega dei de Sanctis probabilmente uscirono i maggiori scultori gotici veneti: Iacobello e Pier Paolo delle Masegne. Lavorarono i due fratelli a Bologna, a Mantova; lasciarono traccia del loro passaggio a Milano; alla terra patria diedero, fra l'altro, le statue dell'iconostasio di S. Marco a Venezia (opera principale di Iacobello) e il sarcofago di Pileo da Prata del duomo di Padova (opera principale di Pier Paolo). La loro bottega continuò con figli e seguaci, le cui opere, sempre più scadenti tuttavia, si rintracciano a Bologna, nelle Marche, in Dalmazia.
Agli albori del Quattrocento raggiunge il Veneto una schiera di artisti toscani, alcuni dei quali (es., Marco e Andrea da Firenze, lavoranti in S. Pietro a Padova) ancora masegneschi, altri (Nicolò Baroncelli, Dello Delli, Michele da Firenze, Nicolò Lamberti, ecc.) solo parzialmente rinascimentali, altri alfine (Pietro Lamberti, Donatello, Agostino di Duccio) portatori della parola nuova più sonora e schietta. Sulle loro tracce si formò la scultura veneta del Rinascimento: svincolandosi da persistenze gotiche locali, o anche tedesche e lombarde; a Padova con Nicolò Pizzolo (pala di terracotta agli Eremitani, ecc.) e probabilmente con lo stesso Mantegna, raro ma potente scultore, con Bartolomeo Bellano (opere varie a Padova, specialmente al Santo, a S. Giustina, agli Eremitani, a S. Gaetano, a S. Francesco, ecc.), con Andrea Briosco detto il Riccio e con lunga schiera, di bronzisti dopo di lui; a Venezia, con Bartolomeo Buon e la sua bottega, la quale probabilmente ospitò una schiera assai mista di tagliapietra veneti, lombardi (Matteo Raverti, Andrea da Milano, ecc.) e toscani. L'insegnamento plastico dei toscani fecondava anche un'attività di vivaci e realistici modellatori in terracotta, soprattutto a Padova; il donatellismo s'espandeva, con Nicolò fiorentino, in Dalmazia (lavori varî nella cattedrale di Traù e a Sebenico); l'influsso di Agostino di Duccio agiva sul giovane Pietro Lombardo (Paliotto di S. Trovaso a Venezia), alleggerendo le forme apprese dal Bellano a Padova; l'opera di Pietro Lamberti, se non riusciva a eliminare del tutto in Bartolomeo Buon le persistenti grafie gotiche, rinnovò più giovani e dotati scultori della bottega veneziana: tra i quali il lombardo Antonio Bregno, lo zaratino Giorgio Orsini (opere a Sebenico nel duomo, a Spalato, ad Ancona, a Zara, a Ragusa, a Cattaro), seguito da Andrea Alessi (Spalato, Trau), e forse anche il grande Francesco Laurana di Zara (Sebenico, duomo). Giovanni di Traù, infine, operoso a Roma, ad Ancona e in Ungheria, ma anche in patria (duomo) e a Venezia, chiude la scuola di scultura dalmata del Rinascimento. A Venezia, nella seconda metà del Quattrocento, succedeva al Buon il veronese Antonio Rizzo, e vi temperava in sculture varie e potenti (specialmente nell'Arco Foscari in Palazzo Ducale) il persistente goticismo lombardo proprio e dei Bregno; e continuava a produrre opere numerosissime la famiglia dei Lombardo (Pietro, Antonio e Tullo), attiva anche a Padova (Santo), a Treviso (duomo), nelle Romagne (Ravenna, Faenza, ecc.). A essa può essere in parte aggregato A. Leopardi, prevalentemente orafo e bronzista, autore, tra l'altro, dei pili reggistendardo in piazza S. Marco.
Raccolse in parte nel sec. XVI l'eredità della scuola dei Lombardo il toscano I. Sansovino (sculture della loggia del Campanile, monumento Venier in S. Salvatore a Venezia, ecc.), ma i modellatori locali, se per qualche lato ne dipesero, con più decisa schiettezza seppero interpretare la scultura in quel senso pittorico, che fa il carattere e il valore di ogni arte veneta: Danese Cattaneo (nativo di Carrara), Tiziano Minio, Tiziano Aspetti, G. Campagna e, sopra tutti, A. Vittoria. Da questo dipende quel Camillo Mariani (statue di S. Pietro a Vicenza, medaglie, ecc.), il quale fu il veicolo delle decise influenze pittoriche venete sulle sculture toscana e romana, generando il Mochi e preludendo al Bernini.
Nel Seicento affluiscono a Venezia scultori bolognesi (Mazza), genovesi (Parodi) e soprattutto bernineschi (tomba Dolfin in S. Michele di Murano), francesi (Claudio Perreau), tedeschi (Melchior Barthel) e infine il fiammingo Giusto Le Court (opere ai Frari, alla Salute, in S. Clemente, in S. Michele, ecc.); ma tutti, specie quest'ultimo, s'innestano nella corrente pittorica locale e contribuiscono a rinnovare la scultura veneta che, tralasciando il Tarsia, il Baratta, il Groppelli, il Cabianca, s'innalza nuovamente, attraverso il mediocre Brustolon e i più fedeli con il Marchiori e specie con Antonio Bonazza e con il Morlaiter, quasi riprendendo la tradizione pittorica del Mariani. A. Canova, infine, uscito da quest'ambito, lo conclude volgendosi a fomule neoclassiche. Nella seconda metà dell'800 le arti nel Veneto parteciparono del rinnovamento operatosi in tutta Italia. Il pittore più caratteristico fu il Favretto (il Hayez, nato a Venezia, è da considerarsi lombardo) uscito dalla scuola di P. M. Molmenti; il massimo, Segantini. Altri notevoli lo Zona, il Grigoletti, specie nei ritratti; e poi G. Ciardi, V. Cabianca, L. Nono, A. Milesi, P. Fragiacomo, il Veruda, pittori di vedute e di costumi veneziani. F. Zandomeneghi, veneziano vissuto a Parigi, si ricorda del colorito veneto; E. Tito, nato a Castellamare di Stabia, ma stabilitosi a Venezia, si riallaccia al decorativismo tiepolesco. Nella scultura niente più d'un Dal Zotto e d'un Marsigli; importante, oggi, l'opera di A. Selva e di A. Martini.
Bibl.: R. Cattaneo, L'architettura in It. dal sec. VI al Mille circa, Venezia 1888; G. Bettini, Padova e l'arte crist. d'Oriente, Atti del R. Ist. veneto, 1937; A. Venturi, St. dell'arte, Milano 1901-1934, voll. 22; A. Kingsley Porter, Lombard Archit., New Haven 1917; R. v. Marle, The italian Schools of Painting, L'Aia 1923-1936, voll. 18; P. Toesca, Storia dell'arte ital., Torino 1927; G. Fiocco, L'arte del Mantegna, Bologna 1927 (e in Dedalo, VII [1926-27], pp. 535-544; VIII [1927-28], pp. 287-314; 343-376; 432-458; e in Riv. d'Arte, fasc. i°, 1936); G. Fogolari, Trento, Bergamo 1916; A. Morassi, St. della pittura nella Ven. Trid., Roma 1933; La basilica di Aquileia, Bologna 1933; L. Simeoni, Verona, Verona 1910; A. da Lisca, La basilica di S. Stefano, in Atti Accademia, 1936; G. Frasson, M. Mater Domini, comunicazione al R. Ist. veneto, 1937. V., inoltre venezia.
Tra gl'inventarî: B. Cavalcaselle, Elenco dei monumenti per il Friuli, 1876 (ms. della Bibl. com. di Udine) e quelli in corso di pubblicazione a cura del Ministero dell'educazione nazionale. Sono già pubblicati cataloghi e inventarî per Bergamo, Cividale, Padova, Pola, Treviso, Zara.
Dialetti.
Al concetto regionale delle Venezie, anche prescindendo da isole alloglotte - tedeschi, sloveno-croati e romeni - non corrisponde e ancor meno corrispose nei secoli precedenti un'assoluta unità linguistica. Dal dalmatico, ora scomparso (v. dalmatica, lingua, XII, p. 243), si può prescindere. Ma rimane nell'Istria in qualche parlata, per es., a Rovigno, traccia di un dialetto indigeno, l'istriano, che non può essere identificato con il solito veneziano giuliano e dalmatico (v. istria: Dialetti, XIX, p. 684) e ancora maggiore è il distacco fra il veneto e il friulano (v. Friuli: Dialetti, p. 95 segg.) o fra il veneto e le parlate dolomitiche dell'Alto Adige (livinallonghese, badiotto, marebbano, gardenese e fassano; v. alto adige: Storia, II, p. 716). All'occidente il Trentino ha poi delle caratteristiche comuni con il lombardo in opposizione al veneziano. Dalmatico, istriano, friulano, dialetti dolomitici sono varietà di zone marginali, meno esposte alle comunicazioni del rimanente della regione veneta e perciò meno vitali e destinate a essere assorbite, ma sono la dimostrazione che i due concetti di regione naturale e unità dialettale qui non ancora si corrispondono. Ciò dipende dalle premesse etniche e dallo sviluppo storico. La latinità si compì nell'Istria e nel Friuli su sostrati ben diversi dalla comune base paleoveneta della pianura e delle Prealpi. Nel Veronese-Padovano, nel Trentino e nell'Alto Adige si ripete lo stesso fenomeno, senza che questo lembo occidentale della Venezia abbia nemmeno in sé stesso uniformità o identità di sostrato. Nello sviluppo storico della regione troviamo condizioni analoghe. A parte che ignoriamo fino a dove s'estendesse prima di Augusto la regione veneta nelle Prealpi, troviamo oscillazioni notevoli tanto nel confine orientale quanto in quello occidentale. Ma neppure nell'ordinamento augusteo i confini della X regione coincidono con quelli della Venezia fisica o etnica, andando essi dallo sbocco antico dell'Adda nel Po fino all'Arsa, con esclusione di parte dell'Istria e di gran parte dell'Alto Adige. Viceversa nella divisione dioclezianea il concetto di Venezia supera di molto quello geografico, essendone stati portati i confini a occidente al Lario e fin presso Milano e a NE. oltre le Alpi Giulie, al bacino superiore della Sava. Nessuno dei due centri provinciali, Padova da un lato, Aquileia dall'altro, riuscirono prima delle trasmigrazioni ad ambientare linguisticamente il vastissimo territorio. Con queste ultime l'unità amministrativa è spezzata; ai centri "regionali" si sostituiscono i diversi centri religiosi quali continuatori dei vecchi municipî romani. Sotto il dominio bizantino l'Istria fu staccata dal ducato di Venezia, dal quale, prescindendo dall'ampia zona di dominio longobardo, furono disgiunte pure Grado e il ducato di Ferrara, fra l'Adige e il Po. La capitale stessa del "dogado" fu soggetta a continui spostamenti: fino al 640 fu Oderzo, poi fino al 737 Eraclea, successivamente fino all'810 Malamocco e solo da quest'epoca in poi Rialto, che s'identificherà all'inizio del sec. XIII con il nome glorioso di Venezia. Il dominio longobardo apre le porte a influssi occidentali. La "Marca di Treviso" che nel sec. XII comprendeva, con esclusione del Trentino, quasi tutta la Venezia centro-occidentale, mancò di una capitale preminente; l'autarchia di Verona, Padova, Vicenza porta di nuovo a un frazionamento dialettale. Il trionfo del tipo veneziano è dovuto a seriori sviluppi politici, cioè alla graduale formazione del dominio veneto di terra ferma. Ma, tolto il vecchio "dogado", limitato alla zona costiera dalle foci del Po a Caorle, i vecchi aggregati Padovano, Polesine, Veronese, Vicentino, Trevigiano, Feltrino, Bellunese e Cadorino, presentano tuttora altrettante varietà dialettali, date la capacità di ambientamento dei capoluoghi entro le singole provincie e l'epoca diversa del loro congiungimento con Venezia. Naturalmente su questa differenziazione delle parlate hanno agito anche fattori geografici; il dialetto del Cadore è più lontano dal veneziano, non solo perché parlata periferica e di montagna, ma perché le nuove ondate dialettali giunsero lì da Venezia smorzate dalle provincie intermedie di Treviso e di Belluno. Così si comprende come i confini di singoli fonemi e morfemi entro la parte "venezianeggiante" del Veneto siano sparsi su ampia zona e spesso, specie nelle Alpi e Prealpi, corrispondano tuttora ai confini delle vecchie provincie della terraferma veneziana.
Un'altra questione di grande importanza, anche teorica, è quella del confine lombardo e della sua storia. È, per es., notevole che l'isolata Malcesine sulla sponda veronese del Garda abbia tuttora una parlata di tipo bresciano, senza che si tratti di una speciale colonizzazione lombarda. Pare che una volta, per es., le vocali miste ö, ü, attualmente in uso nel Trentino centrale siano state normali anche nelle provincie di Verona e di Vicenza. Esistono dunque indizî per supporre che nel Medioevo la parte più occidentale del Veneto sia stata ambientata verso la Lombardia. Su ciò, cfr. Carlo Battisti, Atti Congr. trad. pop. Trento, 1935, pp. 63-74.
A differenza delle zone marginali alpine della regione veneta e del Friuli, in cui l'ambientamento storico millenario e la giacitura geografica determinarono isolamento linguistico, i dialetti centrali del Veneto hanno nella loro varietà maggiore uniformità derivante dall'unità della latinizzazione, dall'influsso del centro regionale e specialmente della lingua veneziana usata per tanti secoli nell'amministrazione e nella vita pubblica. La mancanza delle vocali miste ö e ü e di altri fonemi gallo-italici che hanno invaso il Trentino, la maggior conservazione delle atone finali e nella postonica dello sdrucciolo; la coincidenza con l'uso italiano nei dittonghí -iè, -uò aggiunta a numerose concordanze, in parte recenti, nella morfologia, nella sintassi e nel lessico, hanno fatto sì che questo tipo dialettale che già nel Trecento era assurto degnamente a lingua letteraria, dopo prove notevoli nel Duecento, assomigli all'italiano comune più degli altri dialetti settentrionali. Ma essenzialmente settentrionali sono il lessico e, per es., l'evoluzione del consonantismo per cui le intervocaliche o degradano (piégora, cuogo, savér), o si estinguono (cantà, crùo), mentre le doppie si riducono alle semplici e le esplosive palatali passano alle sibilanti (siél, źente). Di nuovo estranea all'italiano letterario è la metafonesi che ricorre attualmente in punti distanti e lontani, a Grado a E., nelle provincie di Verona e specialmente di Padova a O., per cui, quando la vocale finale è i si avvera il passaggio di é, ó a ì, ù (froménto-frominti, rosso-russi) e perfino subentrano nel pavano i dittonghi iè, uò, per è, ò aperti in sillaba chiusa, quando all'uscita siano o (da u) e i (muorto, pietto, puorco). Ma quest'azione metafonica era fino a qualche secolo fa generale e fu superata prima a Venezia città che altrove. I contrasti dialettali fra la pianura e la zona alpina derivano in gran parte dal fatto che Venezia e la pianura hanno recentemente smesso vecchi tratti dialettali. Così è da concepire, per es., il contrasto fra la desinenza della 1a persona plurale in -óm, ón (parlóm "parliamo"), dei dialetti dolomitici, agordini, cadorini, vicentini, bellunesi, feltrini e valsuganotti e la forma comune in -emo del veneziano; il dizionario veneto del Boerio conserva ancora la forma antiquata von "andiamo". Egualmente il participio di prima coniugazione in -ato > -ò che oggi risuona ancora sui Berici e sugli Euganei e, a grande distanza, in qualche varietà cadorina e nel Comelico, non solo era una volta esteso a tutta la provincia di Padova - Dante rimprovera ai Padovani -ò per -ato - ma la sua zona toponomastica arriva con Rondò nel Veronese (Zevio), con Fossó a Venezia e Ballò a Murano; i due punti più avanzati nelle Prealpi Cornolò presso Arsiero e Farrò presso Follina ci dimostrano che tale evoluzione era comune a tutta la pianura dall'Adige al Piave.
Delle principali varietà venete la più importante, sia per la ricca letteratura medievale, sia per la posizione intermedia fra il lombardo orientale e il trentino è la veronese, di cui sono fatti caratteristici: la mancanza dei dittonghi -iè, -uò, la maggiore estensione della scomparsa delle atone finali -e, -o, specie nei dialetti campagnoli e particolarmente quando non si opponga il sistema flessionale, la sincope della postonica nelle sdrucciole (gòdre "godere"); per il contado la sostituzione di -o ad -e dopo liquida e nasale (famo "fame"; rezévre "ricevere"). Particolare rilievo come zona conservativa ha il rustico bellunese; ma ancor più l'alto Piave, dove nelle ramificazioni vallive più appartate persistono fasi arcaiche preziose.
Un posto speciale spetta al complesso dei dialetti trentini svoltosi attorno a un nucleo primitivo, limitato al bacino medio dell'Adige e dei suoi tre principali affluenti, Fersina, Avisio e Noce, per il necessario espandersi del dominio e dell'influenza di Trento entro i confini del ducato longobardico e del successivo principato vescovile tridentino. Esorbita dunque dall'area dialettale trentina il tipo valsuganotto che è veneto, dato che la separazione della valle da Feltre e la sua gravitazione verso Trento risale al 1413; si potrà vedervi una soprastruttura trentina di conio recente. E veneta è pure tutta la Val Lagarina fino al Murazzo che dal 1440 al 1509 (rispettivamente 1424-1532) fu anche dominio della Serenissima; in questo tratto la scomparsa di -c- intervocalico e il trattamento di -ariu in -èr alla veneta si accompagnano all'assenza di spiccati fonemi trentini e lombardi quali il passaggio di ŏ e ū tonici alle vocali miste. Riva, Val di Ledro e la parte superiore del Chiese furono nel periodo più importante per la formazione del volgare in strette relazioni con Brescia e con Verona, senza contare che nel 1440 Venezia, impossessatasi della Val Lagarina, riuscì a fare del Garda un lago veneto e dominò sul comitato del Garda fino al 1521.
Vanno poi staccate dal Trentino anche le Giudicarie (Chiese), che appartennero sì al vescovato fino da tempi ben antichi, ma che dialettalmente continuano con una certa autonomia le condizioni bresciane. Ciò vale singolarmente per Valvestino, Val di Ledro e per il corso del Chiese, ma di qui il tipo si espande attraverso a Tione alla Rendena a N., a Stenico a E., senza però superare la gola delle Sarche; da qui il corso del Sarca fino al suo sbocco nel Garda attraversa una zona dialettalmente ambientata verso Trento.
I tratti più caratteristici del lombardo orientale si arrestano conglobalmente a occidente del corso inferiore del Sarca; così il passaggio di s a h (hemper "sempre", htela "stella") è limitato alla Gardesana occidentale e a Valvestino, la scomparsa di -r nei verbi proparassitoni di III arriva invece al Sarca, mentre di nuovo la nasale o la denasalizzazione (vĩ, vi "vino") giungono, ma non toccano la Rendena e dominano nelle Giudicarie, in Val di Ledro e Valvestino, senza affermarsi nel bacino inferiore del Sarca; il passaggio di -ti del plurale a -č, -z è determinato da irradiazione bresciana a Bagolino, Valvestino e sulla Gardesana occidentale; la pronucia fra -e e -o di a atona finale si estende alla Valbona, a Bagolino e Val di Ledro, mentre le Giudicarie e la Rendena avvertono appena questa tendenza, che manca nel corso medio e inferiore del Sarca. Soltanto fone'mi più antichi che sono normalmente considerati come "gallo-italici" riuscirono a penetrare nel Trentino senza però estendersi alle varietà più conservatrici (alta Anaunia, dove mancano le vocali miste). Nell'interno del gruppo hanno una posizione speciale i due sistemi vallivi pìù settentrionali: i bacini del Noce e dell'Avisio, cui, perché più lontani e perché un tempo separati da una zona mistilingue che era venuta formandosi fra Salorno e Lavis, non arrivarono parecchie innovazioni che partirono dal sec. XV in poi dal capoluogo. Nel corso dell'Avisio s'incontrano poi a Moena due sistemi dialettali italiani ben diversi, il trentino e il dolomitico. Se la conservazione di s puro di , fronte a s schiacciato del Trentino comincia a Tésero, o si può notare a Ziano la vocalizzazione di l seguita da consonante (aut "alto"), o a Moena ricorre la palatalizzazione di c avanti a (ciadéna), è a nord di questa borgata che passa un preciso confine dialettale. Al motivo geografico (stretta di Moena) si aggiunge quello storico; siamo al confine che esisteva già agli albori dei due feudi vescovili di Trento e di Bressanone (1024), ma che probabilmente nel 769 formava la divisione fra il regno franco e quello italico dei Longobardi.
Bibl.: Su regione e regione-dialetto: O. Marinelli, La divisione dell'Italia in regioni e provincie, in L'Universo, IV (1923); M. Bartoli, Per l'unità regionale delle Venezie, in La geografia, 1926. - Sulla Venezia Giulia e Dalmazia: M. Bartoli, Le parlate ital. della Venezia Giulia e della Dalmazia, ibid., VII; G. Praga, Arch. stor. dalm., XX; a) Zara: G. Piasevoli, Del dial. ven. di Zara, I, II, Zara 1913-1914 (influssi lessicali sul croato: A. Cronia, in It. dial., VI; sull'albanese di Borgo Erizzo, C. Tagliavini, in Studi alban., 1934); b) Fiume: J. Berghofer, Contributi allo studio dial. fium., 1894; A. Depoli, Il dial. fiumano, 1913; M. Bató, Il dial. di Fiume, introd. e fonologia, Budapest 1933; c) Istria: A. Ive, I dial. ladino-veneti dell'Istria, 1900; P. Mazzucchi, Diz. Polesano, 1907; P. Babruder, Singolarità lessicali e sintatt. Capodistriane, 1928; d) Muggia: Cavalli, Reliquie ladine, in Archeografo triestino, 1894; e) Trieste: vocab.: E. Kosovitz, 1889; fonetica: G. Vidossich, in Archeografo triestino, n. s., XXIII-IV; sul tergestino: G. I. Ascoli, in Arch. glott. ital., VI, X: Salvioni, in Rend. Istit. lombardo, s. 2ª, XLI; f) Grado: G. I. Ascoli, Arch. glott. ital., XIV; E. Mulitsch, Forum Julii, III; g) Venezia: vocabolarî: E. Paoletti, 1851; F. Mutinelli, 1851; G. Boerio, 3ª ed., 1867; A. P. Ninni, Giunte e correzioni, 1890; fonologia: L. Luzzatto, Vocal. del dial. moderno, 1890; h) Padova: vocabolarî: G. Patriarchi, 3ª ed., 1821 (raccolta voci padov. sec. XI, XII, in A. Gloria, Volgare illustre nel 1100, 1885); fonetica: A. Wendriner, Die paduan. Mundart bei Ruzzante, 1889; i) Vicenza: vocabolarî: D. Bortolan, 1893; V. Nazari, 1876; L. paiello, 1896; l9 Belluno: vocabolarî: V. Nazari, 1884; grammatica: C. Salvioni, Le rime di B. Cavassico, 1894; m) Treviso: A. P. Ninni, Materiali vocab. contado Treviso, 1890-92; n) Cadore: P. da Ronco, Voci dial. cador., 1913; A. Maioni, Cortina d'Amp. e la sua parlata, 1929; C. Tagliavini, Comelico, in Arch. Rom., X; Livinallongo, in Archivio Alto Adige, XVIII; o) Verona; vocabolarî: G. Angeli, 1821; Bolognini-Patuzzi, 1900; sul dial. antico, A. Mussafia, Beitrag zur Kunde der nordit. Mundarten in XV. Jahrh.; p) Polesine: vocabolarî: P. Mazzucchi, 1907; q) Trentino: i. in genere, Chr. Schneller, Die roman Volksmund. in Südtirol, 1870; K. v. Ettmayer, Roman. Forsch., XIII (fonetica); V. Malfatti, Giornale filol. romanza, II (storia: C. Battisti, Studi di storia ling. e nazionale del Trentino, 1923, e in Ausonia, I, 1936); Pedrotti-Bertoldi, Nomi dialettali delle piante indigene del Trentino, 1931; G. Pedrotti, Vocabolarietto dialettale degli arnesi rurali della Val D'Adige, 1937; 2. Trento città: vocabolarî: V. Ricci, 1904; G. Corsini 1914; fonetica; V. v. Slop, Die trident. Mundart, 1888; dial. antico; C. Battisti, in Arch. trent., 1906; 3. Rovereto: vocabolarî: G. B. Azzolini, 1856; 4. Valvestino (gramm. e vocab.): C. Battisti, in Sitzungsber. Akademie d. Wissenschaften, Vienna 1913; 5. Rendena: Th. Gartner, ibid., 1882; 6. Val di Non (fonetica): C. Battisti, ibid., 1908; 7. Val di Sole (lessico): id., in Anzeiger Akademie d. Wissenschaften, Vienna 1911; 8. Val di Fiemme e di Cembra (fonetica): id., ibid., 1909; 9. Valsugana: A. Prati, I Valsuganotti, 1923; r) Alto Adige: C. Battisti, Popoli e lingue dell'Alto Adige, 1931, e Dizionario toponomastico atesino, I, II (Venosta), 1936. Per ulteriore bibliografia ling. sull'Alto Adige, v. alto adige, II, p. 718.
Letteratura dialettale.
Dopo Riccardo Selvatico, Attilio Sarfatti e Giacinto Gallina, il genio della poesia dialettale veneta tende non già a emigrare da Venezia (come a torto fu detto), ma a espandersi. Non tanto perché R. Simoni, G. Rocca, A. Rossato, G. Cenzato, Giancapo, ecc., e prima di loro A. Boito di Basi e Bote, pur scrivendo in veneziano, non siano di Venezia; quanto perché, massime nel campo della lirica, il paesaggio e i tipi locali della vasta e varia regione tendono a determinarsi. I "capitei de campagna" di Vicenza, la grande libera aria di Verona, i grigi di Padova e Rovigo, le tempeste del Garda e del Baldo, i "cimiteri" di Grado, i tumulti vegetali della pianura veronese-padovana, importano nella lirica dialettale nuovi sfondi, e precisano aspetti del paesaggio veneto che la poesia strettamente lagunare aveva di necessità trascurati.
Altrettanto avviene per i tipi: gli onesti e battaglieri fassoletoni triestini di G. Piazza; i profili arguti e gli schizzi vivaci di G. Padovan; certe spassose e beffarde caricature incise in Ciacole alegre dal veronese Fra Giocondo (G. C. Zenari: i "provinciali a Verona", i "mostri, i "Ciocoli in 'Rena"); attente, affettuose figure di sacerdoti vicentini, forosette, "scrivanti" disegnati a Vicenza da A. Giuriato; le "Botonere" di A. Inguanotto; i rurali di D. Bertini, fanno capolino per la prima volta da questa poesia di Veneti non Veneziani, o di Veneziani vissuti fuori di Venezia.
A Trieste emergono Giglio Padovan nelle sue Rime triestine e istriane e Giulio Piazza. Talvolta la lirica triestina si tinge, nell'anteguerra, d'irredentismo (nelle satire del Padovan e del Piazza, nei sonetti di L'Attesa di Felice Cavedali, ecc.) e ad essa fanno eco più tardi, nella Venezia euganea, La Madonina blu di Renato Simoni, i Soneti de la guera di Fra Giocondo, i sonetti di A. Turco, ecc. In triestino scrissero cose notevoli anche Gilda Amoroso Steinbach, Felice di Giuseppe Venezian, Virgilio Giotti, Morello Torrespini; Maria Gianni fu carcerata per strofe di sapore mercantiniano dettate nella lingua d'Italia.
In generale, infatti, la guerra mondiale non fece molto risonare le corde della poesia delle Venezie (dove pure fu combattuta): "forse perché - scrive il Piazza - il dialetto triestino" (o il veneto in genere) mentre ottimamente si presta alla beffa mordace, male si piega all'espressione del dolore sdegnoso che prorompe da un'anima sanguinante". O anche perché molti cultori del dialetto avevano allora altro da fare.
Su tutti i poeti della regione emerge oggi Berto Barbarani (v.), che ha pubblicato nel 1937 un quarto canzoniere: L'autunno del poeta.
I dialettali più notevoli dopo di lui sono: per Vicenza, Adolfo Giuriato (Ortighe e papaveri; Canzoniere Vicentino; Vicenza mia; Le Vilote del Bachilion; Le musiche del vespero; Pergole e cipressi); per Grado, Biagio Marin (Fiuri de tapo; Cansone picole; la Ghirlanda de gno suore e, in prosa, L'Isola d'oro); per Rovigo, Gino Piva e F. Palmieri; per Trento, G. Florian e G. Mor; per Zara, Luigi Bauch e Andreina Borelli; per Fiume, E. Bianchi; per Gorizia, Fabio Galliussi; per Treviso, A. Serena e L. Porta. In vicentino e in veronese scrivono anche A. Rossato (La me tera) e Nino Dolfin, G. Betteloni, F. N. Vignola, Sandro Baganzani, G. Vitturi, V. Ceriotto.
Adolfo Giuriato è con pochi altri (e anzitutto con il Barbarani, nel quale si riflette veramente la luce del genius loci) un dialettale vero e scrupolosissimo. Negli odierni poeti vernacoli (e non del solo Veneto) "calano" infatti troppo spesso, i poeti italiani: Pascoli, Gozzano, perfino l'opulenza lessicale del D'Annunzio, il vigore del Carducci, l'acredine beffarda del Papini, le fantasie funebri e "scapigliate" del terzo romanticismo. Non così nei sei libri di poesie di Giuriato. Non solo perché in essi sono cose di finissimo tocco, ma perché egli ferma veramente nel dialetto un cinquantennio di vita popolare vicentina.
La poesia di Biagio Marin di Grado, è, in genere, di giro breve, ma dettata in un dialetto grave e dolce che affascina, come cosa nuova, l'orecchio degli stessi Veneti. E vigorose sono le Cante d'Adese e Po di Gino Piva; e poesie come Cronaca mesta; Arlecchino finto principe, certe battute di Ghé qua Marzo, permettono d'individuare, fra tante intenzioni, la vera sorgente - dolorosa - della poesia di Ferdinando Palmieri (un romantico superstite, uno "scapigliato" in dialetto). Diego Valeri tradusse in padovano qualche lirica provenzale; ma Padova - tranne qualche musica di sillabe di A. Ferriguto, qualche tendenza a rivalutare il dialetto della campagna (il "ruzzantino" caro ad A. Tian e a Guido Boldrin) o quello dei borghi più bassi (Agno Berlese) - non ha molti poeti. Lo stesso L. Pastò scrisse in veneziano; in veneziano scrivono padovani viventi come Andrea d'Angeli; e il genio di Ruzzante è oggi, come poesia, emigrato quasi del tutto in provincie contermini: nei sonetti, per esempio della Zornada del campagnolo di Giuriato; e più particolarmente nella vivacissima lirica veronese-campestre di Dante Bertini. Questi (Comedie, Milano 1924; Cante e cantari, Como-Milano, 1931; Poemetti, Bergamo 1935) è certamente il più nuovo e vivo dei poeti viventi della campagna veneta. Ed è un lirico vero, sincero, semplice eppur ricco, caldo, effuso. Gli nuocciono il difficile dialetto rurale e, nei Poemetti, qualche ridondanza e ostentazione del vocabolario; ma liriche come Primavera, certe descrizioni di fughe ed "epiloghi" delle sue Comedie sono di grande ricchezza e varietà di ritmi. E Rosa Zacinta e parecchie altre "cante" e "cantari" suoi sono quanto di più nuovo ha dato la poesia dialettale veneta in questi ultimi anni.
V. anche friuli; venezia: Letteratura dialettale.
Musica popolare.
Dopo la fioritura toscana del Trecento, specialmente al principio del secolo che segue, la canzone popolare si diffonde nel Veneto. La Villotta di carattere popolare, che accompagnava le danze, delle canzoni villanesche, chiamata così nel Padovano e nel Friuli, Veneziana o Justiniana nel Veneto in genere, aveva un particolare modo di esecuzione, secondo lo Zarlino: "... in una maniera si cantano le canzoni che si chiamano Villotte nei luoghi vicini a Venezia et in un'altra maniera nella Thoscana e nel Reame di Napoli". E anche oggi i canti popolari a Venezia si chiamano Vilote o Canzonete, mentre nel Vicentino sono denomiTrentino Maitinade o Mazinàl. Le frottole veneziane, con la parte melodica in alto sopra i contrappunti, fanno vedere la canzone popolare univoca rivestita di accordi. Anche nella musica dotta dunque i ricorsi alle cantilene e al modo popolare sono evidenti, come, per es., nel seguente spunto di una Padoana di J. Gorzanis (secondo tempo di una sonata per liuto edita nel 1561):
Nel viaggio in Italia, J. Addison menziona l'uso che era proprio della plebe di cantare stanze del Tasso: "Sono adattate a dolci e lente armonie, e quando uno comincia a intonare un luogo qualsiasi del poema, è cosa strana sentire un altro, che l'ode, rispondergli continuando; sicché accade di ascoltare nelle vicinanze dieci o dodici persone avvicendarsi nel ripetere un verso dopo l'altro, sin quando le assiste la memoria". Quest'uso s'andò perdendo sul finire del Settecento. Il Goethe ne parla ancora, come di un fatto raro, e quasi di uno spettacolo preparato dietro compenso delle formule di canto, chiamandole Psalmodie de Florence et de Venise - Tasso alla Veneziana, ottave alla Fiorentina, che anche il Tiersot riporta.
Ma l'uso di cantare versi di Dante e del Tasso continuò anche nell'Ottocento, specialmente fra i gondolieri veneziani, e il Listz trascrisse infatti dalla viva voce di essi la melodia popolare Canto l'armi pietose e 'l Capitano, che poi prese in prestito per il suo poema sinfonico Tasso (Lamento e Trionfo), composto nel 1849-50. La Barcarola o Gondoliera a imitazione della gondola, ispirò molti musicisti, fra cui Weber, Hérold, Auber, Rossini, Donizetti. Se ne hanno splendidi esempî anche nella canzone strumentale a forma di Lied a più parti, in Mendelssohn, fra gli altri, con i tre Venetianische Gondellieder delle romanze senza parole.
Le canzoni della strada, i richiami dei venditori e le grida, sono, si può dire, di ogni tempo e dappertutto: è nota la canzone del codice Squarcialupi, la quale descrive le scene del mercato fiorentino, con le grida tradizionali dei rivenditori (di cialde, d'olio, ecc.). Il lavoro manuale del popolo, per es. dei battipali di Venezia, è anche accompagnato dal canto:
Al primo verso sull'ô - o si alza il palo, al secondo sull'è si batte.
Ecco una Villotta friulana udita cantare a Prato Tarcento in provincia di Udine:
Si notino le cadenze di questa cantilena che, indugiando, ne sottolineano vagamente la melanconia:
La Villotta è anche un canto a ballo in s/a: A. Smareglia lo ha introdotto efficacemente nell'opera Nozze istriane. L'esempio a tre voci che segue è trentino:
Parrebbe una canzone militare: un coscritto sente una voce di pianto e gli pare di riconoscere in quella la voce della madre. Nel Largo, con i bassi all'ottava, si ha un trallarallara, come per scacciare la tristezza.
La Pasturiela istriana è la storia della pastora e del suo cavaliere, che circola anche in altre regioni d'Italia:
L'aperta libertà di questo canto di orizzonte, si può vedere nell'ampio arco al principio, che poi ritorna anche prolungato, dal suo levarsi alla posa, alla forma di sbocco dell'appoggiatura melodica (anacrusi arsisthesis).
È una forma tipica del canto popolare, come quello del pastore nel preludio al 3° atto della Tosca di Puccini, anch'esso popolare, toscano:
E quello di Fedora di Giordano cantato da un ragazzo dall'interno alla fine dell'ultimo atto, di origine probabilmente popolare:
Si hanno inoltre esempî di discanto a Dignano, che risalgono probabilmente alla fine del Duecento e che s'intonano oggi specialmente in occasione di nozze.
In molti luoghi del Veneto viene cantata la Stela, con laudi, storie dei Re Magi: Dall'Oriente siam partiti - colla guida d'una stella - la qual porta la novella - del Messia... La compagnia, al crepuscolo, con una stella di carta illuminata in cima a una pertica, fa il giro delle case. Per San Martino, in alcuni quartieri anche di Venezia, si canta la questua sotto le case: In sta casa ghe xè de tuto - del salame e delparsuto - del formagio piasentin - viva, viva San Martin... In provincia di Verona ha luogo, la sera del Venerdì Santo, il Mistero, racconto cantato.
Una parte molto importante della letteratura popolare è costituita inoltre dalle leggende, dai proverbî, dagl'indovinelli, dagli scherzi, dalle sentenze morali. Si veda, fra l'altro, il seguente proverbio di Grado: No bisogna magna duto quel che se à; no bisogna favelà duto quel che se sà. Le zone più fedeli alla tradizione, per es., nella Venezia Giulia, sono Cittavecchia di Trieste, Zara, Grado, ecc. È noto infine l'uso elegante che del canto popolare veneziano ha fatto E. Wolf-Ferrari nelle sue opere.
Il popolo veneto, per i suoi caratteri e usanze, appare dunque ben definito; e l'affinità fra le opposte rive dell'Adriatico è anche evidente. Gridi e canti sono elementi della sintesi del suo essere, atto naturale ma risultato di una cultura, di un ambiente, con il perenne andare di un gusto ingenuo e vivo. Pianure e valli e montagne e mare: essi formano i caratteri delle tre Venezie: i diversi elementi dànno l'attributo ai varî tipi della regione.
Bibl.: G. Zarlino, Istitutioni harmoniche, IV, Venezia 1588; J. Addison, Remarks on several parts of Italy, 1705; A. Ive, Canti popolari istriani raccolti a Rovigo, Roma 1877; C. Pargolesi, Canti popolari trentini, Trento 1892; G. Sadero, Le più belle canzoni d'Italia, Milano 1895; E. Levi, Fiorita di canti tradizionali del popolo italiano, Firenze 1895; A. Galli, Estetica della musica, Torino 1900; C. Musatti, I gridi di Venezia, in Arch. tradiz., XX (1901); E. Adaïewsky, Anciennes mélodies et chansons populaires d'Italie, in Rivista musicale italiana, 1909-11; F. Vatielli, Canzonieri musicali del '500, ibid., 1921; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, Roma 1921; G. Cocchiara, L'anima del popolo italiano nei suoi canti, con musiche di F. B. Pratella, Milano 1929; J. Tiersot, La chanson populaire, in Encyclopédie de la Musique, Parigi 1930; A. Bonaccorsi, L'ultimo giorno di carnevale a Bibbiena e la canzone della "Brunetta", in Lares, 1935; C. Caravaglios, Il folklore musicale in Italia, Napoli 1935; E. Oddone, Canzoniere popolare dell'Italia settentrionale, Milano; A. Prati, Folklore trentino, ivi; F. Badubri, Fonti vive dei Veneto-Giuliani, ivi; D. Oliveri, Vita ed anima del popolo veneto, ivi.
Folklore.
Le zone dove più si conservano le antiche tradizioni sono naturalmente quelle montane. Bellissime le leggende locali dei monti del Cadore, di cui alcune narrano dell'arca di Noè ivi arenata dopo il diluvio, di traghetti da cima a cima, di S. Gusta che fa deviare il Piave; e quelle dei Sette Comuni. Pieno di leggende è il bosco del Montello: S. Manante vi fa miracolosa contro ogni male la terra del suo santuario; vi s'incontra il massariol, nano faceto, che fa smarrire le ragazze nel bosco, dove morrebbero di paura se le fade bone non le soccorressero con miele distillato dalle foglie, ecc.
Tipiche nelle montagne le costruzioni; siano case d'abitazione, specialmente le cadorine, foderate di legno, protette da larghi tetti sporgenti fino a coprire le lunghe e adorne balconate; siano quelle isolate nei pascoli, le casère, più ricche, o le malghe con un cason del fogo, un magazzino per i formaggi, una barchessa per lavorarvi il latte, la pendana per riparare le bestie, o i baiti per riposo ai fienatori, o i tabià per raccogliervi il fieno.
Qualche vecchio montanaro conserva il tipico abito con i calzoncini corti, le calze bianche, il panciotto a due bottoniere, la giacca corta, il cappello a breve cono con il cocuzzolo piatto, e talvolta un anellino a un orecchio. Caratteristici anche i vestiti femminili specialmente di gala. Ma altrettanto singolari sono quelli di Chioggia, dove le donne portano in capo la tonda o la pieta, sorta di largo fazzoletto bianco, bordato per la festa di merletti a tombolo prodotti dell'artigianato femminile locale; e i pescatori portano il berrettone rosso o azzurro con o senza fiocco, i muloti (zoccoli) e calze di lana spessa; senza contare la caratteristica pipa di terracotta con cannuccia di legno, chiamata appunto pipa chiozota.
Per le nozze si evitano alcuni giorni: luni da mati, marti martirio, venere curto termine, sabo bruto tempo. Nel Polesine si usa ancora andare a far la levata della sposa, e ad Alpago, nel Bellunese, per regalo di nozze lo sposo dona ancora le gusele e un guselon coi tremoli, aghi d'argento da testa. Fra gli usi funebri, nei Sette Comuni resta il banchetto in onore del defunto, con la carità di pane e orzo ai poveri, e nell'accompagnamento qualche vecchio mette ancora il caratteristico mantello e il cappello speciale a larghe tese.
Le sere precedenti l'Epifania, ragazzi, specie nel Veronese, vanno di casa in casa preceduti da una stella di carta, colorata e illuminata, appesa a un bastone, a cantar la stela, e in varî luoghi la vigilia si fanno falò e si "brucia la vecchia" (a Verona, la "segavecchia" è a mezza Quaresima). La gran sagra per i bambini è, in quasi tutto il Veneto, la Befana, ma a Belluno, il S. Niccolò e a Verona la S. Lucia. L'ultimo giorno di febbraio, specialmente nei paesi montani, i ragazzi vanno in corteo suonando, cantando e gridando: fora febraro, che marzo xè qua. Verona ha, di carnevale, il venere gnocolaro, ricordo della celebre festa quando sanzenoti (abitanti della contrada di S. Zeno), camisoti (operai) e mugnai con gonfalone e con il carro simbolico dell'abbondanza, preceduti da 36 macaroni a cavallo, si recavano da S. Zeno alla Piazza delle Erbe, ove il papà del gnoco a cavallo d'un asino entrava nel palazzo del comune per invitare il podestà, che saliva su un carro tirato da otto cavalli, mentre le arti offrivano cibi e bevande al popolo; e si ritornava a S. Zeno, dove su tavole all'aperto s'impastavano e preparavano i gnochi; quindi sul campanile della basilica, il papà pronunciava un buffo elogio del gnocco e imboccava il podestà, segno d'inizio della mangiata generale; dall'abbazia attraverso un gran foro si gettavano focacce; a volte una fontana sprizzava vino. Nella settimana santa, a Verona e in altre località i ragazzi strofinano sulla rena del fiume le catene dei focolari, come a liberar le case dai malefizî. A Ferrara di Monte Baldo, il venerdì santo, si canta ancora il Mistero della passione. Di Pasqua si mangiano a Verona le brassadele, ciambelle infilate su bastoni ad alberetto; a Rovigo i ciambellini con un uovo tinto di rosso infilato in ciascuno; a Padova, la focaccia in forma di colomba o d'agnello. Padova celebra per un mese, in giugno, la festa del Santo, con una fiera nel Prato della Valle, già nel 1208 luogo di adunate di popolo in festa. Ivi si corrono anche, in quel tempo, massacranti corse di bighe. Per il Corpus Domini si usava a Vicenza far girare per le vie della città la Rua, ricomparsa talvolta in Piazza dei Signori. È un carro tirato da 80 facchini, che regge una torre di legno ornata, alta 24 m. e pesante 85 quintali, su ogni piano della quale stanno figuranti in costume di guerrieri; a metà gira la grande ruota che dà il nome alla macchina e reca fanciulli in figura d'angeli, mentre altri ornano la torre fino alla cuspide. Si vuole che la Rua ricordi una ruota di carroccio presa in guerra ai Padovani nel sec. XIII. La notte di S. Giovanni è sacra ai pronostici di nozze; a Verona i giovani fanno festa alla fontana del ferro; in Cadore si raccoglie la cenere benedetta dei falò, come amuleto contro le frane. A Sacile, il 10 settembre, si celebra, dal 1334, la Fiera dei osei, famosa in tutto il Veneto; pure in settembre, la fiera vicentina in onore della Madonna di Monte Berico. In onore di S. Luca si ha la carnevalata delle fiere di Treviso (la capitale della Marea gioiosa, celebre per i suoi antichi tornei galanti), ove è gran festa anche per il patrono S. Liberale.
Altra festa variamente celebrata in tutto il Veneto è San Martino.
Bibl.: D. Olivieri, Vita ed anima del popolo veneto, Milano s. a.