TRENTO (A. T., 24-25-26)
Centro principale della Venezia Tridentina, e capoluogo della provincia omonima. È situata sulla grande via naturale, segnata dal solco dell'Adige, che da Verona sale a Bolzano e di lì, per la Valle dell'Isarco, al Brennero; là dove con questa s' incrociano ad oriente la via che per il Fersina porta in Valsugana, a Bassano e a Venezia, e ad occidente la via che dal Buco di Vela per il Sarca e le Giudicarie, porta a Brescia e alla pianura lombarda. La città sorge a 194 m. s. m., sulla sinistra dell'Adige, in buona parte sul vasto conoide del Fersina, affluente di sinistra, che scende irruente e torrentizio per la Valle dei Mocheni e per la piana di Pergine a gettarsi, chiuso fra robusti argini, dopo un corso di 29,5 km., e con un ampio delta ghiaioso, nell'Adige, 3 km. a valle della città. La vallata atesina, qui allargata a conca, è aperta a N. e a S., mentre invece è chiusa a occidente dalle nude e ripide pareti di Sardagna e di Soprasasso e verso oriente è limitata dalle colline apriche e coltivate di Villazzano, Cognola e Martignano, seminate di "masi" e di ville e verso le quali specialmente va stendendosi la parte nuova della città. Una cerchia d'imponenti e quasi nude montagne vi fanno corona: verso occidente, sopra l'altipiano di Sardagna, si elevano le cime del fortificato Gruppo di Bondone (Palon 1915 m.; Cornetto 2180 m.) e verso N., sempre sulla destra dell'Adige, la grande parete della Paganella (2124 m.) su cui spiccano il rifugio e il faro votivo a C. Battisti; verso oriente, sulla sinistra dell'Adige, si elevano invece la Marzola (1737 m.), il Celva (999 m.), il Chegul (1472 m.) e l'argentifero Calisio (1096 metri). La città gode di una temperatura relativamente mite, quantunque d'inverno non manchino le giornate rigide e ventose (temperatura media annua 11°,1; del gennaio -1°; del luglio 22°,1); la piovosità è superiore al metro (1025 mm.) ed è distribuita in tutti i mesi dell'anno. I mesi più piovosi sono l'ottobre, il maggio, il luglio e l'agosto. La città vecchia, sviluppata intorno al duomo, dentro una ansa dell'Adige, oggi tagliata, è costituita da un nucleo compatto di case grandi e massicce e di palazzi austeri, di cui alcuni a portici, intersecato da vie strette e ben lastricate, che, dalla Piazza del Duomo, ora Vittorio Emanuele III, irraggiano verso la periferia segnata ancora per alcuni tratti dalle vecchie mura di cinta. Di queste facevano parte anche la Torre Verde e la Torre Vanga, dinnanzi alle quali un tempo passava l'Adige, il cui alveo fu spostato solo nella seconda metà del secolo XIX. Le vie più frequentate e ricche di negozî sono quelle che costituiscono il cosiddetto "Giro al Sass" (Via Oriola, Via S. Pietro, Via Roma e Via Oss-Mazzurana) che con Pazza Vittorio Emanuele rappresentano il centro della città. La città, specie nel dopoguerra, si è estesa però notevolmente tanto a S., lungo il Fersina, quanto a oriente, verso la collina di Cognola, e a occidente, oltre la ferrovia, verso l'Adige, sopra il quale è gettato un ponte di ferro. Subito al di là di questo è il sobborgo di Piedicastello con l'antica chiesa di S. Apollinare, il quale si sviluppa ad arco, verso N., intorno al massiccio e isolato Doss Trento, la Verruca dei Romani, già forte austriaco e ora passeggiata notevole anche per il panorama che dall'alto si gode sopra tutta la città. Anche nel cuore della città si sono iniziati notevoli lavori di sventramento che daranno maggior respiro all'abitato; già si sono asfaltate parecchie vie, e furono costruiti alcuni nuovi palazzi, fra cui notevoli il palazzo delle poste e la stazione ferroviaria, prospiciente l'ampia e arborata Piazza Dante. La popolazione della città che nel 1857 era di 14.347 ab., è andata sempre più aumentando sì da arrivare nel 1931 a 38.176 ab. (1869: 17.073; 1880: 19.585; 1890: 21.486; 1900: 24.868; 1910: 30.049; 1921: 35.130); la popolazione del comune, al quale sono stati di recente aggregati anche gli ex-comuni di Cadine, Cognola, Gardolo, Mattarello, Meano, Povo, Ravina, Romagnano, Sardagna, Sopramonte e Villazzano, raggiunge i 56.760 ab. di cui 8362 vivono in case sparse. L'area comunale è di 15.249 ha., di cui 14.065 sono di area produttiva (superficie agraria 5235 ha.; superficie forestale 7108 ha.; malghe e pascoli 1663 ha.). Nella piana predominano le colture orticole e foraggere, sulle colline apriche invece il vigneto e il frutto. Numerose sono le piccole imprese industriali, fra cui sono da menzionare la molitoria, la tipografica e quella del mobilio; la concia delle pelli, il cotonificio e la fabbricazione del lucido da scarpe. Sulla ferrovia Verona-Brennero, a 92 km. da Verona e a 56 km. da Bolzano, Trento è anche capolinea della ferrovia della Valsugana, che porta a Bassano e a Venezia e della tramvia dell'Anaunia che da Trento sale fino a Malè, in Val di Sole. D'importanza turistica sono le funivie di Sardagna (metri s. m. 603) e della Paganella che, partendo dal fondovalle a Zambana, sale fino a Fai e di lì fin quasi alla cima (2124) m.) da cui si gode uno dei più vasti e magnifici panorami della regione.
Monumenti. - Ai piedi del colle Doss Trento, si conservano ancora avanzi di antiche mura. Sul colle sorse anche l'antichissima cattedrale: in uno dei suoi sacelli fu scoperto sul principio del secolo XX il musaico pavimentale del secolo VI dovuto al vescovo Eugipio.
Il perimetro della città romana non è facilmente determinabile. Chi, per stabilire le varie cinte urbane, prese per norma le numerose torri superstiti, ebbe torto nel pensare che esse avessero appartenuto alle cerchie fortificate, piuttosto che alle abitazioni turrite della città medievale. Probabilmente la Trento romana aveva forma quadrata; e ruderi della porta meridionale, detta Veronensis, furono riconosciuti di recente sotterra presso l'attuale Torre di Piazza. Degli edifici situati entro la città furono veduti anche di recente gli avanzi del teatro, situato a sudest della chiesa di S. Pietro. Esternamente alle mura romane si stendevano per vasta zona le necropoli.
La cinta urbana di cui si conservano ancora alcuni tratti, e che, partendo dalla torre Vanga in riva all'Adige, raggiungeva di bel nuovo il fiume alla torre Verde, è dovuta alla prima metà del secolo XIII. Quella fu l'epoca del primo incremento edilizio della città, dovuto in gran parte al merito del vescovo Federico Vanga. Oltre alle mura di cinta, con le torri, le porte e gli antemurali ad esse congiunti, e oltre alle prime fortificazioni del Buonconsiglio intorno alla preesistente torre rotonda, la città vide sorgere allora il castelletto e il palazzo pretorio in buona parte tuttora conservati; talune delle più insigni sue chiese, come S. Apollinare e S. Lorenzo di là dell'Adige, e la nuova fabbrica del duomo fuori della ricordata Porta Veronese. Costruita da presso e sull'area di un precedente edificio sacro, la nuova basilica fu eretta da quei maestri comacini che per parecchi secoli continuarono a prestare l'opera loro, di sapore spiccatamente lombardo, intorno agli edifici sacri e profani della città come del principato.
I rosoni del transetto e della facciata e le logge e le scale pensili che girano il tempio, ne costituiscono una delle caratteristiche più indovinate e originali. La navata sud ed altre parti furono compiute solo nel Trecento, accentuando le tendenze gotiche del monumento; nel Cinquecento con gustosissimo adattamento alle forme antiche sorsero la cupola, il campanile ed il protiro di settentrione. Malaugurati rifacimenti modificarono poi quelle forme: nel Settecento fu demolita la cripta, per costruire il nuovo altar maggiore sui modelli berniniani, e fu mutato il coronamento del campanile; nel secolo XIX fu intrapresa una vasta opera di pseudoepurazione, cui è da imputarsi il rifacimento della cupola e l'alzamento dei muri perimetrali e del tetto.
In duomo, oltre alla rara e svariata suppellettile sacra del tesoro, s'incontrano i primi saggi della pittura a fresco della città; e gli avanzi più significativi della corrente emiliana del sec. XIV specialmente nel ciclo cavalleresco della leggenda di S. Giuliano dovuto a Monte da Bologna. Sul principio del Quattrocento, in corrispondenza al diffondersi della maniera cosiddetta internazionale, la torre dell'Aquila, nel giro delle mura prossime al Buonconsiglio, offre uno dei più celebri prodotti di quello stile, nelle imaginose figurazioni dei Mesi, desunte bensì da miniature di gusto oltramontano, ma non immuni dall'influsso lombardo.
Il Quattrocento trentino è tuttora quasi totalmente gotico. Ma l'architettura profana prende norma volentieri dalle varianti di tipo spiccatamente veneto inaugurate dal vescovo umanista Giovanni Hinderbach nell'ampliamento del Castelvecchio del Buonconsiglio. Nel campo della scultura eccellono alcune lapidi sepolcrali dei vescovi tridentini della cattedrale.
Il cardinale Bernardo Cles, vescovo di Trento dal 1514 al 1539, nel favorire, per gusto suo personale e per ragioni di ordine politico e religioso, lo sviluppo del Rinascimento italiano in Trento, promosse in ogni maniera il rinnovamenio edilizio della città, a scapito dei vecchi edifici del passato. Della lieta accoglienza fatta dai cittadini ai suoi dettami testimoniano i marmorei palazzi - capeggiati da quello Tabarelli - e le numerose case affrescate - specialmente di Via Larga (ora Belenzani) - che tanto simpaticamente caratterizzano la fisionomia della città; del contributo personalmente portato dal vescovo stesso alla rinascita della capitale del suo principato, sono perenne documento di gloria la chiesa di S. Maria Maggiore, eretta da Antonio Medaglia comasco e insignita della mirabile cantoria di Vincenzo Grandi vicentino, e sopra tutto la fabbrica del Magno palazzo del Buonconsiglio.
Il castello del Buonconsiglio era sorto a metà del sec. XIII nell'angolo nord-ovest delle mura, sull'elevazione occupata dalla grande torre rotonda che a torto si pretende romana. La parte più antica di esso - detta poi il Castelvecchio - subì varie modificazioni e ampliamenti attraverso ai secoli, fino alla ricordata riforma del vescovo Hinderbach. Il Clesio volle aggiungervi tutto un vasto palazzo, verso mezzodì, e ampliare anche la cinta che separa il Buonconsiglio dalla città. La fabbrica, iniziata nel 1528, durò sei anni almeno. Ne è ignoto l'architetto; ma si conoscono invece i nomi degli scultori e pittori di gran fama che il cardinale chiamò a gara specialmente dalle finitime regioni della penisola a cooperare alla decorazione della reggia: i due Dossi, il Romanino, i due Fogolino fra i pittori, il Longhi, il Grandi, lo Zacchi fra gli scultori, il Ligozzi fra i ricamatori: e altri minori, per tacere di qualche fonditore tedesco e degli arazzieri fiamminghi cui si devono i famosi arazzi della Passione, d'insuperabile fasto. Grazie alla sagace iniziativa dell'ideatore ed alla armonica collaborazione dei suoi esecutori, il Buonconsiglio poté sorgere maestoso di forme, lieto di ornato, splendido di suppellettile, ad emulazione delle più famose regge italiane di quel tempo. Nuove fastose sale vi aggiunse nel Seicento il vescovo Francesco Alberti; e nuovi artisti, dal Liberi al Fontebasso, vi lavorarono allora durante il periodo del barocco e del rococò, che minacciò di sommergere il palazzo nelle superfetazioni del nuovo stile. Napoleone lo depredò di ogni decoro; l'Austria lo adibì a squallida caserma. Toccò all'Italia il vanto del suo ripristino.
Se agli artisti che lavorarono per il Buonconsiglio aggiungiamo il Falconetto, il Verla, il Caroto, il Morone, il Brusasorzi, il Vecellio ed il Palladio, che a Trento lavorarono in più occasioni verso quell'epoca, ci capaciteremo facilmente a quale schiera di artisti sia stato affidato il compito di sublimare la città col gusto del più puro classicismo. Né Trento volle chiudere tutta in debito quella partita, se a metà del Cinquecento inviò a sua volta uno dei più operosi suoi figli, Alessandro Vittoria, architetto e scultore di purissima fama, a Venezia.
I vescovi di casa Madruzzo disdegnarono la residenza del Buonconsiglio, troppo ostentatamente contrassegnata dalle memorie del Clesio; ma nel palazzo delle Albere, eretto nei dintorni della città, tentarono invano di emularne la gloria. Durante il loro governo e sotto gli ultimi principi vescovi, la città si mantenne costantemente a contatto con quanto di meglio le nuove correnti artistiche creavano nelle vicine terre della penisola. Così, dopo il palazzotto Lodron, dai ricchi soffitti dipinti del maturo Cinquecento, ed il palazzo Galasso architettato nel 1602 dal Bagnadore di Brescia, gli edifici seriori segnano ormai il sopravvento del gusto barocco: il quale poté fiorire tanto rigogliosamente a Trento, che di qui prese le mosse uno dei più audaci creatori di quello stile, il padre Andrea Pozzo. E accanto alla chiesa del seminario, disegnata da lui, sorsero la cappella del Crocifisso in duomo dovuta al vescovo Alberti, la chiesa dell'Annunziata dipinta dal Fontebasso, e quella di S. Martino decorata dallo Knoller e dal Cignaroli.
Se l'Ottocento, il secolo dell'oppressione austriaca, fu assai meno produttivo nel campo dell'arte, esso si chiuse con l'erezione del monumento a Dante di Cesare Zocchi, testimonianza somma dell'aspirazione politica, che era ormai prossima al suo trionfo.
Sul colle Doss Trento il 26 maggio 1935 fu inaugurato il monumento nazionale in onore di Cesare Battisti, architettato da Ettore Fagiuoli. Altri edifici corrispondenti alle nuove correnti artistiche, promosse specialmente dall'architetto trentino Adalberto Libera, segnano il rinnovamento edilizio della città nell'epoca più recente. (V. tavv. XLI-XLIV).
Bibl.: Oltre alle opere generali (A. Venturi, Storia dell'arte italiana, I, segg., Milano 1901 segg., passim; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I: Il Medioevo, Torino 1927); v.: G. Fogolari, Trento, I, 2a ed., Bergamo s. a.; O. Brentari, Guida di Trento, ivi 1921; O. Ferrari, Guida di Trento, ivi 1927; G. Rizzi, Passeggiate trentine, Trento 1931. Per i singoli monumenti citiamo le opere più recenti: A. Galante, L'autore del palazzo delle Albere a Trento, in Pro cultura (1910), pp. 129-31; L. Oberziner, Le fonti della storia dell'arte nel Trentino, in Archivio trentino, XXVIII (1913), pp. 74-80; G. Wenter Marini, La chiesa di S. Lorenzo a Trento, in Studi Trentini, I (1920), pp. 97-108; G. Gerola, Le cinte murarie di Trento, ibid., VIII (1927), pp. 3-24; P. Zadra, Ecclesia Tridenti, ibid., X (1929), pp. 3-22; A. Albertini, La fontana del Nettuno a Trento, ibid., X (1929), pp. 98-116; A. Morassi, Francesco Fontebasso a Trento, in Boll. d'arte, XXV (1931-32), pp. 119-132; G. B. Emert, I soffitti dipinti nel palazzo Lodron a Trento, in Trentino, VIII (1932), pp. 13-20; S. Weber, Artisti trentini ed artisti che operarono nel Trentino, Trento 1933; G. Gerola, Il castello del Buonconsiglio e il Museo nazionale di Trento, Roma 1934; G. de Manincor, Il Museo trentino del Risorgimento, Trento 1934; M. Lessi, Guida illustrata del duomo di Trento, ivi 1934; A. Morassi, Storia della pittura nella Venezia Tridentina, Roma 1934; C. Tua, Pietro Maria Bagnatore architetto del palazzo del Diavolo, in Studi Trentini, XVI (1935), pp. 212-16; C. Th. Müller, Mittelalterliche Plastik Tirols, Berlino 1935; A. Pranzelores, Il Dostrento, Trento 1935; E. Pappenheim, Dürer im Etschland, in Zeitschrift des deutschen Vereins für Kunstwissenschaft, I (1936), pp. 35-20.
Biblioteche. - I principi vescovi di Trento avevano fondata una biblioteca ricca di cimelî bibliografici, che andò dispersa dalla fine del Settecento in poi. Una parte di quei codici pervenne alla biblioteca comunale; un'altra, incorporata nella Palatina di Vienna, fu ricuperata dopo la guerra mondiale e si trova ora al Museo Nazionale di Trento. La biblioteca comunale fu aperta al pubblico nel 1853, soprattutto con i vecchi libri della fondazione Gentilotti e col recente lascito del barone Antonio Mazzetti, in grazia del legato del conte Camillo Sizzo de Noris: primo bibliotecario Tommaso Gar. Da allora fu in continuo incremento. Dalla originaria sede del palazzo Prato, passava nel 1872 nel palazzo municipale e nel dopoguerra al piano inferiore dell'ex-seminario, accanto all'archivio di stato. Fra le altre biblioteche trentine meritano ricordo quella del capitolo della cattedrale e quella dei frati francescani.
Musei. - Il Patrio Museo di Trento era in origine annesso all'Istituto Sociale, una specie di circolo cittadino fondato nel 1838 con intenti anche d'istruzione. Conteneva il materiale archeologico raccolto dal podestà Giovanelli e tutti gli oggetti d'interesse naturalistico provenienti dalla collezione del barone de Taxis. Negli anni successivi il museo, diventato civico, si ampliò per ulteriori incrementi, e dalla originaria sede nel palazzo Saracini passò in quello Prato e nel 1874 nella residenza municipale. Dopo la guerra mondiale, le raccolte naturalistiche furono distinte da quelle artistiche. Le prime, collocate - dopo altri trapassi - nel palazzo scolastico di Via Verdi, costituirono il Museo di storia naturale, che ebbe subito ampio sviluppo e nel 1929 fu trasformato in istituto interprovinciale per tutta la regione. È affidato alla Società di scienze naturali della Venezia Tridentina, che pubblica le Memorie del Museo. Gli oggetti di interesse archeologico, artistico, storico e laografico furono dal comune depositati invece nel Museo Nazionale, istituito nel novembre 1924, con sede nel Castello del Buonconsiglio. Ad esso affluirono i varî cimelî rivendicati nel dopoguerra, i più recenti ritrovamenti di scavo e tutto il materiale di ulteriore acquisto.
In due piani del Castelvecchio del Buonconsiglio stesso è ospitato il Museo del Risorgimento che, formato in origine col materiale bellico donato dal comando della 1a armata, si accrebbe per successivi aumenti nel campo delle memorie patriottiche dall'epoca napoleonica fino alla redenzione. L'istituto è affidato alla Società del Museo trentino del Risorgimento, la quale cura anche una importante serie di pubblicazioni illustrative a carattere storico.
Archivî. - L'archivio di stato di Trento è stato istituito di fatto nel gennaio del 1919, dopo il ricupero degli atti e documenti trentini trasmigrati in Austria dall'epoca napoleonica in poi, ma soprattutto in occasione della guerra mondiale. Ha sede nei due piani superiori del palazzo dell'ex-seminario vescovile. I documenti principali provengono dal vecchio archivio dell'ex-principato vescovile di Trento; altre tre sezioni abbracciano i rogiti notarili, gli atti amministrativi specialmente dell'epoca più recente e i documenti di carattere giudiziario. La sezione bolzanina dell'archivio fu elevata nel 1930 ad archivio provinciale autonomo in Bolzano. Fa capo all'archivio di Trento anche la Commissione araldica regionale.
Di notevole interesse storico sono pure, a Trento, l'archivio municipale (nella biblioteca comunale), l'archivio capitolare, e la sezione ecclesiastica dell'archivio vescovile, presso la curia arcivescovile.
Altre istituzioni culturali. - Numerosi erano stati nell'anteguerra gli istituti di cultura del Trentino, intesi tutti a tener desta nel campo degli studî, specialmente storici, la fiamma del sentimento nazionale. Ne sono testimonî le importanti riviste pubblicate nella regione nel trentennio prima della guerra mondiale. L'eredità della Pro Cultura, fondata da Gino Onestinghel, fu raccolta dalla Società per gli Studî Trentini, formalmente costituita nell'agosto 1919. Suddivisa nelle due sezioni, storica e naturalistica, essa pubblica la duplice rivista Studi trentini di scienze storiche e Studi trentini di scienze naturali, una collana di monografie regionali e una serie di altre monografie, tra le quali gli Atti dei processi ai Martiri trentini.
Bibl.: F. Ambrosi, La biblioteca di Trento, in Strenna trentina letteraria e artistica, Trento 1890; id., Il Museo civico di Trento, in Strenna trentina, ivi 1892; E. Chiocchetti, Per la sistemazione degli studi trentini, nel vol. L'eredità spirituale di Gino Onestinghel, Rovereto 1919; E. Zucchelli, Le riviste trentine dell'anteguerra, in Studi Trentini, I (1920), fasc. 1; G. Ciccolini, Rassegna degli studi storici trentini nell'ultimo decennio, in Studi Trentini, IV (1923), fasc. 4; G. A. Tarugi Secchi, La biblioteca vescovile trentina, Trento 1930; Guida del Museo di storia naturale della Venezia Tridentina, ivi 1930; F. Mascelli, L'Archivio di stato di Trento, nell'opera Ad Alessandro Luzio (miscellanea), II, Firenze 1933; G. Gerola, Il castello del Buonconsiglio e il Museo nazionale di Trento, Roma 1934; G. de Manincor, Il Museo trentino del Risorgimento, ivi 1934.
Storia. - Tridentum o Tridente, abitata in origine dai neolitici Liguri, poi dai Veneto-Illirici e dalle stesse popolazioni etrusca e gallica che si succedettero nella pianura del Po, fu, secondo Giustino (XX, 5, 8), città di fondazione gallica, secondo Plinio (III, 19, 130) e Strabone (IV, 6, 8) fondata dai Reti. Nel 222 a. C. gli eserciti romani sottomisero Trento insieme con tutta la Gallia Cisalpina, nell'89 a. C. Trento ricevette, in forza della lex Pompeia il diritto latino e nel 49 a. C. da Cesare la cittadinanza romana. Sotto Augusto divenne importantissima base militare. Nell'editto dell'imperatore Claudio dell'anno 46 d. C. (Corp. Inscr. Lat., V, 5050), che concede la cittadinanza romana alle tribù alpine degli Anauni, dei Tulliassi e dei Sinduni, Tridentum è chiamata municipium. Durante i Severi, in epoca non precisata, divenne colonia e fu aggregata alla tribù Papiria. Dei magistrati le iscrizioni ricordano solo un prefetto quinquennale; fra i sacerdoti gli auguri e, del culto imperiale, il flamine di Roma e di Augusto e i seviri augustali. Il Capitolium era sul Doss Trento (Verruca), dove sono stati raccolti materiali romani provenienti da antichi templi. La città romana si estese poi lungo la riva sinistra dell'Adige dove vennero in luce i basamenti di alcune torri romane e pochi resti di un anfiteatro del quale oggi più nulla è visibile.
Punto di collegamento della Via Claudia Augusta e di quella che, da Verona, saliva a ritroso dell'Adige, la città, durante i primi secoli dell'era volgare, si estese lungo le due sponde dell'Adige e godette non lievi vantaggi economici e militari quale grande centro d'Italia vicino alle frontiere della Rezia e del Norico. Proprio durante le discese dei barbari, il suo primo vescovo, il romano Vigilio, vi diffondeva il cristianesimo e organizzava la diocesi. Teodorico suggerì e curò le fortifcazioni sul Verruca "chiave della provincia"; i Longobardi la scelsero a sede del ducato più settentrionale del loro regno. Nelle lotte contro i Franchi e i Baiuvari, la città fu ripetutamente saccheggiata; i Carolingi la favorirono come città d'Italia. Unita più tardi alla Marca Veronese, passò nel 952 a far parte del regno di Germania, come punto strategico della principale via attraverso le Alpi. Diventata sede di un principato ecclesiastico, fautore dell'autorità imperiale durante la lotta delle investiture (per il principato vescovile, v. trentino), ebbe un periodo di fiore durante il governo di Federico Vanga (1207-1218), che vi stabili una zecca, sfruttò i tesori minerarî e la rese centro di navigazione fluviale. I tentativi dei signorì ghibellini (Ezzelino da Romano, Mastino della Scala, ecc.) d'impadronirsene durevolmente fallirono. Nel 1327 Lodovico il Bavaro vi tenne un convegno con le principali famiglie italiane per rinforzare l'autorità imperiale: ma la gravitazione politica della città verso l'Italia veniva a finire quasi improvvisamente in seguito alla convenzione che, di fatto, eliminava il potere temporale del vescovo (1363), asservito a casa d'Austria. Nel 1407 scoppiava una ribellione, capitanata da Rodolfo Bellenzani, ma repressa dalle truppe tirolesi, mentre si ristabiliva il magistrato consolare. Il vescovo umanista G. Hinderbach diede nuovo impulso alla città, ricostruì il castello, favorì l'introduzione della stampa (1475). La riforma luterana accolta parzialmente dai contadini (1525) degenerò nella guerra rustica e nell'assedio a Trento, dove Bernardo Cles fece costruire il nuovo castello. Il fatto che diffuse il nome della città in tutto il mondo fu il concilio (v. appresso) che la fece diventare città moderna, ricostruita con begli edifici, prova dello splendore della famiglia Madruzzo, che per oltre un secolo resse le sorti del vescovato. Durante la guerra di successione spagnola (settembre 1703) fu assalita e bombardata dalle truppe francesi del Vendôme, ma resistette. Al 5 settembre 1796 vi entrò invece Bonaparte, nel 1797 il generale Joubert, nel 1801 il generale Macdonald. Dopo un breve periodo di governo austriaco e bavarese, fu assediata, occupata, ripresa più volte nel corso del 1809 dalle truppe francesi e dagl'insorti tirolesi. Nel 1810 diventò capoluogo del dipartimento dell'Alto Adige, sino alla fine del 1813. La restaurazione mal sopportata preparò, nelle congiure e attraverso gli accordi segreti, la sollevazione del 19 marzo 1848; la città inalberò il tricolore e fu il nucleo centrale della rivoluzione, repressa crudelmente: ciò non di meno lottò per la separazione dal Tirolo, come centro dei comitati patri, continuò in contatto con tutti i movimenti, a favorire con ogni mezzo la lotta per l'unità italiana. Evacuata per due giorni nel luglio 1866 dalle truppe austriache, non poté seguire le sorti del Veneto. Fu sede di una sezione di luogotenenza dal 1868 al 1896, anno in cui fu inaugurato il monumento a Dante; trasformata dall'Austria in fortezza militare di prim'ordine, fu quasi completamente evacuata durante la guerra mondiale.
Il 3 novembre 1918 veniva liberata dalle truppe italiane dopo aver consacrato la sua fede con l'olocausto di Cesare Battisti, il cui ricordo è eternato nel monumento nazionale erettogli sul Doss Trento (1935).
Bibl.: M. A. Mariani, Trento con il Sacro Concilio et altri notabili, Trento 1673; F. V. Barbacovi, Memorie storiche della città e del territorio di Trento, ivi 1821-24; B. Giovannelli, Trento città de' Rezi e colonia romana, ivi 1825; T. Gar, Statuti della città di Trento, ivi 1858; F. Ranzi, Pianta antica della città di Trento, ivi 1869; L. Cesarini Sforza, Piazze e strade di Trento, ivi 1896; G. Oberziner, Le guerre di Augusto contro i popoli alpini, ivi 1900; H. Swoboda, Trient und die kirchliche Renaissance, Vienna 1915.
Arte della stampa. - Alberto Kunne di Duderstadt introdusse la stampa a Trento, stampando dapprima il racconto in lingua tedesca del martirio inflitto dagli ebrei di quella città al fanciullo Simonino. È datato 6 settembre 1475 e l'unico esemplare conosciuto di questo libretto di 14 carte, adorno di 12 figure, si conserva nella Stadt-Bibliothek di Monaco. Una redazione latina dello stesso racconto reca in fine la data 9 febbraio I476 e il nome "Hermanno Schindeleyp auctore" che fu creduto quello di un tipografo, mentre il Langer, col sussidio del Glossarium del Ducange, dimostra essere quello del venditore (libraio). I tipi sono gli stessi del Kunne, come quelli impiegati per la stampa di un poemetto privo di note tipografiche sull'Assedio e presa di Caffa, e le Conclusiones di Silvestro da Bagnoregio "super canonisatione beati Simonis Tridentini". Poi venne Leonardo Longo, il quale aveva anche stampato a Torrebelvicino, Vicenza e Bergamo, e di lui son note 5 operette, fra cui un Doctrinale del 1481 e La Catinia di Sicco Polentone, 28 marzo 1482, considerata la più antica commedia in prosa.
Bibl.: G. Fumagalli, Lexicon, Firenze 1905, p. 430; Ed. Langer, Bibliographie der österr. Drucke des XV. u. XVI. Jahr., Vienna 1913; E. Voullième, Die deut. Drucker des fünfzehnten Jahr., Berlino 1922, p. 161; Catalogo della Libreria di G. Martini, compilato dal possessore, Milano 1934, pp. 11-12; C. Ricci, Il Beato Simonino, in Emporium, XIII (1901), pp. 131-140.
Il concilio di Trento.
È il diciannovesimo Concilio ecumenico della Chiesa cattolica e per le sue conseguenze si può considerare come il fatto più importante della storia della Chiesa nell'età moderna. In esso la Chiesa romana organizzò e disciplinò l'opera della Controriforma; cioè definì dogmi essenziali in modo che fece apparire nettissima e definitiva la separazione già profonda tra cattolici e riformati, eliminando con le tendenze a una composizione sulla base di mutue concessioni sul terreno dogmatico quelle miranti a una riforma cattolica anche dottrinale; consolidò la gerarchia e la disciplina ecclesiastica e riformò abusi; impresse insomma a sé medesima, in ogni aspetto della vita religiosa e pure nella concezione di essa, quei caratteri che sono proprî ancor oggi del cattolicismo moderno. Ognuna delle tre convocazioni (1545, 1551 e 1562) a cui si può far corrispondere un periodo della storia del Concilio, fu preceduta da un lungo e intenso lavorio preparatorio, non solo religioso ma diplomatico e politico, in stretta connessione con gli eventi politico-militari, con quelli religiosi e con il movimento delle idee: sì che essa storia è in realtà la storia dell'Europa, almeno continentale, dalla Riforma alle guerre di religione.
1° Periodo. - La preparazione. - Il quinto Concilio lateranense era, si può dire, appena chiuso, con il ripudio delle "dottrine conciliari" della superiorità del Concilio ecumenico sul pontefice romano, quando Lutero, nel novembre del 1518, lanciava il suo appello, canonicamente invalido, dal papa al futuro concilio. Eppure la persuasione che solo con un Concilio si sarebbe potuta compiere la riforma della Chiesa era talmente radicata in tutti coloro i quali aspiravano a rimediare ai mali di essa, che non appena si delineò in tutta la sua gravità la rivoluzione della Riforma, la richiesta divenne generale. Sulla critica degli abusi si fondava la propaganda luterana e si comprende come e i cattolici per togliere a questa un così potente motivo, e i luterani per non applicare le condanne papali - che potevano sembrare viziate dal desiderio di salvare per l'appunto quegli abusi - fossero concordi in quella richiesta. Così a Adriano VI un lungo memoriale sulla necessità di convocare un concilio fu diretto da Giovanni Luigi Vives, dottore dell'università di Lovanio; al nunzio Chieregati, inviato alla dieta di Norimberga nell'autunno 1522 per promettere la riforma della Chiesa ed esigere l'esecuzione dell'editto di Worms, gli stati tedeschi risposero domandando un concilio, da convocarsi entro un anno su suolo germanico; e G. Eck, interrogato dal pontefice nel marzo 1523, consigliava una pronta riforma degli abusi deprecati, insieme con la promessa di un futuro concilio; e la stessa richiesta era rinnovata al nuovo papa Clemente VIl, dalla dieta di Norimberga del 1524. Anzi, solo con l'aiuto di Carlo V il nunzio, cardinale L. Campeggio, mandò a vuoto un concilio nazionale che gli stati della Germania avevano già convocato a Spira; ma insieme l'imperatore consigliava al pontefice di convocare a Trento un concilio ecumenico.
D'altra parte, alla convocazione ostavano non poche difficoltà. La domanda da parte dei luterani suscitava preoccupazioni: perché l'universalità e la libertà del concilio in territorio germanico potevano significare partecipazione di elementi non desiderabili o canonicamente non autorizzati, riesumazione dell'antica controversia circa la superiorità del Concilio, pressioni su di esso da parte di autorità temporali e impossibilità per il papa di sorvegliare l'andamento dei lavori. D'altra parte era chiaro che il concilio ecumenico non si poteva tenere se non in condizioni di tranquillità e pace generale, e con l'appoggio almeno delle massime potenze cattoliche, Spagna e Impero, e Francia. Ora, quel Carlo V che fin dal 1520 aveva scoperto che fra Martino poteva essere una buona carta nel suo gioco diplomatico con la Curia, era da una parte nella necessità di ottenere, contro Francesco I e contro i Turchi, l'aiuto dei principi tedeschi, parecchi dei quali, specie dopo la rivolta dei contadini, simpatizzavano con Lutero o per lo meno reclamavano che si ascoltassero i gravamina presentati dalla nazione tedesca; e nello stesso tempo troppo debole per potere, anche fatta la pace con il perpetuo rivale, opporsi con la forza alla diffusione dell'eresia. Per di più, l'azione politica del papato stesso come potenza italiana lo poneva contro Carlo V. Tutto ciò condusse, pur dopo la vittoria imperiale di Pavia, al recesso di Spira (1526) che lasciava ogni principe libero in materia religiosa fino al Concilio da tenersi in una città tedesca; e, dopo il sacco di Roma, prima ancora della pace tra l'imperatore e Clemente VII, alle nuove deliberazioni di Spira (1529): onde la famosa protesta e l'appello dei luterani a un libero Concilio ecumenico o a un concilio nazionale tedesco. A Bologna, nel 1530, il papa e l'imperatore decisero in massima la convocazione d'un concilio ecumenico al quale tuttavia parecchi erano contrarî, sia che stimassero ancora possibile ricondurre i protestanti all'unità mediante un accordo dogmatico, sia che ritenessero venuto il momento di piegarli con la forza. Ma questo appunto Carlo non voleva né poteva. E nella dieta d'Augusta del 1530 fallivano insieme e il tentativo di Carlo V di farsi arbitro tra protestanti e Roma, e l'accordo dogmatico e, nonostante le concessioni del pontefice disposto infine a tollerare la comunione ai laici sotto le due specie e il matrimonio degli ecclesiastici, il Concilio, per l'intransigenza degli stati tedeschi, timorosi anche dell'aumento di potenza che l'unificazione religiosa avrebbe procurato all'imperatore. Mentre si veniva preparando la lega politica dei principi protestanti, con la quale Francesco I, come con i Turchi, avrebbe tra poco trattato, Roma inclinava sempre più verso l'idea che fosse dovere inderogabile dell'imperatore ridurre con la forza i ribelli alla ragione.
Si assisté allora a un abile palleggiamento di responsabilità. L'imperatore per combattere gli eretici chiese aiuti finanziarî al papa; avutane una ripulsa, tornò a insistere sulla necessità del Concilio, per il quale ora Roma poneva condizioni, tra cui che fosse tenuto in Italia, che vi potesse votare solo chi a ciò avesse canonicamente diritto, che i luterani chiedessero formalmente la convocazione. Le trattative si trascinarono a lungo. E quando Francesco I (col quale pendevano le trattative di Clemente VII per il matrimonio di Caterina dei Medici con Enrico duca d'Orléans) ebbe dichiarato che il concilio doveva tenersi a Torino, e non a Bologna, o Mantova, o Piacenza, l'imperatore e il papa furono ben lieti di addebitare al Francese il fallimento delle trattative stesse. E invano la decisione del Concilio fu presa solennemente nel concistoro del 28 novembre 1531; sotto la minaccia della lega di Smalcalda, di fronte ai maneggi francesi in Germania, con gli smalcaldici e con i cattolici duchi di Baviera, in Inghilterra e in Roma, Carlo V non poteva che mostrarsi tollerante verso i protestanti, nella dieta di Norimberga (1532), pur di averne l'aiuto contro i Turchi. Rinnovate le trattative nel nuovo incontro tra Carlo V e Clemente VII a Bologna nel dicembre 1532, si decise di tenere il Concilio ecumenico e d'invitarvi anche gli stati tedeschi, alle condizioni stabilite dal pontefice; tra cui queste, che si promettesse da tutti di sottostare alle decisioni del Concilio e che sede di questo fosse Mantova o Bologna o Piacenza. Ma i collegati di Smalcalda rigettavano tali condizioni, insistendo sul Concilio "libero" e in Germania.
Paolo III, appena eletto, si preoccupò ugualmente della riforma ecclesiastica e del Concilio, propendendo a far precedere quella a questo, e in tale ordine di idee nominò la commissione che preparò il celebre Consilium de emendanda ecclesia (1537) e quindi l'altra commissione di quattro cardinali (aumentati progressivamente fino a 12) con l'incarico di elaborare soprattutto la riforma della Dataria - la più difficile, anche per le gravi difficoltà finanziarie in cui la soppressione di tanti introiti avrebbe posto la Curia - e degli altri uffici e tribunali romani. Questi lavori vanno ricordati, perché di solito più intensi quando l'apertura del Concilio incontra maggiori ostacoli e perché se anche non molti furono i provvedimenti attuati, nondimeno le osservazioni e le proposte fatte si possono considerare quali veri e proprî lavori preparatorî del Concilio.
Approvata nuovamente, nel gennaio 1535, la proposta del Concilio, Paolo III spediva nunzî in Germania, Spagna e Francia, ma le sue premure venivano annullate dalla politica antiasburgica della cattolica Baviera, dall'opposizione degli smalcaldici, sostenuti sottomano da Inghilterra e Francia, dalla stessa diplomazia imperiale desiderosa innanzi tutto dell'alleanza col papa eontro Francesco I. Finalmente, dopo un incontro a Roma, nell'aprile 1536, tra Carlo V e il pontefice, questi poteva, il 2 giugno 1536, convocare il concilio a Mantova per il 23 maggio 1537. Ma si riaccese l'ostilità dei luterani tedeschi e quella della Francia; il duca di Mantova pose condizioni impossibili per la concessione della città. Così si dovette ancora rinviare e cercare una nuova sede: Vicenza; e, di fronte ai continui e reiterati impedimenti frapposti dall'imperatore, dalla Francia e dai luterani, prorogare ancora l'apertura del Concilio, ai primi di maggio del 1538, poi ancora alla Pasqua del 1539, poi - il 21 maggio 1539 - sine die.
Infatti, se nel marzo 1539 Carlo V aveva confermato la lega catolica in Germania sollecitando poi il papa a entrarvi e contribuire alle spese, tuttavia nel recesso di Francoforte del 19 aprile 1539 i protestanti ottennero che le questioni religiose rimanessero in sospeso: Carlo V e il fratello Ferdinando, di fronte ai continui progressi del protestantesimo, erano venuti nella determinazione di tentare nuovamente la via dell'accordo. Né la missione del card. Farnese presso Carlo V e in Francia, nell'inverno 1539-40, era riuscita ad assicurare la pace. La dieta indetta a Spira e trasferita a Hagenau e il "colloquio di religione" iniziato a Worms e poi interrotto nel gennaio 1541, ma poco dopo ripreso a Ratisbona, rappresentano in realtà un momento culminante, per varie ragioni. Politiche, perché nella Dieta, protrattasi fino all'estate, Carlo di fronte alla nuova pressione dei Turchi avanzanti in Ungheria e alla crisi provocata dall'uccisione del Rincon, doveva ancora mostrarsi condiscendente verso gli smalcaldici, cereando di ottenere che lo aiutassero e non s'unissero al pericoloso duca di Kleve, in cambio di tolleranza, e - per il bigamo Filippo d'Assia - dell'impunità: cosa quest'ultima che iniziava una scissione tra gli stessi luterani. Ragioni religiose, perché durante quei colloqui parve un momento che la riconciliazione dei dissidenti fosse possibile, attraverso quella dottrina della doppia giustizia - inerente all'uomo e imputata - che, messa innanzi dal Pighio e dal Gropper, ebbe l'adesione del cardinal legato Contarini (e, in Italia, d'altri tra i quali R. Pole) benché venisse criticata in curia. Fallito però su altri punti l'accordo, non rimase che rimandare i punti rimasti controversi al futuro Concilio.
Se ne riparlò infatti, nel colloquio di Lucca tra il papa e l'imperatore. Questi accettò come sede Vicenza, proprio quando la repubblica di Venezia la rifiutava. Quindi si pensò a Trento e ancora a Mantova; e nonostante la Francia, furono spinti i preparativi e alla dieta di Spira, dopo qualche esitazione (il papa aveva pensato anche a Cambrai) fu proposto Trento, ove, con bolla del 22 maggio, il Concilio fu convocato. Ma l'opposizione francese e l'irritazione di Carlo V per essere stato messo, nella bolla, alla pari del re di Francia resero di nuovo vana la convocazione: infatti, nonostante che fin dall'ottobre fossero stati nominati i legati papali, cardinali Morone, Parisio e Pole, nella primavera del 1543 così pochi erano i prelati giunti a Trento, che il Concilio si poté considerare deserto, mentre si delineava il pericolo di un concilio nazionale germanico. Perciò, dopo l'incontro tra il papa e l'imperatore a Busseto, il Concilio dovette di nuovo essere sospeso, con decisione del 6 luglio.
L'anno dopo, la difficile situazione spinse Carlo V a nuove concessioni ai protestanti nella dieta di Spira, la quale domandò un concilio universale e libero o, parendone troppo incerta la convocazione, un sinodo nazionale. Questo provocò, nell'agosto, il breve di biasimo del papa a Carlo V; ma intanto la pace di Crespy (17 settembre 1544) ridava all'imperatore libertà di azione, grazie all'impegno assunto da Francesco I di non concludere più alleanze in Germania e impegnava i due contraenti a favorire la convocazione del Concilio e farne rispettare i deliberati. Pertanto, migliorate anche le relazioni tra imperatore e pontefice, questi nel concistoro del 19 novembre 1544 poteva finalmente togliere la sospensione, e indire il Concilio a Trento per il 15 marzo 1545 (bolla Laetare Hierusalem). Il 6 febbraio vennero nominati i legati papali, i cardinali Del Monte, Cervini, Pole. Fu concessa loro facoltà di presiedere il Concilio anche separatamente, nonché quella, importantissima, di trasferirlo, sospenderlo e anche scioglierlo. Ma, nel marzo, pochissimi erano i prelati presenti a Trento. Erano sorte infatti altre difficoltà. Da una parte, Ferdinando d'Asburgo premeva perché si procedesse incontanente alla riforma ecclesiastica e, nella dieta di Worms, prometteva che, non aprendosi subito il Concilio, l'imperatore stesso avrebbe provveduto. Ciò concordava con i piani di Carlo, desideroso di non allarmare i protestanti, mentre si preparava a usare le armi contro la lega di Smalcalda e mirava ad ottenere, a tale scopo, l'aiuto del papa. Il quale, con la nuova missione del card. Farnese in Germania, ne assumeva l'impegno; senonché Carlo ritenne di dover rinviare l'impresa di un anno e pertanto chiese, nel luglio, che il Concilio non si aprisse, o almeno trattasse dapprima solo di riforme e che il papa concedesse di poter tenere a bada i protestanti con la promessa di nuove discussioni. Finalmente un concistoro del 6 novembre, stabilì l'apertura del Concilio per la terza domenica dell'Avvento.
La riunione a Trento. - Così il Concilio s'iniziò a Trento, il 13 dicembre 1545. Erano presenti i tre legati, il card. Madruzzo vescovo di Trento, 4 arcivescovi, 21 vescovi, 5 generali di ordini, gli oratori del re dei Romani, oltre i teologi e altri personaggi.
Numerose e importanti si manifestarono subito le questioni da risolvere anche preliminari: poiché i pochissimi Francesi presenti chiesero si attendesse l'arrivo dell'oratore del re di Francia con altri prelati, e perché subito - già nella congregazione generale del 18 dicembre - si delinearono diverse tendenze. Infatti alcuni dei padri inclinavano a che il Concilio manifestasse subito, se non la superiorità, almeno la propria indipendenza assoluta di fronte alla Santa Sede e, oltre a ciò, quella dei vescovi; e anche le decisioni relative alla procedura da seguire implicavano fosse risolta la grave questione se il Concilio avesse a occuparsi prima della riforma ecclesiastica o dei dogmi. La precedenza della riforma fu sostenuta soprattutto dal Madruzzo, rispecchiante i desiderî dell'imperatore e di Ferdinando, mentre la Curia e i legati insistevano che fossero definite le questioni dogmatiche, in modo da stabilire una netta linea di demarcazione tra cattolici ed eretici. A Roma si temeva anche il colloquio di religione che era stato indetto per i primi del 1546 a Ratisbona; ma si consentì che, nel trattare le cose della fede, si condannassero soltanto le dottrine e non anche le persone degli eretici. Anche si convenne dopo poco che i lavori procedessero soprattutto nelle riunioni minori, dividendo i padri in tre classi, ciascuna presieduta da un legato, in modo da preparare le materie per la discussione nelle "congregazioni generali", lasciando alle solenni sessioni la votazione definitiva sui decreti sottoposti all'approvazione del Concilio. Fu dato un voto a ogni generale di ordine religioso e uno in comune (data la speciale organizzazione dell'ordine) ai tre abati benedettini mandati dal papa.
Le tendenze di certi vescovi si manifestarono già nella discussione circa il titolo del decreto da sottoporre alla seconda sessione, volendo alcuni che alle parole sacrosancta tridentina synodus si aggiungesse: universalem Ecclesiam repraesentans, come avevano fatto i concilî di Costanza e Basilea. A ciò si opposero i legati e il Madruzzo; finché il Seripando propose di adottare i termini oecumenica et generalis, atti a mettere in rilievo il carattere universale del Concilio e contenuti nella bolla di convocazione; così si fece, ma 9 vescovi protestarono nella seconda sessione, 3 anche nella terza. Parimenti, la questione circa la precedenza della discussione sulla riforma o sul dogma, venne risolta allorché il papa, poco prima della terza sessione, ebbe approvato anch'egli, dopo i legati, la soluzione intermedia proposta da T. Campeggio vescovo di Feltre: che cioè le due questioni si mandassero innanzi contemporaneamente.
Pertanto, mentre nella II sessione, del 7 gennaio 1546, fu approvato solo un decreto relativo alla condotta da tenersi dai padri nel Concilio e nella III sessione (4 febbraio) quello che ribadiva il simbolo niceno-costantinopolitano come base della fede comune dei cristiani (essendosi sospeso, in attesa dell'approvazione papale, il decreto già pronto sulla procedura: onde due vescovi protestarono), subito dopo cominciò il vero e proprio lavoro del Concilio. Il numero dei presenti era alquanto aumentato, essendo giunti alcuni altri prelati, mentre però Carlo V, fallito il colloquio di Ratisbona, ma sempre deciso a non rompere con i protestanti prima del momento a lui favorevole, richiamò i Tedeschi, dei quali rimasero a Trento solo i procuratori del vescovo Truchsess di Augusta. Dopo lunghe discussioni nelle congregazioni, riguardanti il canone delle Sacre Scritture e il valore della tradizione (il Nachianti vescovo di Chioggia voleva si affermasse base della fede essere la sola Bibbia) furono pronti per la IV sessione, l'8 aprile, i decreti De Canonicis Scripturis e De editione et usu Sacrorum librorum, affermanti l'autorità della Sacra Scrittura ma, accanto a questa, anche della tradizione come base della fede, nonché l'autorità della Volgata, con norme circa l'uso e l'esegesi della Bibbia (v. bibbia, VI, pp. 882, 910 e volgata). Erano presenti 5 cardinali, cioè i legati, il Madruzzo e P. Pacheco (v.) da poco proclamato, 8 arcivescovi, 41 vescovi, 4 generali d'ordini, 3 abati benedettini.
Quindi si presentò davvero la questione della riforma della Chiesa. I legati trovarono insufficiente il programma che era stato tracciato in una bolla preparata fin dal 1542 e ora inviata loro: insistettero sui punti che da tempo parevano indispensabili a tutti i più zelanti, e cioè la riforma della Dataria, il conferimento dei vescovati a persone degne, l'obbligo di risiedere, il divieto di più vescovati alla stessa persona (anche per i cardinali), la necessità di scegliere meglio e sottoporre a più stretta disciplina il clero, regolare e secolare.
Di tutto questo, e specialmente dell'istituzione di cattedre per la spiegazione della Bibbia e del dovere della predicazione, nonché dell'obbligo della residenza per i vescovi, si discusse anche in congregazioni generali fino al 10 giugno; mentre d'altra parte continuava la resistenza imperiale a che si trattasse dei dogmi, finché tra il 28 maggio e il 16 giugno fu discusso ed elaborato il decreto sul peccato originale, la sua natura, la trasmissione, le conseguenze e la cancellazione mediante il battesimo. La discussione su ciò trascinò seco anche quella circa l'Immacolata concezione di Maria Vergine, ma nonostante si pronunciassero in favore il Pacheco, e i teologi gesuiti Laínez e Salmerón, per l'opposizione dei domenicani tale questione fu messa da parte. Contro tale esclusione protestò tuttavia il Pacheco nella V sessione (17 giugno 1546) in cui fu approvato il decreto dogmatico sul peccato originale e quello di riforma relativo all'insegnamento della Sacra Scrittura da farsi nelle chiese cattedrali e nei conventi, e alla predicazione da parte dei vescovi o di persone idonee da loro delegate, e sottoponendo anche i regolari all'approvazione del vescovo.
Il punto dogmatico da discutere era ora la giustificazione: gravissimo, perché precisamente a questo proposito Lutero si era distaccato dalla teologia tradizionale e perché dalla soluzione di esso dipendevano le altre dottrine circa la Chiesa e i sacramenti. Ora, nel colloquio di religione di Ratisbona i teologi cattolici - tra cui il Cocleo - avevano respinto nettamente anche la teoria della doppia giustizia ("Lo spirito della restaurazione cattolica cominciava a rendersi sensibile": Pastor) e i protestanti avevano chiesto ancora una volta un concilio conforme alle loro vedute. Ma il 6 giugno, Carlo V firmò finalmente - mentre ancora durava la dieta di Ratisbona e chiedeva anzi un concilio nazionale - il trattato d'alleanza contro gli smalcaldici, firmato il 26 anche da Paolo III. E già i legati, e parecchi dei padri, temendo un colpo di mano dei nemici su Trento, manifestavano il parere che il Concilio si dovesse trasferire. A ciò era contrario l'imperatore, non volendo dare l'impressione che l'opera della riforma della Chiesa, allora appena iniziata, veniva subito interrotta; e a tali considerazioni accedette anche il papa, dando istruzione che si continuasse a trattare della riforma, ma contemporaneamente anche della giustificazione; al che l'imperatore era contrario, mentre a sua volta il papa non avrebbe veduto di mal occhio che il Concilio fosse trasportato in una città italiana. Mentre, per la malattia e poi il richiamo del Pole e l'assenza del Cervini, per vario tempo rimase solo dei legati il Del Monte, il decreto dogmatico dava luogo a discussioni assai ardue e difficili, protrattesi quasi ogni giorno dal 21 giugno per tutto il luglio e continuate nell'agosto; riprese poi negli ultimi di settembre e condotte assiduamente sino alla sessione. Si trattava infatti di definire un dogma, a proposito del quale - e appunto perché ancora non definito - era stata alquanto libera la controversia tra le scuole teologiche, e di fare opera non soltanto negativa, semplicemente condannando errori, ma anche costruttiva. Nell'ottobre fu dal Seripando presentata, come quella che, approvata già da uomini di indubbî sentimenti cattolici quali il Contarini, non era da respingersi leggermente, quella dottrina della doppia giustizia, nel confutare la quale si segnalò il Laínez. Così nella VI sessione (13 gennaio 1547), presenti 4 cardinali (Del Monte, Cervini, Madruzzo, Pacheco), 10 arcivescovi, 47 vescovi e 2 procuratori, 5 generali d'ordine e 2 abati, si poté approvare il fondamentale decreto De iustificatione che - respingendo il concetto di una giustificazione puramente imputata e non reale, e facendola dipendere dalla fede ma non scompagnata dalle opere buone, costituenti un merito reale - condannava Lutero e Calvino, ma respingeva altresì le esagerazioni di singole scuole, mantenendosi nella sostanza più vicino alla robusta sintesi tomistica.
Invece, il decreto sulla riforma venne sospeso. Anche intorno all'obbligo della residenza dei vescovi le discussioni furono vivaci, per causa di coloro i quali ritenevano che tale obbligazione fosse di diritto divino. Alla fine, nella VII sessione (3 marzo 1547) fu approvato il decreto, di 15 capitoli, relativo alle doti dei candidati all'episcopato, alla visita delle diocesi, al conferimento degli ordini sacri, ecc., e soprattutto contrario al cumulo dei vescovati e dei benefizî. E insieme venne approvato anche il decreto dogmatico, relativo ai sacramenti in generale, al battesimo e alla confermazione che in 30 canoni condanna una serie di errori.
La guerra volgeva intanto favorevole all'imperatore; qualche storico ha creduto di poter affermare che anche il timore ch'egli potesse ormai dettar legge al Concilio rafforzò nella maggioranza dei padri la determinazione di trasferirlo. Aumentarono le difficoltà il rigore del clima e una epidemia. Sottoposta la questione al Concilio, la maggioranza, contro il parere del Pacheco e di altri prelati imperiali, si pronunciò, nell'VIII sessione (11 marzo 1547) per la traslazione del Concilio a Bologna, che del resto i legati erano già stati autorizzati a compiere, e si fissò la prossima sessione per il 21 aprile. Ma 14 prelati rimasero a Trento.
Il Concilio a Bologna. - La traslazione rendeva ancora più difficili i rapporti con Carlo V, il quale non solo aveva dovuto fare concessioni, sul terreno religioso, ad alcuni fra i suoi stessi alleati, ma - appunto per la presenza di protestanti nel suo campo - aveva, in Germania, sottolineato l'aspetto politico della guerra, mossa contro gli spregiatori dell'autorità imperiale e disturbatori della pace nell'Impero; e ora, dopo la vittoria di Mühlberg e la sottomissione di Filippo d'Assia, reso più sicuro dalle morti di Enrico VIII e di Francesco I, era - purché non si fosse alienato Maurizio di Sassonia e altri alleati luterani - al colmo della sua potenza. Pertanto, a Roma e a Bologna, pendenti con l'imperatore le trattative che riguardavano anche la questione dell'investitura di Parma e Piacenza a Pier Luigi Farnese, si decise di attendere: onde nella IX sessione (il 21 aprile) il rinvio al 2 giugno e nella X sessione (2 giugno) l'altro rinvio al 15 settembre. Nel frattempo si apriva il 10 settembre, la dieta d'Augusta, nella quale il permanente dissidio tra le mire degli Asburgo e il particolarismo dei principi tedeschi - tra i quali la cattolica Baviera - tornava a manifestarsi, mentre l'assassinio di Pier Luigi Farnese, il 10 settembre, rendeva ormai inconciliabile il dissidio tra il papa e l'imperatore. Il quale, pur costretto nella dieta a fare qualche concessione ai protestanti, e tuttavia fermo nell'intenzione di ricondurre la Germania all'unità della fede cattolica, voleva però che il Concilio continuasse a Trento e riprendesse anche la discussione sui dogmi. Sicché, nel frattempo, il Concilio decise di sospendere la sessione rinviandola a giorno da destinarsi. E poi cominciò una nuova serie di trattative, sulla base del ritorno del Concilio a Trento: cosa che i padri erano disposti a concedere, purché i prelati rimasti nella città imperiale si recassero prima a Bologna, rinunciando così a ogni riserva circa la validità del concilio bolognese e purché fosse chiarito che, anche a Trento, il Concilio sarebbe stato la continuazione del precedente e non uno affatto nuovo; e purché fosse stabilita nettamente la libertà del Concilio di trasferirsi o sospendersi secondo il voto della maggioranza. Pertanto, alla congregazione del 16 gennaio 1548, Carlo V fece notificare la sua solenne protesta, già da tempo minacciata, contro la validità del Concilio; alla quale i padri risposero. Fu avanzata anche la proposta di convocare a Roma, per decidere circa la validità della traslazione, una commissione, alla quale partecipassero prelati di Bologna e di Trento. Ma intanto l'imperatore, sia per la condizione in cui si trovava di fronte alla dieta, sia per premere ulteriormente sul Concilio, aveva fatto preparare l'interim di Augusta; e poiché le trattative di Paolo III per una lega con la Francia e con Venezia non sembravano prossime a concludersi, fu giuocoforza al papa piegarsi e consentire all'invio in Germania di tre legati, muniti delle facoltà necessarie per l'esecuzione dell'interim. Si pensò anche di trasferire il Concilio a Roma o in territorio veneto (ma la Repubblica, anche questa volta, non aderì) e poi, mentre il Concilio continuava a rimanere inattivo, a convocare in Roma vescovi di tutti i paesi, per procedere alla Riforma ecclesiastica. Ma ogni tentativo fallì; e finalmente, dopo aver biasimato i prelati di Trento che non avevano ubbidito all'ingiunzione pontificia, il 17 settembre 1549, in seguito a istruzioni avute da Roma, il Del Monte diede licenza ai vescovi di Bologna, ai quali però un breve del 26 ingiunse di tenersi pronti per una chiamata: "pietoso eufemismo per coprire con dignità la ritirata" (C. Capasso). Meno di due mesi dopo, il 10 novembre, il vecchio papa moriva, quando era ormai scomparso il pericolo che sia il Concilio, sia i prelati di Trento pretendessero ingerirsi dell'elezione papale.
2° Periodo. - La preparazione. - Al Del Monte, papa Giulio III, toccò ora di liquidare gli strascichi della pericolosa politica nepotistica di Paolo III, riallacciando le trattative per la riconvocazione del concilio alla quale si era obbligato solennemente firmando la capitolazione elettorale del conclave. Già del resto nel primo concistoro tenuto il 28 febbraio 1550, egli manifestò chiaramente la sua intenzione di riconvocare il concilio, d'accordo con l'imperatore, e nominò una commissione cardinalizia, che decise di riaprire il Concilio a Trento. Al re di Francia si promise che non sarebbero state toccate questioni politiche o i privilegi dei re di Francia; a Carlo V si affermò ch'era necessario ottenere il consenso del re francese e l'aiuto imperiale per rendere i lavori del Concilio spediti e sicuri, impedire che si tornasse a discutere sulle questioni già definite, che fosse posta in discussione la suprema autorità del pontefice sul Concilio.
In tutte le trattative si era poi cautamente evitato, come anche poi nella bolla di convocazione, di parlare di "continuazione" del Concilio. Carlo V rispose facendo conoscere la sua approvazione ai propositi del pontefice e manifestando la sua intenzione di persuadere anche i protestanti ad intervenire al Concilio, nella dieta che egli aveva convocato ad Augusta per il 25 giugno. Enrico II invece rispose che la Francia cattolica non aveva bisogno del Concilio ecumenico, che per la riforma della Chiesa sarebbe bastato un concilio nazionale e che Trento non gli pareva offrire garanzie di sicurezza e d'indipendenza dall'influenza imperiale. Ciò nonostante Giulio III, specialmente quando nella dieta di Augusta dell'agosto 1550 cattolici e protestanti ebbero deciso di sottomettersi al Concilio, riconvocò il Concilio stesso a Trento per il 10 maggio 1551.
La bolla di convocazione, Quum ad tollenda, del 14 novembre 1550, fu inviata a Carlo V che sollevò qualche difficoltà e la pubblicò solo dopo qualche tempo, quindi il 3 gennaio 1551, con una protesta segreta, cercò di crearsi un alibi nel caso che sopraggiungessero complicazioni. E difatti specialmente la questione, ancora insoluta, di Parma, minacciò seriamente di mandare nuovamente a monte il Concilio. Il pontefice aveva promesso a Ottavio Farnese di dargli l'investitura per il ducato di Parma, e alla controproposta di Carlo, che fossero date a lui Parma e Piacenza, impegnandosi a compensare il Farnese in altro modo, non aveva aderito. Ma i Farnese, diffidando di Giulio III, già si volgevano per aiuti alla Francia: Ottavio firmava nel maggio un vero e proprio patto di alleanza, con Enrico II, contro l'imperatore. Ma tra l'accordo con Carlo V e l'amicizia con il Farnese il pontefice aveva scelto già da tempo, e aveva risposto impavido con la minaccia di deposizione a Enrico II che agitava dinnanzi agli occhi del pontefice lo spauracchio dello scisma.
La riunione. - Pertanto il 13 aprile giunse a Trento il segretario del Concilio, Massarelli; il 29 aprile vi entrarono solennemente i tre presidenti del Concilio, il cardinal Marcello Crescenzi, legatus de latere, e i vescovi Sebastiano Pighino e Luigi Lippomano. Il 10 maggio, presenti, oltre i presidenti, il cardinal Madruzzo, 4 arcivescovi, 10 vescovi, 11 teologi e l'inviato imperiale fu tenuta l'XI sessione (prima sotto Giulio III), con la lettura dei documenti, e l'indizione della prossima sessione al 10 settembre, per dare tempo ai Tedeschi di intervenire.
E subito, infatti, si sollecitarono prelati a recarsi al Concilio. Ma anche apparve la netta ostilità di Enrico II, il quale giunse al punto di rompere le relazioni diplomatiche con la Santa Sede e di ventilare l'idea d'una sottrazione d'ubbidienza al papa e dell'erezione di un patriarcato francese: al che si oppose il cardinal di Lorena, Carlo di Guisa. Ma ben presto, nonostante l'assenza dei Francesi, il numero dei padri aumentò, essendo sopraggiunti prelati tedeschi, fra i quali gli elettori di Magonza e Treviri, poi anche quello di Colonia. Così alla XII sessione (seconda sotto Giulio III), erano presenti già, con i tre presidenti e il Madruzzo, 2 elettori e altri 5 arcivescovi, 26 vescovi e 25 teologi. Fu stabilito che per l'11 ottobre si sarebbe trattato dell'Eucaristia e della residenza dei vescovi. Un grave incidente fu provocato dalla comparsa di Jacques Amyot con una lettera del re di Francia, nella quale egli dichiarava di considerare il Concilio come una semplice adunanza, dai cui decreti la Francia e la chiesa gallicana non si sarebbero sentite vincolate.
La risposta del Concilio fu data nella XIII sessione (terza sotto Giulio III) dell'11 ottobre 1551, alla quale furono presenti, con i presidenti e il Madruzzo, 3 elettori e 5 arcivescovi, 34 vescovi, 5 generali di ordini, 3 abati, 48 teologi, e gl'inviati di Carlo V, di Ferdinando e dell'elettore Gioacchino II di Brandeburgo. Fu approvato il decreto dogmatico sull'Eucaristia, al quale avevano lavorato il Laínez e il Salmerón gesuiti, e il domenicano Melchior Cano. Il decreto affermava la presenza vera, reale e sostanziale di Gesù Cristo nelle specie eucaristiche, quindi la transustanziazione, l'adorazione del Sacramento, ecc. Già nelle congregazioni generali si era convenuto che i canoni preparati intorno alla concessione del calice ai laici e alla comunione dei fanciulli, fossero messi da parte, in attesa che venissero i protestanti.
Quindi fu ripresa la discussione sulla riforma della Chiesa e iniziata quella intorno ai sacramenti della penitenza e dell'estrema unzione a proposito dei quali fu emesso dalla XIV sessione (4a sotto Giulio III; 25 novembre) un decreto dogmatico (v. penitenza, XXVI, p. 671; estrema unzione). Quanto alla riforma, i provvedimenti mirarono soprattutto ad assicurare la disciplina del clero, imposero l'uso dell'abito ecclesiastico, tolsero abusi circa i benefizî.
Intanto, il 22 ottobre giunsero gl'inviati del Württemberg, cui seguì, l'11 novembre, lo Sleidano per Strasburgo e altre città, e il 9 gennaio 1552 i rappresentanti di Maurizio di Sassonia, che, presa Magdeburgo il 10 novembre lasciandole la libertà religiosa, si apprestava segretamente a tradire l'imperatore e a firmare l'alleanza con Enrico II. Subito il modo di agire di costoro mostrò quanto poco fondate fossero le speranze di una riconciliazione. Infatti, mentre già i württemberghesi, presentando nella congregazione del 24 gennaio la loro confessione di fede composta dal Brenz, sollevarono eccezioni alle precedenti deliberazioni del Concilio, l'oratore sassone, lo stesso giorno, non solo rinnovò quella richiesta e proclamò la superiorità del Concilio sul papa ("probabilmente egli sapeva che quella massima aveva tuttora seguaci anche nel campo cattolico, persino fra i padri di Trento": Pastor), ma mise in dubbio la stessa ecumenicità del Concilio e soprattutto si irrigidì sulla richiesta di un salvacondotto per i protestanti assai più ampio ed esplicito di quello concesso. Ma da una parte il legato si sentì astretto dalle istruzioni papali a trattare i dissidenti con benignità; dall'altra si verificò un contrasto tra lui e un forte gruppo di vescovi: onde l'espressa dichiarazione contraria alle dottrine conciliari, da lui voluta, non raccolse l'adesione della maggioranza, mentre la proposta dei prelati spagnoli e imperiali che, lasciato da parte il dogma, si trattasse solo della riforma, trovò irremovibile il legato deciso a mandare innanzi e l'uno e l'altra.
Pertanto, nella XV sessione (5a sotto Giulio III), il 25 gennaio 1552, si decretò una dilazione, a proposito dei decreti già preparati intorno alla Messa e all'ordine sacro e furono letti i nuovi salvacondotti, accettati solo con riserva, e con intenzioni dilatorie, dai rappresentanti di Maurizio. Intanto il papa decideva che circa la superiorità del pontefice, lo sciogliere i vescovi dal loro giuramento al papa (altra richiesta dei protestanti) e il rimettere in discussione i deliberati, non si potesse più neppur disputare. Nello stesso tempo protestò presso Carlo V per il contegno dei prelati spagnoli e i tentativi di sminuire l'autorità pontificia. Ma dalla Germania venivano notizie sempre più gravi, sì da indurre gli elettori a partire, anche se, il 18 marzo, giungeva il Brenz con altri teologi riformati. E così Giulio III il 15 aprile proclamò la sospensione del Concilio. I padri il 24 aprile approvarono la sospensione per due anni proposta dal Madruzzo; il 26, respinsero una proposta del Pighino d'inviare vescovi a Roma per continuare a trattare della riforma col papa. Nella XVI sessione (6a sotto Giulio III, il 28 aprile 1552) il decreto di sospensione fu pubblicato. Il 27 maggio, nella dieta di Passau, Carlo V doveva cedere ai protestanti.
3° Periodo. - La preparazione. - Giulio III moriva il 23 marzo 1555 e di nuovo uno dei legati conciliari di Paolo III, il card. Cervini, devoto ai Farnese, era eletto papa. Ma a Marcello II succedeva, il 23 maggio, Paolo IV che come cardinal Carafa era stato il capo di quella che si potrebbe chiamare l'"ala destra" del partito della riforma cattolica, avversa alla corrente, da qualcuno detta "erasmiana", rappresentata p. es. dal Contarini e dal Pole. E Paolo IV era avverso, in linea di principio, al Concilio, sia perché i ricordi di Costanza e Basilea lo spaventavano, sia per il timore che vi si facesse sentire troppo forte l'ingerenza dei principi. Perciò secondo lui, il Concilio non si sarebbe dovuto radunare se non fosse stato assolutamente necessario e in tal caso solo in Roma. E nel suo pontificato l'opera della riforma fu spinta innanzi vigorosamente da quella grande Congregazione di cardinali e prelati, che il papa nominò nel gennaio 1556, e poi allargò ancora, e che si può considerare in certo modo come una prosecuzione e insieme un surrogato del Concilio. Alla convocazione del quale sembra che Paolo IV si piegasse alla fine; ma, comunque, lo impedirono le ultime fortunose vicende del suo pontificato.
Eletto Pio IV, il Natale del 1559, subito si adoperò, secondo la capitolazione elettorale, per l'apertura del Concilio e fin dal gennaio 1560 manifestò l'intenzione di convocarlo in luogo dove i protestanti potessero recarsi. La situazione politica era ora chiarita in parte, in seguito alla pace del Cateau Cambrésis, ma in parte ancora difficile e la questione del Concilio poteva aggravarla anche maggiormente. Infatti esso avrebbe potuto irritare Elisabetta d'Inghilterra, facendo perdere a Filippo II quella posizione di mediatore tra Inghilterra e Scozia, importantissima per lui al fine d'impedire l'unione tra la Francia, ove regina era Maria Stuart, e la Scozia, ove reggente era Maria di Lorena. Quanto all'Impero, Ferdinando - alla cui elezione Pio IV accordò il riconoscimento negato da Paolo IV - doveva non irritare i suoi sudditi luterani, e ora anche calvinisti, e non turbare l'assetto raggiunto finalmente con la pace d'Augusta del 1555. E la Francia, dove la propaganda calvinista acquistava sempre più terreno, non aveva soltanto da preoccuparsi come per il passato di salvaguardare le "libertà gallicane" ma, per ragioni a un tempo religiose e politiche, era ora in condizioni assai simili a quelle in cui s'era trovato Carlo V: aveva cioè bisogno di ristabilire l'unità religiosa, al quale scopo era assai adatto un concilio ma questo doveva essere tale che i riformati potessero aderirvi. In queste circostanze il papa aveva la ferma volontà, e di radunare il Concilio, e di tenerlo come continuazione del precedente, e di avere l'assenso di tutte le potenze cattoliche. Scopi questi che l'accorta diplomazia pontificia riuscì a conseguire.
Ché da principio la minaccia di un concilio nazionale francese - di cui Filippo II doveva temere il contraccolpo nei Paesi Bassi - spinse il papa a sollecitare l'apertura, nel giugno 1560, ottenendo l'adesione della Spagna; ma Ferdinando pose condizioni equivalenti a un rifiuto, e la Francia diede risposta anche meno soddisíacente. Le difficoltà più gravi erano le richieste della comunione sotto le due specie per i laici e del matrimonio del clero (contro cui Pio IV non aveva preconcetti) e altre in favore dei protestanti; gravissima però quella, che il Concilio indetto non fosse continuazione del precedente - di cui, oltre che i protestanti, aveva contestato la validità il re di Francia, mentre in Spagna se n'erano osservati i decreti dogmatici - ma del tutto nuovo: onde le deliberazioni già prese erano poste in pericolo. Missioni speciali presso l'imperatore e in Francia cercarono di appianare i dissidî; ma qui alla fine di agosto si decideva la convocazione degli Stati Generali per il 10 dicembre e del concilio nazionale per il 20 gennaio. Onde il papa, che nel concistoro del 15 settembre aveva deciso la revoca della sospensione e l'apertura del Concilio per la Pasqua del 1561, offerse la riapertura a Trento, ma seguita dalla traslazione a Vicenza, Mantova o nel Monferrato; nell'ottobre, fallita la missione di Antonio di Toledo in Francia, Filippo II propose Besançon o Vercelli; presso Ferdinando, tra le pressioni francesi perché proponesse Spira o Costanza e quelle dei nunzî Osio e Delfino, prevalsero queste ultime, sì da indurlo ad accettare Innsbruck o anche Trento. Tuttavia, la situazione era ancora difficile e le trattative sembravano giunte a un punto morto, stanti le minacce francesi e il continuo fluttuare di Ferdinando, alle cui decisioni la Francia diceva di volersi attenere; quando si rasserenò subitamente. Pare che lettere del card. d'Este del 10 ottobre al suo congiunto card. Carlo di Guisa (il "cardinale di Lorena") e a Francesco II annunciassero la decisione del papa di aprire il Concilio a Vercelli o Casale: mutamento di sede che poteva implicare l'accettazione del punto di vista francese da parte del papa. Onde da parte francese fu risposto a Roma accettando l'offerta e rinunciando espressamente al concilio nazionale; e intanto, mentre di questo la corte francese dava notizia a Vienna, giunse la notizia che l'imperatore aveva accettato Trento. Sì che la Francia dovette aderire anche a questo, con la sola condizione che la convocazione avvenisse prima della riunione degli Stati Generali. Pertanto nel Concistoro del 15 novembre il papa annunciò la prosecuzione del Concilio. La questione della continuazione del Concilio precedente diede luogo all'adozione di un compromesso, per cui la bolla relativa alle indulgenze, del 19 novembre, dice concilium indicere et continuare, quella di convocazione del Concilio per la prossima Pasqua (Ad Ecclesiae regimen), del 29 novembre 1560, dice Concilium... indicimus... sublata suspensione quacumque. La "revoca della sospensione" suscitò malcontento in Germania e in Francia; dove la bolla giunse quando, morto Francesco II, Caterina de' Medici era reggente per Carlo IX, e si decise nuovamente di attenersi a quanto avrebbe fatto l'imperatore; mentre, per la ragione opposta, provocò malumore in Spagna. Sicché la situazione era altrettanto difficile quanto prima; aggravata, anzi, per il fatto che l'imbarazzo dell'imperatore aumentò, dopo che i principi protestanti, riuniti a Naumburg, ebbero nel febbraio 1561 respinto il concilio, e che i nunzî Commendone e Delfino, nel loro viaggio attraverso la Germania, ebbero constatata l'avversione dei protestanti e la freddezza e timidità dei cattolici. Sicché invano il papa nominò, dopo aver pensato anche al Morone e al Seripando, suoi legati (concistoro del 14 febbraio 1561) i cardinali Ercole Gonzaga e Puteo e quindi, il 10 marzo, anche Seripando, Osio e Simonetta, nonché, di nuovo, a commissario il Sanfelice vescovo di Cava e a segretario A. Massarelli vescovo di Telese: per la Pasqua, 6 aprile 1561, e il 16 allorché vi entrarono il Gonzaga e il Seripando, i vescovi presenti a Trento erano in numero irrisorio.
Si dovettero perciò riprendere le trattative. Un breve segreto, contenente l'assicurazione che il Concilio continuava i precedenti, riconquistò l'adesione di Filippo II; nel frattempo, durante l'estate, il papa si preoccupò di ottenere che altri vescovi si recassero a Trento; ove, tra il settembre e l'ottobre, arrivarono anche alcuni Spagnoli. Ma le difficoltà perduravano gravissime da parte della Francia, dove Caterina de' Medici piegava alla politica di conciliazione verso gli ugonotti e indiceva il colloquio di Poissy; mentre finalmente il 10 dicembre Ferdinando prometteva di inviare suoi legati a Trento. Intanto, fin dal 10 novembre, al card. Puteo ammalato era sostituito come legato il nipote del papa, Marco Sittico di Hohenems; poco dopo, partiva per Trento il legato Simonetta. Inoltre, sciolta l'assemblea di Poissy, l'azione del papa poteva esplicarsi più liberamente e, nonostante la politica francese vòlta a modificare radicalmente il carattere del Concilio o a condannarlo all'insuccesso, affrettare i preparativi, con una bolla la quale ribadiva che, in caso di vacanza della Santa Sede, l'elezione del nuovo papa sarebbe spettata sempre ai cardinali e non al Concilio e con un breve che dava ai legati la facoltà di trasferirlo. I legati stessi, per non mettere subito sul tappeto la questione della continuazione del Concilio, deliberarono di iniziare i lavori con la discussione intorno all'Indice dei libri proibiti anziché proseguendo quelle intorno ai sacramenti.
La riunione. - E così, il 18 gennaio 1562 ebbe luogo la riapertura del Concilio di Trento: XVII sessione (1a sotto Pio IV), presenti i legati Gonzaga, Simonetta, Seripando e Osio, il card. Madruzzo, 11 arcivescovi, 3 patriarchi, 90 vescovi, 4 generali di ordini, una trentina di teologi e il duca di Mantova. I padri del Concilio erano in enorme maggioranza italiani e d'altra parte mancavano i rappresentanti delle potenze; insomma, il Concilio si apriva in una situazione ancora incerta e difficile: così si poteva temere che la discussione intorno ai libri proibiti aumentasse ancora le difficoltà, e persino il decreto iniziale, relativo ai lavori, sollevò l'opposizione di P. Guerrero, arcivescovo di Granata, e di altri Spagnoli, per le parole proponentibus legatis, che pareva togliessero al Concilio ogni iniziativa e libertà di discussione. Ma arrivarono, e furono ricevuti, i legati imperiali e quello portoghese; i primi anzi presentarono un memoriale, chiedente che non si parlasse di continuazione e che si concedesse ai riformati il salvacondotto più ampio possibile. Così nella XVIII sessione, il 26 febbraio, furono letti i decreti De librorum delectu et omnibus ad Concilium fide publica invitandis, e l'8 marzo fu pubblicato il salvacondotto che evitava la qualifica di "eretici".
Si ripresentò la questione, se trattare prima la riforma o i dogmi; l'imperatore lasciò cadere la sua pretesa quando già si discuteva dell'obbligo della residenza per i vescovi. Secondo alcuni, specie Spagnoli, esso era di diritto divino: i vescovi avrebbero ricevuto direttamente da Dio non solo la potestas ordinis ma anche la potestas iurisdictionis; e il papa con la sua nomina non avrebbe fatto se non designare i sudditi su cui questa avrebbe dovuto esercitarsi. D'altra parte, un rafforzamento dell'autorità vescovile era condizione indispensabile per la riforma del clero. Il disaccordo e l'incertezza erano grandi; per l'arrivo del legato francese Lansac, il 14 maggio nella XIX sessione (3a sotto Pio IV) fu pubblicato solo il decreto di proroga al 4 giugno e si trattò di procedura. Circa la questione della residenza, anche il papa aveva stabilito di lasciarla in sospeso. Gli Spagnoli chiedevano che si continuasse a trattare dell'obbligo della residenza, e che fosse affermato che il Concilio era continuazione dei precedenti: il che provocò altri dissapori con i Francesi e gl'Imperiali, che presentavano la richiesta opposta. Così nella XX sessione, il 4 giugno, si ebbe solo un rinvio; non senza che 34 vescovi protestassero. Tale protesta fu rinnovata anche durante la discussione sui dogmi, a proposito del sacramento dell'Eucaristia e in particolare della comunione sotto le due specie e di quella dei fanciulli; nel corso della quale si presentò naturalmente la questione della concessione del calice ai laici, chiesta, per riguardo non solo ai protestanti tedeschi ma ai Boemi, da Ferdinando, da parte del quale fu presentato un "libello di riforma" con gravi richieste, tra cui la riduzione del numero dei cardinali, che si ispiravano ai deliberati di Basilea.
Tuttavia, per mezzo del nunzio Delfino, si ottenne che l'imperatore non insistesse sulla presentazione integrale del libello al Concilio; e nella XXI sessione (5a sotto Pio IV) il 16 luglio, presenti, oltre ai legati e al Madruzzo, 3 patriarchi, 19 arcivescovi, 148 vescovi, 4 abati, 71 teologi, 10 inviati, furono letti il decreto sulla comunione, con l'annuncio che della concessione del calice ai laici si sarebbe trattato in seguito, e uno di riforma, concernente le ordinazioni, l'organizzazione delle parrocchie, la visita episcopale, ecc.: in sostanza, rafforzante l'autorità vescovile. Nel luglio stesso si ottenne che Filippo II recedesse dalla richiesta che la continuazione del Concilio fosse affermata esplicitamente, bastandogli che risultasse dal modo stesso di procedere del Concilio. Così andò innanzi la discussione intorno alla Messa, a proposito della quale si ripresentò la questione del calice per i laici, che si decise di lasciare alla discrezione del papa. Il decreto, con quello che riaffermava la Messa come vero sacrificio, incruento, espiatorio, offerto per i viventi e per le anime del Purgatorio, offerto a Dio solo benché celebrato in onore e in memoria dei Santi, insieme con l'altro sugli abusi da evitare nella Messa medesima e con quello di riforma, su varî argomenti (esso solo raccolse l'unanimità) fu proclamato nella XXII sessione (6a sotto Pio IV), il 17 settembre.
Subito dopo, si riaccese la doppia questione, del Libello imperiale e, a proposito del sacramento dell'Ordine, della residenza dei vescovi. Fu necessaria una prima proroga, al 26 novembre; intanto giunsero finalmente a Trento il cardinal di Lorena, con 13 vescovi, 3 abati e 18 teologi. Il Guisa assunse ben presto una posizione pari quasi a quella dei legati e si diede anch'egli alla ricerca di formule conciliative. Poiché la questione dell'istituzione divina anche dell'ufficio episcopale coinvolgeva quelle della posizione del Concilio e dei singoli vescovi di fronte al papa, venne da Roma l'ordine di rinnovare la dichiarazione di Firenze sul primato romano: infatti, l'arrivo dei prelati francesi imbevuti delle dottrine gallicane aveva rafforzato la corrente mirante a restringere i diritti della Santa Sede. Così la sessione fu rinviata dal 26 novembre al 17 dicembre, poi ai primi e al 15 di gennaio 1563, di nuovo al 4 febbraio e ancora al 22 aprile, con l'intesa che, lasciata da parte la questione della residenza, si sarebbe trattato del matrimonio. Di nuovo si delineò il pericolo di uno scioglimento allorché i Francesi proposero un piano di riforma includente la concessione del calice ai laici, Ferdinando ridomandò la discussione del suo libello, a Innsbruck lavorava, quasi anticoncilio, la commissione dei teologi imperiali, a Trento v'era chi dichiarava il papa non superiore a un altro patriarca, in Francia Caterina de' Medici emanava l'editto di Amboise, e Ferdinando e il Guisa, incontratisi, convennero che il Concilio non fosse sufficientemente libero.
La morte dei legati Gonzaga (2 marzo) e Seripando (17 marzo) permise tuttavia al papa di sostituirli con due sperimentati diplomatici, il Navagero e soprattutto il Morone, inviato anche come legato all'imperatore. Il Morone, tra l'aprile e il maggio, riuscì a fare che l'imperatore rinunziasse alla richiesta che il Concilio procedesse alla riforma anche del papato, e ad altri punti importanti. Migliorarono nel marzo anche le relazioni tra la Santa Sede e la Spagna. Ma, ripresa la discussione intorno all'ordine sacro, nuove difficoltà sorsero a proposito dell'elezione dei vescovi, da parte dei Francesi manifestandosi la vecchia avversione gallicana al Concordato di Francesco I, e sorgendo di nuovo la pretesa che il papa fosse eletto dal Concilio. Come prima, si segnalò anche questa volta nella difesa dei diritti della Santa Sede il Laínez, generale dei gesuiti; ma finalmente, in conformità degli accordi conclusi dal Morone, sia gli inviati imperiali sia lo stesso pontefice convennero nell'opportunità di lasciar da parte le questioni dottrinali, su cui l'accordo si era manifestato impossibile, mentre una formula di compromesso avrebbe provocato dissidî anche nel futuro. Anche il Guisa, cui il papa aveva promesso la legazione perpetua in Francia con ampie facoltà (tra cui di concedere il calice ai laici) e che aveva per ciò anche ragioni politiche, modificò il proprio atteggiamento; onde - dopo gli ulteriori rinvii al 20 maggio, al 15 giugno e al 15 luglio - in questo giorno poté essere tenuta la XXIII sessione (7a sotto Pio IV) presenti, oltre i 4 legati e i cardinali di Lorena e Madruzzo, 3 patriarchi, 25 arcivescovi, 193 vescovi, 3 abati, 7 generali di ordini, 3 dottori in utroque iure, 130 teologi, 6 procuratori di vescovi assenti e 12 inviati. Furono letti i decreti dogmatici sul sacramento dell'ordine e quello di riforma, sulla residenza, le ordinazioni, l'istituzione di seminarî, ecc.
L'accordo con la Spagna era stato per il papa una necessità in un momento gravissimo; ma ora, mentre Filippo II cercava di protrarre il Concilio per strappare concessioni, le migliorate relazioni con l'imperatore e col Guisa permettevano al papa di sottrarsi a quella pressione. Ma il Concilio non navigava ancora in acque tranquille. Molti, tra cui l'Osio, eran contrarî al divieto dei matrimonî clandestini; e circa la riforma ecclesiastica, Pio IV se dichiarò che quella dei cardinali stessi doveva spettare al Concilio. affermò che si dovessero riformare anche i laici, ossia mettere riparo alle violazioni dei diritti della Chiesa compiute dai varî principi, con richieste che "ritornavano a un punto di vista canonistico divenuto impossibile per le mutate condizioni dei tempi" (Pastor). Gl'imperiali reagirono con forza; i Francesi minacciarono di ritirarsi. Si dové prorogare la sessione fissata per il 16 settembre. Aggravava la situazione il dissenso dei legati Osio e Navagero dagli altri circa il matrimonio, e tra Morone e Simonetta quanto alla riforma.
Ancora una volta, la diplomazia e l'ottimismo del papa salvarono il Concilio, sia nelle trattative svoltesi a Roma tra Pio IV e il Guisa, sia in quelle con Ferdinando, a proposito della conferma papale dell'elezione di Massimiliano a re dei Romani. Quindi, tornato a Trento il cardinali di Lorena fu trattato anch'egli - e così del resto anche il Madruzzo - come un legato e si adoperò, come anche i legati imperiali, perché il Concilio potesse concludere presto. L'abilità del Morone riuscì a evitare anche le grosse dispute che si minacciavano, relative alla riforma dei cardinali, onde l'11 novembre, nella XXIV sessione (8a sotto Pio IV) furono approvati i decreti dogmatico e di riforma sul matrimonio, il decreto di riforma circa le nomine dei vescovi e l'elezione dei cardinali, i sinodi diocesani e provinciali (i decreti furono pubblicati il 3 dicembre), nonché il decreto che spiegava la formula proponentibus legatis. La prossima sessione fu fissata al 9 dicembre, con facoltà di anticipare.
Con quella spiegazione, si poteva sperare di avere almeno ridotto l'opposizione degli Spagnoli; ma questa si manifestò di nuovo, oltre tutto, a proposito dell'esenzione dei capitoli cattedrali, ché la tendenza di quei vescovi ad allargare i poteri episcopali era rafforzata dal fatto che essi erano nominati dal re. Il 13 novembre si convenne di esaurire la discussione sugli argomenti già preparati, di limitarsi alla repressione degli abusi su quelli (Purgatorio, indulgenze, invocazione dei Santi e venerazione delle loro immagini e reliquie) e di restringere la riforma dei principi alle basi già concordate tra il papa e l'imperatore. Notizie di una grave malattia del pontefice indussero ad accelerare anche più; e non ostante la resistenza degli Spagnoli, la XXV sessione (9a sotto Pio IV) e ultima si tenne il 3 dicembre, con la lettura dei decreti sul Purgatorio, sull'invocazione, le immagini e le reliquie dei Santi, e di un decreto generale di riforma, comprendente la condanna del duello, l'esortazione ai principi a osservare i diritti della Chiesa e la dichiarazione che di fronte a tutte le deliberazioni del Concilio sarebbe rimasta inviolata l'autorità della Sede apostolica. Un decreto sulle indulgenze, chiesto da alcuni, fu, nonostante il Morone, redatto nella notte e nella mattinata seguente, poi letto nel duomo, insieme con quelli sui digiuni e giorni festivi, sull'edizione dell'Indiee, del Catechismo, del Breviario e del Messale, affidata al papa, e con quello sull'osservanza e l'accettazione dei deliberati del Concilio. Fu poi approvata la chiusura del Concilio e la richiesta di conferma da parte del papa, opponendosi a quest'ultima il solo arcivescovo di Granata. Firmarono 255 padri, cioè i legati e gli altri due cardinali, 3 patriarchi, 25 arcivescovi, 168 vescovi, 7 abati, 39 procuratori e 7 generali di ordini. Il 12 dicembre, il papa guarito poteva esprimere in concistoro la sua soddisfazione per la riuscita del Concilio.
Bibl.: Alle celebri Storie del Sarpi e di S. Pallavicino e anche all'Examen di M. Chemnitz, e alle più vecchie raccolte di documenti sono da preferire, in primo luogo, la raccolta delle fonti della Görres-Gesellschaft, Concilium Tridentinum, Friburgo in B. 1901 segg., divisa in varie sezioni: Diaria, a cura di S. Merkle; Acta, di S. Ehses; Epistulae, di G. Buschbell; Tractatus, di V. Schweitzer e, tra gli scritti più recenti: J. Šusta, Die römische Kurie und das Konzil v. Trient unter Pius IV., Vienna 1904-14, voll. 4; A. Korte, Die Konzilspolitik Karls V. in den Jahren 1538-43, Lipsia 1905; S. Merkle, Quellenkritische Studien zur Gesch. des Konz. v. Tr., in Histor. Jahrbuch, 1910; A. Maichle, Das Dekret De edit. et usu Sacror. Libror., Friburgo in B. 1914; id., Der Kanon der bibl. Bücher u. d. Konz. v. Tr., ivi 1929; H. Rückert, Die Rechtfertigungslehre auf den tridentin. Konz., Bonn 1925; K. D. Schmidt, Studien zur Gesch. d. Konz. v. Tr., Tubinga 1925; H. O. Evennet, The card. of Lorraine and the Council of Trent, Cambridge 1930; oltre alle opere generali, quali: L. v. Pastor, Storia dei papi, trad. it., ristampe, IV, ii, Roma 1929; V, ivi 1924; VI, ivi 1927; VI, ivi 1928 e P. Richard, Concile de Trente, Parigi 1930-31, voll. 2 (in continuaz. alla Histoire des Conciles di Hefele-Leclercq).
La provincia di Trento.
Costituita col r. decr. legge 2 gennaio 1927 corrisponde, nelle sue linee generali, alla regione fisica del Trentino propriamente detto, aggiunto il territorio del mandamento di Egna, ed ha una superficie di 6566,8 kmq. e una popolazione di 390.527 ab., parlanti, quasi tutti, dialetti italiani. Coloro che parlano dialetti tedeschi infatti sono, esclusi quelli di Egna, appena 3625 e vivono quasi tutti raccolti nei centri di Trodena e Anterivo, di Luserna e della Valle Alta dei Mocheni e nei quattro estremi villaggi della Valle di Non: Senale, S. Felice, Provés e Lauregno. La densità di 59,5 ab. per kmq. è alta per un paese prevalentemente montuoso e di scarse risorse economiche, per cui sempre intensa fu l'emigrazione sia temporanea sia permanente. La popolazione di cui quasi il 16% (53.386) vive sparsa, è distribuita in 128 comuni, formati da 777 centri, dei quali solo 164 con più di 500 ab. La provincia, che abbraccia, oltre alla vallata dell'Adige da Bronzolo a Borghetto e alle vallate confluenti del Noce, dell'Avisio e del Fersina, anche le valli del Sarca e del Chiese, del Brenta Superiore (Valsugana) e dell'alto Cismon, confina a N. con la provincia di Bolzano, a E. con le provincie di Belluno e di Vicenza, a S. con quella di Verona e a O. con quella di Brescia. Sebbene il 70% della superficie della provincia sia sopra i 1000 m. d'altitudine, l'area produttiva è assai vasta, rappresentando l'87% dell'area totale. L'agricoltura e l'allevamento del bestiame sono le principali fonti economiche. La prima è praticata intensivamente sui fondovalle e sugli altipiani aprichi fin oltre i 1000 m., ma i suoi prodotti sono ben lungi dal sopperire al fabbisogno della regione. Fra le colture prevalgono vite, grano e mais fino ai 650 m.; le colture foraggere, degli alberi fruttiferi, dei cereali minori e della patata più in alto. L'uva (568 mila q.) e la frutta (mele, 90 mila q.; pere, 40 mila q.; susine, 20 mila q.) sono i prodotti più importanti. Fino a oltre 800 m. s. m. è pure coltivato il gelso: la produzione dei bozzoli, pur di molto diminuita, è tuttora notevole (403.655 kg. nel 1935, pari al 2,33% della produzione totale italiana; nel 1923 aveva superato il milione e mezzo di kg.). Da ricordare sono pure la coltura del tabacco nella Val d'Adige (6100 q. di foglia secca) e quella dell'olivo ad Arco, Riva e Dro. La proprietà è ovunque assai frazionata. Connesso con l'agricoltura è l'allevamento del bestiame (115 mila bovini, 30 mila suini, 25 mila capre). Diffuso a tutta la regione l'alpeggio (oltre 600 malghe; 155 mila ettari di pascoli alpini, pari al 23,7% dell'area totale). Più estesa ancora è l'area boschiva (47,6% dell'area totale) per circa il 75% di proprietà comunale. Fra le essenze prevalgono le conifere. Delle ìndustrie le più importanti sono quelle idroelettriche, stimate capaci di fornire un'energia di 331 mila kW continue e 453 mila kW discontinue; la produzione attuale è però solo di 68 mila kW continue e 121 mila discontinue. Dei numerosi giacimenti minerarî i più redditizî sono la miniera di piriti di ferro di Andreolle presso Calceranica e quella di scisti bituminosi di Mollaro, le cave di marmo e di terre coloranti di Brentonico e quelle di porfido a Bronzolo. Delle sorgenti minerali, note sono quelle di Levico, Roncegno, Peio e Rabbi e le termali di Comano. Fra le industrie manifatturiere sono da ricordare l'industria dei pali di cemento armato centrifugato di Mori, unica in Italia; l'industria dell'alluminio pure localizzata a Mori (400 operai); la fabbrica di cemento di Tassullo; la R. Manifattura tabacchi di Rovereto-Sacco; la filatura della seta a Pergine; la tessitura a Rovereto; le cartiere di Rovereto, Riva e Scurelle (Valsugana); le industrie poligrafiche di Trento, e, fra quelle con carattere di piccola industria, l'industria del legname (535 segherie) sparsa lungo tutti i corsi d'acqua montani; il mobilificio, fiorente specie in Val di Fiemme, a Trento, a Rovereto, a Pergine, Tione e Primiero, e l'industria dei manici da frusta di Taio, ora in decadenza. L'industria più redditizia però è quella del forestiero che si va ognor più sviluppando, favorita da una buona organizzazione alberghiera diffusa ormai, oltre che nei centri maggiori e nelle zone più note, anche nelle vallate secondarie e, coi numerosi rifugi alpini, fino sulle alte montagne; e da una rete stradale, se non molto fitta, certo razionalmente ed equamente distribuita.