TREVES DE' BONFILI, Alberto Isacco
TREVES DE’ BONFILI, Alberto Isacco. – Nacque il 13 settembre 1855 a Padova, in una famiglia di religione ebraica, secondo degli otto figli di Giuseppe e di Bella Todros, detta Adele. Sua madre era figlia del banchiere torinese Jacob Abram, creato barone dai Savoia nel 1860 e imparentatosi con i Treves de’ Bonfili anche tramite il matrimonio del figlio Elia con una sorella di Giuseppe, Amalia.
I Treves – il cognome divenne Treves de’ Bonfili solo nell’Ottocento – erano di lontane ascendenze ashkenazite: provenivano infatti, in origine, dalla valle del Reno, che lasciarono nel tardo Trecento, quando gli ebrei della zona divennero vittime dei pogrom scatenati da chi li accusava di avere causato lo scoppio della peste del 1348, avvelenando pozzi e sorgenti d’acqua. Sono attestati a Venezia dalla seconda metà del Cinquecento; i loro centri di insediamento furono Padova e Venezia, ma le iniziative economiche della famiglia andarono ben oltre i confini delle due città venete.
Per la vertiginosa ascesa dei Treves, che in qualche decennio li avrebbe resi uno dei più cospicui casati ebraici italiani, fu decisivo l’allentamento, stabilito dal Senato di Venezia nel 1758, delle misure che limitavano le libertà professionali degli ebrei. Fu in quella fase, infatti, che Isaac Treves e i figli Salomon ed Emanuel (trisavolo di Alberto) si affacciarono sulla scena del commercio su scala internazionale, fondando la Compagnia veneta del Baltico, proiettata verso la Russia e la Danimarca, e avviando affari in Tunisia. Pochi anni dopo, Salomon, che alla morte di Emanuel (1762) assunse la tutela dei nipoti Isacco e Iseppo e in seguito li associò alla propria ditta, risultò essere il maggiore mercante ebreo di Venezia, con redditi non distanti da quelli della componente più agiata della nobiltà locale.
Nell’affermazione della famiglia furono strategici anche gli apparentamenti con altre importanti dinastie dell’élite ebraica del Veneto. Fondamentali furono le nozze fra Iseppo e Benedetta (o Benetta) Bonfil, che dopo la scomparsa del fratello Jacob rimase l’unica erede di Daniel Bonfil, altro grande operatore commerciale della piazza veneziana di fine Settecento (G. Levi, I commerci della Casa Daniele Bonfil e figlio con Marsiglia e Costantinopoli, 1773-1794, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di S. Gasparri - G. Levi - P. Moro, 1997, pp. 223-243): nel 1806, dei 124.400 ducati di crediti vantati dagli ebrei di Venezia (una somma enorme), oltre il 70% doveva essere riscosso dai coniugi Treves-Bonfil. Con i matrimoni di due figli di Iseppo, Daniele e Raffaele Vita, i Treves, poi, si imparentarono con i Vivante, armatori e grandi mercanti.
Eletto nel 1807 presidente della Camera di commercio di Venezia, durante la dominazione napoleonica Iseppo si trovò in piena sintonia con il progetto di Bonaparte di modernizzare la città lagunare – alla quale nel 1806 fu concesso il porto franco – per farne un centro nevralgico dell’espansione francese nell’area adriatica. Funzionale alla realizzazione di tale disegno era anche la formazione in loco di una fidata classe dirigente che includesse la parte più ricca e intraprendente dell’emergente borghesia, lasciandone fuori il patriziato, dopo la caduta della Repubblica (1798) colpito da una generalizzata crisi patrimoniale. Il riconoscimento di questo ruolo passò anche tramite il conferimento di onorificenze come quelle ottenute da Iseppo, nel 1811 nominato da Bonaparte commendatore dell’Ordine della Corona di ferro e poi barone.
Il declino dello scalo veneziano conseguente al crollo dell’impero napoleonico ebbe contraccolpi sulle fortune di molti operatori economici, ma i Treves non ne risentirono più di tanto, grazie alla scelta maturata allora di abbandonare il commercio per orientarsi verso il settore bancario. I figli di Iseppo, Daniele, Giacomo, Isacco e Raffaele Vita, agirono esclusivamente come casa bancaria. Giacomo e Isacco, in seguito alla rinuncia degli altri due – accontentatisi della sola quota legittima –, alla morte del padre (1825) si divisero un patrimonio stimato in oltre 14,5 milioni di lire austriache. I due compaiono tra i finanziatori di tutte le principali infrastrutture volte al rilancio dell’economia veneta dopo la caduta della Repubblica di Daniele Manin, che, peraltro, i due fratelli avevano appoggiato. Tra queste infrastrutture, la diga di Malamocco, i Murazzi, il ponte translagunare e il suo attrezzaggio ferroviario, la sistemazione della rete fluviale e la prima linea ferroviaria Venezia-Milano (Calabi, 2016, pp. 157 s.).
Non trascurabile fu pure il coinvolgimento della famiglia Treves nel comparto agricolo, con la gestione e la valorizzazione, attraverso bonifiche, di un vasto complesso di terreni dislocati, oltre che nei territori di Padova e Venezia, in quelli di Verona, Vicenza, Treviso e Rovigo (Pellegrini, 2017, p. 132). Come altri eminenti casati ebraici del Veneto, i Treves avevano approfittato dell’opportunità offerta agli ebrei dalla Municipalità provvisoria di Venezia quando, nel 1797, aveva abrogato il divieto per essi di acquistare beni immobili. Del loro patrimonio immobiliare avrebbero fatto parte anche prestigiose abitazioni, come le ville di Este, Rovigo, Agna e Colà, e diverse residenze urbane, in primo luogo i palazzi di Padova e Venezia, acquistati da Giacomo e Isacco negli anni Venti dell’Ottocento.
Il palazzo di Padova fu ristrutturato da Giuseppe Jappelli e dotato di un monumentale parco (M. Massaro, Il giardino Treves poi Trieste all’Alicorno, 1833-1865, in Il torrione Alicorno caposaldo meridionale delle mura di Padova, a cura di P. Dal Zotto, 2015, pp. 93-99); in questo palazzo, nell’estate del 1866, il figlio di Giacomo, Giuseppe, ospitò il re Vittorio Emanuele II (si v. A. Ventura, Padova, Roma-Bari 1989, p. 8). Il palazzo sul Canal Grande di Venezia era stato di proprietà dei Barozzi e poi degli Emo, prima di essere acquistato dai Treves (M. Massaro, Gli investimenti ebraici a Venezia al principio del XIX secolo: il ruolo dei Treves e l’acquisto della procuratia a San Marco, in Venetica, 2016, n. 34, pp. 7-27); servì anche da sede della banca di famiglia. Inoltre vi fu allestita una galleria di pittura, che ospitò le molte opere raccolte dai Treves, principalmente da Giacomo, esperto d’arte, collezionista e mecenate (M. Massaro, Giacomo Treves dei Bonfili: profilo di un collezionista, in Ateneo veneto, 2014, vol. 13, n. 2, pp. 47-72).
Gli investimenti nella terra, il possesso di eleganti dimore, il collezionismo d’arte e un largo esercizio della filantropia rientrano nella serie di pratiche e comportamenti che connotarono il percorso che portò i Treves all’adozione di uno stile di vita more nobilium e che ebbe le sue tappe più significative, almeno dal punto di vista simbolico, nelle nobilitazioni di diversi di essi. Dopo Iseppo, nel 1833 Raffaele Vita ricevette il titolo di barone da Carlo Lodovico I di Borbone, duca di Lucca, e fra il 1835 e il 1839 lo stesso Raffaele Vita, Giacomo e Isacco furono doppiamente nobilitati da due imperatori d’Austria (Francesco II e Ferdinando I), che li nominarono prima nobili e poi cavalieri dell’Impero, concedendo loro, nel 1835, anche il riconoscimento del cognome della madre come predicato da appoggiare al nome di famiglia, così divenuto Treves de’ Bonfili. Fu poi la volta di Giuseppe, fatto barone da Vittorio Emanuele II (1867), e di suo figlio Alberto, il quale nel 1894 ottenne dal re Umberto I lo stesso titolo del padre (che in linea di principio, come secondogenito non avrebbe potuto ereditare, essendo trasmissibile solo al maschio primogenito). I Treves de’ Bonfili cumularono, così, una decina di onorificenze che li resero il più blasonato della sessantina di casati ebraici dell’aristocrazia italiana e che sono anche emblematiche della loro rete di relazioni e della loro vicinanza alle autorità politiche, sotto le quali poterono costruire le proprie fortune (P. Pellegrini, Uscire dal ghetto, ritornare nel ghetto. Le resistenze alle nobilitazioni di ebrei in Italia dopo l’emancipazione, in Rivista di storia del cristianesimo, 2017, vol. 14, n. 1, pp. 89-108).
Discendendo da una delle famiglie che meglio esemplificano come anche in Italia l’emancipazione avesse creato le premesse di una forte mobilità socioeconomica della minoranza ebraica e della sua integrazione nella comunità nazionale, Alberto nel 1879 si laureò in giurisprudenza all’Università di Padova. Nel febbraio del 1878 era entrato nel corpo diplomatico del Regno d’Italia. Prestò servizio con il grado di addetto di legazione presso le rappresentanze di Berna e di Costantinopoli, ma già nell’aprile del 1879 si congedò, per dedicarsi alla professione di banchiere.
Come capo della Ditta Alberto Treves & C., società in accomandita semplice con sede in Venezia, fu coinvolto in una fitta trama di cointeressenze, cumulando molti incarichi che lo portarono alla collaborazione con esponenti di spicco della finanza e dell’imprenditoria italiane di fine Ottocento e inizio Novecento, come Vincenzo Stefano Breda, Giuseppe Da Zara e Marco Besso.
Una delle prime e più importanti operazioni alle quali Treves de’ Bonfili prese parte fu la fondazione della Società degli alti forni, fonderie e acciaierie di Terni (SAFFAT), costituita nel marzo del 1884 per iniziativa di Breda – cofondatore e presidente della Società veneta per le imprese e costruzioni pubbliche, di cui anche Treves de’ Bonfili era azionista – e di un cartello di uomini d’affari e banchieri veneti, spesso ebrei (Bonelli, 1974; Pellegrini, 2012).
Fino al 1898 – quando l’assetto dell’azionariato mutò radicalmente, in seguito alla scalata del gruppo Odero-Orlando – nella SAFFAT (ormai la principale impresa siderurgica italiana) egli, oltre che azionista, fu membro del consiglio d’amministrazione (nel 1884-86 con la carica di vicepresidente) e banchiere di riferimento, assicurandole contante soprattutto nelle fasi di particolare crisi. Nel marzo del 1893, con Gaetano Romiati – altro banchiere veneto con cui condivise varie avventure imprenditoriali – anticipò la somma necessaria al pagamento del dividendo degli azionisti e nel dicembre dello stesso anno, dopo che il Credito mobiliare, che svolgeva i servizi di cassa della SAFFAT, aveva sospeso ogni attività e lasciato l’impresa priva di liquidità, fornì i capitali per i bisogni più impellenti. Inoltre, fu probabilmente per il suo tramite che nella proprietà dell’azienda ternana entrarono personaggi cui era legato da rapporti personali e professionali, come i suoi due fratelli Camillo e Mario, oltre ad Augusto Corinaldi, Mattia De Benedetti e Alberto Rignano, mariti, rispettivamente, delle sue sorelle Emma, Leonilde e Vittoria. Azionisti della società furono anche Eugenio Ambron, appartenente al trust di banchieri con cui era solito condurre le operazioni finanziarie più impegnative, e Guido Coen. Presidente della Camera di commercio di Venezia, Coen, oltre che suo intimo amico, fu un suo strettissimo collaboratore nella gestione della Treves & C., che avrebbe rilevato dopo la scomparsa del fondatore.
Nel 1885 Treves de’ Bonfili era anche fra i consiglieri d’amministrazione dell’Associazione marittima italiana – costituita nel 1871, ma ormai in liquidazione, sebbene in passato i suoi velieri avessero incessantemente battuto le rotte transoceaniche – e l’anno seguente partecipò a Milano alla fondazione della società in accomandita Ing. Ernesto Breda & C., sorta sulle ceneri dell’officina meccanica Cerimedo & C. (nota come Elvetica). Dal 1888 sedette nel consiglio d’amministrazione delle Assicurazioni generali (di cui da cinque anni era membro suo fratello Camillo e di cui nel 1874-82 aveva fatto parte anche suo padre, dopo avere già ricoperto, nel 1865-73, l’incarico di revisore dei conti). Svolti alcuni mandati da consigliere e da revisore, nel 1909 fu nominato direttore unico e l’anno seguente condirettore, carica alla quale sarebbe stato nuovamente chiamato nel 1913 e nel 1921.
Nel 1895 assunse l’incarico di consigliere d’amministrazione della Società generale italiana di elettricità sistema Edison, nata l’anno precedente e meglio nota come Edison, e nel 1896 partecipò alla fondazione dello zuccherificio di Ravenna, patrocinata da Luigi Luzzatti. Indicativa degli interessi da lui acquisiti nell’industria saccarifera è la rilevante parte che ebbe, sempre nel 1896, nel finanziamento del piano di aiuti pubblici alle aziende del settore voluto dallo stesso Luzzatti.
Al 1897 risale l’ingresso di Treves de’ Bonfili nel consiglio d’amministrazione del Credito italiano, di cui divenne vicepresidente, forse per interessamento del direttore generale Enrico Rava, e in seno al quale si adoperò per un sostegno dell’istituto alla Società veneziana di navigazione a vapore, in cui la casa Treves aveva rilevanti interessi. Tra le iniziative alle quali partecipò è da annoverare, infine, la costituzione nel marzo del 1906 della Compagnia italiana dei grandi alberghi (CIGA), una società anonima nata con il determinante contributo della Banca commerciale italiana. Sostenuta da capitali bancari convogliati verso nuove forme d’investimento, la CIGA si riproponeva lo sviluppo delle strutture ricettive di Venezia per richiamarvi soprattutto turisti dell’alta società internazionale. Treves de’ Bonfili ne fu il primo presidente, oltre che il maggiore azionista dopo la Commerciale (Gerbaldo, 2015).
Treves de’ Bonfili ricoprì incarichi anche nelle istituzioni locali e nazionali. Dopo alcuni mandati come consigliere comunale e provinciale di Venezia, dalla XVII alla XIX legislatura fu eletto deputato nelle fila della Destra, ma i suoi pochissimi interventi in aula – riguardanti il bilancio di assestamento dello Stato, la concessione delle reti telefoniche, il rialzo e il rafforzamento degli argini del Piave e l’attuazione della linea commerciale per le Indie – rivelano un impegno piuttosto contenuto. La scarsa partecipazione ai lavori della Camera lo rese il bersaglio degli attacchi di Vito Porto, un avvocato di origini veneziane che nel 1892, nel libello Gli onorevoli del Veneto durante la XVII legislatura, stigmatizzò, forse con un eccesso di spirito polemico, la sua «inettitudine alle lotte parlamentari».
Il 26 marzo 1904 fu nominato senatore e il 26 gennaio 1908 commendatore dell’Ordine mauriziano. Massone, nel maggio del 1915 fu tra i membri del Senato affiliati al Grande Oriente d’Italia che appoggiarono Giovanni Giolitti nella ricerca di una soluzione diplomatica del conflitto con l’Impero austro-ungarico.
Come molti esponenti del suo casato, specie il padre Giuseppe, si distinse nella beneficenza, all’interno del suo milieu praticata anche con un certo spirito paternalistico e con l’idea, propria del conservatorismo illuminato, che il mantenimento dell’ordine sociale imponesse degli obblighi alle classi privilegiate.
Dall’unione naturale di Alberto con Virginia Baldissera nacquero, nel 1889 e nel 1891, Giuseppe e Giacomo, entrambi riconosciuti dal padre; tuttavia nel 1940, in piena campagna razziale, Giacomo e i figli furono autorizzati ad assumere il cognome Baldissera.
Nel 1894 Alberto sposò Ortensia Vicentini, dalla quale ebbe Emanuele (1895), Elsa (1899) e Lidia (1900). Unica a sposarsi, Lidia nel 1934 si unì in matrimonio al marchese Pietro Carlo Berlingieri.
Nonostante il matrimonio con una cattolica e la scelta di far battezzare i figli, Treves de’ Bonfili non recise i legami con l’ebraismo; tra l’altro, ebbe un ruolo attivo nella Fraterna generale di culto e beneficenza degli israeliti di Venezia. Inoltre, coltivò rapporti di amicizia con correligionari come Riccardo Rocca, Benedetto Sullam e Cesare Augusto Levi, che mantennero vive le sue frequentazioni con l’ambiente ebraico veneziano (In memoria del barone Giuseppe Treves dei Bonfili, Padova 1893, pp. 59, 62 s., 117).
Morì a Venezia l’11 maggio 1921. Il 13 giugno fu commemorato in Senato con un discorso pronunciato dal vicepresidente, Fabrizio Colonna, che ne ricordò l’«impulso poderoso a gran numero di imprese che furono fonte importantissima della ricchezza nazionale» (Senato della Repubblica, Archivio storico, Senatori dell’Italia liberale, Treves de’ Bonfili, Alberto).
Fonti e Bibl.: F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia: la Terni dal 1884 al 1962, Torino 1974, pp. 16, 42 s., 48-50, 70, 75 s., 84, 106; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, 1894-1906, I-III, Bologna 1979-1982; C. Fumian, Proprietari, imprenditori, agronomi, in Storia d’Italia dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di S. Lanaro, Torino 1984, pp. 97-162 (in partic. pp. 105 s., 113 s., 146 s. nota); S. Levis Sullam, Una comunità immaginata: gli ebrei a Venezia, 1900-1938, Milano 2001, pp. 62 nota, 122 nota; P. Pellegrini, Ebrei e industria: iniziative imprenditoriali e investimenti di capitali a Terni nell’Ottocento, in Ebrei dell’Italia centrale. Dallo Stato pontificio al Regno d’Italia, a cura di L. Cerqueglini, Foligno-Perugia 2012, pp. 181-212; P. Gerbaldo, Compagnia italiana dei grandi alberghi: un sogno italiano dalla Belle époque al miracolo italiano (CIGA, 1906-1979), Torino 2015, pp. 9, 13, 34, 39; D. Calabi, Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del ‘recinto degli ebrei’, Torino 2016; P. Pellegrini, I Treves de’ Bonfili: relazioni e autorappresentazione di una famiglia della nobiltà ebraica italiana, in I paradigmi della mobilità e delle relazioni: gli ebrei in Italia. In ricordo di Michele Luzzati, a cura di B. Migliau, Firenze 2017, pp. 126-145; Senato della Repubblica, Archivio storico, Senatori dell’Italia liberale, T. de’ B., A., htpp://notes9. senato.it/Web/senregno.NSF/Senatori.