TRIBUNALE (lat. tribunal, tribunale)
La parola latina designa propriamente la tribuna dalla quale il giudice rendeva giustizia, e, per estensione, il luogo in genere dove si amministrava la giustizia. Solo in età postclassica la parola passa a designare la stessa autorità che amministra la giustizia.
Sul tribunal il giudice sedeva sulla sella curulis circondato dai suoi consiglieri; le parti, i testimoni e il pubblico si affollavano in basso, parte in piedi e parte seduti. Qualche scrittore ricorda l'impemtore Tiberio che assisteva ai giudizî prendendo posto modestamente in un'estremità del tribunal. Per la regolarità della procedura era necessario che la sentenza fosse pronunciata dall'alto di questo: si faceva infatti una netta distinzione fra le sessiones pro tribunali (qui pro ha valore di in) e le sessiones de plano.
Le cause avevano luogo nel Foro, e il tribunal di solito si trovava nella basilica. La Basilica di Pompei, dopo i restauri dell'ultimo decennio, è particolarmente istruttiva al riguardo. Il tribunal, in fondo alla navata centrale, è costituito dal suggestas e da un doppio ordine di colonne sovrapposte sormontato da un frontone triangolare.
Tribunal si diceva anche il palco da cui l'imperator arringava le truppe, come si vede spesso nei rilievi della colonna traiana. Qualche volta il rialzo poteva esser fatto semplicemente di zolle (tribunal caespiticium).
Tribunalia erano altresì chiamati i due palchi che, nel teatro di tipo romano, si trovavano a destra e a sinistra del palcoscenico al disopra dei passaggi coperti che immettevano nell'orchestra. Essi erano destinati all'editore dello spettacolo, alle vestali e ad altri personaggi ragguardevoli.
Come tribunal infine troviamo talvolta ricordato un qualunque suggestus elevato in onore di divinità o di uomini illustri; e Plinio dice dei Chauci, popolazione germanica, che essi per difendersi dalle inondazioni del mare costruivano, a guisa di dighe, "tumulos altos aut tribunalia exstructa manibus".
Sommario: Storia: Grecia (p. 305); Roma (p. 307); Medioevo ed età moderna (p. 308). - L'ordinamento odierno dei tribunali: Tribunale civile (p. 309); Tribunale di commercio (p. 310); Tribunale penale (p. 311); Tribunale penale coloniale (p. 311); Tribunale penale militare (p. 311); Tribunale per i minorenni (p. 312); Tribunale consolare (p. 313); Tribunali misti (p. 313); Tribunali delle prede (p. 313); Tribunale ecclesiastico (p. 313). - L'edificio dei tribunali (p. 314).
Storia.
Grecia. - I tribunali greci in generale. - I primi documenti di civiltà greca, offertici dai poemi omerici, rappresentano una società nella quale la tutela dei proprî diritti e la punizione delle offese fatte alla propria persona o a un membro della famiglia è affidata a mezzi di autodifesa. Con ciò l'ufficio del giudice non è assolutamente escluso, potendo le parti essere d'accordo nel sottomettere la decisione di una controversia a un collegio di giudici. In Omero i giudici sono scelti fra la nobiltà (geronti). Scarse notizie abbiamo circa il funzionamento dei tribunali nelle città greche, ove se ne tolga Atene. Comunque, appare che, come nelle città democratiche la separazione dei poteri è garanzia di osservanza delle leggi e di libertà individuale, nelle città oligarchiche, essendo tutti i poteri concentrati nelle mani di pochi, ovvero, nelle oligarchie a base più ristretta, esercitati dagli stessi organi, manca all'autorità giudiziaria la necessaria autonomia di fronte agli altri poteri.
A Sparta il potere giudiziario era diviso fra i re (diritto familiare), gli ef0ri (diritto civile) e la gerusia (diritto criminale). A Creta, le cui città avevano costituzione aristocratica, a capo dello stato erano dieci cosmi; ad essi era affidata anche l'amministrazione della giustizia: giudicavano collegialmente le cause criminali; le cause civili erano istruite e decise da un solo cosmo. La giurisdizione sugli stranieri spettava al κόσμος ξένιος.
Della sola Atene, fra tutte le città della Grecia, noi conosciamo con sufficiente precisione la storia e il funzionamento dei tribunali popolari. Una tradizione degna di fede ne fa risalire l'istituzione a Solone.
Le attribuzioni dei tribunali popolari si andarono sempre più estendendo e moltiplicando con lo sviluppo che ebbero in Atene gli ordinamenti democratici. Si discute se in un primo periodo (anteriore a Clistene) i tribunali si limitassero a giudicare di quei reati la cui persecuzione precedentemente era lasciata alla vendetta privata, e di quelli contro i quali il legislatore consentiva l'azione popolare, ovvero se sino dall'età solonica i tribunali esercitassero quel controllo sull'opera dei magistrati che in età posteriore costituisce una delle funzioni più delicate dei giudici popolari. Si fa osservare, infatti (De Sanctis), che sarebbe contro lo spirito moderato della costituzione soloniana supporre un così vasto potere nei giudici sino dall'inizio della loro istituzione. Si deve però anche tenere conto che con l'istituzione dei tribunali popolari la polis afferma uno dei fondamentali principî su cui poggia la sua esistenza, il principio della sovranità popolare per il quale gli organi della polis che rappresentano la volontà collettiva dei cittadini - e tali sono l'assemblea e i tribunali popolari - hanno un'assoluta preminenza su ogni altro organo politico e religioso. Non sembrava esautorare il magistrato l'obbligarlo a osservare la legge nell'esercizio del suo potere e, nel caso in cui il cittadino trovasse arbitraria l'azione del magistrato, rimettere il giudizio sulla legalità di quell'azione all'organo collettivo che meglio rappresentava la volontà della polis.
Per l'età posteriore alla riforma democratica di Clistene non v'ha dubbio che il controllo sui magistrati fosse una delle essenziali attribuzioni dei tribunali popolari.
Normale giurisdizione dei tribunali popolari nelle cause d'azione privata. - L'ordinamento processuale attico distingueva le azioni normali in δίκαι e γραϕαί; le prime erano d'azione privata e non potevano venire promosse se non da coloro che con quelle difendessero un interesse personale; le altre erano d'azione pubblica, poiché con quelle si difendeva un interesse della polis comune a tutti.
Il legislatore non pose la distinzione in δίκαι e γραϕαί a base di un sistema organico creato ex novo, ma dovette adattarla a istituti processuali già elaborati che si mantenevano inalterati per forza di tradizione. Com'è soprattutto evidente nell'azione contro l'omicida: pur sottoponendo le cause di omicidio al giudizio dei proprî tribunali, la polis non altera il carattere di azione privata che l'azione per omicidio ha sino dalle origini.
Sono δίκαι, azioni private, quelle che concernono il diritto familiare (rapporti fra coniugi; fra padre e figli; adozione; rapporti nascenti da tutela; diritti ereditarî), le azioni su ricordate per reati di sangue, l'azione del patrono contro lo schiavo liberato che non osservi i suoi doveri (δίκη ἀποσταδίου), più un certo numero di azioni per reati che non erano perseguibili se non da chi ne fosse direttamente offeso (violenze, vie di fatto, ingiurie, ecc.) ovvero per la tutela di diritti privati.
Non tutte le cause promosse con azione privata vengono direttamente sottoposte al giudizio dei tribunali popolari. Un gran numero di cause private fra cittadini è di competenza di una particolare magistratura detta "i Quaranta", formata di membri sorteggiati in numero di quattro da ciascuna delle dieci tribù attiche. Questi decidono inappellabilmente le cause di un valore inferiore alle dieci dracme, e passano agli arbitri (διαιτηταί) le cause di un valore superiore. Gli arbitri, chiamati i contendenti, cercano di metterli d'accordo, altrimenti pronunziano una sentenza decidendo la controversia. Se le parti accettano la sentenza, la causa ha termine, altrimenti l'incartamento ritorna a quei quattro dei "Quaranta" che appartengono alla tribù del convenuto e questi sottopongono la decisione ai tribunali popolari.
In queste cause il giudizio davanti al tribunale è giudizio di secondo grado, e si deve contenere entro i limiti nei quali la controversia è stata circoscritta nel giudizio davanti all'arbitro. Non sembra però che nell'uso questa limitazione fosse rigorosamente osservata.
Normale giurisdizione dei tribunali popolari nelle cause di azione pubblica. - A differenza delle cause di azione privata, per molte delle quali, come si è visto, era prescritto un giudizio di duplice istanza, tutte le cause di azione pubblica venivano sottoposte direttamente alla cognizione dei tribunali popolari. Tali erano: le cause riguardanti rapporti familiari che coinvolgessero un pubblico interesse; fra queste avevano particolare importanza le γραϕαὶ κακώσεως. Erano d'azione pubblica anche l'azione per empietà (γραϕὴ ἀσεβείας) e l'azione contro il meteco che non potesse dimostrare che la sua iscrizione nel registro dei meteci era avvenuta con la garanzia di un cittadino (γραϕὴ ἀπροσταδίον: circa la diversità di opinioni su tale azione v. meteci). Oltre a queste azioni, che venivano promosse e istruite al foro rispettivamente dell'arconte, del basileus e del polemarco, un gran numero di γραϕαί, cadenti sotto la giurisdizione dei tesmoteti, offrivano il normale mezzo di persecuzione contro reati che direttamente o indirettamente mirassero a distruggere la compagine dello stato e la regolarità della convivenza civile; direttamente, quando il reato consisteva in tentativi contro le istituzioni, tradimento, ovvero arbitrio o irregolarità o inganno da parte di chi, sia come retore (nel senso tecnico, di uomo politico che guida l'assemblea popolare), sia come preposto alle deliberazioni delle bulè o dell'assemblea, sia come magistrato o incaricato di un pubblico ufficio di carattere eccezionale, avesse agito contro le leggi o contro l'interesse del popolo; indirettamente, se il reato, ancorché il danno diretto ricadesse su un privato, fosse di tal natura da turbare profondamente gli ordinamenti della polis, come quando la violenza fosse suggerita da spirito di sopraffazione (γραϕὴ ὕβρεως), ovvero in caso di sequestro di persona, di calunnia, ecc.
Procedura seguita nelle cause normali di azione privata o pubblica. - I giudici popolari non avevano altro ufficio che dirimere la controversia sottoposta loro, scegliendo fra le due tesi in contrasto dell'attore e del convenuto, ovvero dell'accusatore e dell'accusato, quella che sembrasse più accettabile secondo il giusto e secondo le leggi. Neanche quando la causa si presentava nella forma che, secondo noi moderni, sarebbe quella di un processo penale, era consentita al giudice alcuna elasticità di giudizio e se il processo era tale (ἀγὼν τιμητός) che la sentenza, oltre a dichiarare colpevole o innocente l'imputato, avesse dovuto, in caso di riconosciuta reità, determinare la pena, anche in tal caso i giudici popolari dovevano dare la prevalenza con i loro voti alla proposta di pena dell'accusatore o alla controproposta dell'accusato.
Al giudizio dei tribunali una causa era portata solo quando apparisse sufficientemente istruita. L'istruzione, sia nelle cause pubbliche sia nelle private, era opera delle parti; il magistrato si limitava ad accogliere l'istanza (λῆξις) con la quale l'attore o l'accusatore iniziavano il processo e a conservare in sede istruttoria (ἀνάκρισις) le prove prodotte dalle parti. Fra gli atti processuali il diritto greco annoverava la legge relativa al caso da giudicare; il giudice è obbligato a tenerne conto solo se la legge sia stata regolarmente allegata nel periodo istruttorio; se no, giudica secundum bonum et aequum (γνώνῃ τῇ δικαιοτάτῃ). Il magistrato, allorché riteneva che non fosse più necessario prolungare l'istruttoria, determinava senz'altro il giorno del dibattito e la composizione del tribunale. Nel sec. IV a. C. tale determinazione in tutte le cause di azione pubblica era fatta dai tesmoteti. Quando il legislatore dichiarava ἔμμηνος un'azione (tali erano, per es., le cause commerciali, per questioni di dote, di banca, di capitale prestato per trafficare nell'agorà, ecc.), il magistrato era obbligato a iscrivere la causa a giudizio entro il mese dal giorno in cui era stata presentata l'istanza.
L'Eliea. - Composizione dei singoli tribunali. - Tutti i cittadini, a qualunque classe appartenessero, purché avessero compiuti i trent'anni e avessero il pieno godimento dei diritti di cittadinanza, potevano far parte della giuria popolare. Il modo della formazione dei tribunali variò secondo i tempi, e le notizie offerteci dalle fonti non sono così chiare da togliere ogni incertezza in proposito. Nel sec. V ogni anno si formava un albo di giudici, detto l'Eliea, composto di 6000 cittadini sorteggiati in numero di 600 da ciascuna delle dieci tribù in cui Clistene aveva diviso la cittadinanza ateniese. Quest'albo serviva poi a formare ciò che si diceva propriamente un tribunale (δικαστήριον), cioè la giuria che, presieduta da un determinato magistrato, doveva giudicare le cause che erano state promosse al foro di quel magistrato. Questi infatti, non aveva solo l'ufficio di accogliere le istanze e dirigere la causa nel periodo istruttorio, ma anche, come si è visto, iscriveva la causa a giudizio e del giudizio aveva la presidenza (ἡγεμονία τοῦ δικαστηρίου), regolando il rito e tenendo la polizia dell'udienza. Si chiamava Eliea in senso proprio il tribunale presieduto dai tesmoteti per reati contro lo stato e per alcune cause private, comprese le commerciali; ma vi era il tribunale dell'arconte per le cause di diritto familiare, del basileus per le cause sacrali, del polemarco per le cause pubbliche o private nelle quali una delle parti avesse la qualità di meteco, degli Undici per i più gravi reati capitali contro l'ordine pubblico, degli alti ufficiali per i reati militari.
Ogni δικαστήριον era formato, durante tutto il sec. V, di 600 eliasti, scelti in modo (secondo un principio fermissimo della costituzione ateniese, ma per ciò che riguarda i tribunali documentato solo per il secolo successivo) che in ogni tribunale ogni tribù fosse rappresentata in modo uguale. Ora, poiché nelle cause pubbliche la giuria era formata di 501 giudici, nelle private di 401 se il valore della causa superava le 1000 dracme, se no, al disotto di quel valore, di 201, quando il cancelliere procedeva all'appello, si trovavano sempre i giudici richiesti per la decisione della causa, nonostante le assenze.
Con la riforma della costituzione che ebbe luogo dopo la caduta dei Trenta sotto l'arcontato di Euclide (403 a. C.), cessò il sistema della composizione annualmente stabile dei tribunali (sistema che favoriva la corruttibilità) e si rese giornaliera la formazione dei tribunali. A tale scopo tutti i cittadini iscritti nell'albo dei giudici vennero distribuiti in dieci sezioni (γράμματα, A-K); l'assegnazione a una sezione veniva fatta dapprima per un anno, poi per tutta la vita. Si cercava che in ogni sezione gli appartenenti a ciascuna delle dieci tribù fossero in numero uguale o di poco differente. Giorno per giorno la sorte determinava l'assegnazione delle sezioni ai singoli tribunali. Ma verso la metà del sec. IV, certo prima della composizione della Costituzione di Atene di Aristotele (seconda metà del sec. IV) a questo sistema di sorteggio ne venne sostituito un altro, complicatissimo, per il quale la giuria veniva costituita giorno per giorno, mediante sorteggio, e in modo che in ciascuna giuria ogni tribù fosse rappresentata da un decimo dei giudici.
Vi è dissenso in dottrina se in alcune cause particolari furono ammessi a giudicare solo quei cittadini che possedessero alcuni requisiti; per esempio, solo gl'iniziati in una causa concernente i misteri, solo i compagni d'arme in cause per reati militari, ecc.
Funzionamento dei tribunali popolari. - Il magistrato che doveva rimettere ai giudici la decisione della causa che era stata promossa e istruita al suo foro, fissava il giorno per l'udienza (προγράϕειν) o direttamente, o rivolgendosi per tale scopo ai tesmoteti (secondo le età e la natura della causa). Il numero dei giudici variava: da 201 giudici per le cause private di un valore inferiore a mille dracme a 501 per le cause pubbliche, salvo casi eccezionali nei quali la composizione del tribunale poteva arrivare sino a 6000 componenti.
I tribunali non erano riuniti tutti i giorni; anche Atene aveva il suo calendario giudiziario, l'osservanza del quale era affidata ai tesmoteti. Nei giorni festivi, o nei giorni nefasti (ἀποϕράδες) e, nel sec. IV, anche nei giorni nei quali si riuniva l'assemblea popolare, i tribunali rimanevano chiusi.
L'udienza davanti ai tribunali s'iniziava con atti di rito religioso; quindi il magistrato preposto al tribunale sorteggiava il nome di dieci giudici, uno per tribù, dei quali uno aveva l'ufficio di sorvegliare la clessidra (v. appresso), quattro erano addetti allo scrutinio dei voti, gli altri cinque controllavano tali operazioni. Dopo di ciò veniva chiamata la causa (καλεῖν τὴν δίκην, τὴν γραϕήν), cioè l'araldo proclamava il nome degli avversarî e l'oggetto preciso della causa sulla quale i giudici dovevano dare il loro voto; quindi il cancelliere dava lettura dell'istanza dell'attore o dell'accusatore e della controistanza del convenuto o dell'accusato, le parti con i loro aderenti prendevano posto sui due podî (βήματα) distinti, bene in vista del tribunale, e finalmente ciascuna delle parti in causa difendeva la propria tesi. Di regola le parti si dovevano difendere personalmente ed entro il tempo determinato dalla legge e misurato per mezzo della clessidra. La legge faceva divieto alle parti di parlare su argomenti non strettamente attinenti alla causa, e di cercar di commuovere i giudici.
Terminate le arringhe delle parti, si veniva subito alla votazione, senza che i giudici si scambiassero le loro vedute circa la decisione della causa. Lo scrutinio veniva eseguito in presenza degl'interessati. Terminato lo scrutinio, i giudici ricevevano il soldo che era loro dovuto dallo stato.
Giurisdizione dei tribunali popolari in sede di ἔϕεσις e di controllo amministrativo. Generica sorveglianza delle leggi. - I tribunali popolari non erano chiamati solo a decidere le cause promosse regolarmente con azione privata o pubblica; essi avevano altresì l'ufficio di risolvere tutte le controversie a cui desse motivo il regolare funzionamento degli organi amministrativi.
Per esempio, l'appartenente a un demo o a una fratria che non accettasse la decisione dei proprî demoti o frateri, aveva la possibilità di ricorrere ai tribunali popolari, i quali pronunziavano sul dissenso con sentenza definitiva. Il caso più importante si aveva quando i demoti si rifiutavano di iscrivere nella lista degli efebi il giovane di cui il padre domandasse l'iscrizione dichiarandolo libero e nato da giuste nozze, ovvero quando i frateri non convalidavano la dichiarazione che uno dei loro facesse sulla composizione della propria famiglia. Il tribunale in tali casi doveva decidere sullo stato personale di colui sul quale era nato il dubbio e la sentenza aveva conseguenze gravissime, poiché lo stato di cittadinanza e tutti i diritti che da quello derivano veniva inappellabilmente riconosciuto o negato dalla sentenza del tribunale.
I tribunali dovevano giudicare altresì i casi nei quali un cittadino colpito dal provvedimento del magistrato o del sacerdote, interponesse l'ἔϕεδις, ritenendo il provvedimento infondato o illegale. Solo i cittadini, ed eccezionalmente i forestieri a cui fosse riconosciuto dalla legge o elargito per decreto il diritto di ricorrere ai tribunali cittadini, avevano ἔϕεδις. Gli schiavi e i forestieri non protetti soggiacevano senza difesa ai poteri amministrativi e sacrali dello stato. Non tutto è chiaro sull'efficacia processuale dell'ἔϕεδις. Nell'incertezza dei dati offerti dalle fonti sembra di poter concludere che la ἔϕεδις interposta dal cittadino o da chi ne aveva il diritto sospendesse il provvedimento che lo colpiva, sinché un altro cittadino (non il magistrato o il sacerdote) non si fosse assunto l'ufficio di accusatore davanti al tribunale, denunziando contro il presunto colpevole quegli stessi fatti che avevano provocato il provvedimento magistratuale o sacerdotale.
Spettava inoltre ai tribunali di decidere della legalità di qualsiasi atto venisse posto in essere nella vita dello stato. Essi decidevano in sede di "resa di conti" (εὔϑυναι), circa le accuse di illegalità che ogni cittadino poteva presentare contro il magistrato uscente di carica; decidevano delle controversie nascenti circa i requisiti richiesti nei magistrati e controllati volta per volta, prima che entrassero in carica, con una procedura detta δοκιμασία; decideva circa la necessità di abolire una legge perché fosse possibile presentare una legge nuova in contrasto con l'antica; anche la legalità delle proposte di decreto (ψήϕισμα) fatte nell'assemblea popolare veniva decisa dai tribunali quando la proposta fosse impugnata da una azione d'illegalità (γραϕὴ παρανόμων). Questo ufficio, sicuramente attestato nei tribunali popolari di Atene, rende poco propensi ad accogliere come degne di fede alcune notizie circa l'esistenza anche in regime democratico di magistrati speciali detti νομοϕύλακες, il cui ufficio fosse di sorvegliare l'osservanza delle leggi nelle discussioni dell'assemblea popolare.
Giurisdizione dei tribunali popolari nelle azioni promosse con procedura eccezionale. - Un carattere singolare, non nel modo con cui si svolgeva il dibattimento, ma nella procedura mediante la quale si promoveva il processo, si aveva quando il cittadino, di fronte all'assenza, o all'ignoranza, ovvero all'impotenza o alla negligenza del magistrato si sostituiva ad esso. Per esempio, quando sorprendeva in flagrante un malfattore (κακοῦχος), e lo consegnava, o per lo meno lo indicava, al magistrato perché lo mettesse a morte. In tali casi, se il colpevole, una volta consegnato o fatto arrestare dal magistrato, accettava la pena che questi gl'infliggeva, la cosa finiva lì; se era in condizione di interporre ἔϕεδις al tribunale, e si valeva di questo suo diritto, veniva iniziato un processo regolare nel quale la parte di accusatore era assunta da quello stesso cittadino che a tutela delle leggi si era fatto spontaneamente cooperatore dell'autorità magistratuale. Processi di tal genere si avevano in caso di denuncia scritta (ἀπογραϕή) o orale (ϕάδις) per alcuni reati, in modo particolare per quelli commessi ai danni del fisco; di ἀπαγωγή, quando il colpevole era senz'altro arrestato dal cittadino e condotto davanti al magistrato; di ἔνδειξις, quando il cittadino si limitava a indicare il colpevole al magistrato; di ἐϕήγηδις quando il cittadino invitava il magistrato a seguirlo per indicargli il colpevole; di εἰσαγγελία, in alcuni casi particolari di denuncia.
Tribunali speciali per i delitti di sangue. - Per i delitti di sangue esistevano in Atene dei tribunali speciali, di antica origine, nei quali il rito era regolato da particolari norme religiose. Tali erano l'Areopago, che in antico dirigeva tutta l'attività dello stato, ma, in seguito, esautorato dalla democrazia che gli tolse la maggior parte delle sue attribuzioni amministrative, conservò solo la giurisdizione sui più gravi reati di sangue: omicidio volontario, mancato omicidio, incendio, veneficio; oltre ad alcuni reati contro il culto.
Il Consiglio dell'Areopago era formato dagli arconti scaduti d'ufficio. Altri tribunali per i reati di sangue erano il Palladio, il Delfinio, il Pritaneo e il Freatto, i giudici componenti i quali sino all'età di Euclide (403 a. C.) erano gli efeti, posteriormente gli eliasti, sorteggiati nel modo che si è detto trattando dei tribunali popolari. Tutti i tribunali per i reati di sangue erano scoperti, in virtù del principio che l'accusatore e i giudici dell'empio non debbono stare sotto lo stesso tetto. Ed è presunto empio chiunque abbia versato sangue umano.
Attribuzioni giudiziarie dell'assemblea popolare. - Anche davanti all'assemblea popolare (ἐκκλησία) si potevano avere dei processi penali. Ciò avvenne solo in casi eccezionali nei quali sembrava opportuno che il giudizio fosse sottratto ai normali organi della giurisdizione e sottoposto ai procedimenti dell'assemblea costituitasi in alta corte di giustizia. Processi di questo genere prendevano il nome di εἰσαγγελία (da non confondere con l'azione speciale su menzionata). L'assemblea poteva poi pronunziare un voto detto προβολή contro i colpevoli di determinati reati (turbamento di feste pubbliche; sicofantia; trarre in inganno il popolo); praticamente il voto sfavorevole dell'assemblea pregiudicava nel processo ordinario l'imputato contro il quale si fosse invocato quel precedente.
I tribunali nell'età ellenistica. - Negli stati ellenistici l'amministrazione della giustizia teoricamente spetta al re e le sentenze sono emanate in suo nome; in pratica la decisione delle cause civili e penali è affidata a singoli magistrati o a collegi. Tali collegi sono diversi, e il loro funzionamento è in relazione alla coesistenza di popolazioni diverse e viventi con diverse leggi nel territorio dello stato e al principio della personalità del diritto, per cui a ciascuno era lecito invocare le norme del proprio diritto nazionale.
Nell'Egitto tolemaico gl'indigeni vivevano secondo il diritto del paese, i Greci secondo il diritto greco: il modo col quale veniva amministrata la giustizia era diverso nella città di Alessandria e nel resto del territorio (χώρα), e se le parti erano entrambe greche o egiziane, ovvero se la controversia era fra un greco e un indigeno. Di qui la necessità di un ordinamento giudiziario un po' complicato, che i documenti non sempre consentono di definire con esattezza. Nella χώρα erano in funzione varî collegi (alcuni dei quali probabilmente soppressi nel sec. II a. C.), fra i quali i laocriti, giudici fra indigeni; i crematisti, i quali andavano in giro per le campagne, affinché i contadini non fossero distolti dal lavoro dei campi per recarsi in centri lontani a definire le loro controversie giudiziarie (sotto la giurisdizione dei crematisti cadevano, con altre, le azioni finanziarie dello stato); il κοινοδικίον, che decideva controversie private fra Greci e indigeni: nel sec. II a. C. quest'organo giudiziario venne abolito e le cause che erano sua competenza passarono ai crematisti. Troviamo menzione anche di un tribunale dei Dieci, con particolari competenze nelle cause private, ma su esso non abbiamo sufficienti documenti. I giudici su nominati non costituivano dei tribunali; col nome generico di laocriti, crematisti, ecc., venivano indicati numerosi collegi di giudici, i cui componenti, probabilmente, non avevano nemmeno qualità di pubblico ufficiale. Veri tribunali (κριτήρια) si avevano invece in Alessandria, ciascuno dei quali aveva un presidente (ὁ ἑπὶ τοῦ κριτηρίου).
Bibl.: Per il diritto attico: J. H. Lipsius, Das attische Recht u. Rechtsverfahren, Lipsia 1905-15, pp. 121-219; G. De Sanctis, Ατϑίς, 2a ed., Torino 1912, p. 252 segg.; H. Hommel, Heliaia, Lipsia 1927; U. E. Paoli, Studi sul processo attico, Padova 1933, pp. 23-73. - Per il diritto spartano: U. Kahrstedt, Griechisches Staatsrecht, I. - Per il diritto cretese: F. Bücheler, E. Zitelmann, Das Recht von Gortyn, Ergänzungsheft des Rhein. Museum 1885, p. 67 segg.; J. Kohler, E. Ziabarth, Das Stadtsrecht von Gortyn, Gottinga 1912, p. 44 segg. - Per il diritto greco-egizio dell'età tolemaica: L. Mitteis, U. Wilcken, Grundzügeu. Chrestomathie der Papyruskunde, II, 1, p. 2 segg.; J. Beloch, Griechische Geschichte, III, i, Strasburgo 1904, p. 401 segg.
Roma. - Per quanto, come si è detto, l'uso della parola tribunal per indicare l'autorità giudiziaria medesima, soprattutto se collegiale, sia proprio dell'età postclassiea (tant'è che si ritengono interpolati tutti i passi del Digesto in cui lo si trova, e perfino il titolo dell'opera, attribuita a Ulpiano, De omnibus tribunalibus), è naturale che nello sguardo storico che segue si dia alla parola il significato nuovo, ancor oggi dominante.
Nella procedura privata romana, antica e classica, si distinguono notoriamente due fasi: processo in iure, che si svolge davanti all'autorità fornita di iurisdictio e ha lo scopo di fissare esattamente i termini della controversia, nonché di designare il giudice (o arbitro) che deve deciderla; e processo apud iudicem (o, come molti romanisti scrivono, in iudicio), che si svolge davanti al giudice privato allo scopo di valutare le prove e pronunciare la sentenza.
Davanti a quale autorità si svolgesse la prima fase nell'epoca primitiva (regia), è incerto: mentre la maggior parte degli studiosi ritiene, forse giustamente, che come ogni funzione sovrana anche questa spettasse al re, altri fanno leva sul fatto che notoriamente era riservata ai pontefici la preparazione delle dichiarazioni solenni (actiones) da pronunciarsi dalle parti, per dedurne che la direzione del processo era in origine affidata a quell'alta autorità sacerdotale. Certo la stessa autorità davanti alla quale s'iniziavano le procedure dichiarative ascoltava pure le analoghe dichiarazioni pronunciate dai creditori nell'atto d'iniziare quell'azione esecutiva, strettamente privata, che si chiamava manus iniectio.
È noto che, trasformatasi la monarchia in repubblica e riducendosi sempre più il prestigio dei pontefici, la funzione giurisdizionale fu assunta, fin dal sec. V a. C., dalla suprema magistratura cittadina, cioè a volta a volta dal dittatore; dai tribuni militum consulari potestate, dai consoli. Soltanto nel sec. IV la maggiore frequenza dei processi, effetto dello sviluppo demografico ed economico, e la maggior distanza dei teatri di guerra dal centro, fecero sì che accanto ai due pretori-consoli si creasse un terzo magistrato, detto praetor minor o urbanus, ma più tardi semplicemente pretore; ed è in questo magistrato che quind'innanzi, e in linea di principio fino al sec. III d. C., rimase accentrata la giurisdizione nelle liti fra cittadini. Sorsero tuttavia ben presto accanto alla sua altre giurisdizioni: così fin dal 241 quella del pretore peregrino, competente per le liti fra cittadini e stranieri; così, a partire forse dal principio del sec. III a. C., quella degli edili curuli, competenti per le liti che derivano da contrattazioni fatte sul mercato o che si riconnettono alla sorveglianza dei giuochi pubblici. Va inoltre osservato che, fuori di quella che i Romani stessi chiamano giurisdizione, e che è in stretta dipendenza dalla concezione arbitrale del processo, i censori e talvolta anche i consoli ebbero a conoscere in via amministrativa di questioni nascenti fra lo stato e i cittadini, per es. dai pubblici appalti o dalla vendita del bottino di guerra (cognitio extra ordinem).
Quanto alla scelta del giudice o arbitro privato, che è proprio della procedura ordinaria, essa è generalmente rimessa all'accordo delle parti, le quali, se cittadine entrambe, sono tenute a scegliere un altro cittadino: in caso che all'accordo non si arrivi, si può sopperire con suggerimenti del magistrato o con l'estrazione a sorte. A questi fini sorse già in epoca assai remota l'uso che il pretore preparasse e tenesse esposto nel tribunale un album iudicum selectorum.
Del resto, il sistema del giudice unico non fu praticato in maniera esclusiva. Vi è intanto una corte permanente, quella dei centumviri, che esiste almeno a decorrere dal 137 a. C. ed è eletta dai comizî in ragione di tre per tribù (il numero esatto è perciò di 105): si discute se abbiano una competenza esclusiva in materia di successione, o se la loro competenza concorra con quella del giudice unico per tutte le azioni reali, avuto riguardo alla forma di procedura preferita dalle parti nella prima fase (in iure) della lite. Probabilmente più antichi, come dimostra la forma arcaica del nome, erano i decemviri stlitibus iudicandis, che forse sono da identificare con gli iudices decemviri menzionati come organo rivoluzionario della plebe al tempo delle note secessioni: questa opinione è confortata dal fatto che verso la fine della repubblica i decemviri erano tuttora competenti nei processi di libertà, certo in passato materia di frequenti liti fra patrizî e plebei (la leggenda di Virginia informi). Nell'epoca imperiale, le due giurie suddette si trasfomano: i centumviri, portati a 180, sono divisi in dieci sezioni, ciascuna delle quali è presieduta da uno dei decemviri, mentre la competenza di questi nelle cause di libertà cede alla cognizione extra ordinem del praetor liberalum causarum.
Una deroga al sistema del giudice unico si ebbe anche con l'istituto dei recuperatores, collegi arbitrali di tre o cinque chiamati dapprima, causa per causa, a decidere le liti fra Romani e stranieri o fra stranieri di varia nazionalità. In tale applicazione, questi collegi debbono aver avuto un egual numero (uno o due) di giudici concittadini dell'una e dell'altra parte, e inoltre, scelto da questi, un superarbitro di città neutrale. Ma successivamente si ebbero, per es., nei processi (originariamente non criminali) contro i magistrati concussionarî, collegi composti di soli cittadini romani; e presto l'istituto fu adottato anche quando, come per es. nell'azione d'ingiurie, il processo aveva caratteri tali da dover essere deferito a una specie di corte d'onore.
Più complesso, e in più diretto contatto con le trasformazioni politiche, è l'ordinamento dei giudizî criminali. Anche qui il diritto di punire, che è il primo e principale aspetto della coercizione, appartiene in origine ai capi dello stato; ma sia per la pena di morte, che è la pena ordinaria nei delitti più gravi, sia per le pene pecuniarie superiori a un certo limite, si applica presto il principio dell'appello (provocatio) al popolo riunito in comizio. Il nome di appello, che facilmente viene sotto la penna dello studioso moderno, non esprime del resto esattamente la situazione pratica: in verità non esiste un vero e proprio giudizio di prima istanza, ma piuttosto un pubblico procedimento istruttorio, che il magistrato conduce davanti al popolo riunito in concione, concludendo alla terza tornata col manifestare la propria opinione. Se questa è affermativa quanto alla colpevolezza, si traduce praticamente in una proposta di condanna, alla quale il popolo riunito in solenne comizio non può rispondere se non in base alle prove raccolte nelle precedenti tornate: è in ogni modo il popolo soltanto che pronuncia la condanna o l'assoluzione, riunito nel luogo in cui abitualmente è convocato per votare su qualunque proposta del magistrato. La competenza a condurre l'istruttoria e ad affermare o negare preventivamente il crimine spetterebbe come ogni altra funzione di governo ai consoli; ma per evitare il conflitto fra l'altissima magistratura e l'assemblea si preferì investire della funzione quegli aiutanti dei consoli che erano i questori.
Se nel tipo veduto di processo, che formalmente non è stato mai abolito, il tribunale s'identifica col popolo intero, sorge negli ultimi secoli della repubblica, a partire da C. Gracco, un nuovo tipo di tribunale, detto quaestio, nel quale la comunità cittadina è in qualche modo rappresentata da una numerosa giuria: il relativo albo è costituito anno per anno e crimine per crimine dai pretori incaricati dell'istruzione e della presidenza, mentre la composizione della giuria in ciascun processo risulta da proposte dell'accusatore e da scelte che l'accusato fa tra i nomi propostigli, oppure da un sorteggio seguito da ricusazioni alternate. Questo tipo di tribunale, che sorse all'atto in cui la procedura privata contro i magistrati concussionarî si trasformava in pubblica persecuzione, e che presto fu esteso anche all'altro delitto tipico della nobiltà romana, la corruzione elettorale o ambitus, diede luogo a molteplici mutamenti nella composizione della giuria, che variava a seconda della prevalenza di questo o quel partito politico: nel sistema di C. Gracco, le giurie erano tratte dalla classe dei cavalieri, la quale veniva così a controllare la nobiltà senatoria nella sua correttezza politica; nella restaurazione aristocratica di Silla erano invece giurati i senatori; infine, nel compromesso adottato dalla legge Aurelia del 70 a. C., si ebbero tribunali misti di senatori, cavalieri e tribuni erarî. Intanto il sistema delle giurie era parso a Silla politicamente giovevole ad evitare le troppo frequenti riunioni delle assemblee popolari, e a ridurre contemporaneamente attraverso esatte definizioni legali la discrezionalità del potere dei magistrati nel riconoscere o meno a un dato fatto il carattere di crimine; onde tutta la serie delle leggi Cornelie, che, integrate qua e là da altre di diversi proponenti, crearono per tutti i crimini più importanti (omicidio, falso, calunnia, ingiurie qualificate, ecc.) apposite quaestiones.
Peraltro anche il sistema delle quaestiones (dove, come si è accennato, la giuria rappresenta in qualche modo il popolo intero) attua a modo suo il principio della provocatio; e pertanto rimane immutata anche in quest'ultima epoca della repubblica la regola della libera coercizione magistratuale per tutti i casi in cui l'appello al popolo non era previsto dalle leggi, come per i giudizî pronunciati dai questori o dai duoviri perduellionis a carico di donne o schiavi o stranieri, o per i giudizî di empietà pronunciati in circostanze analoghe dal pontefice massimo. Naturalmente certe regole della giustizia ordinaria sono qui imitate per ragioni di correttezza: così il magistrato raccoglie intorno a sé e interpella un apposito consilium, e il pontefice massimo sente il parere dell'intero collegio pontificale; egualmente sono osservate in generale le regole della non estensione delle sedute oltre il tramonto, della pubblicità, e soprattutto della necessaria difesa dell'accusato.
Conformemente al principio dello stato-città, osservato da Roma fino agli estremi limiti del possibile anche dopo l'annessione di tanta parte d'Italia, i tribunali suddetti, che funzionavano in Roma, restarono in massima i soli competenti nei riguardi dei cittadini e dei sudditi o schiavi residenti nel territorio, salvo che per gli affari civili il pretore urbano poté farsi rappresentare nei centri più lontani da praefecti iure dicundo. Ma a partire da Silla, e più largamente da Cesare, l'organizzazione municipale dell'Italia romanizzata permise di affidare in ogni città la giurisdizione civile per i rapporti fra municipes ai magistrati locali, duoviri iure dicundo (o quattuorviri i. d.: sul significato speciale dell'espressione, v. Quattuorviri): mentre però per tutti i processi facenti capo al potere discrezionale (imperium) del magistrato bisognava tuttora rivolgersi a Roma, la giurisdizione del pretore rimase anche per le altre cause in concorrenza con i magistrati locali.
Diverso era il sistema nelle provincie. In tali territorî, soggetti anche se pacificati all'impero militare del magistrato o promagistrato romano, a questo apparteneva la giurisdizione; ma egli poteva delegarla, permanentemente per certe materie o caso per caso, al legato o questore. Più spesso il governatore ricorreva all'opera dei modesti funzionarî indigeni che, ereditati da precedenti ordinamenti, rappresentavano l'autorità dello stato nei distretti e nei villaggi. Altre norme vigono nei riguardi degli appartenenti alle città-stati che, anteriori alla conquista romana, avevano ottenuto dal vincitore il riconoscimento formale della libertà: sapevamo dalle Verrine di Cicerone che per gli affari civili e per i delitti meno gravi gli organi di queste città conservavano la giurisdizione sui cittadini, mentre se gl'interessati appartenevano a città diverse si soleva affidare il giudizio a una terza; analoghe notizie sono ora fornite dall'Editto di Augusto ai Cirenei. Da questo apprendiamo pure che, rimanendo al governatore la giurisdizione esclusiva per i delitti capitali, il consilium di cui egli si circondava era praticamente costituito, sulla fine dell'età repubblicana, di un certo numero di Romani residenti, scelti causa per causa entro un certo albo; il che significava offrire ai giudicabili garanzie analoghe a quelle che per legge erano date a Roma ai cittadini nel sistema delle quaestiones. Nei riguardi della popolazione greca di Cirene, Augusto ha fatto ancora di più, permettendo che le giurie fossero composte per metà di Romani residenti e per metà di Cirenei. Quanto alle controversie civili fra i Romani residenti in provincia, il governatore è il solo competente, ma nei limiti e con le garanzie che in Roma si trovano fissate nell'editto del pretore urbano; e questa sua giurisdizione non si esercita esclusivamente nel capoluogo, bensì trasportando il tribunale da uno ad altro centro urbano, e ivi chiamando a raccolta i Romani stabiliti nelle vicinanze (conventus civium Romanorum).
L'avvento del principato segnò in massima, così nelle materie civili come nelle penali, l'incremento della giurisdizione straordinaria dei magistrati, e più ancora del principe e dei suoi funzionarî, col progressivo esaurimento dei giudici privati e delle giurie popolari. A parte le numerose materie civilistiche che in quest'epoca divengono oggetto di procedure extra ordinem (per es., le cause di libertà, quelle nascenti da fedecommessi, e buona parte delle questioni relative alle tutele), la facoltà di appellare al principe contro la sentenza di qualsiasi giudice, ammessa già sotto Augusto a titolo di gravame straordinario, fa sì che si costituisca intorno all'imperatore un auditorium di giuristi autorevoli, che può considerarsi come un tribunale supremo dell'impero; d'altra parte, ad onta delle pene comminate all'appellante per il caso di soccombenza, l'appello divenne presto così frequente, da obbligare l'imperatore a delegare in via permanente alla relativa cognizione i suoi maggiori funzionarî, specialmente il praefectus urbi e il praefectus praetorio. Quanto alla giurisdizione criminale, il sistema delle quaestiones, teoricamente sempre in vigore, non impedisce che per i crimini non rientranti esattamente nelle definizioni delle apposite leggi, e dovunque speciali circostanze aggravanti o attenuanti facciano ritenere opportuna una più libera valutazione della fattispecie, l'imperatore possa avocarsene la cognizione, personalmente o per il tramite dei funzionarî suddetti: praticamente, quella che decide è il più delle volte la prevenzione, regolarmente esercitata dai dipendenti del principe, che attraverso le loro funzioni di polizia sono per primi al corrente delle infrazioni avvenute.
Un altro aspetto del cambiamento di regime è il formarsi di competenze territoriali gerarchicamente ordinate. La competenza esclusiva dei magistrati della capitale per tutte le controversie sorte in Italia e richiedenti l'esercizio di un potere discrezionale è eliminata da una riforma che, iniziata da Adriano, diviene definitiva sotto Marco Aurelio nel 162-63: furono allora nominati quattro iuridici, competenti l'uno per l'Italia meridionale, il secondo per le terre traspadane, il terzo e il quarto rispettivamente per le regioni occidentali e per le orientali dell'Italia centrale: a quanto pare, questi funzionarî non avevano sede fissa, ma si spostavano a seconda delle necessità, come per il conventus provinciale. Se in Italia gli iuridici praticano sempre più largamente la procedura straordinaria, conoscendo personalmente di ogni controversia dalla prima comparizione delle parti fino alla sentenza, più rapidamente ancora nelle provincie il regime del giudice privato si trasforma, anche per quanto riguarda i Romani residenti, nella delegazione di altro cittadino a decidere la lite, sulla scelta e in base a istruzioni del governatore; pratica che viene per altro combattuta dai principi, i quali esigono che almeno di regola i governatori decidano le liti personalmente. Con la riduzione dell'Italia sotto un'amministrazione analoga a quella delle provincie, che si compie nel corso del sec. III, l'attribuzione esclusiva dell'amministrazione della giustizia ai funzionarî è un fatto compiuto, culminante nell'abolizione dell'antica e fondamentale iurisdictio del pretore urbano.
All'epoca di Giustiniano, i cui ordinamenti conosciamo particolarmente bene attraverso le costituzioni del Codice e le Novelle, si chiamano iudices ordinarii i funzionarî normalmente incaricati di decidere le liti in prima istanza. Nelle due capitali, Roma e Costantinopoli, tale funzione è riservata al rispettivo praefectus urbi per le cause di maggiore, al suo vicario per quelle di minor valore. Nelle provincie, invece (che, com'è noto, erano state riordinate da Diocleziano spezzettando in due o tre ciascuna delle antiche), la competenza è distribuita, secondo il valore, fra i governatori (praesides o rectores) e i funzionarî delle amministrazioni municipali, prevalendo fra questi sempre più il defensor civitatis: il limite fra l'una e l'altra competenza è fissato a 300 soldi d'oro. L'appello, divenuto ormai gravame ordinario, è garantito nel senso che contro la sentenza del vicario si appella al prefetto, e contro quella del defensor al preside: contro la sentenza di quest'ultimo, pure se pronunciata in seconda istanza, si può anche appellare al praefectus urbi; se poi è stato il pr. urbi a pronunciare in prima istanza, si può rivolgere a lui stesso una supplicatio tendente alla riforma del giudicato, e su questa egli decide come delegato permanente dell'imperatore (vice sacra). Fra le giurisdizioni speciali, hanno importanza quelle del praefectus annonae e del praefectus vigilum, e più ancora, in materia fiscale, quella dei due rationales (sacrarum largitionum e rei privatae), con tutta la gerarchia che ne dipende nelle provincie. Analogamente è ordinata la giurisdizione penale, nella quale il più alto grado è però tenuto dai praefecti praetorio delle quattro grandi prefetture in cui tutto l'impero è diviso. Ricordiamo infine, accanto alle giurisdizioni di stato, l'episcopalis audientia, nota all'impero cristiano sia come tribunale esclusivo dei chierici sia come arbitra preferita di molti laici.
Medioevo ed età moderna. - Anche nell'organizzazione giudiziaria dei paesi germanici, come nelle repubbliche classiche, predomina il principio del giudizio di popolo: solo si distingueva fra i giudizî più importanti, specialmente capitali, per cui era necessario che il popolo intero si adunasse in conventus (o mallum), e i meno importanti, che erano lasciati alle centenae. Affermandosi la potestà regia, la competenza giudiziaria dei re e dei loro legati diventa normale; ma generalmente soltanto nel senso che a essi spetta la presidenza dell'assemblea e la pronuncia della sua sentenza. Ed è probabilmente un residuo di questo sistema quello che si osserva nei tribunali longobardi, dove la giurisdizione è affidata, secondo un ordine gerarchico, al re, ai duchi e ai gastaldi e sculdasci, ma non senza la necessità che prima di pronunciare la sentenza siano interpellati gli adstantes (o circumstantes); consultazione che avveniva, per altro, trascegliendo fra il pubblico soltanto un piccolo numero di persone, il cui voto risultava in pratica puramente consultivo.
Presso i Franchi, fra le giurisdizioni del re e del centenarius, capo della già citata centena, venne a introdursi quella del conte, originariamente semplice esecutore delle sentenze regie; ma tutti i giudizî continuarono ad esigere la partecipazione del popolo, in seno al quale erano normalmente scelti sette vendicatori (Rachenbürger), detti anche sedentes per opposizione agli spettatori che intorno facevano corona (adstantes). Potevano però gli astanti non accettare la sentenza dei sedentes, e proporne a loro volta un'altra; un conflitto che non si risolveva se non con rimedî disperati come il giudizio di Dio. Un'importante riforma di Carlomagno, che si trova attuata anche in Italia fin dal 774, consistette nel sostituire ai Rachenbürger, scelti volta per volta, persone aventi l'obbligo di partecipare abitualmente ai giudizî, dette scabini e nominate dal titolare di ogni tribunale fra i cittadini nobili, esperti e illibati. Le leggi di Carlomagno stabilivano anche i confini esatti fra le giurisdizioni del re, del conte e del centenario.
Nella varietà degli ordinamenti giuridici medievali intorno e dopo il Mille, anche una semplice enumerazione di tutti i tribunali che ebbero giurisdizione nelle varie parti d'Italia si protrarrebbe all'infinito. Basti dire che nelle terre soggette all'impero, tribunale supremo, giudicante di solito solo in ultima istanza, è quello dell'imperatore medesimo; che negli stati ove un'altra autorità era riuscita ad affermarsi come pienamente sovrana, per es., nel Regno di Sicilia e negli stati pontifici, tribunale supremo è quello che è presieduto dal sovrano o che lo rappresenta; che analogamente ebbero il loro particolare e autonomo ordinamento giudiziario le repubbliche marinare, specialmente Venezia e Pisa.
La giurisdizione dell'imperatore, esercitata di solito per delegazione dal conte palatino, si esplica da principio con l'assistenza dei grandi (giudizio aulico), il cui posto è successivamente preso dai consiglieri della camera imperiale. Sotto il controllo del tribunale imperiale erano posti, per funzionare in prima istanza nelle varie regioni, i tribunali dei conti e marchesi, nonché quelli dei vescovi nella loro qualità di beneficiarî dell'imperatore.
Anche il tribunale del papa tende a organizzarsi secondo uno schema analogo a quello del tribunale supremo dell'impero, col quale per qualche tempo si è anche confuso o commisto in forza della pretesa imperiale all'advocatia ecclesiae. Intervenga di persona o attraverso un legato, il pontefice è sempre assistito dagli ufficiali palatini; sicché infine sono questi ultimi a formare il celebre tribunale chiamato, a causa del modo in cui i seggi vi sono disposti, della Sacra Rota. Il giudizio di ultima istanza, nonché sulle domande di grazia, fu però riservato all'altro tribunale che si disse della Segnatura, a causa della sottoscrizione del papa richiesta per la validità delle sue decisioni. A somiglianza della Rota romana, altre ne furono create a Bologna, Macerata, Ferrara e altre città degli stati pontifici, come tribunali superiori delle diverse provincie e salvo sempre il ricorso alla Segnatura.
Fra i maggiori tribunali del regno di Sicilia (e poi di Napoli) va ricordato quello del Gran Giustiziere, progressivamente ampliatosi fino a raggiungere sotto Federico II Svevo cinque membri, prendendo il nome di Magna Curia. Sennonché, continuando le parti a richiedere l'intervento diretto del re, fu istituita dagli Angioini una corte che sentenziò in luogo e vece del re stesso, detta perciò Corte Vicaria, e poi - per corruzione - della Vicaria. Le due corti si fusero poi sotto Alfonso I di Aragona in una sola, detta Sacro Regio Consiglio o Consiglio di S. Chiara, che giudicò in appello contro tutte le sentenze pronunciate nel regno. Ricordiamo ancora la Corte della Sommaria, istituita anch'essa dagli Aragonesi e competente in materia fiscale.
Senza insistere sui tribunali delle repubbliche marinare (in specie, per quanto riguarda Venezia, sul Consiglio dei Dieci e sulle cosiddette quarantie), ricordiamo piuttosto che, affermatesi le autonomie comunali, ogni comune italico ebbe come supremo giudice la concione, o parlamento, cui tutto il popolo prendeva parte, ma le cui sentenze erano in massima soggette ad appello all'imperatore: più spesso giudicavano come giudici ordinarî - cioè in prima istanza - i consoli o podestà, oppure, quando li si volle liberare dal gravoso ufficio, i giudici speciali designati come "consoli de' piati" o con nomi simiglianti.
Complicatissimo fu, sino alla rivoluzione francese e anche più in qua, l'intrico dei fori speciali; cosa ben facile a intendere se si pensa che non si trattava già di ripartire fra gli organi di un determinato stato le funzioni giurisdizionali, bensì di concorrenza fra molteplici ordinamenti giuridici, provenienti dalle diverse autorità, in uno o altro senso sovrane, alle quali ogni individuo era soggetto. Così il tribunale feudale, in origine competente per le sole questioni attinenti al godimento dei feudi, si estese, per concessioni dei principi o per lenta usurpazione, fino a giudicare di tutte le cause, civili e penali, in cui fossero implicati gli abitanti del territorio, compresa in certi ambienti la facoltà d'infliggere la pena capitale: ed è caratteristico dello svolgimento storico dell'assolutismo che, mentre nella prima e limitata competenza il signore non poteva giudicare se non con la collaborazione di colleghi dell'accusato in vassallaggio (pares curiae), nella maggiore estensione della competenza decise da solo. Con i tribunali feudali confinano, e talvolta perfino si confondono, i dominicali, nei quali si afferma il diritto di coercizione dei padroni di terre sopra i servi della gleba: le loro origini sono antiche quanto la servitù stessa, e i papiri greco-egizî del sec. VI d. C. ce li mostrano già in pieno sviluppo; ma nel Medioevo, estendendosi la loro giurisdizione anche sui ministeriales, il risultato pratico fu di togliere ai minori vassalli quelle poche garanzie d'imparzialità che pur trovavano nel tribunale feudale. Vanno pure ricordati i tribunali delle corporazioni, ove autorità giudicanti sono i consoli delle varie categorie di mercanti e artigiani: com'è noto, dall'interesse dei commercianti a essere anche all'estero giudicati da mercanti loro connazionali derivarono anche i tribunali consolari che ciascuno stato venne costituendo nel territorio degli altri: tale istituto sopravvive ancora nei paesi cosiddetti capitolari.
Ma il più importante tra i fori speciali è l'ecclesiastico, le cui origini risalgono, come si è accennato, all'impero costantiniano-giustinianeo. Basata sostanzialmente sull'autorità esclusiva della Chiesa per tutto quanto riguarda i chierici, nonché nelle materie attinenti alla religione e alla beneficenza, questa giurisdizione ebbe tendenze largamente espansive, sino a voler abbracciare tutte le cause civili e penali nelle quali un chierico fosse comunque implicato, tutte le controversie riguardanti il matrimonio, la filiazione, le obbligazioni confermate da giuramento, tutti i delitti di empietà, e infine le cause intentate da vedove o orfani o viandanti, e in genere dalle persone bisognevoli di soccorso, contro chi fosse comunque tenuto ad aiutarle. Naturalmente tale espansione incontrava la resistenza delle varie autorità civili, che tendevano a escludere ogni competenza ecclesiastica per le liti di contenenza patrimoniale, anche se una delle parti fosse un chierico o se si riconnettessero a questioni di matrimonio e filiazione; onde una serie di concordati, nei quali le materie delle due diverse giurisdizioni erano esattamente delimitate, o altrimenti era attuata una collaborazione delle due autorità attraverso tribunali misti o processi da svolgersi in più fasi. Il tribunale ecclesiastico normale è quello del vescovo, detto appunto perciò "ordinario"; ma vanno inoltre ricordati qui, rinviando per i particolari alle apposite voci, i tribunali dell'Inquisizione, istituiti fin dal sec. XIII e concorrenti con gli ordinarî nella persecuzione delle eresie.
È inutile dire come questa estrema varietà di tribunali, animati molto spesso da fini che non s'identificavano senza residui con la ricerca della verità e della legalità, fosse pregiudizievole allo sviluppo morale dei popoli: la protesta contro la denegata giustizia è uno dei motivi dominanti della lotta contro i vecchi regimi, e la competenza esclusiva dei "giudici naturali" è tra le massime fondamentali della dichiarazione dei diritti dell'uomo e delle costituzioni che nel corso del sec. XIX la seguirono. Almeno dal punto di vista tecnico, molto avevano contribuito al rivolgimento, nelle terre dell'Italia settentrionale, il sano ordinamento giudiziario di Giuseppe II d'Asburgo (1786), con i suoi tribunali provinciali facenti capo in seconda istanza a corti d'appello regionali, e le norme analoghe sancite per gli Stati sardi dai monarchi di casa Savoia.
Bibl.: G. Geib, Geschichte des römischen Kriminalprozesses, Lipsia 1842; A. v. Bethmann-Hollweg, Der Civilprocess des gemeinen Rechts, voll. 6, Bonn 1864-74; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885; O. E. Hartmann e A. Ubbelohde, Ordo iudiciorum und extraordinaria cognitio der Römer, Gottinga 1886; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Lipsia 1899; P.-F. Girard, Histoire de l'organisation judiciaire des Romains, I, Parigi 1901; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen verwaltungsbeamten bis auf Diokletian, 2a ed., Berlino 1902; O. Liebenam, Duoviri, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 1827 segg.; A. Rosenberg, Iuridicus, in Pauly-Wissowa, ib., X, col. 1147 segg.; A. Steinwenter, Iudex, in Pauly-Wissowa, ib., IX, col. 2464 segg.; F. Bozza, Iudex, nel Dizionario epigrafico di E. de Ruggiero; L. Wenger, Institutionen des römischen Zivilprozessrechts, Monaco 1925; A. Checchini, Studi sull'orientamento processuale romano e germanico, Padova 1925; A. Grimaldi, Storia delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, Napoli 1731; A. Pertile, Storia del diritto italiano, 2a ed., VI, parte 1a, Torino 1900; L. Genuardi, La procedura civile in Sicilia dall'epoca normanna al 1446, Palermo 1900; G. Salvioli, Storia della procedura civile e penale, in Storia del dir. ital. diretta da P. Del Giudice, VI, voll. 2, Milano 1925-27; E. Glasson, Les sources de la procédure civile française, Parigi 1881; H. Siegel, geschichte der deutschen Gerichtsverfassung, I, Giessen 1857; A. Stölzel, Die Entwickelung des gelehrten Richtertums in deutschen Territorien, Stoccarda 1872.
L'ordinamento odierno dei tribunali.
La parola "tribunale" può essere presa nel largo senso latino, usato anche dalle leggi italiane quando parlano, ad es., di tribunali in genere o di tribunali ordinarî o di tribunali straordinarî (in questo senso è tribunale tanto l'ufficio del giudice conciliatore quanto la Corte di cassazione; tanto la magistratura del lavoro quanto la Corte dei conti); e può essere presa in senso stretto a indicare un determinato tribunale (tribunale civile, tribunale penale, tribunale per i minorenni, tribunale consolare). Qui parliamo dei tribunali specialmente in questo secondo ristretto senso, rinviando principalmente per la conoscenza della complessa organizzazione giudiziaria alle voci: consiglio: Consiglio di stato; corte: La Corte di cassazione; La Corte d'appello; La Corte d'assise, La Corte dei conti; giudice; giudice conciliatore; giudiziario, ordinamento; giunta: Giunta provinciale amministrativa; giurisdizione: Giurisdizioni speciali amministrative; pretore. Cfr. anche processo.
Tribunale civile. - Secondo l'ordinamento giudiziario italiano approvato con r. decr. 30 dicembre 1923 n. 2786, art. 30 segg., il tribunale civile è il giudice collegiale, che ha pienezza di giurisdizione civile di primo grado (articoli 81, 84 cod. proc. civ.; 30 regio decr. 30 dicembre 1923, n. 2786 cit.).
La legislazione processuale italiana ha mantenuto fermo il principio che le cause di maggiore gravità e importanza siano deferite anche in primo grado alla cognizione di un giudice collegiale; la sostituzione del giudice collegiale col giudice unico nei tribunali, attuata col r. decr. 27 agosto 1913 n. 1015 (in vigore dal 1° gennaio 1914), ebbe brevissima vita giacché si ritornò al sistema collegiale con la legge 27 dicembre 1914 n. 1404. Il carattere di giudice collegiale importa l'esistenza di un presidente del collegio giudicante e di un presidente della magistratura. Nella struttura interna il giudice collegiale non si differenzia, per altri caratteri, dal giudice unico; anche il tribunale è costituito, oltre che dal collegio giudicante, dalla cancelleria e dagli ufficiali giudiziarî.
Il tribunale civile, come organo collegiale giudicante, è costituito di tre componenti (giudici); attribuzioni speciali spettano anche al presidente del tribunale, al presidente del collegio, al giudice delegato, al giudice graduatore, al giudice delle tutele.
a) Come giudice collegiale, il tribunale ha competenza di giudice di primo grado su tutte le controversie di valore indeterminabile (art. 81 cod. proc. civ.), su quelle di valore superiore alle lire cinquemila (articoli 84 cod. proc. civ. e 1 legge 15 settembre 1922, n. 1287); sulle questioni di ialso (articoli 406, 431, 455 cod. proc. civ.); sulle questioni di imposte dirette e indirette (articoli 70-71, 84 cod. proc. civ.). Come giudice di appello, il tribunale civile giudica di tutte le cause decise in prima istanza dal pretore o dagli arbitri che abbiano pronunziato nei limiti della competenza pretoria. Al tribunale civile è attribuita l'esecuzione immobiliare ordinaria, e l'esecuzione fallimentare (art. 685 cod. comm.). Sono anche deferiti ad esso il regolamento di competenza tra i giudici inferiori aventi sede nella circoscrizione del tribunale (art. 108 cod. proc. civ.); la cognizione dei motivi di ricusazione del pretore (art. 120 capov. cod. proc. civ.); le funzioni disciplinari sui proprî membri e sui giudici inferiori. Il tribunale, se la quantità degli affari lo richiede, può essere diviso in più sezioni, ciascuna delle quali ha un presidente: in questi casi il presidente del tribunale è anche presidente della prima sezione. L'attribuzione degli affari alle singole sezioni viene fatta normalmente dal presidente, secondo il suo prudente criterio (r. decr. 8 giugno 1868, n. 4424); in altri casi l'attribuzione è fatta dalla legge (v. lett. e): la sezione non è che un ufficio del tribunale al quale appartiene, non un organo giurisdizionale autonomo, e quindi ha normalmente tutti i poteri giurisdizionali del tribunale, né può parlarsi di una competenza della sezione.
b) Il presidente del tribunale ha numerose funzioni autonome di giurisdizione contenziosa, talune derivanti dalla qualità di capo della magistratura collegiale, altre specifiche del presidente del tribunale. Tra le prime ricordiamo: abbreviazione di termini (art. 154 cod. proc. civ.); procedimento per ingiunzione (art. 379 cod. proc. civ.), concessione di sequestro quando vi sia causa pendente (art. 927 cod. proc. civ.); pronunzia del decreto di ingiunzione nelle cause che sarebbero di competenza del tribunale (art. 3 r. decr. 22 luglio 1922, n. 1036 e art. 7 r. decr. 7 agosto 1936, n. 1531), concessione di sequestro conservativo e giudiziario nelle cause di competenza del tribunale (art. 926 cod. proc. civ.); sospensione dell'esecuzione in base a cambiale, nelle cause di competenza del tribunale (art. 64 r. decr. 14 dicembre 1933, n. 1669). Funzioni specifiche del presidente del tribunale: procedura di stima delle merci vendute (art. 71 cod. comm.); sospensione delle deliberazioni delle assemblee delle società anonime (art. 163 cod. comm.); nomina del perito e tassazione delle spese di perizia nei giudizî di stima di immobili sottoposti a tassa di registro (articoli 37-40 r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3269) e a tassa di successione (articoli 39-43 r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3270); procedimento di collazione degli atti pubblici (art. 914 segg. cod. proc. civ.), ecc. Al presidente del tribunale competono numerose funzioni di giurisdizione volontaria e amministrative; ricordiamo la legalizzazione delle firme dei notai e degli ufficiali dello stato civile (articoli 119 segg. reg. gen. giud.; art. 150 r. decr. 15 novembre 1865, n. 2602); presidenza del consiglio di leva (art. 24 testo unico approvato con r. decr. 8 settembre 1932, n. 1332), richiamo o allontanamento del figlio dalla casa paterna (art. 221 c. civ.), ecc.
c) Il presidente del collegio giudicante (che può essere il presidente del tribunale, come il presidente di una delle sezioni) ha funzioni particolari, che esercita in seno al collegio, quale la direzione dell'udienza del collegio, e ha funzioni autonome nella fase di udienza, che si svolge dinnanzi al presidente, a norma dell'art. 4 legge 31 marzo 1901, n. 107 (e art. 24 segg. r. decr., 31 agosto 1901, n. 413), quali concessione di rinvii, cancellazione di cause dal ruolo di udienza, unione di cause, ammissione di mezzi istruttori (articoli 12 legge 31 marzo 1901 e 26 segg. r. decr. 31 agosto 1901 cit.); e infine si svolge dinnanzi a lui la procedura degli incidenti nel rito formale (art. 181 segg. cod. proc. civ.).
d) Altro importante organo del collegio nei tribunali è il giudice delegato, che è destinato a sostituire o il presidente nella procedura degli incidenti (art. 186 cod. proc. civ.), o il collegio, specie nell'assunzione delle prove (art. 208 cod. proc. civ.); il giudice delegato prende il nome di relatore, quando è incaricato di fare la relazione di una causa all'udienza (articoli 5 legge 31 marzo 1901, 46 r. decr. 31 agosto 1901 cit.). Una figura particolare di giudice delegato nei tribunali è il giudice delegato alla procedura del fallimento (articoli 691, cod. comm.; 4 legge 10 luglio 1930, n. 995), che ha particolari e autonome attribuzioni giurisdizionali (es. articoli 11 legge 10 luglio 1930, 807 cod. comm.). Altra figura di giudice delegato è quella del giudice graduatore, al quale è affidata l'istruzione nei giudizî di graduazione (art. 708 cod. proc. civ.). Infine presso ogni tribunale è un giudice incaricato delle funzioni di tutela degli orfani di guerra; il giudice è nominato ogni anno giudiziario dal primo presidente della Corte d'appello e ha le competenze attribuite al presidente del tribunale dal codice civile, libro I, titoli VIII e IX, e dagli articoli 181 segg. legge di pubblica sicurezza (art. 33, legge 26 luglio 1929, n. 1397).
e) Nei tribunali civili si hanno sezioni aventi composizione speciale, alle quali sono per legge deferite controversie di particolare natura. Non si tratta di organi di giurisdizione speciale, ma di organi della magistratura ordinaria; la giurisdizione di questa comprende anche le controversie attribuite all'organo speciale (ma non inversamente). Sezioni speciali del tribunale sono: 1. Il tribunale come giudice delle controversie individuali del lavoro (articoli 1 e 3 r. decr. 31 maggio 1934, n. 1073: v. lavoro: Magistratura del lavoro): il collegio giudicante, composto di tre giudici, co ne di ordinario, può essere assistito da due esperti (scelti fra gl'iscritti in appositi albi, formati secondo l'art. 29 del decreto cit.), quando le parti ne facciano espressa domanda nella prima udienza. 2. Il tribunale come giudice nelle controversie sugl'infortunî sul lavoro. Tali controversie sono deferite al tribunale senza limiti di valore, il collegio giudicante è integrato da due medici esperti scelti in apposito albo (r. decr. 17 agosto 1935, n. 1765, art. 51). 3. Il tribunale come giudice nelle controversie sulle assicurazioni invalidità, vecchiaia, disoccupazione, maternità, tubercolosi. Le controversie sono deferite alla cognizione del tribunale senza limiti di valore; il collegio giudicante può essere integrato da due medici esperti, scelti in apposito albo (r. decr.-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, articoli 100-101). Non costituiscono sezioni del tribunale civile, nonostante il nome, ma della Corte di appello i tribunali delle acque pubbliche.
Tribunali civili coloniali. - L'ordinamento del quale abbiamo tracciato sopra le linee generali, è in vigore nel solo territorio metropolitano; nelle colonie, in luogo del tribunale civile, sono istituiti i seguenti organi giurisdizionali.
Nella Somalia Italiana, per i cittadini italiani metropolitani o stranieri il giudice della colonia; per i sudditi coloniali e assimilati il tribunale indigeno (articoli, 2, 5, 7, 113, 128, 129, 130, 133, 149 r. decr. 20 giugno 1935, n. 1638); nella Colonia Eritrea, per i cittadini italiani e stranieri il giudice della colonia, e per i sudditi coloniali e assimilati di religione musulmana, i cadi; per gli altri sudditi coloniali, i residenti (articoli 1-3, 7, 13, 14, 18, 19, 31, 32, 42-44, 55, 56, 130, 142, 159 r. decr. 20 giugno 1935, n. 1649); nella Libia, per i cittadini italiani e stranieri il tribunale; per i cittadini libici israeliti, i tribunali rabbinici (articoli 1, 9, 11, 14, 15, 37, 46, 56, 59, 66, 67, 144, 180-182 r. decr. 27 giugno 1935, n. 2167). Nell'Impero d'Etiopia compreso nell'Africa Orientale Italiana (r. decr.-legge 1° giugno 1936, n. 1019, art. 1) funzionano, dal 28 ottobre 1936, i tribunali di Addis Abeba e Harar, con giurisdizione sui territorî del governatorato di Addis Abeba e del governo di Harar; i tribunali giudicano in collegio composto del presidente e di due giudici; a essi sono deferite le cause di competenza del giudice della colonia purché di valore superiore alle lire cinquemila (r. decr. 21 agosto 1936, n. 2010, articoli 6, 8, 12); non è definita la competenza dei cadi e capi locali, che pur conservano funzioni giurisdizionali (r. decr.-legge 1° giugno 1936, n. 1019, art. 46).
Bibl.: G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, 3a ed., Napoli 1923, pp. 422 segg., 697 segg.; id., Istituzioni di diritto processuale civile, 2a ed., Napoli 1936, II, parte 1a, pp. 92-93, 101 segg.; F. Carnelutti, Lezioni di diritto proc. civile, 2a ed., Padova 1933, III, nn. 186, 191 segg.; L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di proc. civile, 3a ed., II, pp. 10 segg., 197 segg.; M. T. Zanzucchi, Diritto processuale, Milano 1936, I, p. 395 segg.; A. Diana, Le funzioni del presidente, Milano s. a.
Tribunale di commercio. - Aboliti in Italia dalla legge 21 gennaio 1888, n. 5174, i tribunali di commercio si ricollegavano a una tradizione secolare, risalente all'epoca dei Comuni.
Nei comuni appunto, come emanazione delle corporazioni mercantili, si erano man mano costituiti tribunali, a cui si deferivano le controversie attinenti agli affari commerciali terrestri e marittimi. Cresciuta la loro autorità, ed estesa, in conseguenza, la loro competenza, si giunse gradatamente al loro riconoscimento ufficiale, come organi di giurisdizione nelle materie commerciali, accanto ai tribunali ordinarî. I tribunali di commercio si trovavano costituiti in tutti gli stati italiani, al tempo dell'unificazione; e furono conservati dall'ordinamento giudiziario, approvato con r. decr. 6 dicembre 1865, n. 2626. Questo infatti, negli articoli 52-63 del capo IV, titolo II, ne regolò la composizione e la competenza. Si spiega perciò come nel codice di procedura civile, tuttora in vigore, promulgato il 25 giugno 1865, si accenni ai tribunali di commercio nell'art. 155 e nei capi III e IV del libro I, titolo IV, riguardanti, rispettivamente, il procedimento formale e quello sommario. Queste disposizioni, per l'abolizione dei tribunali anzidetti e per la legge del 31 marzo 1901 sulla riforma del procedimento sommario, hanno perduto efficacia, in quanto attinenti al funzionamento dei tribunali stessi e alle differenze fra il procedimento formale e quello sommario; dovendosi quest'ultimo osservare, di regola, per tutte le cause civili o commerciali. È da notare, peraltro, che alcune delle ricordate disposizioni, in specie quelle concernenti l'istruzione della causa (articoli 401-404) e l'esecuzione provvisoria delle sentenze (art. 409), hanno conservato vigore. Esse, insieme con altre, concernenti la materia commerciale, contenute nello stesso codice di procedura civile e nel codice di commercio, costituiscono, allo stato della nostra legislazione, quel complesso di norme che devono osservarsi nelle cause commerciali, anche se non esiste più alcuna differenza in rapporto all'organo giurisdizionale che deve deciderle. L'abolizione dei tribunali di commercio non è particolare alla legislazione italiana. Essi sono stati soppressi anche in Inghilterra a seguito della riforma del 1893; mentre in Germania l'ordinamento giudiziario del 1898 dà soltanto facoltà al governo di istituire camere per le cause commerciali, quando se ne riconosca il bisogno. I tribunali di commercio, invece, sono stati conservati in Austria (ordinamento giudiziario del 1895), e in Francia (cod. di comm. art. 615 segg., e successive modificazioni).
Bibl.: Oltre ai trattati di diritto processuale civile, cfr. L. Franchi, Sulla giurisdizione mercantile in Italia, in Arch. giur., XXXVI; A. Olivieri, Tribunale di commercio, in Digesto italiano, XXIII.
Tribunale penale. - L'organizzazione della giustizia penale, completamente distinta dall'organizzazione della giustizia civile, fu regola quasi assoluta, specie nei paesi d'Europa, fino alla pubblicazione dei codici napoleonici; dopo quest'epoca, i collegi giudiziarî e le corti quasi dappertutto ebbero, nella loro maggioranza, competenza promiscua penale e civile.
La competenza del tribunale, per le materie penali, è intermedia, giacché, ai termini degli articoli 29, 30 e 31 del cod. di proc. pen. appartiene al tribunale la cognizione di tutti i reati che non siano di competenza dei pretori, o delle corti di assise o di magistratura speciale. Appartiene perciò al tribunale la cognizione, in primo grado, della generalità dei reati, commessi entro il territorio della sua giurisdizione, eccettuati: a) i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, ovvero una pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva, non superiore nel massimo alle lire diecimila, i quali sono di competenza del pretore; b) i delitti per i quali la legge stabilisce la pena di morte o dell'ergastolo, ovvero la reclusione non inferiore nel minimo agli otto anni o nel massimo ai dodici anni, i quali sono di competenza della Corte d'assise; c) i reati (delitti e contravvenzioni), la cui cognizione è attribuita al tribunale speciale per la difesa dello stato (leggi 25 novembre 1926, n. 2008 e 4 giugno 1931, n. 674); al tribunale dei minorenni (r. decr.-legge 20 luglio 1934, n. 1404 e r. decr. 20 settembre 1934, n. 1579) o a magistrature penali speciali.
È notevole l'innovazione introdotta dal vigente codice di proc. pen. per quanto concerne la competenza per materia. E, cioè, è stato in via generale abbandonato il criterio della cosiddetta "competenza qualitativa", in ragione del titolo del reato (art. 14 seg. del cod. di proc. pen. del 1913), e la competenza per materia è stata distribuita in ragione dell'entità (specie o qualità) della pena. Il criterio della competenza qualitativa è stato mantenuto soltanto in alcune leggi speciali: così, per quanto riguarda la competenza del tribunale speciale per la difesa dello stato; per i reati di carattere finanziario, ecc.
Le regole sulla competenza per materia possono avere modificazioni: a) per effetto della connessione di un reato a un altro (art. 45 e seg. cod. proc. pen.); b) per effetto della norma di cui al capoverso dell'art. 31 del cod. di proc. pen., per il quale il procuratore del re, con provvedimento insindacabile, può disporre, finché non sia aperto il dibattimento su un qualsiasi procedimento penale, di competenza del pretore, la rimessione del procedimento stesso dal pretore al tribunale. Questo istituto della rimessione è stato introdotto in conseguenza dell'accresciuta competenza del pretore, come correttivo dell'accrescimento medesimo. E, per effetto dello stesso accrescimento, è stata abolita la competenza prorogata del pretore stabilita dal codice del 1913.
Il tribunale penale attua la sua potestà giurisdizionale nel doppio grado; e, cioè: a) di prima cognizione per i reati di propria competenza per materia e per territorio; b) di appello, per i reati di competenza del pretore e per i quali il pretore stesso non abbia la facoltà di decidere inappellabilmente (art. 512 cod. proc. pen.).
A sua volta per i reati di competenza del tribunale e per i quali il tribunale stesso non abbia la facoltà di decidere inapellabilmente, giudicano in grado di appello le sezioni penali della Corte d'appello (art. 513 cod. proc. pen.).
Le norme che riguardano il procedimento davanti il tribunale penale sono, nelle grandi linee, analoghe a quelle che regolano i procedimenti penali in genere.
Sono soggetti principali del rapporto processuale, che si istituisce innanzi ai tribunali penali, il giudice collegiale (cioè, un collegio composto di tre magistrati togati dei quali uno funge da presidente), il Pubblico Ministero e l'imputato, contro il quale si può procedere anche se contumace (art. 497 seg. cod. pr. pen.). Sono soggetti secondarî: la parte civile, il responsabile civile, la persona civilmente obbligata per l'ammenda.
La parte civile e il responsabile civile intervengono nel rapporto processuale come parti della causa civile connessa con il processo penale. Questi soggetti agiscono, perciò, nel loro interesse privato; pertanto il loro intervento nel rapporto processuale è solamente eventuale; e, per la parte civile, è anche facoltativo. Si noti che si deve parlare, per il rapporto processuale penale, di soggetti e non di parti, giacché nel rapporto medesimo il giudice, specialmente, non si può considerare come parte, nel senso tecnico che a questo termine si attribuisce nel processo civile. Vi sono, infine, altre persone che nel processo prestano funzioni di assistenza obbligatoria dei soggetti del rapporto processuale (cancelliere, ufficiale giudiziario, difensore, interpreti) e altri che hanno l'obbligo di prestarsi per l'assunzione dei mezzi di prova (testimonî, periti, ecc.).
Tutte le magistrature, che hanno competenza penale ordinaria, sono collegiali, eccettuate le preture. Per il tribunale penale, in modo analogo a quanto avviene per gli altri collegi giudiziarî, la sentenza è deliberata senza la presenza del pubblico, delle parti, del Pubblico Ministero e del cancelliere. La sentenza è decisa a maggioranza dei componenti del collegio, e in essa non si fa menzione se la decisione sia stata adottata all'unanimità di voti o a semplice maggioranza. La votazione è segreta. Comincia a votare il giudice meno anziano; il presidente vota per ultimo. Dopo la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La sentenza è pubblicata, immediatamente dopo che sia stata votata dal collegio, mediante la lettura (di regola, in udienza pubblica) del dispositivo da parte del presidente. Dopo la lettura, il dispositivo viene passato al giudice che deve stendere i motivi della decisione (art. 472 seg. cod. proc. pen.; art. 261 seg. reg. gen. giud. del 14 dicembre 1865, n. 2641).
Bibl.: G. Marconi e A. Marongiu, La procedura pen. ital., Milano 1930; V. Manzini, Trattato di dir. proc. pen., Torino 1930; id., Istituzioni di dir. proc. pen. secondo il nuovo cod. di proc. pen., Padova 1931; R. Mangini, F. P. Gabrieli, M. Cosentino, Il codice di proc. pen. illustr. con i lavori prepar., Roma 1931; M. Pisciotti, Nuovo cod. di proc. pen. annotato, Milano 1931; G. Sabatini, Principi di dir. proc. pen. ital., Città di Castello 1931; id., Istituzioni di dir. proc. pen., Napoli 1933; F. P. Gabrieli, Esposizione dei principi direttivi e spiegazione pratica del nuovo cod. di proc. pen. italiano, in Giust. pen., 1931-1932, 1933; U. Aloisi, Manuale pratico di proc. pen., Milano 1932; U. Di Martino, Commento al nuovo cod. di proc. pen., ivi 1932; E. Florian, Principi di dir. proc. pen., 2a ed., Torino 1932; E. Massari, Il processo pen. nella nuova legisl. ital., Napoli 1932; A. Pozzolini, Le norme regol. la competenza per materia nel nuovo dir. proc. ital., in Studi in onore di Federico Cammeo, Padova 1933; G. B. De Mauro, Principi di diritto proc. penale, Roma 1933; A. Jannitti Piromallo, Illustrazione pratica dei cod. pen. e di proc. pen., VI e VII, 1933; id., Manuale legisl. per l'udienza penale secondo la legislazione fascista, 2a ed., Milano 1934.
Tribunale penale coloniale. - Nei territorî coloniali, in luogo dei tribunali metropolitani sono istituiti altri organi giurisdizionali. Nella Somalia Italiana, per i cittadini metropolitani italiani e stranieri, l'organo giurisdizionale corrispondente al tribunale penale è il giudice della colonia; per i sudditi coloniali e assimilati, hanno competenza, che corrisponde anche a quella del tribunale penale, i commissarî regionali, i cadi, i tribunali regionali (articoli 1, 2, 9, 10, 11, 17, 90-101, 107-111 del r. decr. 20 giugno 1935, n. 1638). Nella Colonia Eritrea, per i cittadini italiani e stranieri, è istituito il giudice della colonia; per i sudditi locali e assimilati i residenti e i tribunali di commissariato hanno competenze divise, che corrispondono a quella del tribunale penale (articoli 1, 2, 3, 14, 34, 42, 119-128 r. decr. 20 giugno 1935, n. 1649). Nella Libia, i tribunali e le giudicature hanno competenza corrispondente a quella dei tribunali metropolitani (articoli 2, 3, 10, 11, 17, 154-179 regio decr. 27 giugno 1935, n. 2167). Nei territorî dell'Africa Orientale Italiana già compresi nell'impero etiopico (r. decr. legge 10 giugno 1936, n. 1019, art.1) sono istituiti i tribunali penali di Addis Abeba e Harar, che funzionano dal 28 ottobre 1936 con giurisdizione sui territorî del governatorato di Addis Abeba e del governo di Harar: i tribunali giudicano in collegio composto del presidente e di due giudici; la loro competenza è determinata secondo le norme del codice di procedura penale (r. decr. 21 agosto 1936, n. 2010, articoli 6, 8, 13).
Tribunale penale militare. - Per dare un quadro completo dell'organizzazione della giustizia penale militare nel territorio dello stato, occorre distinguere il tempo di pace dal tempo di guerra.
La giurisdizione penale militare del tempo di pace è esercitata da tribunali militari territoriali e da tribunali militari marittimi. I tribunali militari territoriali comprendono nella loro giurisdizione uno o più comandi territoriali di corpo d'armata (attualmente sono sei con sede a Palermo, Napoli, Roma, Bologna, Torino e Trieste) e giudicano i reati previsti nel codice penale per l'esercito o in leggi speciali, commessi da militari dell'esercito e dagli altri corpi militari dello stato. Giudicano, inoltre, gli appartenenti a corpi civili militarmente ordinati, limitatamente ad alcuni reati (es., insubordinazione con vie di fatto; diserzione con asportazione di armi; disobbedienza, ammutinamento o rivolta; vendita o alienazione di oggetti di pertinenza dello stato). Giudicano, infine, i reati comuni commessi da militari, quando vi sia connessione subiettiva tra detti reati comuni e i reati militari, commessi dai medesimi; e giudicano altresì gli estranei alla milizia, quando concorrano con militari in reati militari e quando commettano reati comuni connessi con reati militari.
Il collegio è formato da un generale presidente, da tre giudici militari e da un giudice relatore (estensore della sentenza), tratto dal ruolo della magistratura militare, e giudica i militari fino al grado di capitano incluso, con diversa composizione ove il giudicabile sia un ufficiale. Il presidente è sempre un generale dell'esercito; quando si giudicano militari dell'aeronautica, della regia guardia di finanza o della milizia, interviene nel collegio un rappresentante di questi corpi.
I tribunali militari marittimi, che hanno sede a Taranto e a La Spezia, giudicano i reati militari commessi dai militari della regia marina fino al grado di tenente di vascello o equiparato e dei reati connessi, come fanno i tribunali militari per l'esercito. Sono composti da un presidente contrammiraglio o capitano di vascello, da tre giudici militari e da un giudice relatore. Le funzioni istruttorie presso i tribunali militari per l'esercito e i tribunali marittimi sono esercitate da giudici istruttori appartenenti al ruolo della magistratura militare. Presso ogni tribunale vi è l'ufficio del regio avvocato militare con i suoi sostituti, che esercitano le funzioni di Pubblico Ministero, gerarchicamente dipendente dal regio avvocato militare generale presso il supremo tribunale militare e rispettivamente dal ministro della Guerra e della Marina. Vi è inoltre un ufficio di cancelleria presso il tribunale e presso l'avvocato militare.
Per giudicare i reati commessi da ufficiali di grado dal maggiore in su occorre modificare il collegio in quanto non deve essere composto di elementi di pari grado del giudicabile, secondo particolari disposizioni.
La giurisdizione penale militare del tempo di guerra è esercitata dai tribunali di guerra di corpi d'armata e d'armata mobilitati, con giurisdizione personale su tutti i militari dell'armata e sui civili eventualmente assunti in servizî di guerra; dai tribunali d'intendenza con giurisdizione territoriale sulle retrovie dell'esercito operante e dai tribunali militari territoriali presso i corpi d'armata territoriali.
Eccezionalmente la giurisdizione penale è esercitata da tribunali straordinarî, che si costituiscono di volta in volta presso i reparti operanti per giudicare i reati punibili con la pena di morte; essi sono composti con ufficiali tratti dalle stesse truppe operanti.
Tribunale supremo militare. - Risiede in Roma ed è composto da un presidente con grado di generale di corpo d'armata, da sei membri di cui due militari e tre non militari, tratti dai consiglieri di stato o dai consiglieri di cassazione, e da un consigliere relatore (estensore della sentenza), appartenente al ruolo della magistratura militare. Presso il tribunale supremo è il r. avvocato generale militare col suo ufficio; esso esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il tribunale supremo. Il tribunale supremo giudica sui ricorsi avverso le sentenze dei tribunali militari territoriali del tempo di pace impugnate per motivi di diritto, non essendo consentito avverso le medesime l'appello. Contro le sentenze del tribunale supremo è ammesso ricorso alla Corte di cassazione a sezioni unite per gli stessi motivi per cui si può ricorrere in Cassazione contro le sentenze pronunziate dalla magistratura ordinaria (art. 528 cod. proc. pen.). Contro le sentenze dei tribunali di guerra non è ammesso ricorso al tribunale supremo militare, ma alla Corte di cassazione a sezioni unite nei casi stabiliti nel precitato art. 528.
In caso di proclamazione di stato d'assedio, si possono istituire tribunali di guerra nelle zone dichiarate in stato d'assedio. Nelle colonie sono istituiti tribunali militari con giurisdizione sulle truppe italiane, residenti in colonia e sulle truppe di colore. Nel caso di concentrazione di truppe fuori dei luoghi dove siedono i tribunali militari sia per un campo di esercizio (grandi manovre), sia per altre circostanze (epidemie, terremoti), possono stabilirsi con decreto reale presso il generale comandante delle truppe uno o più tribunali, che funzionano come gli altri tribunali, applicando la legge penale militare del tempo di pace (art. 311 cod. pen. per l'esercito).
La giurisdizione penale militare ha carattere di giurisdizione speciale rispetto a quella penale ordinaria; i tribunali straordinarî del tempo di guerra hanno carattere di giurisdizione eccezionale, sia rispetto alla giurisdizione penale ordinaria, sia rispetto alla giurisdizione speciale militare.
Bibl.: V. Manzini, Procedura penale militare, Milano 1916; id., Diritto penale militare, Padova 1922; G. Nappi, Trattato di diritto penale militare, Milano 1917; P. Vico, Diritto penale formale militare, in Enciclopedia del diritto penale italiano, parte 2a, ivi 1917; G. Ciardi, Diritto penale militare, Roma 1933-1934.
Tribunale per i minorenni. - Il primo esperimento di un organo giudiziario specializzato per giudicare dei reati commessi da minorenni si ebbe nel 1899, nello stato di Illinois con la Juvenile Lourt di Chicago che si diffuse poi negli stati dell'Unione Nordamericana. Si costituirono successivamente tribunali per minori in Inghilterra, nel Belgio, in Francia, nella Svizzera, in Russia, in Ungheria, in Spagna, in Austria, in Olanda, in Giappone, in Germania, in Svezia e in Grecia.
In Italia col r. decr.-legge 20 luglio 1934, n. 1404, in ogni sede di Corte d'appello o di sezione di Corte d'appello fu istituito il tribunale per i minorenni, composto da un magistrato, avente grado di consigliere di Corte d'appello, che lo presiede, da un magistrato avente grado di giudice, e da un cittadino benemerito dell'assistenza sociale, scelto fra cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale e pedagogia. Esso ha giurisdizione su tutto il territorio della Corte d'appello in cui è istituito, e presso lo stesso è un ufficio autonomo del pubblico ministero, con a capo un magistrato avente grado di sostituto procuratore del re o di sostituto procuratore generale di Corte d'appello. Sull'appello contro le decisioni di tale tribunale giudica una sezione della Corte d'appello che è indicata in ciascun anno giudiziario con decreto reale e che funziona con l'intervento di un privato cittadino, in sostituzione di uno dei magistrati della sezione, scelto anch'esso tra le persone sopra indicate.
I componenti privati sia del tribunale, sia della sezione di Corte d'appello per i minorenni sono nominati con decreto reale, su proposta del guardasigilli, e assumono rispettivamente il titolo di giudice del tribunale per i minorenni e di consigliere della sezione della Corte d'appello per i minorenni, indossando la toga prescritta per i giudici e i consiglieri di corte di appello. Essi, prima di assumere l'esercizio delle loro funzioni, prestano giuramento innanzi al primo presidente della Corte d'appello, durano in carica tre anni e possono essere confermati. La loro funzione è gratuita.
Le funzioni di giudice di sorveglianza per i minorenni e quelle di giudice delle tutele degli orfani di guerra sono esercitate da un magistrato ordinario del tribunale per minorenni.
Questo tribunale ha competenza penale, amministrativa e civile. In materia penale sono di sua competenza tutti i reati commessi dal minore degli anni 18, che secondo le leggi vigenti siano di competenza dell'autorità giudiziaria, eccetto il caso che nel procedimento siano coimputati maggiori degli anni 18, salva, in questo caso, la facoltà insindacabile di stralcio da parte del procuratore generale presso la Corte d'appello. Notevole è che sono deferiti alla competenza dei tribunali minorili anche i reati che sarebbero di competenza del pretore o della Corte d'assise, salva, in casi eccezionali, la facoltà del procuratore del re presso il tribunale dei minorenni di rimettere al pretore il procedimento per reati di competenza dello stesso.
Nei procedimenti penali a carico dei minori, speciali ricerche debbono essere rivolte ad accertare, senza formalità di procedura, i precedenti personali e familiari dell'imputato, sotto l'aspetto fisico, psichico, morale e ambientale. La difesa in tali procedimenti può essere esercitata solo da professionisti iscritti in un albo speciale. Per i reati di competenza del tribunale per i minorenni si procede sempre con istruzione sommaria e le sentenze di proscioglimento in sede istruttoria sono pronunziate dal tribunale stesso in camera di consiglio. Le udienze sono tenute a porte chiuse. Possono intervenirvi oltre gl'imputati, la persona offesa dal reato, i testimoni e i difensori, i prossimi congiunti dell'imputato, il tutore o il curatore dello stesso, il rappresentante del locale comitato di patronato dell'Opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia, nonché i rappresentanti di comitati per l'assistenza e la protezione dei minori.
La competenza amministrativa del tribunale dei minorenni si esplica nei riguardi dei minori traviati; allorché, infatti, un minore degli anni diciotto, per abitudini contratte, dia manifeste prove di traviamento e appaia bisognevole di correzione, il tribunale può affidarlo a una delle persone o istituti di assistenza sociale che si dichiarino disposti a provvedere all'educazione o all'assistenza dei minori sottoposti a libertà vigilata, oppure disporne l'internamento in un riformatorio per corrigendi e ordinarne poi la dimissione, quando lo ritenga non più bisognevole di correzione.
Al tribunale per i minorenni infine e al relativo presidente è rispettivamente attribuita la competenza civile che le leggi vigenti deferiscono al tribunale civile e al relativo presidente circa l'esercizio della patria potestà o della tutela, l'interdizione del minore, l'esercizio del commercio da parte dei minori, le deliberazioni dei consigli di famiglia e di tutela, l'ammissione nei manicomî degli alienati minori degli anni ventuno, e la relativa dimissione.
Il tribunale per minorenni non costituisce, dunque, un organo di giurisdizione speciale, ma un organo specializzato della giurisdizione ordinaria, che porta il suo esame sull'intima personalità del minore sottoposto al suo giudizio, emettendo nei suoi riguardi quei provvedimenti che più si adeguano a tale personalità.
Da notarsi, infine, che, a norma del citato decreto del 1934, il tribunale per i minorenni e la relativa sezione di corte d'appello debbono funzionare nello stesso edificio in cui si trova il centro di rieducazione dei minorenni costituito da un riformatorio giudiziario, un riformatorio per corrigendi, un carcere per minorenni di cui già innanzi si è fatto cenno, nonché un centro di osservazione per i minorenni.
Bibl.: S. Longhi, Per un codice della prevenzione criminale, Milano, 1922; M. De Arenaza, Memores abandonados y delinquentes. Legación y instituciones en Europa y América, Buenos Ayres 1931; Société des Nations, Les tribunaux pour enfants et les expériences faites jusque à ce jour, Ginevra 1932, p. 131; U. Conti, Tribunali per fanciulli, in Studi in memoria del prof. Pietro Rossi, 1932, p. 161; A. Ponzini Robecchi, Le leggi e l'assistenza per i minorenni delinquenti in alcuni stati d'Europa, in Riv. di dir. penitenziario, 1933, p. 829; A. Azara, Tribunale per i minorenni e giudice tutelare, in Echi e commenti, 1934, n. 27; id., Il giudice tutelare, in Studi in onore di M. d'Amelio, I, n. 26, p. 70; M. d'Amelio, La giustizia penale per i minorenni, in Corriere della sera, 1934, n. 217; G. Novelli, Note illustrative del r. decr. 20 luglio 1934, n. 1404, su l'istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni, Roma 1935; G. Delitala, Sulla competenza del tribunale pei minorenni, in Riv. di diritto penitenziario, 1935, p. 667; G. Mussafia, Competenza civile del tribunale dei minorenni, in Riv. di dir. process. civ., 1935, I, 267.
Tribunale consolare. - La giurisdizione consolare - eccezione al principio della territorialità della giurisdizione - è istituto d'origine italiana, nato con le grandi espansioni commerciali delle nostre città marinare nel Levante. La legge consolare del 28 gennaio 1866, n. 2084, e il relativo regolamento 7 giugno 1866, n. 2996, regolano fondamentalmente le attribuzioni giurisdizionali, che, tra le altre molteplici, sono demandate agli agenti consolari, per la tutela dei cittadini italiani all'estero. Nei paesi soggetti al regime delle capitolazioni si ha una piena giurisdizione consolare nelle controversie tra nazionali o in quelle nelle quali questi siano convenuti, ripartita fra i consoli e i tribunali consolari: i consoli giudicano inappellabilmente delle controversie il cui valore non ecceda le L. 500; al disopra di questo valore, giudica il tribunale consolare.
Il tribunale consolare è composto del console, o di chi ne fa le veci, e di due giudici scelti in una lista di persone residenti nel distretto consolare, che il console stesso forma al principio di ogni anno. Degli appelli dalle sentenze dei tribunali sedenti in Africa, escluso l'Egitto, conosce la Corte d'appello di Genova. Per l'appello delle sentenze dei tribunali sedenti in Egitto è competente la Corte d'appello di Roma; per l'appello dalle sentenze dei tribunali sedenti in altri paesi è competente la sezione autonoma di Corte d'appello istituita in Rodi (legge 2 giugno 1927, n. 847). Un particolare ordinamento giudiziario vige per i possedimenti dell'Egeo (vedi egeo, isole italiane dell': Ordinamento giudiziario, App.).
Bibl.: G. Diena, Principi di dir. internaz., Napoli 1908, I, p. 356 seg.
Tribunali misti. - S'indicano con questa denominazione alcuni organi giudiziarî istituiti in Egitto nel 1875, in virtù di accordi con le potenze europee, i cui giudici sono in parte egiziani e in parte europei. La giurisdizione mista è composta dei tre tribunali di primo grado, sedenti ad Alessandria, al Cairo e a Mansūrah, composti ciascuno di quattro giudici europei e tre egiziani; e di un tribunale d'appello, sedente ad Alessandria, composto di sette giudici europei e quattro egiziani. Questi tribunali pronunciano le loro sentenze in nome del re d'Egitto, applicano le norme per essi appositamente emanate dal governo egiziano, e contenute in codici speciali redatti sul modello di quelli europei, specialmente di quelli francesi. Sono pertanto tribunali egiziani, dipendenti dallo stato egiziano, operanti in nome di questo, e investiti della competenza e dei poteri che questo loro attribuisce. Ma lo stato egiziano a sua volta è obbligato verso le potenze europee, per i citati accordi del 1875, a istituire quei tribunali, ad assumere come loro giudici gli europei designati dalle potenze europee e ad attribuire loro una certa competenza. Si tratta, in altre parole, di un obbligo internazionale dello stato egiziano di avere dati tribunali, in un dato modo composti e investiti di una data competenza.
I tribunali misti giudicano delle controversie civili e commerciali fra stranieri e indigeni e fra stranieri di diversa nazionalità, fatta eccezione per le materie riguardanti lo statuto personale, cioè i rapporti di stato e capacità, i diritti di famiglia, le azioni mobiliari. Per le azioni immobiliari, invece, giudicano anche di quelle fra stranieri della medesima nazionalità. Infine giudicano delle contestazioni fra stranieri e il capo dello stato o i membri della sua famiglia o l'amministrazione statale.
In materia penale giudicano delle contravvenzioni commesse da stranieri, dei reati di bancarotta e degli altri reati commessi in occasione di un fallimento che cada sotto la giurisdizione mista, secondo le regole esposte a proposito della competenza in materia commerciale. Inoltre giudicano dei reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni dai magistrati dei tribunali misti, e dei reati commessi contro questi magistrati a causa delle loro funzioni.
Bibl.: D. Anzilotti, Natura giuridica dei tribunali misti d'Egitto, in riv. di diritto internazionale, 1907, pp. 251-68; G. Piola Caselli, Appunti critici intorno ai tribunali misti d'Egitto, in Giurisprudenza italiana, 1910, parte 4a, p. 189; J. Brinton, The mixed Courts of Egypt, in American Journal of international law, 1926, pp. 670-88; Th. Heylingers, L'organisation des Tribunaux mixtes d'Égypte, in Rec. des Cours de l'Académie de droit international, II (1927); G. Dykmans, Le statut contemporain des étrangers en Égypte, Parigi 1933.
Tribunali delle prede. - La possibilità concessa a ciascun belligerante d'impadronirsi della proprietà nemica in mare, e inoltre di certe navi neutrali e di certe merci che su esse si trovino, ha fatto istituire speciali organi, detti appunto tribunali delle prede, incaricati di accertare se le prede compiute dalle autorità militari marittime siano o meno legittime: cioè, se da queste sia stata predata solo quella proprietà, nemica o neutrale, che era soggetta a cattura secondo le norme internazionali e secondo le norme vigenti nell'interno dello stato, e se la cattura sia avvenuta nel modo voluto dalle stesse norme.
L'istituzione di questi organi è assai antica, e rimonta al sec. XIV. Da principio furono creati principalmente per porre un freno agli abusi delle navi corsare, che spesso catturavano illegittimamente anche navi che non erano catturabili, e per le quali un controllo da parte dello stato era quanto mai necessario. Ma l'istituto dei tribunali delle prede prosperò e continuò, anche quando la guerra marittima venne dagli stati condotta esclusivamente per mezzo delle proprie navi da guerra, senza più ricorrere all'aiuto delle navi private armate in corsa. Specialmente la possibilità di catturare anche navi neutrali dà origine a situazioni così delicate e complesse, che un controllo da parte di organi diversi da quelli militari ha continuato a essere opportuno; e l'obbligo che il diritto internazionale fa agli stati belligeranti di istituire i tribunali delle prede, è sempre adempiuto.
Notevolissime divergenze s'incontrano nelle varie legislazioni interne quanto al modo di regolare i tribunali delle prede. In alcuni stati sono veri e proprî organi giurisdizionali; in altri, come in Italia, organi amministrativi. In ogni caso il giudizio si svolge in contradditorio con l'interessato: cioè, col cittadino neutrale o nemico proprietario della nave o della merce predata; di solito è ammesso l'appello a un'autorità superiore. All'infuori di queste, le altre norme di procedura sono in gran parte diverse da quelle che si seguono dinnanzi agli altri organi giurisdizionali o del contenzioso amministrativo, e di gran lunga più favorevoli allo stato. In Italia i tribunali delle prede furono regolati dal regio decreto 16 agosto 1896; in seguito dal r. decreto 13 ottobre 1911 e dal decreto luogotenenziale 30 maggio 1915.
I tribunali delle prede sono organi interni, proprî dello stato che li istituisce; per mezzo loro lo stato cura spontaneamente e per conto proprio la regolarità e la legittimità dell'operato dei suoi organi belligeranti. Detti tribunali non decidono le controversie tra un belligerante e gli altri belligeranti o i neutrali. Per risolvere queste ultime questioni, la conferenza dell'Aia del 1907 preparò il testo di una convenzione avente per fine la costituzione di una Corte internazionale delle prede. Ma questa convenzione non venne mai ratificata da nessuno stato, e non fu mai obbligatoria.
V. anche corte: La corte internazionale delle prede; preda marittima.
Bibl.: Ch. Ozanam, La juridiction internationale des prises maritimes, Parigi 1910; A. Cavaglieri, La natura giuridica della Corte internazionale delle prede, in Riv. di diritto internazionale, 1913, pp. 121 segg., 301 segg.; J. W. Hard, Prize Court practice and procedure, Londra 1914; J. M. Verziajl, Le droit des prises de la grande guerre, Leida 1924.
Tribunale ecclesiastico. - Secondo la dottrina cattolica, la Chiesa fu dotata dal suo divino fondatore della potestà giudiziaria, e per la trattazione delle cause contenziose e criminali dei suoi sudditi ha i suoi tribunali speciali. Nella disciplina vigente dopo la promulgazione del nuovo codice di diritto canonico (1918), i tribunali ecclesiastici o sono ordinarî, ossia costituiti in permanenza, oppure straordinarî, cioè costituiti in via eccezionale per qualche causa speciale. Ogni diocesi è sede del tribunale di 1a istanza; quello di 2a istanza si trova nella sede metropolitana; e la S. Rota Romana è in certi casi il tribunale di 3a istanza. Sopra tutti questi si trova la Segnatura apostolica, che per certi aspetti può paragonarsi alla Corte suprema di cassazione. L'ordine normale che una causa deve seguire è il precedente; tuttavia è sempre lecito a ogni fedele, fin dalla 1a istanza e in qualsiasi punto, deferire la sua causa direttamente al papa; anzi talune cause sono per legge sottratte alla competenza dei tribunali diocesani, e riservate o al papa stesso o ai tribunali della S. Sede.
Giudice nato nel tribunale diocesano è il vescovo; egli però, in via normale, deve farsi sostituire da un officiale che sentenzia in suo nome. Inoltre deve nominare altri giudici, detti "sinodali" se nominati nel sinodo diocesano, e "prosinodali" se fuori di esso, tra i quali sono scelti i giudici quando una causa debba essere trattata non da un giudice solo, ma da un collegio di tre o più giudici. Soltanto i sacerdoti possono essere giudici nel tribunale ecclesiastico; sono esclusi i laici, perché incapaci di ricevere giurisdizione ecclesiastica; questi però possono fungere da avvocati delle parti. Il personale del tribunale ecclesiastico, oltre che dal giudice, è costituito dagli "assessori", ossia giudici consulenti; dagli "uditori", a cui è affidata l'istruzione del processo; dal "notaio", che redige e firma gli atti processuali; dal "promotore di giustizia", nelle cause interessanti il bene pubblico, e dal "difensore del vincolo", nelle cause di matrimonio e di sacra ordinazione.
La procedura da seguirsi per le varie cause e presso i diversi tribunali è determinata nel Libro IV del codice canonico, e specialmente dal tit. 3° in seguito; mentre nel tit. 1° viene stabilita la competenza dei singoli tribunali. Questi soli possono trattare le cause in via giudiziaria; le sacre congregazioni possono trattarle solo in via disciplinare, eccettuata la S. Congregazione dei sacramenti per talune cause matrimoniali e dei sacri ordini, e il S. Uffizio, che ha potestà giudiziaria esclusiva su alcuni delitti riguardanti la fede e la morale, e nella trattazione di tali cause segue una procedura sua propria.
Bibl.: M. Lega, De judiciis ecclesiasticis, Roma 1905; Roberti, De processibus, ivi 1926; Wernz-Vidal, Jus Canonicum, VI, De processibus, ivi 1928.
L'edificio dei tribunali.
Gli edifici destinati a tribunali ebbero in ogni tempo notevole importanza architettonica, non solo in virtù della loro destinazione e delle loro speciali esigenze, ma soprattutto perché si è sempre seguito il concetto di accogliere la maestà della giustizia in edifici che esprimessero tutta la solennità di questo principio.
Il palazzo dei tribunali o di giustizia così come lo intendiamo modernamente, risale ad epoca relativamente prossima a noi.
Esso varia nella sua distribuzione interna e nelle forme dispositive nei diversi paesi, a seconda dell'ordinamento giudiziario vigente in ciascuno di essi. In tesi generale possiamo però affermare che esso è destinato ad accogliere gli organi della giustizia penale e civile; quelli della giustizia amministrativa, militare, ecc., si dispongono quasi sempre in sedi separate.
Il palazzo di giustizia possiamo inoltre considerarlo - sempre in tesi generale - composto di due grandi gruppi di ambienti con funzioni nettamente distinte: uno costituito da normali uffici (non diverso nella conformazione da quelli che sono comunemente i fabbricati destinati a tale uso), e un gruppo, il più importante, costituito da un numero più o meno grande di speciali unità, formate ciascuna di un notevole complesso organico di ambienti che si aggruppano intorno a quello che fra essi è il più importante: l'aula delle udienze. Ciascuna di queste unità ha una funzione indipendente dalle altre e costituisce quasi un organismo a sé stante. Il raggruppamento di questi organismi in un edificio unico, nel quale debbono inoltre trovar posto tutta la serie degli uffici, e gli ambienti numerosi destinati al pubblico, agli avvocati, agli ufficiali giudiziarî, e al funzionamento di complessi servizî, costituisce un problema architettonico e distributivo di non semplice soluzione.
Prima però di esaminare nei particolari tale problema, è opportuno indicare la costituzione di quello che abbiamo chiamato l'organismo dell'aula di udienza. Intorno a questa aula si svolgono, come si è detto, varî gruppi di ambienti destinati a funzioni diverse, gruppi che pur dovendo essere fra loro a contatto, debbono tuttavia non intralciarsi reciprocamente, in modo che le varie funzioni si possano svolgere in ciascuno liberamente.
Prima di ogni altra cosa è da notare che le udienze sono pubbliche e che quindi le aule debbono essere in diretta comunicazione con i rispettivi atrî, sempre molto ampî, o con una sala comune a più aule di udienza. Gli accessi del pubblico debbono essere ampî e facili e soprattutto facilmente sorvegliabili.
È necessario provvedere alle stanze dei testimoni dovendo essi rimanere appartati durante lo svolgersi del dibattimento; vi debbono essere gli ambienti per il presidente, per il Pubblico Ministero, per i giudici, ecc.; la camera di consiglio dove il tribunale delibera, e infine i necessarî locali di servizio (anticamere, gabinetti, guardaroba, ecc.).
Nelle corti d'assise e nei paesi dove esiste la giuria popolare, agli ambienti suddetti si devono aggiungere quelli destinati ai giurati e, in Italia, agli assessori. Infine occorrono le stanze per gli ufficiali giudiziarî e per gli avvocati. Nei tribunali penali sono inoltre necessarî quelle per gli accusati che si trovano in stato di arresto e per gli agenti addetti alla loro custodia.
La disposizione di tutti questi locali che debbono essere a immediato contatto della sala di udienza, è in generale la seguente: a una delle estremità del pretorio, verso l'atrio, si raggruppano gli ambienti destinati al pubblico, ai testimoni, agli avvocati, ecc. All'altra estremità, quelli riservati al presidente e ai giudici; ambienti che debbono essere al riparo da ogni indiscrezione e nettamente separati da quelle che possiamo chiamare le linee della circolazione generale dell'edificio.
Verso la medesima estremità si dispongono, nel tribunale penale, gli ambienti di sosta dei detenuti e degli agenti, in modo da formare, anche con questi ambienti, un nucleo assolutamente separato con accesso indipendente da ogni altro e con linee di circolazione tali da non doversi in nessun modo incrociare con nessuna delle altre linee di circolazione del fabbricato. L'organismo distributivo che abbiamo esaminato possiamo quindi considerarlo composto di un elemento centrale - sala delle udienze - intorno al quale vanno disposti tre gruppi di ambienti fra loro separati: quelli cioè destinati rispettivamente al pubblico, ai magistrati e ai detenuti. Difficile si presenta la soluzione del problema distributivo di questi ambienti, che si è costretti a raggruppare in modo artificioso intorno a uno spazio relativamente ristretto. Nelle figure fuori testo è riprodotto un esempio di questo schema dispositivo e il particolare di una sala di udienza. Quest'ultima deve anzitutto essere proporzionata al numero dei giudici e alla quantità di pubblico che normalmente vi accede; sotto questo riguardo le aule dei tribunali penali debbono avere dimensioni notevolmente maggiori di quelle dei tribunali civili. L'aula deve essere di forma regolare (quasi sempre rettangolare) e vi si debbono realizzare ottime condizioni acustiche e d'illuminazione. Questa è preferibile venga effettuata anziché con lucernari, per mezzo di finestre, situate nella parete opposta al banco degli accusati in modo che i raggi luminosi li investano in pieno e sia possibile osservare ogni movimento della loro fisionomia.
Ad eccezione delle grandi aule per le corti di assise e della Cassazione, si assegna a quelle ordinarie una larghezza di circa 10-12 metri e una lunghezza di circa il doppio.
Il programma distributivo del palazzo è quanto mai vario, a seconda dell'importanza della sede. Può comprendere la sola pretura; può oltre questa comprendere il tribunale civile e penale, la Corte d'appello e infine la Corte di cassazione.
Ciascuna di queste giurisdizioni può essere composta di varie sezioni a ciascuna delle quali deve essere assegnata un'aula di udienza con i relativi ambienti annessi.
Nel caso di un palazzo con molte aule, lo schema planimetrico può risultare complicatissimo; nelle figure fuori testo ne indichiamo alcuni, ricordando che generalmente vengono preferiti quelli che non hanno le aule di udienza situate lungo il filo stradale. Qualunque sia lo schema planimetrico prescelto, è norma tassativa di evitare disposizioni complicate e labirinti di corridoi e gallerie nei quali il pubblico facilmente si sperde. È assolutamente necessaria la massima semplicità, la netta divisione dei diversi organismi e l'evidenza per il pubblico della distribuzione generale.
Un palazzo di giustizia comprende, oltre agli organismi che abbiamo chiamato aule di udienza, e gli altri già indicati, le diverse cancellerie con i relativi archivî, uffici e servizî per ogni giurisdizione, gli uffici di istruzione e della procura del re, il casellario giudiziario. Vi sono infine i varî gruppi di ambienti per i servizî ausiliarî, quali a esempio per il consiglio dell'ordine degli avvocati (in Italia sindacato), per la biblioteca e molti altri che è superfluo elencare.
Nella moderna produzione architettonica talvolta questi edifici, in cui si sono voluti riunire tutti gli organi dell'amministrazione della giustizia, hanno assunto enorme ampiezza e alta monumentalità, come per il Palazzo di giustizia di Roma costruito sullo scorcio del secolo passato dall'arch. Calderini e per quello di Bruxelles, quasi contemporaneo, dell'arch. Polaert. Quest'ultimo è caratterizzato da un'enorme sala centrale coronata da un'altissima cupola, mentre nel primo i varî reparti si aggruppano intorno alla corte di onore e agli altri cortili minori.
Bibl.: L. Cloquet, Traité d'architecture, IV, Parigi 1922; J. Guadet, Éléments et théorie de l'Architecture, II, ivi; V. Oppermann, in Nouv. Ann. de la Construction, XV, p. 25; G. Calderini, Il palazzo di Giustizia a Roma, Roma. Vedi anche Rivista d'architettura e arti decorative, 1925 seg.; L'Ingegnere, 1935, n. 8; Moniteur des Architectes, 1868-75-76-78; Revue générale de l'architecture, 1865-67; Construction moderne, 1888-94.