Tribunali internazionali
Sovranità nazionale e giustizia sovranazionale
Basi giuridiche e incidenza delle Corti penali internazionali
di Giovanni Conso
28 giugno
L'ex presidente iugoslavo Slobodan Milosevic, che si trovava in stato di arresto a Belgrado dal 1° aprile, è consegnato dalle autorità serbe al Tribunale penale internazionale dell'Aia, per essere processato per crimini di guerra e contro l'umanità. Milosevic viene, così, trasferito nel carcere di Scheveningen, dove sono detenuti altri presunti criminali di guerra iugoslavi sotto processo all'Aia.
Premesse definitorie
Le concitate vicende, che hanno condotto dapprima all'arresto dell'ex premier iugoslavo Slobodan Milosevic nella sua residenza belgradese e poi, dopo il lento avvio di un processo in ambito giudiziario serbo, al suo trasferimento manu militari nel carcere 'internazionale' di Scheveningen, sono note a tutti. Qui preme portare l'attenzione sul conseguente, immediato inizio, davanti al Tribunale internazionale dell'Aia, della procedura, da tempo sollecitata nei confronti di Milosevic, per fatti perpetrati in Kosovo durante il 1999, essendo stato subito vigorosamente riproposto, e non soltanto dall'imputato, il problema della legittimazione e, quindi, della base giuridica di questo Tribunale.
L'attualità della contestazione e il clamore che l'ha inevitabilmente accompagnata non devono, peraltro, far dimenticare, in primo luogo, che il Tribunale dell'Aia dal 1995 a oggi ha già avuto modo di celebrare un certo numero di processi, in taluni casi anche concludendoli definitivamente, e, in secondo luogo, che non siamo al cospetto dell'unico tribunale penale internazionale fin qui concretamente sperimentato. Si impone, perciò, una prospettazione di ben altro respiro, che tenga in conto, oltre alla presente fenomenologia, tutte le più o meno lontane esperienze precedenti e, insieme, quanto è in fase di più o meno avanzato divenire. Sempre restando fermo, si intende, che il dover parlare di basi giuridiche (il plurale trova la sua spiegazione non nell'eventualità che una legittimazione possa avere più basi, quanto proprio nel fatto che i tribunali penali internazionali sinora configurati sono più d'uno, e con matrici non sempre corrispondenti) comporta che si prescinda qui dalle valutazioni di ordine politico, etico e sociologico, inevitabilmente effettuate a livello istituzionale, prima di passare alla costruzione giuridica, altrimenti non giustificata.
L'unica premessa ineludibile per un discorso più complesso resta, pertanto, quella legata al concetto di tribunali penali internazionali, onde chiedersi che cosa si debba intendere o, per dirla meno perentoriamente, che cosa si intenda per tribunali penali internazionali. La risposta può essere facilitata da alcune precisazioni di ordine terminologico, relative rispettivamente al sostantivo 'tribunale', all'aggettivo 'penale' e infine all'aggettivo 'internazionale'.
Cominciando dalle prime due espressioni (la seconda delle quali conduce automaticamente a lasciare da parte tutti quegli altri, talora ancora più risalenti, tribunali internazionali non chiamati a giudicare reati e infliggere sanzioni di natura penale, pur avendo essi un peso rilevante nella storia e nella contemporaneità del diritto internazionale), va subito detto che ci si trova di fronte ad altrettante infelici traduzioni italiane delle rispettive formulazioni originarie proprie sia della lingua inglese sia della lingua francese. La perfetta corrispondenza tra l'International Criminal Court e la Cour Criminelle Internationale delle due versioni cui è riconosciuta ufficialità universale avrebbe dovuto condurre ad adottare in Italia la formula 'Corte criminale', e ciò non solo per rispetto della puntualità lessicale, ma anche e soprattutto per la conseguente ben maggiore aderenza al compito che gli organi giurisdizionali in questione sono tenuti a esercitare. La loro ragione d'essere è, invero, tutta racchiusa nell'estrema gravità dei fatti che, con la ricaduta internazionale della loro efferatezza, inducono la comunità mondiale a esigerne in modo assoluto e pubblicizzato al massimo la concreta perseguibilità: 'crimini', dunque, dai crimini di guerra ai crimini contro l'umanità, e non i delitti comuni né tanto meno le semplici contravvenzioni, tipiche parti gli uni e le altre di quel settore dell'ordinamento giuridico etichettato come diritto penale. Una significativa conferma del riverbero, che la gravità e, quindi, la delicatezza dei fatti vengono a esercitare sull'individuazione dell'organo chiamato a giudicarli, si ritrova nella stessa strutturazione degli organi giudiziari nazionali, dove al tribunale si contrappone la corte d'assise (per non parlare della Corte costituzionale, competente unica per i reati presidenziali e, fino al 1993, anche per i reati ministeriali).
Il concetto di internazionalità
Più complessa, ma, al tempo stesso, più carica di contenuti si rivela la terza e ultima precisazione di ordine terminologico, quella relativa all'aggettivo 'internazionale'. Se è, infatti, chiaro che, considerato in un'ottica semplicemente negativa, tale aggettivo sta a sottintendere un'antitesi ai tribunali penali nazionali, tipica estrinsecazione a livello giurisdizionale della sovranità propria di ogni singolo Stato, non altrettanto agevole si rivela l'operazione concettuale volta a coglierne la fisionomia in ottica positiva. La ragione è molto semplice: gli organi di giustizia penale non strettamente nazionali che le drammatiche esperienze del 20° secolo hanno messo in moto non sono plurimi soltanto nel numero, ma anche nella conformazione istitutiva, estremamente variegata.
Per meglio cogliere la vera essenza dell''internazionalità' e per rendere più chiaro il discorso, si deve prescindere, anzitutto, dalle ipotesi in cui - conformemente a una tradizione tanto risalente quanto diffusa, che induce molti legislatori a contemplare anche la punibilità di reati commessi all'estero - il processo penale si svolge davanti a giudici di uno Stato diverso da quello ove il reato è stato commesso. Infatti, con questa sorta di autoinvestitura si rimane pur sempre di fronte a un tribunale interno, anche se proiettato all'esterno dei suoi confini, com'è accaduto in Belgio nei confronti dei quattro imputati (fra cui due suore) condannati nel giugno 2001 per crimini di guerra commessi in Ruanda nel 1994 e come vanamente si è tentato di fare in Spagna nei confronti dei misfatti commessi dal generale Pinochet a danno di numerosi cittadini spagnoli.
Per motivi in parte analoghi non rientrano nel contesto dei tribunali internazionali veri e propri le ipotesi nelle quali intese internazionali, assunte specialmente nell'ambito dei trattati di pace, demandano la cognizione di determinati comportamenti criminosi a tribunali (in particolare, militari) degli Stati cui appartengono, o più spesso appartenevano, le vittime di quei comportamenti. Così è avvenuto nel primo dopoguerra del secolo scorso quando - era il 28 giugno 1919 - con gli artt. 228 e 229 del Trattato di Versailles il governo tedesco riconosceva alle vittoriose Potenze Alleate e Associate il diritto, peraltro poi non esercitato, di "tradurre innanzi a loro tribunali militari i soggetti accusati di aver commesso atti in violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra". Con una particolarità degna della massima considerazione: mentre i soggetti "colpevoli di atti criminali contro i cittadini di una delle Potenze Alleate e Associate sarebbero stati tradotti innanzi ai tribunali militari di tale Potenza", chiaramente tribunali interni, i soggetti "colpevoli di atti criminali contro i cittadini di più Potenze Alleate e Associate sarebbero stati tradotti innanzi a tribunali militari composti da membri dei tribunali militari delle Potenze interessate" e, quindi, a struttura mista da concretizzare di volta in volta. Tale duplice modello veniva recepito poco dopo, quasi alla lettera, nel Trattato di pace firmato a Sèvres il 10 agosto 1920 fra le Potenze Alleate e Associate e la Turchia, ma anche qui senza trovare applicazione concreta per la sua sopraggiunta sostituzione con il nuovo Trattato di pace firmato a Losanna il 24 luglio 1923 unitamente a una dichiarazione di amnistia per i crimini commessi fra il 1° agosto 1914 e il 20 novembre 1922 - compreso il massacro degli armeni - su territorio turco (nonché su territorio ellenico) in connessione con gli avvenimenti militari o politici verificatisi durante quel periodo. Quanto al secondo dopoguerra, le Potenze Alleate e Associate vittoriose hanno, d'intesa, dato spazio ai loro tribunali militari, consentendo loro di perseguire nei territori già occupati dalle forze armate italo-tedesche un certo numero di persone accusate di avere commesso od ordinato crimini di guerra e contro la pace o l'umanità.
Aspetti più avanzati sul piano dell'internazionalità, pur sempre rimanendo nell'ambito dei tribunali statali, emergono da alcune recenti vicende suscitatrici di ben comprensibili clamori. Prima fra tutte, quella avente a oggetto la strage aerea di Lockerbie, località della tragedia in territorio scozzese: previa una lungamente ricercata e faticosamente raggiunta intesa con la Libia, Stato di appartenenza dei due funzionari governativi emersi dalle indagini come presunti responsabili (uno solo poi condannato in primo grado), il processo ha potuto avere luogo davanti a una corte, sì scozzese, ma convocata a Camp Zeist, località olandese munita di extraterritorialità. Benché meno note, ancor più incisive quanto a rappresentatività internazionale, pur nel rispetto del ruolo della giurisdizione nazionale interessata, si rivelano le esperienze in atto a Timor Est (una speciale sezione del tribunale vi è stata creata dall'ONU con componenti stranieri per perseguire i crimini commessi nell'isola da seguaci di Suharto) o in Cambogia (uno speciale tribunale, formato da magistrati cambogiani e da magistrati designati dall'ONU a integrazione dell'organo, verrà insediato a Phnom Penh per giudicare i leader dei Khmer rossi delle atrocità commesse dal 1975 al 1979 sotto il regime di Pol Pot).
Così circoscritto, esclusione dopo esclusione, l'ambito in cui vengono a trovare la loro collocazione i tribunali internazionali veri e propri - caratterizzati, dunque, dalla separatezza, anzi dall'estraneità più assoluta, quanto a meccanismi istitutivi e modelli compositivi, rispetto alle giurisdizioni nazionali o paranazionali - si può finalmente tentarne una definizione non troppo approssimativa. Per esempio, questa: deve trattarsi di organismi giurisdizionali del tutto nuovi, creati appositamente, in grado di avere una ricaduta su una, più o meno ampia, pluralità di ordinamenti nazionali, essendo chiamati a giudicare ben determinate categorie di crimini secondo procedure accuratamente prestabilite da uno Statuto istitutivo, che non può mai prescindere dal far partecipare al giudizio rappresentanti
di un consistente numero di Stati, seguendo le indicazioni fornite dallo Statuto stesso.
L'internazionalità che caratterizza organismi del genere rispetto alle esperienze ricordate in precedenza sta, appunto, in questo dosaggio, che ne comporta l'appartenenza a un'entità al di sopra degli Stati che la compongono, sia essa un'aggregazione occasionale di Stati protagonisti di una guerra vittoriosa oppure un'organizzazione stabile come l'ONU. Ne discende che in tal modo ci si viene a trovare di fronte a organi, più ancora che internazionali, addirittura sovranazionali, il che conferisce un'importanza particolare alla relativa fenomenologia, rendendo al tempo stesso più delicata l'analisi da dedicare alla legittimazione di questi tribunali e più rilevante l'analisi da dedicare alla portata delle conseguenze del loro operare.
Non resta ormai che concretizzare il discorso, tracciando una rapida storia dei tribunali penali internazionali o, meglio, una storia intessuta anche di cronaca, e oltre, data la necessità di guardare sia a passato sia a presente e futuro, in quanto, accanto a tribunali il cui ruolo si è ormai, e da tempo, esaurito, ve ne sono due in piena attività e un terzo in attesa del completamento delle operazioni richieste per la sua entrata in funzione. Le differenze, tutt'altro che lievi, riscontrabili con riguardo alle rispettive basi giuridiche rendono opportuna una suddivisione del discorso in tre parti (passato, presente, futuro).
Il passato dei tribunali penali internazionali
Il 'passato' dei tribunali penali internazionali trova il suo punto di partenza in una fondamentale disposizione del Trattato di pace tra le Potenze vincitrici della guerra mondiale 1914-1918 e la Germania, firmato a Versailles il 28 giugno 1919. Subito prima dei già ricordati artt. 228 e 229 (che demandavano agli stessi tribunali militari delle Potenze Alleate e Associate, su richiesta di una o più fra esse, il compito di giudicare i sudditi tedeschi accusati di aver violato le leggi e le consuetudini di guerra nei confronti dei cittadini di una delle suddette Potenze), il ben più importante, e innovativo, art. 226 prendeva in specifica considerazione la responsabilità dell'ex imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern, chiamandolo "pubblicamente in giudizio per offese supreme contro la morale internazionale e l'autorità sacra dei trattati". Un giudizio - ecco il punto che interessa in questa sede - da affidare a "un tribunale speciale che sarà istituito allo scopo di processare l'accusato" e "sarà composto di cinque giudici, nominati in ragione di uno da ciascuna delle seguenti Potenze: Stati Uniti d'America, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone", con il compito, fra l'altro, di "fissare la pena che esso riterrà debba essere imposta". Il giudizio veniva, però, subordinato alla condizione che il governo dei Paesi Bassi, territorio di rifugio dell'ex Kaiser, lo consegnasse alle Potenze vincitrici: condizione mai avveratasi e, quindi, processo mai iniziato. Si sarebbe trattato, comunque, di un tribunale creato ad hoc dopo la commissione dei crimini da fargli giudicare e, perciò, certamente non precostituito per legge.
Questi limiti, tipici dei cosiddetti 'tribunali dei vincitori', unitamente alla mancata concretizzazione dell'obiettivo preventivato, inducevano la Società delle Nazioni a far mettere allo studio, in via preventiva, un'ipotesi di corte internazionale di giustizia penale precostituita, incaricandone il proprio comitato consultivo di giuristi. Con prontezza estrema il presidente del comitato, il belga Descamp, presentava - era il 13 luglio 1920 - uno schema di corte strutturato su soli quattro articoli, che ne individuavano per grandi linee la composizione (un membro per Stato, rispettivamente scelto dal gruppo dei delegati dei vari Stati presso la Corte d'Arbitrato), la competenza (giudicare i crimini contro l'ordine pubblico internazionale e il diritto universale delle genti, su deferimento da parte dell'Assemblea plenaria o del Consiglio organizzativo della Società delle Nazioni), i poteri (qualificare il delitto, fissare la pena, programmarne l'esecuzione) e la procedura da seguire (autodisciplinata con apposito regolamento interno). Le non poche e vivaci critiche, subito avanzate anche da parte italiana, ne bloccavano, però, inesorabilmente ogni sviluppo.
Il pressoché completo silenzio seguito a tale smacco sarebbe stato interrotto soltanto nel 1934 dall'attentato terroristico di Sarajevo, vittime il re Alessandro di Iugoslavia e il ministro francese Louis Barthou, che induceva la Francia a proporre una decisa iniziativa contro le attività terroristiche. Il conseguente attivarsi del Segretariato della Società delle Nazioni culminava nello svolgimento a Ginevra di una Conferenza internazionale per la repressione del terrorismo, conclusasi nel novembre del 1937 con l'apertura alla firma di due Convenzioni strettamente collegate, l'una per la prevenzione e la repressione del terrorismo e l'altra per l'istituzione di una corte penale internazionale chiamata a giudicare i responsabili dei relativi crimini. Rimasta senza seguito per mancanza assoluta di ratifiche (un nuovo conflitto mondiale sarebbe scoppiato a breve), questa seconda Convenzione, che aveva dedicato due dei suoi 56 articoli alla composizione della corte (cinque giudici ordinari e cinque sostituti appartenenti ciascuno a una diversa nazionalità, scelti tra cittadini delle Alte Parti Contraenti in ragione di requisiti molto qualificanti), sarebbe stata ampiamente ripresa in un progetto di convenzione volto a istituire una corte criminale internazionale per la punizione degli atti di genocidio, progetto elaborato dal Segretariato della nuova ONU e annesso alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, approvata il 9 dicembre 1948 a New York. Ma, nemmeno questa volta, quanto ideato, sia pur limitatamente al crimine di genocidio, si sarebbe tradotto in realtà.
Nel frattempo, però, erano stati istituiti, operando immediatamente con ben comprensibile forte risonanza, due tribunali militari internazionali, chiamati rispettivamente a giudicare, il primo a Norimberga e il secondo a Tokyo, i grandi criminali di guerra delle Potenze europee dell'Asse e i grandi criminali di guerra dell'Estremo Oriente, resisi responsabili, gli uni e gli altri, di crimini contro la pace o di crimini di guerra convenzionali o di crimini contro l'umanità durante la Seconda guerra mondiale. Anche se i due atti istitutivi non erano stati del tutto coevi (dell'8 agosto 1945 l'intesa raggiunta a Londra per il primo dei due, del 9 aprile 1946 l'intesa proclamata a Tokyo per il secondo), comune ne era stata la base di partenza: un accordo tra le Potenze Alleate vittoriose e, quindi, atto imperativo concordato, prescindendo non soltanto dai vinti, ma anche dai terzi, come è tipico dei tribunali dei vincitori, creati per forza di cose post factum, con l'ulteriore limite di un'aperta violazione del principio di irretroattività della legge penale, data l'individuazione a posteriori dei crimini da addebitare agli imputati.
Proprio gli inconvenienti, di ordine non soltanto politico ma anche concettuale, appena evidenziati, rendendo più acute le perplessità suscitate e le critiche sollevate dall'esperienza dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo, riproponevano immediatamente la stessa esigenza di fondo che, a metà del 1920, aveva spinto a ricercarne, sia pure senza fortuna, uno sbocco all'interno della Società delle Nazioni, con la presentazione del già ricordato piano Descamp per l'istituzione di una corte internazionale penale precostituita e permanente.
Questa volta, però, l'approccio avveniva in modo assai meno frettoloso e, al tempo stesso, ben più organico, a partire dalla risoluzione con cui il 9 dicembre 1949 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in forza dello Statuto che aveva dato loro vita il 26 giugno 1945, invitava la Commissione di diritto internazionale a esaminare la possibilità di istituire un organo giudiziario internazionale per processare persone accusate di genocidio o di altri crimini previsti da convenzioni internazionali. La Commissione, lavorando con grande impegno, elaborava prontamente un progetto di codice dei crimini di guerra e dei crimini contro la pace e contro l'umanità, ispirato ai principi che avevano portato all'accordo di Norimberga, e subito dopo un progetto mirante a dar vita a una giurisdizione penale internazionale nell'ambito della corte internazionale di giustizia. Il rischio, insito nel secondo dei due progetti, di indebolire un organismo nato con ben altre finalità provocava, tuttavia, nonostante le attese, l'accantonamento della proposta. Di qui la decisione di nominare un nuovo gruppo di lavoro per la messa a punto di un progetto processuale autonomo.
Purtroppo, l'incombere prima e il dilagare poi della 'guerra fredda' determinavano un inevitabile stallo della situazione, protrattosi fino al 4 dicembre 1989, quando l'Assemblea generale chiedeva alla Commissione di diritto internazionale di mettere espressamente allo studio la questione dell'istituzione di una corte di giustizia internazionale, per invitare poi la stessa Commissione, una volta caduto il Muro di Berlino, ad approfondire anzitutto (Risoluzioni del novembre 1990 e del dicembre 1991) ogni aspetto attinente a una giurisdizione penale internazionale, compreso quello dell'istituzione di un apposito tribunale, ed a elaborarne infine (Risoluzioni del novembre 1992 e del dicembre 1993) un progetto di statuto.
Il presente dei tribunali penali internazionali
La Commissione di diritto internazionale, affrontando la problematica sin dalla sessione tenutasi nel 1990, completava l'elaborazione di un progetto di corte penale internazionale nella sessione del 1994, per cui si sarebbe potuto dire di essere ormai quasi alla meta, se nel frattempo non si fossero verificati eventi di portata talmente rilevante da renderne imprescindibile la considerazione.
L'esasperarsi della guerra nei territori dell'ex Iugoslavia, con le terribili atrocità che la stavano segnando, aveva, infatti, condotto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a istituire, con una risoluzione del 25 maggio 1993, un apposito tribunale internazionale per i crimini commessi in quei territori a partire dal 1° gennaio 1991. La Risoluzione diventava ben presto operativa - eccoci, perciò, al 'presente' - tanto che, già il 17 novembre 1993, il Tribunale per la ex Iugoslavia era in grado di prendere avvio nella sua sede dell'Aia, evento ancora più straordinario se si tiene conto che all'inizio del 1993 nulla di concreto esisteva in proposito, eccettuata una sollecitazione del Parlamento europeo di poco anteriore. Chiaramente erano stati i tragici avvenimenti verificatisi soprattutto in Bosnia a imprimere una forte accelerazione all'idea di istituire questo Tribunale, espressa sin da una risoluzione del 22 febbraio 1993 che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato nel quadro del capitolo VII del loro Statuto, dal titolo "Azione rispetto alle minacce di pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione".
Tutto ciò, ovviamente, aveva formato oggetto di attento esame sotto il profilo giuridico, essendo fuori discussione che la via 'ordinaria' sarebbe stata da ricercare in un trattato fra gli Stati membri che prevedesse l'istituzione del tribunale e ne dettasse la disciplina. Tale procedura avrebbe comportato, però, un allungamento dei tempi assolutamente incompatibile con l'aggravarsi della situazione nei Balcani, che imponeva di dare una rapida risposta alle sconvolgenti vicende, di cui si aveva continua notizia, con la creazione di un deterrente - almeno così si sperava - per ulteriori violazioni. Si sceglieva, quindi, la strada del ricorso al capitolo VII (in particolare, al combinato disposto degli artt. 39 e 41), che, oltre a consentire un'accelerazione della procedura istitutiva, conferiva la necessaria efficacia alla decisione, in quanto tutti gli Stati membri dell'ONU si sarebbero trovati obbligati ad assumere i comportamenti e intraprendere le azioni occorrenti per l'attuazione della misura decisa alla stregua di tali articoli. La determinazione di istituire il Tribunale internazionale dell'Aia ha rappresentato, infatti, una decisione giuridicamente vincolante per gli Stati proprio perché proveniente dall'organo al quale la loro originaria volontà pattizia ha statutariamente riconosciuto competenza primaria nei settori della pace e della sicurezza internazionale. Tale tesi veniva ribadita e ampiamente illustrata il 2 ottobre 1995 dalla Camera di Appello del Tribunale dell'Aia in sede di "Decisione sulla mozione della difesa per un appello interlocutorio sulla giurisdizione nel caso Tadic".
Detto rapidamente dell'articolazione del Tribunale in una duplice struttura (gli organi giudicanti - due Camere di prima istanza e una Camera di Appello - e l'ufficio del procuratore), importa sottolineare, fra l'altro, che ci si trova di fronte a una tipologia di giurisdizione concorrente con quella degli Stati, salva se necessario la preminenza della prima sulla seconda, al fine di non abbassare il livello di reazione ai comportamenti da perseguire: ogni Stato, cioè, viene lasciato libero di determinarsi, sulla base del rispettivo ordinamento nazionale, in ordine alla repressione di fatti che ratione materiae rientrerebbero anche nella giurisdizione del Tribunale internazionale, ma in ogni fase e grado del procedimento quest'ultimo può far valere la clausola di supremazia ottenendo che il procedimento gli sia trasmesso.
A un anno e mezzo di distanza, precisamente l'8 novembre 1994, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvava una nuova analoga risoluzione, con la quale, sul modello del Tribunale per la ex Iugoslavia, veniva istituito un Tribunale per il Ruanda al fine di giudicare sulle efferatezze - operazioni sistematiche di genocidio in primis - commesse in tale anno nell'ambito di quel territorio.
La principale caratteristica del nuovo Tribunale, avente sede ad Arusha, in Tanzania, sta nell'avere due organi in comune con il Tribunale dell'Aia: il procuratore (autorizzato a creare una Procura distinta con l'ausilio di un sostituto che si occupa solo del Ruanda) e la Camera di Appello (costituita dalla Camera di Appello del Tribunale per la ex Iugoslavia). Le ragioni sono evidenti: fare in modo di garantire uniformità di criteri nella conduzione dell'attività inquirente e di evitare conflitti di giurisprudenza tra i due Tribunali sulla portata delle fattispecie criminose previste da entrambi i rispettivi Statuti.
Il futuro delle Corti criminali internazionali
Tornando alle possibili corti del 'futuro', detto che da tempo si sta ipotizzando anche un tribunale internazionale per la repressione di crimini contro l'ambiente, è evidente, come immediati accadimenti hanno ampiamente comprovato, che il duplice, quasi concomitante, avvio dei due tribunali appena ricordati ha dato ulteriore slancio all'idea di partenza: infatti, con Risoluzione del 9 dicembre 1994, l'Assemblea generale dell'ONU affidava a un Comitato appositamente costituito l'incarico di esaminare le principali questioni di merito e di natura amministrativa sollevate dal progetto di Statuto che, come già accennato, proprio in quell'anno le era stato presentato dalla Commissione di diritto internazionale. Il Comitato si riuniva due volte tra l'aprile e l'agosto 1995, dopo di che l'Assemblea generale, preso atto dei risultati di quel dibattito, con Risoluzione dell'11 dicembre 1995 deliberava la creazione di un Comitato preparatorio per elaborare, in base alle opinioni variamente espresse, testi finalizzati alla redazione di una sintesi in grado di essere accettata su larga scala.
Il Comitato preparatorio si riuniva dal 25 marzo al 12 aprile e dal 12 al 20 agosto 1996 per esaminare le questioni poste dal progetto di Statuto, iniziando poi l'elaborazione della sintesi richiesta dall'Assemblea generale. Questa, con Risoluzione del 17 dicembre 1996, disponeva che il Comitato preparatorio si riunisse ancora nel 1997 e nel 1998 per completare la redazione del testo da sottoporre alla Conferenza dei plenipotenziari ONU programmata per l'approvazione definitiva. Visto il positivo andamento dei lavori, con Risoluzione del 15 dicembre 1997 l'Assemblea generale invitava il Comitato a trasmettere alla Conferenza convocata in Roma presso la sede della FAO dal 15 giugno al 17 luglio 1998 il testo del "Progetto di convenzione istitutiva di una Corte penale internazionale".
Terminata il 3 aprile 1998 l'elaborazione del progetto, il Comitato preparatorio lo indirizzava alla Conferenza di Roma, previo invito a tutti gli Stati che fossero membri o dell'ONU o di istituzioni specializzate o dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica. Presenti anche, in qualità di osservatori, i rappresentanti delle organizzazioni intergovernative regionali
e degli organi internazionali interessati, a cominciare dai Tribunali internazionali per l'ex Iugoslavia e per il Ruanda, nonché numerosissime organizzazioni non governative, la Conferenza si concludeva il 17 luglio 1998 con l'approvazione dello Statuto (tra i 148 plenipotenziari presenti al momento del voto finale, 120 sono stati i voti favorevoli, 7 i contrari, 21 le astensioni) e con l'apertura alla firma dell'Atto finale. Le firme, apponibili sull'apposito libro fino al 31 dicembre 2000, hanno raggiunto il numero di 139, consentendo, quindi, ad altrettanti Stati di partecipare ai lavori di completamento che uno degli allegati allo Statuto istitutivo ha affidato a una nuova Commissione preparatoria, chiamata, fra l'altro, a elaborare in sede ONU (i suoi lavori hanno, infatti, avuto inizio nel dicembre 1998 a New York) i progetti di ben otto regolamenti. Due di questi, riguardanti rispettivamente gli elementi costitutivi dei reati e le regole procedurali e di ammissibilità delle prove, dovevano essere apprestati, e così è stato, entro il 30 giugno 2000, mentre gli altri sono in via di più o meno avanzata elaborazione.
Ma l'aspetto più delicato, anche perché lasciato alla libera determinazione dei singoli Stati, concerne il numero minimo di ratifiche richiesto per l'entrata in vigore dello Statuto. Solo il deposito della sessantesima ratifica permetterà di convocare quell'Assemblea degli Stati parte cui spetterà il compito di concretizzare il tutto. Alla data del 30 settembre 2001 risultavano depositate circa 40 ratifiche e, quindi, i due terzi dello stretto necessario.
Come si vede, anche se, per una ragione o per l'altra, molto resta ancora da fare prima che la Corte possa divenire operativa, i 130 articoli dello Statuto rappresentano già un telaio sufficientemente solido per consentire l'espletamento di quanto occorre ancora. Si tratterà di completare gli spazi e di mettere a punto i meccanismi indispensabili ad assicurare quell'efficienza che è, a sua volta, conditio sine qua non per realizzare l'effettività che il preambolo dello Statuto pone come elemento irrinunciabile ("la repressione dei delitti più gravi deve essere efficacemente garantita") affinché la Corte possa essere all'altezza della delicatissima funzione conferitale.
Anche qui - una volta detto molto rapidamente dell'articolazione della Corte internazionale permanente (una sezione preliminare, una sezione di primo grado e una sezione degli appelli come organi giudicanti, da un lato, e l'ufficio del procuratore, dall'altro) - importa sottolineare soprattutto che ci si trova di fronte a un tipo di rapporto maggiormente rispettoso del ruolo tradizionale delle giurisdizioni nazionali di quanto non sia quello adottato per i Tribunali dell'Aia e di Arusha: infatti, in luogo del principio di concorrenza, che dà a entrambi il potere di prevalere sui processi nazionali, vigerà qui il principio di complementarità o, in altri termini, di sussidiarietà, in forza del quale la Corte potrà essere chiamata a intervenire solo se nessuna giurisdizione interna si sarà legittimamente e seriamente attivata.
Basterebbe il rilievo appena fatto per dimostrare quanto sarebbe vantaggioso avere a disposizione il più presto possibile questa, potenzialmente universale, Corte criminale permanente: le proteste attualmente avanzate da tutti coloro che, non soltanto all'interno della Federazione iugoslava, lamentano la 'sottrazione' autoritaria di Milosevic alla giurisdizione serba e, quindi, ai suoi giudici naturali, non avrebbero qui motivo di essere sollevate, restando l'investitura della Corte sovranazionale subordinata alla concreta inazione della giustizia nazionale.
Né sarebbe questo il solo vantaggio, essendovene altri, già più o meno esplicitamente evidenziati, come quelli derivanti, in primo luogo, dall'avere a base una Convenzione internazionale liberamente sottoscritta e accettata da ogni singolo Stato divenutone parte, esclusa, quindi, qualsiasi imposizione (gli Stati terzi potranno, volendolo, prestare assistenza alla Corte su invito di questa). Resterebbero così neutralizzate in radice le riserve sempre suscitate dai tribunali dei vincitori, espressione di forza realizzata sul campo, se non di conseguenti vendette, e negli ultimi tempi anche dai tribunali istituiti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, cui non pochi muovono la critica di risentire, magari inconsciamente, dell'ingerenza autoritaria degli Stati più potenti.
In secondo luogo, non si avrebbe più a che fare con giurisdizioni internazionali ad hoc, create inevitabilmente dopo la commissione dei fatti da giudicare (unica, e solo parziale, eccezione quella del Tribunale dell'Aia, istituito il 25 maggio 1993 per crimini commessi sul territorio dell'ex Iugoslavia a partire dal 1° gennaio 1991, senza per ora un termine finale - lo fisserà lo stesso Consiglio di sicurezza, una volta ristabilitasi la pace nei Balcani - con la conseguenza di operare come giudice costituito ex post per i fatti commessi tra le due date suddette e come giudice precostituito per i fatti successivi al 25 maggio 1993), bensì con un organo giurisdizionale precostituito per legge, competente a giudicare dei crimini previsti dal suo Statuto, che venissero commessi dopo l'entrata in vigore di questo, a ratifiche completate.
Combinati assieme, gli aspetti positivi messi ora in rilievo dovrebbero garantire almeno quella terzietà del giudice, considerata elemento cardine di un processo davvero giusto: una terzietà che la disciplina statutariamente dedicata a "qualificazioni, candidatura ed elezione" della "componente giudici" della nuova Corte si preoccupa di tutelare al massimo livello possibile, dettando regole estremamente dettagliate e scrupolosamente calibrate, nell'intento di pervenire, da un lato, a una selezione rigorosa quanto a professionalità, etica e imparzialità e, dall'altro, a equilibri adeguati quanto a rappresentanze geografiche e di genere.
Resta ancora un corollario da trarre a questo punto della faticosa evoluzione che, in oltre ottant'anni, ha portato il mondo dal progetto di un giudizio internazionale nei confronti dell'ultimo Kaiser agli attuali tribunali. Il nodo cruciale è pur sempre il medesimo: come superare giuridicamente, oltreché politicamente, il principio della sovranità nazionale, per tradizione tabù intoccabile. Da tempi immemorabili il settore penale è, invero, considerato la massima espressione della sovranità nel settore giudiziario, in quanto le relative decisioni toccano nel vivo la libertà personale degli individui. Eppure, poco alla volta, di fronte a efferatezze sconvolgenti per l'intera umanità, qualcosa è venuto via via cambiando, tanto da dare vita alla creazione di organismi internazionali legittimati a emanare sentenze penali di condanna alla cui esecuzione gli Stati coinvolti devono fornire la loro cooperazione.
Anche se non va trascurata la non lieve differenza intercorrente tra le ipotesi in cui il tribunale internazionale può pronunciare sentenze tali da impegnare i soli Stati che lo abbiano accettato e le ipotesi in cui il tribunale internazionale impegna pure Stati estranei alla sua istituzione, si può ben parlare di tribunali addirittura sovranazionali, ove il 'sovra' sottolinea, come meglio non si potrebbe, sfiorando il gioco di parole, la contrapposizione alla sovranità che viene a risultarne limitata: cioè quella statale. I tabù, insomma, non sono più intoccabili.
Organi di giustizia internazionali
Il tribunale internazionale è un'istituzione, composta da individui indipendenti, che ha lo scopo di risolvere le controversie tra Stati, mediante una decisione, detta lodo o sentenza, che è obbligatoria per le parti. Il tribunale internazionale può essere costituito ad hoc, allo scopo di risolvere una determinata controversia, nel qual caso si parla di tribunale arbitrale per arbitrato isolato, oppure può avere carattere permanente ed essere cioè un'istituzione precostituita, che giudica sulla base di regole di procedura prestabilite. Di regola, il tribunale arbitrale viene costituito, di volta in volta, quando si tratti di decidere una determinata controversia, mediante la designazione, da parte degli Stati coinvolti, di un arbitro unico oppure di un collegio, normalmente di tre persone. La Corte permanente di arbitrato, la cui creazione è dovuta alle Convenzioni dell'Aia del 1899 e 1907 e che rappresenta il primo tentativo di istituzionalizzare la funzione arbitrale, non si discosta da questa impostazione: essa si compone, infatti, di una lista di persone qualificate, tra cui le parti possono scegliere quando intendano costituire un collegio arbitrale cui deferire una determinata controversia. In modo analogo è strutturata la Corte di conciliazione e arbitrato dell'OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), con sede a Ginevra, istituita nel 1994. Anch'essa ha a disposizione un elenco di persone, tra le quali le parti e il bureau della Corte designano gli arbitri che andranno a comporre il collegio arbitrale. Il primo esempio di vera e propria corte precostituita è rappresentato dalla Corte permanente di giustizia internazionale che, istituita dalla Società delle Nazioni il 13 dicembre 1920, entrò in funzione nel gennaio 1922 e continuò a operare fino al 18 aprile 1946. La Corte permanente di giustizia internazionale aveva sede all'Aia, era composta da 15 giudici titolari e 4 supplenti eletti dall'Assemblea e dal Consiglio della Società delle Nazioni, e funzionava in base a proprie regole, fissate oltre che dallo Statuto, contenuto nell'accordo fondamentale, anche da un regolamento emanato dalla Corte stessa. Gli Stati parti della controversia avevano l'obbligo di assoggettarsi a tali norme, e la Corte poteva giudicare non solo secondo lo stretto diritto, ma, nel caso in cui le parti l'avessero autorizzata, anche secondo equità, avendo la possibilità cioè di creare essa stessa la norma relativa al caso concreto. Oltre ad avere un'attività giurisdizionale, la Corte aveva anche una funzione consultiva su richiesta del consiglio o dell'Assemblea della Società delle Nazioni. Dopo la nascita delle Nazioni Unite, la Corte permanente di giustizia internazionale è stata sostituita dalla Corte internazionale di giustizia, istituita conformemente alle disposizioni della Carta dell'ONU e allo Statuto a questa allegato. Ha sede all'Aia ed è costituita da 15 giudici titolari e 4 supplenti, eletti dall'Assemblea e dal Consiglio di sicurezza; non viene eletta in blocco, ma ogni triennio si rinnova di un terzo, in modo da evitare bruschi mutamenti nel suo indirizzo e nella giurisprudenza. Aderiscono al suo Statuto tutti i membri delle Nazioni Unite, in quanto essa è un organo dell'ONU; la sua giurisdizione è obbligatoria per gli Stati, anche non membri delle Nazioni Unite, che facciano la prevista dichiarazione in tal senso, e si estende a tutte le questioni di carattere giuridico, senza possibilità di esclusioni da parte dei singoli Stati, come invece si riteneva ammissibile in base allo Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale. In caso d'inadempimento agli obblighi derivanti da una sentenza della Corte internazionale, l'altra parte della controversia ha il potere di ricorrere al Consiglio di sicurezza, affinché tale organo faccia le raccomandazioni o decida le misure necessarie ai fini dell'esecuzione della sentenza. Oltre alla funzione di dirimere le controversie che le siano sottoposte in materia giuridica, la Corte ha il potere di decidere secondo equità controversie politiche, qualora le parti siano d'accordo, ed esercita, oltre all'attività giurisdizionale, un'attività consultiva su questioni giuridiche, e non soltanto a richiesta dell'Assemblea o del Consiglio di sicurezza, ma anche di ogni altro organo dell'ONU e di ogni ente internazionale all'uopo autorizzato dall'Assemblea. Tuttavia la sua competenza non è esclusiva, nel senso, cioè, che le parti, in virtù di accordi fra loro conclusi, possono deferire le controversie alla decisione di organi diversi. Esistono inoltre altri tribunali specializzati per materia o aventi natura regionale. Tra i primi è da annoverare per es. il Tribunale internazionale del diritto del mare, tra i secondi figurano la Corte di giustizia delle Comunità europee, la Corte europea dei diritti dell'uomo, la Corte interamericana dei diritti umani. La Corte di giustizia delle Comunità europee, con sede a Lussemburgo, giudica la conformità degli atti adottati dalle istituzioni di Bruxelles ai Trattati, condannando gli Stati che non rispettano gli obblighi nei confronti del diritto comunitario; possono adire alla Corte i 15 Stati membri dell'Unione, le istituzioni europee, i singoli cittadini e qualsiasi persona morale interessata (le associazioni e le imprese). La Corte europea dei diritti dell'uomo, costituita nell'ambito del Consiglio d'Europa, veglia sul rispetto della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, giudicando le violazioni di questo trattato; ha sede a Strasburgo e vi possono adire gli Stati firmatari e gli individui. La Corte interamericana dei diritti umani, costituita dall'Associazione degli Stati americani (OSA) nel 1979 con sede a San José (Costa Rica), ha il compito di interpretare e di vegliare sull'applicazione della Convenzione americana dei diritti dell'uomo; uno Stato può essere sottoposto a giudizio da essa solo nel caso in cui abbia accettato la sua giurisdizione.
I precedenti storici dei tribunali penali internazionali
Un precedente remoto di istituzione giurisdizionale internazionale chiamata a giudicare crimini individuali di estrema gravità si può rintracciare nel tribunale composto da 28 giudici provenienti da Alsazia, Germania, Svizzera e Austria che nel 1474 processò Peter von Hagenbach, condannandolo per omicidio, stupro e altri crimini contro 'le leggi di Dio e dell'uomo', commessi durante l'occupazione della città di Breisach. Il precedente è particolarmente significativo non solo perché il tribunale che condannò von Hagenbach aveva una composizione internazionale, ma anche perché i crimini giudicati erano del tipo che sarebbe oggi definito 'crimini contro l'umanità', perpetrati non nel corso di ostilità belliche, ma in tempo di pace.
Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento cominciarono a prendere corpo i primi progetti di tribunali penali internazionali per giudicare i crimini di guerra. Subito dopo la Prima Guerra mondiale, nella Conferenza di pace di Parigi fu istituita una Commissione internazionale di inchiesta, allo scopo di svolgere attività investigative e di accertamento circa i crimini di guerra e contro l'umanità commessi dai militari tedeschi e turchi nel corso del conflitto. Tuttavia, nonostante i trattati di pace stabilissero il principio della punizione dei criminali di guerra e della consegna di essi alle potenze alleate, tale principio non ebbe alcuna applicazione. Diversamente avvenne alla fine della Seconda guerra mondiale, quando le potenze vincitrici decisero di istituire due tribunali militari speciali per giudicare i crimini di guerra, contro la pace e contro l'umanità perpetrati dai nazisti e dai loro alleati: il Tribunale internazionale militare di Norimberga, creato nell'ambito dell'accordo di pace di Londra dell'8 agosto 1945, e il Tribunale internazionale militare per l'Estremo Oriente (Tribunale di Tokyo), istituito il 19 gennaio 1946.
Il Tribunale militare internazionale di Norimberga
Alla costituzione del Tribunale militare internazionale di Norimberga si giunse nell'agosto 1945 attraverso una serie di accordi tra le potenze alleate contro la Germania. La giurisdizione e le funzioni del tribunale erano regolate da un apposito Statuto: questo stabiliva che esso doveva comporsi di quattro giudici con altrettanti sostituti da designarsi in numero eguale da Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica. I componenti del collegio avrebbero eletto il presidente, il cui voto, in caso di parità, sarebbe stato decisivo. La giurisdizione del tribunale si portava su quattro categorie di reati: cospirazione nella preparazione di una guerra di aggressione; crimini contro la pace; crimini di guerra; crimini di lesa umanità. Ognuna delle quattro potenze avrebbe designato un accusatore principale, mentre alla difesa dovevano essere assicurate le massime garanzie. Il tribunale avrebbe agito secondo una procedura appropriata e le sue sentenze sarebbero state inappellabili, ma le pene comminate suscettibili di riduzione da parte del Consiglio di controllo per la Germania. Le spese processuali dovevano essere coperte dai fondi per il mantenimento dello stesso Consiglio. Costituito su queste basi, il Tribunale militare internazionale si riunì per la prima volta a Norimberga il 20 novembre 1945; il processo durò complessivamente dieci mesi, durante i quali tutta la politica della Germania nazista fu minutamente studiata sulla scorta di un'immensa documentazione, raccolta dalle potenze vincitrici durante il conflitto e il periodo di occupazione. La sentenza della corte fu letta il 30 settembre e il 1° ottobre 1946. In base a essa furono condannati a morte mediante impiccagione: H. Göring, J. von Ribbentrop, W. Keitel, A. Rosenberg, A. Jodl, W. Frick, J. Streicher, H. Frank, E. Kaltenbrunner, F. Sauckel, A. Seyss-Inquart, M. Bormann (quest'ultimo in contumacia); al carcere a vita: R. Hess, W. Funk, E. Reder; a pene minori: K. Dönitz (10 anni), K. von Neurath (15 anni), B. von Schirach (20 anni), A. Speer (20 anni); furono assolti F. von Papen, H. Schacht e H. Fritzsche. Tra gli imputati figuravano anche R. Ley, che si era però suicidato, in carcere, il 25 ottobre 1945 e G. Krupp von Bohlen, che era stato rilasciato a causa della tarda età e dello stato di salute (in sua vece fu giudicato, in un successivo processo, il figlio Alfred Felix che dal 1943 aveva assunto la direzione delle officine). L'esecuzione ebbe luogo nella notte del 15 ottobre per tutti i condannati a morte a eccezione di Göring, che si suicidò in cella poco prima. Al primo grande processo di Norimberga ne fecero seguito altri, sia nella stessa città sia in altre località della Germania, contro personalità politiche minori, alti ufficiali, industriali e contro i direttori, i medici e i custodi dei campi di concentramento.
Il Tribunale militare di Tokyo
Lo Statuto istitutivo del Tribunale internazionale militare per l'Estremo Oriente, destinato a processare i principali criminali di guerra giapponesi che avevano agito in quell'area, fu preparato dal generale Douglas Mac Arthur, comandante supremo delle potenze alleate in Giappone. Nonostante fosse esemplato sul modello di quello stilato a Londra per il processo ai criminali di guerra nazisti, vi erano alcune sostanziali differenze: i membri del tribunale sarebbero stati nominati dalle nove potenze alleate firmatarie dell'atto di resa del Giappone (Australia, Canada, Cina, Francia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Stati Uniti, Unione Sovietica), più l'India e le Filippine; il capo del collegio giudicante sarebbe stato indicato dal comandante supremo delle potenze alleate (fu il politico repubblicano dell'Ohio Joseph B. Keenan); il ruolo svolto dagli imputati al momento del reato e il fatto che avessero obbedito a ordini superiori o del governo sarebbero stati presi in considerazione per un'eventuale mitigazione della pena. Il processo contro i 28 imputati, indiziati di assassinio e di vari crimini contro la pace, di guerra e contro l'umanità, iniziò a Tokyo il 3 maggio 1946. Durò più di due anni e terminò, dopo l'escussione di centinaia di testimoni, il 12 novembre 1948 con la lettura della sentenza. Due imputati erano morti nel frattempo e uno fu prosciolto. Degli altri 25, sette furono condannati all'impiccagione, 16 all'ergastolo e due a pene detentive minori.
Il Tribunale internazionale per la ex Iugoslavia
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione nr. 827 del 25 maggio 1993, ha istituito il Tribunale per la ex Iugoslavia, avente sede all'Aia, con il compito specifico di perseguire, secondo i criteri di un giudizio penale, "le persone presunte responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse sul territorio della ex Iugoslavia dal 1991". In particolare, i capi di accusa rientrano in quattro diverse tipologie: gravi violazioni delle convenzioni di Ginevra del 1949 (sul trattamento dei prigionieri di guerra, dei feriti e dei malati e sulla protezione delle popolazione civile); violazione delle leggi e degli usi di guerra; genocidio; crimini contro l'umanità. Da un punto di vista organizzativo, il Tribunale Internazionale dell'Aia è formato da un Presidente (il francese Claude Jorda) e da un collegio di 16 giudici di vari paesi del mondo, suddivisi in due Corti di prima istanza e una Corte d'Appello. All'interno del collegio, un ruolo chiave è svolto dall'Ufficio del procuratore, giudice che si impegna a individuare i responsabili dei suddetti crimini o violazioni, a portarli in giudizio all'Aia e a ottenerne la condanna; la carica dal settembre 1999 è affidata alla svizzera Carla Del Ponte. Il Tribunale non può giudicare gli accusati in contumacia e non può condannare alla pena di morte; la massima pena prevista è l'ergastolo.
Gli imputati giudicati dal Tribunale dell'Aia sono croati, autori di crimini di guerra in Croazia e in Bosnia, serbi, attivi in Croazia, in Bosnia e in Kosovo, e musulmani, attivi in Bosnia. Quelli attualmente custoditi nel carcere di Scheveningen sono 46, mentre 26 accusati sono ricercati. Finora il Tribunale ha emesso 21 verdetti, 19 di colpevolezza e due di assoluzione; le maggiori pene comminate sono state di 45 anni per il generale croato-bosniaco Tihomir Blaskic (1999) e di 46 anni per il generale serbo-bosniaco Radislac Krstic (agosto 2001), il primo condannato per genocidio.
Il quadro storico
I fatti all'esame del Tribunale si situano nel quadro di violenta conflittualità ingenerato dalla disgregazione della ex Federazione iugoslava e si sono verificati in particolare in Croazia, in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo. La Croazia dichiarò la propria indipendenza il 25 giugno 1991, ma la minoranza serba, contraria alla prospettiva di una separazione dalle altre componenti serbe della popolazione iugoslava, si oppose, con il sostegno di Belgrado, al processo secessionista: le forze armate federali intervennero nel luglio 1991 e dopo aver vinto la prolungata resistenza croata a Vukovar, cinta d'assedio fra l'agosto e il novembre (fra l'altro, l'esercito serbo prese d'assalto l'ospedale dove avevano cercato rifugio centinaia di persone; 200 cittadini non serbi furono deportati a Ovcara, seviziati e infine uccisi), assunsero il controllo di circa un terzo del territorio croato, comprendente la Slavonia e la Krajina. Qui venne proclamata la Repubblica serba di Krajina, la cui leadership operò una sistematica azione di persecuzione e violenze nei confronti della popolazione croata e musulmana. In seguito alla firma di un cessate il fuoco (gennaio 1992) e al dispiegamento (giugno 1992) di una forza di interposizione dell'ONU fra le truppe di Zagabria e quelle serbe di Croazia, l'esercito federale si ritirò; i membri della comunità croata furono costretti alla fuga dalle zone conquistate dai serbi, mentre il governo di Zagabria, continuando a rivendicare la propria sovranità su quei territori, lanciò ripetute offensive nel corso del 1993. Nella primavera del 1995, su richiesta di Zagabria, l'ONU decise un ridispiegamento della propria forza di interposizione in Croazia. L'offensiva croata contemporaneamente scatenata contro le forze secessioniste portò all'occupazione della Slavonia occidentale (maggio) e della Krajina (agosto): costringendo alla fuga la maggior parte della popolazione serba e rendendosi responsabili di ripetute violazioni dei diritti umani, le autorità croate realizzarono quasi completamente l'obiettivo di rendere il paese etnicamente omogeneo. Una consistente minoranza serba rimase solamente nella Slavonia orientale: quest'ultima, dopo un accordo (novembre 1995) fra il governo di Zagabria e la leadership dei Serbi di Croazia, fu affidata all'amministrazione delle Nazioni Unite per una fase transitoria, fino a che nel gennaio 1998 tornò sotto Zagabria. In Bosnia-Erzegovina la secessione dalla Iugoslavia assunse un carattere di particolare asprezza. Quando nel marzo 1992 fu proclamata l'indipendenza della Repubblica, la componente serba della popolazione bosniaca, con l'obiettivo di riunificarsi alla Serbia, diede vita alla propria Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, dichiarata illegale dal governo di Sarajevo. Il contrasto degenerò in conflitto militare: posto l'assedio a Sarajevo, le forze serbo-bosniache, appoggiate da Belgrado, conquistarono in pochi mesi quasi il 70% del territorio della Bosnia-Erzegovina. La popolazione delle zone conquistate (prevalentemente musulmana) fu sottoposta a gravissime violenze (fra cui stupri di massa ai danni delle donne musulmane) o costretta alla fuga. Il processo di disgregazione si allargò e nel luglio i croato-bosniaci, appoggiati da Zagabria, diedero vita alla Repubblica autonoma di Herceg-Bosna (dichiaratasi indipendente nell'agosto 1993, con capitale a Mostar), entrando a loro volta in conflitto con i musulmani. Nel settembre 1993 forze secessioniste musulmane proclamarono l'autonomia della regione di Bihac, nel Nord-ovest del paese, e alla fine dell'anno solo il 10% del territorio bosniaco era sotto il controllo del governo di Sarajevo. Numerosi campi di concentramento vennero allestiti da tutte le parti in causa e ciascuna fu protagonista di episodi di truce violenza, che provocarono la devastazione della Bosnia, delle sue città e del suo complesso tessuto etnico. Oscillante fra tentativi di mediazione diplomatica e minacce di interventi militari antiserbi (soprattutto da parte statunitense), la diplomazia internazionale vide respinti dai belligeranti diversi piani di pace nel corso del 1993 e in quello stesso anno promosse un progressivo accrescimento del ruolo delle forze NATO, cui fu affidato, dall'autunno, l'intervento contro le forze serbo-bosniache. Fu proprio la gravità delle violenze commesse da tutte le fazioni belligeranti a indurre allora l'ONU a istituire il Tribunale sui crimini di guerra nella ex Iugoslavia. Il 1994, con le prime vittorie delle forze governative bosniache, appoggiate dai croato-bosniaci, registrò un mutamento nei rapporti di forza fra le fazioni belligeranti, mentre l'accresciuta pressione diplomatica statunitense portava croato-bosniaci e musulmani a un accordo per la costituzione di una Federazione croato-musulmana; inoltre in luglio, dopo il rifiuto dei serbo-bosniaci di un nuovo piano di pace, il governo di Belgrado (sottoposto a forti pressioni internazionali) impose loro un embargo economico. Nel corso del 1995 i combattimenti si intensificarono su tutto il territorio bosniaco: dopo la firma di un'alleanza militare, forze militari di Zagabria, Sarajevo e croato-bosniache riconquistarono fra marzo e settembre ampie zone nella Bosnia-Erzegovina centro-settentrionale; i serbo-bosniaci, dopo aver occupato Srebrenica (dove ai danni della popolazione musulmana fu compiuta una delle più feroci operazioni di pulizia etnica), subirono nei primi giorni di settembre uno schiacciante attacco delle forze aeree NATO. Il ridimensionamento delle posizioni serbo-bosniache fu accompagnato da un progressivo avanzamento del difficile processo negoziale, sfociato il 14 dicembre 1995 nella firma, a Dayton, di un piano di pace, cui seguì la cessazione delle ostilità. I quattro anni di guerra sono stati segnati da innumerevoli delitti commessi ai danni della popolazione civile; i morti sono stati più di 200.000, mentre il numero di profughi e di quanti sono stati espulsi o deportati dalle zone conquistate, allo scopo di renderle etnicamente omogenee, è stato di circa 2.700.000. Per quanto concerne il Kosovo, le incriminazioni del Tribunale dell'Aia riguardano la campagna di terrore e di violenza condotta, fra il 1° gennaio e il 20 maggio 1999, dalle forze della Repubblica Federale della Iugoslavia e della Serbia contro i civili albanesi, con l'obiettivo di assicurare, attraverso un sistematico programma di pulizia etnica il controllo serbo della provincia. A tale scopo la popolazione albanese del Kosovo ha subito requisizioni di beni e proprietà e ogni sorta di trattamenti degradanti e violenti fino a vari massacri (Racak, Bela Crkva, Velika Krusa, Mali Krusa, Djakovica, Crkolez e Izbica.). Il maggior responsabile è ritenuto l'ex presidente Slobodan Milosevic.
Il Tribunale internazionale per il Ruanda
Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda fu istituito, con la Risoluzione nr. 955 dell'8 novembre 1994, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite allo scopo di perseguire i responsabili degli atti di genocidio e di altre gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commessi in Ruanda e, limitatamente ai cittadini ruandesi, negli Stati limitrofi dal 1° gennaio al 31 dicembre 1994. L'istituzione del Tribunale si proponeva altresì di contribuire al processo di riconciliazione nazionale e al mantenimento della pace nella regione. Con la Risoluzione nr. 977 del 22 febbraio 1995, il Consiglio di sicurezza decise che la sede del Tribunale sarebbe stata Arusha, nella Repubblica della Tanzania. Il Tribunale si compone di tre strutture: gli organi giudicanti, costituiti da 14 giudici (tre per ciascuna delle tre camere di prima istanza e cinque per la Corte d'Appello, condivisa, quest'ultima, con il Tribunale internazionale per la ex Iugoslavia), provenienti da Stati diversi, eletti per un periodo di quattro anni dall'Assemblea Generale, sulla base di una lista sottoposta dal Consiglio di sicurezza; l'Ufficio del procuratore, in comune con il Tribunale dell'Aia, ma con una sede distinta a Kigali e con a capo Carla Del Ponte, coadiuvata da un sostituto procuratore; l'Ufficio del Registro, responsabile della amministrazione e gestione del Tribunale.
Il primo atto formale d'accusa del Tribunale è stato emesso il 28 novembre 1995. Da allora il Tribunale ha assicurato l'arresto di più di 40 persone. Fra queste figurano l'ex primo ministro Jean Kambanda, dieci ministri del suo governo e altri esponenti politici, ufficiali dell'esercito e responsabili di reti radiofoniche. Nel settembre 1998 il Tribunale ha comminato la prima condanna di genocidio mai pronunciata da una corte internazionale di giustizia, a carico di Jean-Paul Akayesu, già sindaco della città di Taba, dove furono uccisi 2000 tutsi. Per lo stesso crimine, dopo pochi giorni è stato condannato all'ergastolo anche Kambanda (la sentenza è stata confermata in appello nel gennaio 2000), riconosciuto colpevole di avere sia incitato personalmente al massacro sia evitato di intervenire mentre altri lo compivano, pur essendo perfettamente a conoscenza di quanto avveniva.
Il quadro storico
Il genocidio in Ruanda si colloca nel quadro storico delle secolari tensioni tra le due etnie principali del paese, gli hutu e i tutsi. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il rientro in patria di decine di migliaia di profughi, prevalentemente tutsi, in fuga dall'Uganda (dove avevano subito una serie di persecuzioni) compromise ulteriormente i precari equilibri demografici. Altre migliaia di fuoriusciti tutsi giunsero poi nell'estate 1990 al seguito delle milizie del FPR (Front patriotique rwandais) che, provenienti dall'Uganda, invasero le regioni nordorientali. Il presidente Jean Habyarimana, che aveva tentato di intraprendere un processo di riforma del sistema politico, riuscì a contenere l'offensiva del Fronte grazie all'aiuto militare di Zaire e Francia, e nel 1992 avviò, grazie alla mediazione dei paesi confinanti, trattative con i ribelli. Nell'agosto 1993 fu siglato ad Arusha un accordo, che prevedeva, tra l'altro, la creazione di un nuovo esecutivo di transizione con la partecipazione del FPR, l'inserimento dei guerriglieri nell'esercito nazionale e lo svolgimento di elezioni generali dopo un periodo transitorio di 22 mesi. Tuttavia, nonostante la supervisione dell'ONU, che inviò in Ruanda una sua missione, l'accordo rimase sostanzialmente inattuato. La situazione precipitò il 6 aprile 1994, quando l'aereo sul quale viaggiavano Habyarimana e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamina, fu abbattuto presso l'aeroporto di Kigali. Immediatamente dopo l'attentato, divenuto primo ministro Kambanda, la guardia presidenziale diede inizio nella capitale a una brutale caccia all'uomo contro gli oppositori di Habyarimana, presto estesasi anche a esponenti del clero, a membri della missione ONU e soprattutto alla minoranza tutsi. Alla guardia presidenziale si unirono gli estremisti hutu della milizia paramilitare legata al partito del presidente, che sotto minaccia di morte costrinsero molti civili hutu a uccidere i loro vicini tutsi. L'ondata di violenza si estese presto all'intero paese, e le milizie hutu si resero protagoniste di un genocidio, al quale la comunità internazionale assistette impotente: i tutsi furono decimati (oltre 500.000 vittime), mentre gli hutu, temendo la vendetta del FPR, che a metà aprile aveva ripreso la lotta armata, fuggirono in massa verso lo Zaire e la Tanzania (circa due milioni di profughi vennero ospitati in improvvisati campi di raccolta, dove furono falcidiati da fame ed epidemie). Un intervento della Francia consentì l'esodo in Zaire di altre centinaia di migliaia di hutu (tra i quali si nascosero i responsabili del genocidio), ma non poté impedire la definitiva affermazione militare del FPR (luglio 1994). Il compito di favorire la riconciliazione nazionale e riattivare la disastrata economia fu affidato a un governo interetnico di coalizione, nel quale si riservò i ruoli di vice-presidente e di ministro della Difesa Paul Kagame, capo militare del Fronte e uomo forte del nuovo regime. Nel dicembre 1994 fu nominato un parlamento provvisorio di 70 membri e nel maggio 1995 fu adottata una nuova Costituzione; l'istituzionalizzazione del nuovo regime non fu però sufficiente a garantire il ritorno alla normalità, né la stabilità interna. Da allora le organizzazioni umanitarie internazionali operanti nel paese hanno continuato a denunciare il ripetersi di numerosi episodi di violenza interetnica e di massacri, di cui si sono resi responsabili sia gruppi armati hutu, attivi nelle regioni occidentali del Ruanda, sia membri dell'esercito, autori di rappresaglie contro gli hutu rientrati dallo Zaire.