Abstract
In uno scenario mondiale sempre più globalizzato e aperto agli scambi commerciali, il diritto doganale ha acquistato una crescente centralità per imprese e consumatori.
Il presente contributo illustra anzitutto le fonti normative internazionali, comunitarie e nazionali del diritto doganale, anche nella prospettiva del nuovo codice dell’Unione europea, la cui entrata in vigore è stata originariamente prevista al I maggio 2016.
Analizzato il concetto di diritti doganali, si individuano, successivamente, i presupposti in relazione ai quali sorge l’obbligazione doganale e i soggetti passivi tenuti all’adempimento.
Brevi cenni, infine, sono dedicati ai tre elementi fondamentali per la liquidazione dei dazi in dogana, ossia la classificazione della merce, avendo riguardo alle indicazioni fornite dalla tariffa doganale comune, l’origine e il valore dei prodotti.
Il diritto doganale è una materia armonizzata complessa e in costante evoluzione, risultato del coordinamento, spesso difficile, di diverse fonti normative (internazionali, comunitarie e nazionali).
Rispetto ad altri settori del diritto tributario, in ambito doganale si è assistito − più che in ogni altro − a un’integrazione normativa compiuta, garantita dall’abolizione delle discipline nazionali e dall’adozione di un corpo normativo comunitario approvato in forma di regolamenti UE − pertanto obbligatori e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri − che stabiliscono regole uniformi. L’eccezionale integrazione normativa realizzata in questo settore rappresenta uno degli strumenti fondamentali, individuato già dai Paesi fondatori della Comunità economica europea, per la realizzazione del principio di libera circolazione delle merci all’interno del mercato unico comunitario.
Tutti gli elementi essenziali dell’obbligazione tributaria doganale (presupposto, soggetti passivi, base imponibile, aliquote, esoneri, regole applicative), nonché le procedure e i vari regimi, sono disciplinati uniformemente dal legislatore comunitario, il quale riserva agli Stati membri soltanto la regolamentazione delle fasi successive al completamento dell’operazione doganale, quali la disciplina sanzionatoria, le modalità di accertamento a posteriori e la fase di contestazione giudiziale.
La normativa attualmente in vigore è contenuta nel Reg. (CEE) 12.10.1992, n. 2913/92, che ha istituito il Codice doganale comunitario (c.d.c.) e nel Reg. (CEE) 2.7.1993, n. 2454/93, che ha fissato le disposizioni di attuazione del codice doganale (d.a.c.), dando vita a un’opera di sistematizzazione e di integrazione della normativa comunitaria di grande rilievo.
Per effetto del progressivo avvicinamento che ha poi condotto alla codificazione doganale, dal I.1.1993, l’Unione europea rappresenta il primo concreto esempio, a livello mondiale, di un’unione doganale, che implica, ai sensi dell’art. 28 TFUE, da un lato, il divieto, nelle transazioni commerciali tra gli Stati membri, di imporre dazi doganali o misure di effetto equivalente alle operazioni intracomunitarie, dall’altro, l’adozione di una tariffa doganale e di una politica commerciale comuni nei rapporti con gli Stati terzi (per approfondimenti, si rinvia a Schepisi, C., Commento all’art. 28 TFUE, in Trattati dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, Torino, 2014, 540 ss.).
Il codice doganale comunitario e le disposizioni di attuazione sono affiancati da alcune norme nazionali, tra cui le più importanti sono contenute nel d.P.R. 23.1.1973, n. 43, che parzialmente integrano le previsioni comunitarie, in particolare per la parte relativa alle procedure di applicazione dei dazi e per le sanzioni penali e amministrative, in caso di violazioni degli obblighi doganali.
Tale quadro normativo, infine, deve essere interpretato anche alla luce dei principi internazionali WTO (World trade organization), in quanto l’Unione europea, a seguito della decisione del Consiglio 22.12.1994, n. 800/CE, è parte dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Il legislatore europeo è pertanto tenuto a rispettare le norme previste, proprio in materia doganale, dal Trattato istitutivo WTO (principio di non discriminazione, principio di reciprocità) e gli Accordi WTO relativi a specifici settori del diritto doganale, quali la regolamentazione sul valore doganale, sui dazi antidumping, ecc. (per approfondimenti sull’effetto diretto delle norme WTO nell’ordinamento comunitario, si veda Venturini, G., L’Organizzazione mondiale del commercio, Milano, 2004, 40 ss.; Farrell, E.J., The interface of International Trade Law and Taxation, Amsterdam, 2013, 30 ss; Mengozzi, P., Les droit des citoyens de l’UE et l’applicabilité directe del Accords de Marrakech, in RMUn, 1994, 165 ss. Recentemente, anche C. giust., 17.1.2013, C-361/11, Hewlett-Packard Europe BV c. Inspecteur van de Belastingdieng/Douane West, kantoor Hoofddorp, p. 57).
È previsto che, a partire dall’ I.5.2016 (ma il termine sarà differito), lo “storico” codice doganale comunitario del 1992, più volte integrato e modificato, sia sostituito dal nuovo codice dell’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio con il regolamento UE 9.10.2013, n. 952.
Il nuovo codice, che entrerà in vigore a seguito dell’adozione delle nuove disposizioni di applicazione, risponde all’esigenza, da un lato, di snellire e aggiornare l’intera normativa comunitaria in materia doganale e, dall’altro, di tenere conto dell’evoluzione del diritto dell’Unione, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore, il I.12.2009, del Trattato di Lisbona.
Lo scopo del nuovo codice è di semplificare e armonizzare le procedure doganali, soprattutto mediante l’introduzione dell’informatizzazione di numerose procedure e lo snellimento dei sistemi di controllo, realizzando il principio secondo il quale tutte le operazioni doganali e commerciali devono essere effettuate per via elettronica, anche al fine di assicurare in tutta l’Unione un controllo doganale di livello equivalente, che scongiuri il rischio di comportamenti anticoncorrenziali ai vari punti di entrata e di uscita dell’Unione (19° considerando, Reg. (UE) 952/2013).
Tra le novità più importanti del nuovo codice, rilevano lo sdoganamento centralizzato di cui all’art. 179 c.d.u., che permetterà, a certe condizioni, di sdoganare la merce presso un ufficio diverso da quello che ha ricevuto fisicamente i beni; la ridefinizione dei regimi doganali, che non saranno più divisi in economici o sospensivi, ma uniformati e ridotti di numero, con conseguenti facilitazioni pratiche per gli operatori; nonché l’obbligo, per gli Stati membri, di punire le violazioni con sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (per approfondimenti: Albenzio, G., I principi fondamentali e le fonti di diritto europeo e internazionale, in Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, a cura di, M. Scuffi, G. Albenzio, M. Miccinesi, Milano, 2014, 66 ss.; Santacroce, B., Dogane 2014, Milano, 447 ss; Cerioni, F., L’obbligazione doganale nel codice dell’Unione, in Corr. trib., 2014, 645).
Sin dai tempi dell’antica Grecia era previsto un prelievo fiscale in connessione con l’attraversamento, da parte di beni o di persone, di una linea di confine, anche cittadina. L’imposizione doganale, proprio perché strettamente connessa al profilo “territoriale”, è sempre stata collegata alla manifestazione di sovranità di uno Stato o di un Comune (o pòlis) e ha assolto una funzione regolativa dei flussi commerciali tra i Paesi (si veda, Nicali, A., Storia delle dogane, Trento, 2003; Padovani, F., I tributi doganali, in Manuale di diritto tributario, a cura di P. Russo, pt. spec., Milano 2002, 283 ss.; Ardizzone, G., Dogana e dazi doganali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1).
Nei tempi moderni, i dazi doganali non rappresentano più un onere dovuto soltanto per il superamento di un confine geografico, ma per l’introduzione di un bene estero all’interno di un circuito commerciale interno. Ciò consente di esentare dal pagamento dei dazi determinate movimentazioni che avvengono all’interno di un territorio politico (transito, deposito doganale) e determinati servizi (immagazzinamento e trasformazione dei prodotti in regime di perfezionamento attivo) in quanto relativi a merci fisicamente presenti nel territorio doganale, ma sotto vigilanza doganale e in regime di merce allo “stato estero”, relativamente alle quali difetta il presupposto di applicazione dei dazi (immissione in libera pratica).
Attualmente, la nozione di dazi doganali è contenuta nell’art. 4, n. 10, c.d.c., il quale definisce come dazi all’importazione «i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente dovuti all’importazione delle merci», nonché le imposizioni all’importazione istituite nel quadro della politica agricola comune o in quello dei regimi specifici applicabili a talune merci derivanti dalla trasformazione di prodotti agricoli.
I dazi doganali sono, pertanto, oneri pecuniari riscossi da un Paese membro in ragione del passaggio di un determinato prodotto alla frontiera con uno Stato terzo e dell’introduzione nel circuito commerciale comunitario (Schepisi, C., op. cit., 551 ss); sono “risorse proprie dell’Unione europea” e vengono accertati, liquidati e riscossi, secondo linee guida dettate a livello europeo, dalle autorità doganali di ciascuno Stato membro (si veda, COM (2011) 500 def. del 29 giugno 2011, cd. programma Dogana 2020).
I dazi doganali in senso stretto, nonostante abbiano natura tributaria, assolvono principalmente una funzione commerciale, giacché consentono, attraverso l’aumento del prelievo all’importazione, una contrazione della domanda di prodotti esteri a vantaggio di determinate industrie comunitarie, mentre la leva dei dazi all’esportazione, in passato, è stata frequentemente impiegata per scoraggiare l’uscita di certi generi di consumo. Attualmente, invece, si registra una tendenza inversa, che ha determinato l’abolizione degli oneri fiscali all’atto dell’esportazione, per consentire ai beni esportati di conservare un livello dei prezzi concorrenziale rispetto ai prodotti del mercato di destinazione.
Tali tributi di confine possono essere commisurati al prezzo della merce importata (dazi ad valorem) oppure alla quantità, al pezzo, alla lunghezza, ai gradi alcolici o al peso dei beni (dazi specifici). I dazi ad valorem, che sono ormai di generale applicazione, sono calcolati in percentuale sul valore dei beni esteri (la percentuale varia a seconda della merce ed è indicata, di norma, nella tariffa doganale comune, vedi par. 3.2), mentre i dazi specifici hanno una più rara applicazione, anche perché rischiano di colpire indiscriminatamente sia l’oggetto di limitato valore che lo stesso bene di elevata manifattura (sul punto, De Cicco, A., Legislazione e tecnica doganale, Torino, 2003, 243; Lombardi, L., Manuale di tecnica doganale e commercio estero, Milano, 2012, 169).
Una volta espletate le formalità previste per l’importazione di una merce, applicate le misure di politica commerciale e versati i dazi legalmente dovuti, si verifica l’immissione in libera pratica (art. 79 c.d.c.), procedura che attribuisce la posizione doganale di merce comunitaria a una merce non comunitaria.
I prodotti provenienti da Paesi terzi e immessi in libera pratica sono totalmente e definitivamente assimilati a quelli di origine comunitaria; essi fruiscono del medesimo trattamento, ai fini della libera circolazione delle merci, dei prodotti originari degli Stati membri (ci si permette di rinviare a Armella, S., Diritto doganale, Milano, 2015, 36). Tranne particolari eccezioni, tutti i beni che si trovano nel territorio doganale dell’Unione si considerano, per presunzione legale relativa, merci comunitarie, sempreché non si accerti che non hanno posizione comunitaria (art. 313 d.a.c.).
L’immissione in libera pratica è un istituto distinto dall’immissione in consumo, che si verifica nel momento in cui l’operatore economico adempie in dogana i diritti di confine relativi alla fiscalità interna (IVA all’importazione e accise); soltanto con l’assolvimento dell’Iva, con le stesse aliquote previste per le cessioni dei medesimi beni nel territorio dello Stato di importazione, il prodotto estero, già immesso in libera pratica, può essere inserito nel circuito commerciale nazionale (anche Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario, vol. II, Torino, 232 ss; De Cicco, A., Importazione, Enc. giur. Treccani, Aggiornamento, XI, Roma, 2003; Carpentieri, L., L’imposta sul valore aggiunto, in Fantozzi, A., Il diritto tributario, 2004, 949.
Molto discussa è la natura dell’IVA dovuta all’atto dell’importazione.
L’art. 34, d.P.R. n. 43/1973, prevede che «si considerano “diritti doganali” tutti quei diritti che la dogana è tenuta a riscuotere in forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali. Fra i diritti doganali costituiscono “diritti di confine”: i dazi di importazione e quelli di esportazione, i prelievi e le altre imposizioni all’importazione o all’esportazione previsti dai regolamenti comunitari e dalle relative norme di applicazione ed inoltre, per quanto concerne le merci in importazione, i diritti di monopolio, le sovrimposte di confine e ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello Stato».
Nonostante la definizione normativa risalente al 1973, che sembra ascrivere alla nozione di “diritto di confine” l’IVA assolta all’atto dell’importazione, in quanto imposta di consumo, è ancora molto discussa, in dottrina e in giurisprudenza, la natura dell’IVA sulle operazioni doganali.
E invero, secondo alcune pronunce della Corte di Cassazione in materia di depositi IVA, l’IVA all’importazione integrerebbe un tributo distinto e autonomo dall’IVA interna, giacché «è dato ricavare una chiara scelta del legislatore nel senso di configurare l’Iva all'importazione come un diritto doganale nell’ampia accezione prevista dall’art. 34, d.p.r. 43/1973» (Cass., sez. trib., 8.10.2001, n. 12333; 19-21.5.2010, nn. 12262, 12263 e 12581).
Un orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, invece, in conformità con i principi espressi anche dalla Corte di giustizia, riconosce carattere di unitarietà all’IVA, per cui l’imposta assolta all’importazione non può configurarsi come un tributo diverso dall’IVA interna.
Secondo tale indirizzo, l’IVA assolta in dogana integra un tributo interno e non un diritto doganale; se diversa è la modalità di liquidazione e di assolvimento del tributo (rispetto ai meccanismi dell’IVA per le operazioni nazionali), determinata da ragioni organizzative, identici sono il presupposto impositivo, il soggetto passivo e l’aliquota. In altri termini, il rimando alla legge doganale, in relazione all’IVA all’importazione, effettuato dall’art. 70, co. 1, d.P.R. 26.10.1972, n. 633, opera soltanto quoad poenam (Cass., sez. III, 9.1.2013, n. 1172; Cass., sez. III, 15.1.2013, n. 1863; 7.9.2012, n. 34256: Cass., sez. III, 4.5.2010, n. 16860; Cass., sez. trib., 8.10.2001, n. 12333). Tale indirizzo ha trovato, da ultimo, conferma nella sentenza Equaland, con cui la Corte di giustizia ha ribadito che IVA all’importazione e IVA interna integrano due modalità applicative della stessa imposta (C. giust., 17.7.2014, C-272/13, Equaland Soc. coop.arl c. Agenzia delle Dogane-Ufficio delle Dogane di Livorno; C. giust., 17.5.2001, C-322/99 e C-323/99, Finanznant Surgdorf c. Hans Georg Fischer e Finanzant Düsseldorf-Mettman c. Klaus Brandenstein; 25.2.1988, C-299/86, Drexl; 5.5.1982, C-15/81, Gaston Schul Douane Expediteur BV c. Inspecteur der Invoerrechten en Accijnzen).
L’istituzione di un’unione doganale, quale strumento per la realizzazione del principio di libera circolazione dei beni tra gli Stati membri, ha rappresentato, fin dall’istituzione della Comunità economica europea, uno degli obiettivi fondamentali dei Paesi fondatori. La creazione di un’unione doganale era prevista – e si è realizzata – attraverso la progressiva abolizione dei dazi di entrata e di uscita, delle tasse di effetto equivalente, delle restrizioni quantitative al commercio internazionale e di norme nazionali che stabilissero forme di discriminazione tra produttori (art. 23 TCE, ora art. 28 TFUE; art. 25 TCE, ora art. 30 TFUE).
Diversa dalla nozione di dazio doganale è quella di “tassa di effetto equivalente”, la quale consiste in un onere economico che produce un effetto analogo a un dazio doganale, senza tuttavia esserlo. A differenza dei dazi doganali, che sono stabiliti sulla base di negoziati cui partecipano tutti gli Stati contraenti, le tasse di effetto equivalente rappresentano uno strumento unilaterale, spesso occulto, di ostacolo agli scambi internazionali (Maresca, M., Le “tasse di effetto equivalente”, Padova, 1984).
Per tale ragione, le tasse di effetto equivalente sono state, da sempre, oggetto di espresso divieto già a partire dall’Accordo GATT 1947, in seguito recepito dagli accordi commerciali internazionali e dai trattati istitutivi delle aree di libero scambio. L’istituzione e il mantenimento di tasse di effetto equivalente è pertanto vietata, a livello internazionale e dunque negli scambi commerciali tra Unione Europea e Paesi terzi, dalle norme WTO.
A livello europeo, l’art. 30 TFUE, prevede espressamente che «le tasse di effetto equivalente sono vietate tra gli Stati membri». Tale divieto assume una funzione complementare rispetto al divieto di imporre dazi doganali, giacché mira a impedire l’innalzamento del costo della merce oggetto di scambio intracomunitario, con conseguente vanificazione dell’effetto liberatorio derivante dalla soppressione dei dazi doganali (per approfondimenti, Marino, L., La libera circolazione delle merci, in Tizzano, A., Il diritto privato dell’Unione Europea, Torino, 2000, 176 ss.).
La giurisprudenza della Corte di giustizia, nel tempo, ha delineato le caratteristiche che un tributo nazionale deve possedere per ricadere nel divieto di cui all’art. 30 TFUE ed essere illegittimo.
In primo luogo, deve trattarsi di un onere pecuniario imposto unilateralmente da uno Stato membro, a prescindere da denominazione, struttura, entità e finalità. Inoltre, l’obbligazione deve sorgere in occasione del trasferimento da un Paese all’altro della linea di frontiera, in entrata o in uscita, di una merce, colpendo così soltanto i beni esteri, con esclusione di quelli nazionali.
Infine, ultima condizione è che il tributo deve essere previsto nel quadro di un regime di oneri fiscali interni, a meno che non abbia a oggetto prestazioni previste o autorizzate da norme dell’Unione Europea (ex pluribus, C. giust., 8.11.2007, C-221/06, Stadtgemeinde Frohnleiten, Gemeindebetriebe Frohnleiten c. Bundesminister für Land-und Forstwirtschaft, Umwelt un Wasserwirtschaft; 21.6.2007, C-173/05, Commissione c. Italia; 18.1.2007, C313/05, Maciej Brzezinski c. Dyrektor Izby Celnej w Warszavie; 9.92004, C-72/03, Carbonati Apuani; 29.4.2004, C-387/01, Herald Weigel e Ingrid Weigel c. Finanzlandesdirektion für Vorarlberg; 2.4.1998, C-213/96, Outokumpu.
Non costituisce, infine, una tassa di effetto equivalente il corrispettivo richiesto dall’Amministrazione per un servizio prestato all’operatore commerciale, sempreché il servizio sia effettivamente richiesto dall’importatore, sia reso a suo vantaggio e sia di importo proporzionale alla qualità della prestazione resa all’operatore (C. giust., 21.3.1991, C-209/89, Commissione c. Repubblica italiana; 12.1.1983, C-39/82, Andreas Matthias Donner c. Regno dei Paesi Bassi; 9.2.1994, C-119/92, Commissione c. Repubblica italiana; 10.12.1968, C-7/68, Commissione c. Repubblica italiana).
L’art. 4, punto 9, c.d.c. definisce l’obbligazione doganale come l’obbligo di una persona di corrispondere l’importo dei dazi all’importazione applicabili, in virtù delle disposizioni comunitarie in vigore, a una determinata merce.
Il presupposto dell’obbligazione doganale è rappresentato dall’immissione in libera pratica, ossia dall’atto di introdurre, nel circuito commerciale comunitario, merce di provenienza extracomunitaria (art. 201 c.d.c.).
Tale atto, nelle operazioni regolari, è preceduto da una dichiarazione di volontà (dichiarazione doganale), attraverso la quale il proprietario della merce manifesta, alle autorità doganali di un Paese europeo, l’intenzione di immettere in libera pratica un prodotto estero.
All’atto dell’accettazione della dichiarazione da parte delle autorità doganali sorge l’obbligazione doganale (art. 201, co. 2, c.d.c.), che viene assolta con il pagamento dei dazi ed eventuali misure di fiscalità nazionale, dovute in caso di contestuale immissione in consumo (IVA, accise).
Nell’attuale evoluzione del diritto doganale, i dazi non sono più dovuti in relazione all’introduzione fisica della merce oltre un varco doganale, ma quale conseguenza della scelta del regime doganale di immissione in libera pratica, ben potendo l’importatore optare per un regime di deposito doganale ovvero di transito doganale esterno, che consentono l’introduzione materiale dei beni nel territorio comunitario, benché come merce allo stato estero e dunque soggetta a un regime di vigilanza e controllo doganale, ma senza corresponsione dei dazi all’importazione fino alla definitiva destinazione.
Nelle operazioni doganali regolari, pertanto, il presupposto per l’applicazione dei dazi è collegato alla presentazione della dichiarazione per l’importazione o l’esportazione, che costituisce espressione di capacità contributiva, in quanto con essa l’operatore manifesta la volontà di rendere liberamente commerciabili i beni esteri in un mercato diverso da quello di origine (Cfr. Falsitta, G.-Schiavolin, R., Le imposte doganali, in Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, 810; Ardizzone, G., Dogane e imposte doganali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 8).
L’immissione in libera pratica nel territorio comunitario di beni di provenienza extraeuropea integra, in ogni caso, il presupposto dell’obbligazione doganale in tutti i casi di “introduzione irregolare” e di “sottrazione indebita al controllo doganale”. La merce, infatti, si presume immessa definitivamente in libera pratica anche quando è introdotta irregolarmente nel territorio doganale dell’Unione (art. 202 c.d.c.), quando è sottratta al controllo doganale (art. 203 c.d.c.; al riguardo, C. giust., 11.7.2013, C-273/12, Harry Winston, e 12.2.2004, C-337/01, Hamann International) ovvero quando vi è stata inadempienza o inosservanza di uno degli obblighi che derivano dalle condizioni stabilite per il vincolo di un bene a un determinato regime (artt. 204 e 205 c.d.c.; per approfondimenti, C. giust., 6.9.2012, C-28/11, Eurogate Distribution GmbH c. Hauptzollamt Hamburg-Stadt, e 15.7.2010, C-234/09, Skatterministeriet c. DSV Road A/S; ci si permette di rinviare a Armella, S., Diritto doganale, Milano, 2015, 71).
Il presupposto può, pertanto, sorgere sia da un fatto lecito che da una condotta irregolare (o anche penalmente rilevante), allorché l’operatore economico importi beni senza attenersi alle prescrizioni dettate dalla legislazione doganale comunitaria. Nelle ipotesi contemplate dall’art. 201 c.d.c., infatti, la nascita dell’obbligazione è collegata alla dichiarazione doganale, mentre negli altri casi, venendo a mancare l’elemento dichiarativo e l’indicazione della destinazione della merce, opera, per motivi di cautela fiscale, una presunzione legale di immissione in libera pratica (Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 1078).
In linea generale, è possibile affermare che nelle operazioni doganali è il dichiarante doganale, ossia colui che presenta la dichiarazione doganale in nome proprio, il soggetto passivo del tributo, ossia colui che realizza l’immissione in libera pratica della merce (art. 201, co. 3, c.d.c.).
Il codice doganale comunitario individua quale soggetto passivo anche lo spedizioniere incaricato delle operazioni doganali che abbia agito in rappresentanza indiretta (ossia in nome proprio e per conto altrui, art. 201 c.d.c.) dell’importatore, con il quale è legato da un obbligo di solidarietà passiva.
E invero, ai sensi dell’art. 201, par. 3, c.d.c., il debitore è il dichiarante, ossia la persona che presenta la dichiarazione in dogana a nome proprio, nonché, in caso di rappresentanza indiretta, è parimenti debitore il soggetto per conto del quale è presentata la dichiarazione in dogana.
Nel caso in cui lo spedizioniere doganale agisca in nome e per conto dell’importatore (cd. rappresentanza diretta, riservata in Italia agli spedizionieri doganali, iscritti nell’albo professionale di cui alla l. 22.12.1960, n. 1612, art. 40, TULD), soltanto l’importatore è obbligato al pagamento dei dazi.
L’estensione della responsabilità al pagamento dei dazi a un soggetto diverso dal dichiarante è circoscritta a ipotesi particolari, principalmente riconducibili ai casi di introduzione irregolare della merce e di sottrazione indebita al controllo doganale. Ricorrendo tali presupposti oggettivi, sono altresì responsabili, oltre al soggetto che ha materialmente compiuto l’irregolarità, anche coloro che hanno partecipato all’illecito, sapendo, o dovendo sapere, dell’irregolarità della condotta realizzata dall’importatore.
L’art. 213 c.d.c. prevede, inoltre, una solidarietà passiva tra tutti coloro che sono ritenuti debitori di un’obbligazione doganale, il cui pagamento può essere richiesto a ciascuno per l’intero: tra essi rientrano coloro che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione, che avrebbero dovuto essere a conoscenza della loro erroneità, quando i dati da loro forniti abbiano prodotto una mancata riscossione, anche solo parziale, dei dazi dovuti (Trivellin, M., Rappresentanza indiretta nel regime dell’immissione in libera pratica: problematiche aperte sulla soggettività passiva in materia di dazi e di Iva all’importazione, in Dir. prat. trib., 2004, I, 551 ss.).
Individuato il presupposto dell’obbligazione doganale e i soggetti passivi tenuti al versamento dei dazi, occorre procedere alla liquidazione dell’importo dovuto (cd. contabilizzazione), che avviene sulla base di tre elementi fondamentali: la classificazione della merce, avendo riguardo alle indicazioni fornite dalla tariffa doganale comune, l’origine e il valore dei prodotti.
Per quanto riguarda la classificazione, l’importazione di prodotti da Paesi terzi comporta la riscossione di diritti doganali, sulla base della tariffa doganale comune adottata dall’Unione europea. La tariffa è comune a tutti i Paesi membri e, pertanto, rende del tutto uniforme il prelievo tributario doganale sulla merce estera, determinando così l’irrilevanza, ai fini dell’applicazione e della misura dei dazi, che l’immissione in libera pratica avvenga presso gli uffici doganali di uno Stato piuttosto che di un altro.
Gli elementi essenziali della tariffa sono il codice della nomenclatura combinata (che classifica i beni in relazione alle loro caratteristiche e proprietà obiettive) e l’aliquota, che fissa, in relazione a ciascun prodotto importato, l’importo del dazio dovuto.
La liquidazione dei dazi doganali ad valorem (di gran lunga più diffusi) avviene applicando alla base imponibile, rappresentata dal valore doganale della merce, i dazi nella percentuale risultante dalla tariffa doganale, tenuto conto di eventuali restrizioni, agevolazioni o esenzioni. Nella liquidazione dei dazi specifici, invece, il dazio è rappresentato da una somma fissa di denaro riferita all’unità di misura prevista.
Per la liquidazione dei dazi, oltre alla tariffa comune, rappresentano due elementi fondamentali anche l’origine e il valore.
L’origine doganale della merce identifica il Paese di produzione di un bene, ai fini della corretta applicazione della tariffa doganale e delle altre misure di politica commerciale (artt. 22 e ss. c.d.c.; artt. 35 e ss. d.a.c.).
In particolare, l’identificazione del luogo di origine di un prodotto è necessario non soltanto per individuarne il trattamento daziario – ossia l’aliquota daziaria applicabile alla base imponibile – ma anche per determinare le eventuali misure di politica commerciale europea applicabili (dazi antidumping, limiti quantitativi, agevolazioni), per provvedere all’etichettatura dell’origine (cd. Made in), nonché per applicare eventuali misure sanitarie e fitosanitarie (si veda, Moriconi, L.-Zanga, M., Guida pratica sull’origine delle merci, Milano, 2011; Forte, E.P.-Cerioni, F.-Palacchino, T., Il diritto tributario comunitario, Milano, 2004, 70).
Anzitutto, è opportuno precisare che il concetto di origine deve essere distinto da quello di provenienza giacché, ai fini dell’applicazione della tariffa doganale, occorre fare riferimento al Paese in cui il bene è realizzato e non già a quello da cui lo stesso è fisicamente spedito.
L’origine può essere preferenziale o non preferenziale. L’origine non preferenziale rappresenta la regola applicabile a tutti i prodotti importati da Paesi con i quali l’Unione europea non ha stipulato specifici accordi (attualmente, Usa, Giappone, Canada e Australia): per tali beni, l’aliquota daziaria applicabile è quella riportata nel testo della tariffa doganale comune.
Il codice doganale comunitario prevede la prima regola per la determinazione dell’origine non preferenziale all’art. 23 c.d.c., ai sensi del quale si considerano originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese.
La sempre maggiore complessità dei processi produttivi, tuttavia, comporta che molti prodotti siano il risultato di più fasi di lavorazione e della combinazione di materie prime e semilavorati provenienti da diversi territori.
In tali circostanze, quando alla produzione di un bene abbiano contribuito due o più Stati, la merce è considerata «originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione» (art. 24 c.d.c.). Per lavorazione sostanziale si intende quella in grado di attribuire ai componenti utilizzati un quid pluris rispetto al loro mero assemblaggio, di modo che il prodotto finito presenti caratteristiche peculiari rispetto alla mera sommatoria delle sue parti (si vedano C. giust, 10.12.2009, C-260/08, Bundesfinanzdirektion West c. HEKO Industrieerzeugnisse GmbH; 23.2.1984, C-93/83, Zentrag c. Hauptzollamt Bochum e 26.1.1977, C-49/76, Gesellchaft Fuer Ueberseehandel c. Handelskammer Hamburg).
L’origine preferenziale, invece, si sostanzia in un trattamento agevolato, di riduzione o di esenzione dai dazi, riconosciuto ai prodotti originari di Paesi con i quali l’Unione Europea ha sottoscritto accordi preferenziali o ai quali sono state concesse preferenze unilaterali (cfr. De Cicco, A., Legislazione e tecnica doganale, Torino, 2003, 342).
Il valore in dogana è il valore attribuito alle merci all’atto di importazione e determina la base imponibile sulla quale calcolare i dazi.
L’art. 29 c.d.c. prevede, quale principio generale, che «il valore in dogana delle merci importate è il valore di transizione, cioè il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità».
Come più volte affermato dalla Corte di giustizia, la normativa comunitaria in materia di valutazione doganale mira a stabilire un sistema equo, uniforme e neutro che escluda l’impiego di valori in dogana arbitrari e fittizi. Il valore in dogana, pertanto, deve riflettere il valore economico reale di una merce importata e tenere conto di tutti gli elementi di tale bene che presentano un valore economico (cfr. C. giust., 19.3.2009, C-256/07, Mitsui & Co. Deutschland GmbH c. Hauptzollamt Düsseldorf; 16.11.2006, C-306/04, Compaq Computer International c. Inspecteur der Belasting Dienst-Douanedistrict Arnhem).
Il criterio generale del valore di transizione si applica a condizione che non esistano restrizioni per la cessione o per l’utilizzazione delle merci da parte del compratore, che la vendita o il prezzo non sia subordinato a condizioni o prestazioni il cui valore non possa essere determinato, che nessuna parte del prodotto ritorni al venditore e, infine, che compratore e venditore non siano “legati” (l’art. 143 d.a.c. illustra i casi in cui il venditore e il compratore sono considerati legati, ai sensi dell’art. 29 c.d.c.).
Inoltre, nel caso in cui le autorità doganali manifestino fondati e motivati dubbi sul valore dichiarato in dogana, possono, ai sensi dell’art. 181 bis d.a.c., nel rispetto del principio del contraddittorio endoprocedimentale, richiedere all’operatore di fornire informazioni e documenti complementari.
Al prezzo effettivamente pagato si addizionano anche componenti diversi, se sono a carico del compratore e non figurano già nel valore indicato in fattura, tra cui: le commissioni e le spese di mediazione, escluse le commissioni di acquisto (si veda C. giust., 5.12.2002, C-379/00, Overland Footwear LTd c. Commissioners of Customs & Excise), le spese di trasporto e di assicurazione, nonché le spese di carico e movimentazione, soltanto fino al luogo di introduzione delle merci nel territorio doganale comunitario.
Inoltre, l’art. 32, par. 1, lett. c), c.d.c. dispone che devono essere aggiunti al valore in dogana «i corrispettivi e i diritti di licenza (cc.dd. royalties) relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare».
Ciò significa che il pagamento dei diritti di licenza non è, di per sé, sufficiente a giustificarne l’assoggettamento a imposizione. Tali diritti, infatti, devono essere aggiunti al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate, nella misura in cui gli stessi non siano stati inclusi nel prezzo di vendita, a condizione che: siano relativi alle merci da valutare e che il compratore sia tenuto a pagarli, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare (nello scenario a tre parti, in cui le royalties sono corrisposte a un soggetto diverso dal fornitore estero, queste concorrono alla formazione della base imponibile soltanto se il venditore o una persona a esso legata ne richieda il pagamento all’acquirente) (artt. 157 e 160 d.a.c.; per approfondimenti, si veda Armella, S., Il valore delle merci rilevante ai fini doganali e le royalties, in L’Iva, 2010; documenti di prassi, circ. Agenzia delle dogane 30.11.2012, n. 21/D; Commentario 25.1 del WTO del giugno 2011; e Taxud 800/2002).
Ai sensi dell’art. 33 c.d.c., invece, sono escluse dal valore doganale le spese di trasporto delle merci dopo il loro arrivo nel luogo d’introduzione nell’Unione europea, le spese relative ai lavori di costruzione, installazione, manutenzione e montaggio iniziati dopo l’importazione, le commissioni d’acquisto, nonché gli interessi conseguenti a un accordo di finanziamento concluso dall’acquirente e relativo alle merci importate (al riguardo, C. giust., 4.6.1992, C-21/91, Wünsche c. Hauptzollamt Hamburg-Jonas).
Infine, il codice doganale comunitario prevede che, quando il valore in dogana non può essere determinato sulla base dell’art. 29 c.d.c., operano criteri alternativi secondari, che devono essere utilizzati rigorosamente in ordine gerarchico: valore di transizione di merci identiche, valore di transizione di merci similari, valore fondato sui prezzi unitari, nonché valore ricostruito sulla base dei costi di produzione.
Reg. (CEE) 12.10.1992, n. 2913/92; Reg. (CEE) 2.7.1993, n. 2454/93.
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