TRINITÀ
. 1. Questo termine nel linguaggio cristiano e conforme alla teologia cattolica, riferendosi cioè a Dio uno nell'Essenza (Essere assoluto, natura, sostanza) e trino nelle Persone (Essere relativo, Relazioni sussistenti, Proprietà ipostatiche), designa il mistero più augusto e fondamentale del cristianesimo, quello che lo differenzia da tutte le altre religioni, anche monoteistiche. Esso tocca, sia pure con nozione meramente analogica, le profondità della vita divina - della vita intrinseca, cioè, identificata in quelle relazioni e operazioni che i teologi chiamano ab intra, necessarie ed essenziali, come una cosa stessa con l'Essenza divina, operazioni immanenti dell'intelligenza (Logos, Verbo) e della volontà (Amore, Spirito Santo) - per distinguerle dalle relazioni e operazioni ad extra, libere e aventi per termine estrinseco l'effetto creato.
Di queste profondità (profunda Dei; βάϑη τοῦ ϑεοῦ) vale anzitutto ciò che dice S. Paolo (I Cor., II, 7-11) che sono "la sapienza di Dio nel mistero, occulta e da niuno dei principi o sapienti di questo secolo conosciuta; anzi non possibile a conoscersi se non per la rivelazione dello Spirito medesimo, in cui questa vita misteriosa si avvera. Perché chi tra gli uomini conosce le cose dell'uomo, fuorché lo spirito dell'uomo che sta in lui? Così pure le cose di Dio niuno le conosce fuorché lo Spirito di Dio". E ciò tanto più se si considera l'infinità di Dio in tutte le sue perfezioni e operazioni, trascendenti ogni capacità di mente creata o creabile; infinità che faceva esclamare a Dante: "Matto è chi spera che nostra ragione - Possa trascorrer la infinita via - Che tiene una sustanzia in tre persone" (Purg., III, 34 segg.). Né certo potrebbe dirsi propria di Dio quella vita intrinseca od operazione immanente che si potesse appieno comprendere dalla mente creata.
Ma il dogma è sopra, non già contro, la ragione creata, non involge cioè contraddizione alcuna, quando svela nell'infinita perfezione della natura divina un "Assoluto esistente in tre Relativi", ovvero sia il sussistere di tre relazioni, distinte fra loro - per l'opposizione propria della relazione, che non dice negazione né imperfezione - ma identificate con la sostanza medesima, da cui hanno il loro sussistere, di Principio intelligente o Padre generante, di Verbo intelletto o Figlio generato, di Amore spirato o Spirito procedente dal Padre e dal Figlio; e perciò sono un solo Dio: "O luce eterna che sola in te sidi - Sola t'intendi, e da te intelletta - E intendente, te ami ed arridi" (Parad., XXXIII, 124 segg.).
Nella natura ragionevole si può scorgere un'immagine o un indizio (per speculum et in aenigmate) della Trinità divina, in quanto essa, "simile al Padre, ha l'essere; simile al Figlio, ha l'intelligenza; simile allo Spirito Santo, ha l'amore; simile al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, ha nel suo essere, nella sua intelligenza, nel suo amore, una stessa felicità, una stessa vita. Non le si potrebbe togliere qualche cosa, senza toglierle tutto" (Bossuet, Elevazioni sui misteri, 4a sett., 7a elev. Cfr. 2a settimana, elev. 1-9). E la somiglianza è più rigidamente dichiarata da S. Tommaso: "La mente stessa, per ciò che intende sé medesima in atto, concepisce in sé medesima il suo verbo, il quale non è altro che l'intenzione intelligibile nella mente, che si dice anche intenzione intelletta, esistente nella mente (verbo mentale). E questa ulteriormente amando sé stessa, produce sé stessa nella volontà, come oggetto amato; né può procedere più avanti, ma si chiude come in un circoolo, mentre l'amore ritorna alla sostanza stessa da cui era cominciata la processione dell'intenzione intelletta (verbo mentale), ma si fa la processione agli effetti esteriori, mentre per l'amore di sé procede a fare qualche cosa. E così nella mente si trovano tre cose: la mente stessa che è principio della processione, esistente nella sua natura, e la mente concepita nell'intelletto e la mente amata nella volontà" (Contra Gent., l. 4, c. 26).
La somiglianza sta dunque in ciò che nell'anima si dà un'origine o processione del verbo mentale dell'uomo che intende sé stesso, e un'altra processione di una cotale inclinazione o amore dell'uomo che ama sé stesso; e l'una si può dire che sia l'uomo nel suo essere conosciuto, l'altra nel suo essere amato.
Ma questa somiglianza è accompagnata pure da una dissomiglianza profonda, in cui sta la misteriosità del dogma: perché queste processioni o relazioni nell'uomo, come l'intendere e l'amare, sono accidentali; non sono l'essere stesso dell'uomo. In Dio, al contrario, non può darsi accidente, ma è una stessa cosa l'essere, l'intendere e l'amare: una stessa divinità quindi è il Padre, che nella eterna comprensione di sé genera ab aeterno il Verbo consustanziale, perciò vero Figlio; e una stessa è il Figlio o Verbo generato nella sostanza e medesima perfezione del Padre, e lo Spirito Santo, amore eterno dell'uno e dell'altro, procedente dal Padre mediante il Figlio, come dicono gli antichi Padri greci, o, come meglio spiegano i Padri latini, dal Padre insieme e dal Figlio, quale loro mutuo amore. Così ragiona S. Tommaso (Compend. theol., c. 50): "Deus ergo in esse suo naturali existens et Deus existens in intellectu et Deus existens in amore suo unum sunt". Ma ognuno di essi è sussistente, e per motivo della processione l'uno è distinto dall'altro; perciò è persona, o come i Greci dicono, ipostasi; triplice ipostasi identificata nell'essere assoluto, distinta nel relativo, come si disse; onde appare la profondità impenetrabile della misteriosa vita divina.
2. Il mistero della Trinità di Dio fu ignorato da tutta la gentilità, né può trovare nelle mitologie pagane riscontro o traccia di vera somiglianza, sebbene anche in queste alcuni osservatori superficiali, apologisti esagerati o filosofi tradizionalisti, quali lo Chateaubriand, il Lamennais, il Bonnetty, abbiano preteso di scoprire indizî di una primitiva rivelazione della Trinità. Anche il Gladstone, com'è noto, credette di scorgerne un vestigio nel tridente di Nettuno. Ma più avanti, i critici razionalisti, tra gli studiosi della storia delle religioni massimamente, presumono spiegarne le origini per via dell'influenza delle religioni pagane, ovvero, come l'Usener, mediante l'azione di un istinto o creazione spontanea dei gruppi ternarî di divinità o di eroi. Ma questa è un'ipotesi insussistente, che trascura affatto l'elemento essenziale della questione, il carattere proprio della Trinità cristiana, e le sue relazioni con la fede monoteistica d'Israele.
Che se anche il popolo d'Israele non ebbe la rivelazione esplicita del mistero, ne venne tuttavia ricevendo successivamente qualche lume o accenno, almeno di ombra o figura della realtà, come in Genesi, I, 26, III, 22; e in Isaia, VI, 8; e poi via via più espressivo quanto più si confermava nella fede dell'unità divina, come avvenne dopo il ritorno dall'esilio e più ancora dopo la lotta dei Maccabei. Allora, nel giudaismo palestinese e in quello alessandrino e della "diaspora", si ha uno svolgimento delle dottrine antiche, preparatrici della nuova rivelazione - come quelle di Dio padre, dello Spirito, della Sapienza (della quale si trova già cenno in Giobbe, e in Baruch - nei testi più espliciti dei Proverbî (VIII, 22, segg.) dell'Ecclesiastico (XXIV, 3 segg.) e specialmente della Sapienza di Salomone (VII-IX). In essi è dato tanto rilievo alla dottrina della Sapienza, preesistente a tutte le cose create, che appare sussistente quale ipostasi divina. E se dai Giudei anteriori alla rivelazione cristiana venne identificata con la Legge, da S. Paolo (Colossesi, I, 15, e più di proposito in Ebrei), dai primi apologisti della fede contro i gentili e i Giudei, e dai difensori dell'ortodossia contro gli eretici, massime nella controversia ariana, fu applicata al Verbo, Figlio di Dio, coeterno e consustanziale al Padre.
Né questa dottrina si può confondere con la teoria di Filone di Alessandria (v.) circa il Logos, da lui concepito come un intermediario fra Dio e gli uomini, destinato a riempire la distanza infinita che li separa, ma , "non increato come Dio, né creato come noi", un essere mitico, dunque, meramente subalterno e oggetto di speculazione filosofica, non di fede religiosa, non persona viva ed operante, come Cristo Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, e Salvatore del genere umano, quale ci è rappresentato, per es., nel prologo del IV Vangelo. Ché se alcuni cristiani, massime alessandrini, e anche qualche dottore come Origene, non si guardarono sempre da infiltrazioni della filosofia di Filone, sì che queste diedero poi fomento all'arianesimo sorto appunto in Alessandria, ciò fu per un abbaglio di pochi e per lo più involontario, siccome dovuto all'incertezza dei termini non ancora fissati, e certamente opposto alla più schietta tradizione; giacché gli scrittori apostolici prima, e poi i Padri susseguenti sorti a impugnare l'arianesimo, non discesero mai a compromessi dottrinali, anche quando dal linguaggio corrente, ispirato da quella filosofia umana, ritrassero qualche termine, metafora o nozione da esprimere o chiarire le verità della rivelazione cristiana.
Tuttavia anche questa rivelazione, succeduta alla lenta preparazione giudaica, fu graduale e progressiva; e ciò, col successivo svolgersi della cognizione e penetrazione maggiore della verità dogmatica, dà luogo alla storia del dogma, cominciando dalle prime origini cristiane.
3. Anzitutto, la rivelazione del dogma trinitario appare implicita nella manifestazione della divinità di Cristo come Figlio di Dio, e poi in quella dello Spirito Santo. Quanto alla prima, le testimonianze abbondano sia nei Vangeli Sinottici e in Giovanni, sia nell'insegnamento e nelle manifestazioni del Figlio di Dio che n'è l'oggetto. Tali, fra altre, il messaggio dell'Angelo a Maria (Luca, I, 32-35); il saluto della cugina Elisabetta (Luca, I, 43); l'inno di Maria in risposta ad esso (ibid., 46 segg.); il racconto di Luca e di Matteo delle manifestazioni divine che ne accompagnarono la nascita e l'infanzia; la scena del battesimo di Gesù, trent'anni appresso, chiusa dall'apparizione della colomba e dalla voce celeste, che proclama: "Tu sei il mio Figliuolo unico" (υἱὸς ἀγαπητός), come nell'uso ellenistico di allora significa la parola, più che "figlio prediletto"; la ripetuta confessione di Pietro e degli altri apostoli, che Cristo conferma (Matt., XIV, 22-33; XVI, 13-17; Luca, V, 4-21; Giov., VI, 67-69); la teofania gloriosa della Trasfigurazione (Matt., XVII,1-8); il rivendicarsi, che Cristo fa ripetutamente, un'autorità suprema nel suo insegnamento (Matt., VII, 28), il potere divino di rimettere i peccati (Marco, II,1-12), la padronanza del sabbato, l'impero sulle tempeste e sulla natura tutta, e la preminenza sul tempio stesso di Dio (Marco, II, 23-28; Matt., XII, 5-6); la proclamazione esplicita della sua dignità superiore a quella di David che l'appella "Signore" (Marco, XII, 35-37), e della sua qualità di giudice supremo più volte riaffermata (Matt., VII, 22-23; XXVI, 36-40; XVI, 27; cfr. XXIV, 30-31) e da ultimo confermata con la descrizione profetica del giudizio universale, "quando verrà nella sua gloria coi suoi angeli" (Matt., XXV, 31-46); ma più esplicita di tutte la testimonianza data innanzi al sommo sacerdote, che in nome del Dio vivente lo scongiurava a rispondergli se egli era "il Cristo, figlio di Dio"; testimonianza che fu appunto il pretesto della sua morte.
Questa sua figliazione divina Cristo medesimo viene poi svelando nei suoi discorsi, riportati dai Vangeli Sinottici e più ancora da Giovanni, mentre accenna, per esempio, alle intime comunicazioni e relazioni che lo uniscono a Dio Padre in una reciprocità tanto perfetta che importa comunanza di natura. Così in Matteo (XI, 25-27), e Luca (X, 21-22), quando afferma: "Tutte quante le cose sono state a me date dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio, fuori del Padre, e nessuno conosce il Padre, salvo il Figlio e salvo quello a cui il Figlio l'abbia voluto rivelare". E a questo si aggiungono gli altri passi che ce lo mostrano unico Mediatore nostro presso il Padre, per cui e in cui egli vive e comunica la vita agli uomini (Giov., VI, 57; XVII, 21), mentre ha tutto quello che ha il Padre: la stessa potenza (Giov., II, 17), la stessa scienza (XVI, 30), l'azione medesima vivificante (V, 21-16; VI, 51), la medesima natura (X, 30). Ma la mediazione, di cui qui si parla, non ha nulla a che fare con quella che Filone attribuisce al suo Logos: non è azione o servizio di un agente subordinato, ma è l'azione di Chi, essendo vero Dio e insieme vero uomo, unisce nella sua persona le due nature, e quale Uomo-Dio, riconciliando la natura umana con Dio suo Padre, spande su di essa le ricchezze infinite che dal Padre egli tiene, mentre "della pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto" (Giov., I, 16). Con ciò anche s'intende in giusto senso il duplice modo con cui ci appare la persona di Cristo e il diverso tono delle sue parole, a seconda che si manifesta e parla secondo l'una o l'altra natura, come uomo "essendo minore del Padre", e come Dio essendo una cosa con lui: Ego et Pater unum sumus (Giov., X, 30; cfr. I Gov., V, 7).
Alla rivelazione del Figlio di Dio va congiunta quella dello Spirito Santo, che si manifesta, non per la sua persona, ma per la comunicazione dei suoi doni o l'azione della sua virtù, fin dalla concezione verginale di Cristo stesso (Luca, I, 35) e degli avvenimenti straordinarî che l'accompagnano e la seguitano, diffondendosi particolarmente su Giovanni Battista (Luca, I, 15) e i suoi genitori Elisabetta (I, 41) e Zaccaria (I, 61): effusione di grazia già predetta dai profeti, specialmente Isaia (XI, 1-2, ecc.), Ezechiele (XI, 19), e Gioele (II, 28-29). Più pubblica fu la teofania nel battesimo di Gesù, apparendovi lo Spirito in forma di colomba, mentre nel ministero pubblico si manifestò l'azione dello Spirito stesso sulla persona di Cristo (Marco, I, 12; Luca, IV, 14; X, 21), e poi nella vita della Chiesa con l'assistenza agli Apostoli e ai loro seguaci, onde Cristo promette che "lo Spirito Santo parlerà" in essi (Marco, XIII, 11) e ad essi "insegnerà tutto ciò che converrà dire" (Luca, XII, 12). E ancora dice Cristo che "la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata" (Matt. XIII, 31); ed è una testimonianza che i Padri non cessavano d'invocare nel difendere la divinità dello Spirito Santo contro i macedoniani. Ma questa divinità soprattutto è proclamata da Cristo, nel discorso dell'ultima Cena, ripetutamente (Giov., XIV, 15-26; XV, 26; XVI, 7-15), ove lo Spirito è rappresentato non solo come un dono, ma come una Persona viva, non meno del Padre e del Figlio, un "altro Paraclito" o Consolatore, inviato dal Padre in nome del Figlio, che ne richiamerà le parole, ne insegnerà e chiarirà tutte le verità, gli renderà testimonianza e lo glorificherà, prendendo da lui ciò che annunzierà (Giov., XXII, 14 segg.); e più solennemente nell'atto di affidare agli Apostoli la continuazione della sua missione stessa e prescrivere la formula dell'aggregazione alla sua Chiesa: "A me è stata data ogni potestà in cielo e su la terra. Andate dunque, insegnate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo" (Matt., XXVIII, 17 segg.).
Le rivelazioni di Cristo ai suoi Apostoli, raccolte nei Vangeli, sono poi chiarite ancora da nuove rivelazioni degli Apostoli stessi, registrate negli altri libri sacri del Nuovo Testamento, da quello degli Atti degli Apostoli segnatamente - il quale narra i primi passi della Chiesa nascente, descrivendovi in particolare la vita e l'azione dello Spirito Santo in essa, cominciando dalla maravigliosa manifestazione del dì di Pentecoste (Atti, II), tanto che tutto il libro fu detto il "Vangelo dello Spirito Santo" - dall'Apocalisse e dalle Epistole di S. Giovanni, e più ancora da quelle di S. Paolo. Questi, prima apostolo che teologo, si propone anzitutto di custodire, difendere e trasmettere integro "il deposito", da lui ricevuto, delle verità rivelate, come un messaggio che non è suo, ma di Cristo Gesù. Quindi la fede medesima in Cristo e nelle sue relazioni con Dio Padre e con lo Spirito Santo è presupposta da Paolo nelle sue Lettere, tanto in quelle indirizzate alle comunità cristiane non fondate né ancora visitate da lui, come ai Romani, quanto alle altre, come ai Corinzî e ai Galati, ch'egli aveva formato personalmente. Vero è che questa fede comune alla Chiesa nascente, egli svolge e dichiara per lo più in ordine al dogma della salvezza e perciò della Redenzione umana, operata da Cristo, che è in verità il centro di tutta la fede cristiana; onde la teologia trinitaria, e in particolare quella riguardante lo Spirito Santo, non vi può avere un'esposizione metodica e chiara, ma vi è toccata per lo più con esclamazioni rapide, digressioni o allusioni. In queste tuttavia si sente la fedee tanto più profonda dell'apostolo e tanto più familiare ai suoi discepoli, quale del resto la riconosciamo pure dagli altri documenti della Chiesa nascente.
In questa, infatti, si trova già la formula trinitaria menzionata sopra - "formula battesimale" (Matt., XXVIII, 19) - la più esplicita, divenuta quasi tessera del cristiano, professione di fede della Chiesa universale, e sua testimonianza costante della Trinità. Tale essa appare fino dai primi testi liturgici, come nella Didachè (cap. 7); un cinquantennio appresso, nell'Apologia di Giustino (LXI, 3); quindi in Ireneo nella Dimostrazione della predicazione apostolica e nella confutazione delle eresie (Contra Haeres., III, 17, 1), ove egli si appella ad essa formula come a "regola di fede inalterabile". La formula stessa diviene poi, meritamente, al tempo delle controversie trinitarie e cristologiche, uno dei più validi argomenti dei difensori dell'ortodossia; tanto più che, unita ai riti del battesimo, la formula liturgica si accompagna poi alla professione e recita dell'antico "Simbolo degli Apostoli", detto perciò anche "Simbolo battesimale". Di esso già Ireneo dà un compendio, quasi a commento o svolgimento della formula trinitaria, ripartito in tre articoli: Dio Padre, Verbo di Dio e Spirito Santo, mostrandone insieme i due aspetti, di oggetto della fede e di fondamento della salvezza. E questo "Simbolo battesimale" preso come estensione e dichiarazione della formula trinitaria, servì di fondo al Simbolo di Nicea che vi fece le aggiunte o dichiarazioni richieste dalla necessità di opporsi ai nuovi errori, e più tardi anche al cosiddetto "Simbolo Atanasiano" dopo le controversie trinitarie e cristologiche.
Né altro simbolo o regola di fede propose la Chiesa ai suoi fedeli, né altro oppose agli eretici che insorsero anche nei tre primi secoli; sicché il cristiano dappertutto, come scriveva Ireneo, contemplava lo stesso lume della fede, come il medesimo sole di Dio.
Non è da negare tuttavia che negli scrittori anteriori al concilio di Nicea troviamo talora oscurità e deviazioni, né solo in chi piegò verso l'eresia, quali Taziano, Novaziano, Tertulliano, con l'autore dei Philosophumena (Ippolito?), ma anche in altri sinceramente ortodossi, tuttavia sviati da concezioni filosofiche o da speculazioni troppo ardite o pericolose, attesa l'altezza e arduità dell'argomento, come Clemente Alessandrino, Origene e perfino Dionigi di Alessandria: il quale perciò fu anche richiamato alla precisione della dottrina ortodossa da una lettera del suo omonimo vescovo di Roma, sottoscritta da un concilio di vescovi, adunatosi in Roma. Questa lettera, di Dionigi papa, resta uno dei documenti più importanti nella storia del dogma anteniceno, massime considerato quale espressione e dichiarazione autentica e autorevole della fede cristiana; onde le viene quel tono autoritativo che altri le rimprovera a torto (cfr. A. Harnack, Dogmengeschichte, I, 772).
Anche gli autori anteniceni, del resto, gli alessandrini nominatamente e gli apologeti, che hanno frasi o indizî di subordinazionismo, riconoscono che il Figlio di Dio non è creatura, e sono quindi ben lontani dall'arianesimo (v.). Perciò, quando questo si diffuse, trovò la coscienza cristiana tanto contraria che nel concilio di Nicea due soli vescovi osarono difendere Ario, e dal centro stesso di Alessandria insorse il più forte e magnanimo oppositore nel grande S. Atanasio, e dietro a lui, oltre i vescovi di Roma, i più grandi vescovi di Occidente, come Ilario di Poitiers, Eusebio di Vercelli, Osio di Cordova che primo aveva sottoscritto la definizione nicena, e più tardi il genio di S. Agostino e, in Oriente, Gregorio di Nissa, detto perciò il "teologo", Gregorio di Nazianzo e Basilio Magno, per dire solo dei principali. Le lotte pertanto e le discussioni che ne seguirono, se commossero profondamente il popolo cristiano, furono anche l'occasione di un maggiore svolgimento e progresso della teologia cattolica, sul punto della dottrina trinitaria e cristologica segnatamente. Di poi sorto anche l'errore di Macedonio contro la divinità dello Spirito Santo, la dottrina cattolica venne pure difesa su questo punto, specialmente dai tre dottori cappadoci, massime da S. Basilio, e definita poi dal Concilio di Costantinopoli, diretto dal Nazianzeno, che ne fece un'aggiunta al Simbolo di Nicea (Simbolo Costantinopolitano).
Da questi dottori fu tentata pure l'analisi del dogma, ma sempre fondata sui dati dogmatici del Vangelo e dell'antica tradizione, insistendosi, da S. Agostino nominatamente (Ep., 238), sulla distinzione fra la natura, che è unica, e le relazioni che si distinguono perché si oppongono fra loro, come padre e figlio, come spirante e spirito che ne procede.
4. Dalla medesima tradizione patristica, e massime da S. Agostino, dipende poi la serie dei dottori dell'età susseguente, della medievale soprattutto con l'avvento della scolastica, che sempre più insiste, nell'analisi del dogma trinitario, su questa doctrina relationis. Così, dopo S. Bernardo e S. Anselmo, che vi si appoggiano contro Abelardo, prende a illustrarla Pietro Lombardo; e la sua formula trinitaria fu poi approvata dal Concilio Lateranense IV (1215) sotto Innocenzo III, in opposizione a quella di Gioacchino da Fiore che l'aveva impugnata. Poi, e con più studiata adesione alla filosofia aristotelica, v'insistono gli scolastici susseguenti, nominatamente S. Tommaso d'Aquino, S. Bonaventura di Bagnoregio, Duns Scoto e i loro discepoli, sebbene con qualche divergenza su punti secondarî (secondo un più o meno stretto "augustinismo" o aristotelismo), non essendo l'analisi o spiegazione teologica per sé obbligatoria.
Essa, profittando dei concetti filosofici per illustrare il dogma, richiama qui il concetto primigenio di relazione, che Aristotele rivendica contro altre scuole, e annovera tra le "categorie" dell'essere (predicamento πρός τι; ad aliud), definendolo in astratto habitudo unius ad aliud. Così nell'essere - che è concetto analogo, non già univoco - oltre l'assoluto (esse in) che costituisce e perfeziona l'essere in sé, va distinto l'essere relativo (esse ad), il quale non dice per sé modificazione del soggetto, ma riguardo, ordine o riferenza a un altro e suppone, quindi, tre elementi: il soggetto che si riferisce, il termine cui va riferito, e il fondamento per cui si riferisce, cioè la ragione di questa riferenza; come, ad es., l'origine di Pietro rispetto a Paolo nella relazione di paternità o di filiazione. Ciò importa un'opposizione dei due termini relativi; non però implica per sé negazione o rimozione e quindi non contiene necessariamente neanche idea d'imperfezione, potendo bene l'uno e l'altro dei due termini relativi considerarsi come perfetto, quale, ad es., il padre e il figlio, nei relativi di origine, equivalenza, somiglianza e simili. Per questo rispetto, che non include imperfezione, può darsi la relazione anche in Dio.
Se la riferenza risulta solo da un'operazione intellettuale, in quanto cioè è costituita nelle cose considerate dalla mente, si ha una relazione meramente logica o soggettiva (relatio rationis), come è quella delle cose esterne alla nostra mente, da cui non dipendono nell'essere; se sta invece nella natura o azione delle cose stesse - in ordine rei ad rem - per un'azione o passione reale che le congiunge, si avrà allora una relazione reale e obiettiva, come la menzionata relazione di paternità o filiazione, ancorché a noi sia necessaria l'avvertenza della mente alla riferenza o comparazione dei due termini relativi.
E sebbene, per la natura speciale di questa "categoria", si possa aggiungervi nella considerazione un'immensa varietà e molteplicità di relazioni meramente logiche o di ragione, non ne segue che tali siano tutte le relazioni; il che sarebbe negare l'oggettività, ossia l'esistenza stessa, della relazione e perciò anche di ogni ordine reale nell'universo. Ora dalla necessità appunto che si dia quest'ordine nelle cose, e dall'esperienza che lo mostra esistente nell'universo, quale una perfezione speciale, un bene dell'universo stesso, si dimostra l'oggettività o esistenza di relazioni nelle cose stesse, in quanto una cosa è ordinata a un'altra, e ciò fuori della nostra considerazione; quindi si dànno relazioni reali.
Ma più avanti è da notare che queste stesse possono essere accidentali o predicamentali, come le avventizie che si aggiungono alla cosa già costituita nel suo essere; ovvero essenziali o trascendentali, come quelle che per sé o in forza della loro essenza dicono riferenza a un'altra cosa (ad aliud). Perciò la relazione (esse ad) non ha ragione di ente reale, se non perché ha fondamento nella sostanza (che dice un esse in). E questo fondarsi nella sostanza si può avverare in due modi diversissimi: per inerenza o per identità. Di qui le due, pur diversissime, ragioni di relazione reale: per inerenza l'una (nelle Cose create), per identità l'altra, e personale (in Dio). La quale ultima però non ci è nota per via della ragione naturale, ma della rivelazione soprannaturale, sebbene la ragione stessa c'insegni non potersi dare nella Divinità relazioni reali accidentali, che dicono imperfezione. Né altre relazioni si possono ammettere in Dio, come spiega S. Tommaso, se non secondo le azioni e passioni a modo nostro d'intendere, giusta le quali si concepisce una reale processione, non fuori, ma dentro (non extra, sed intra). "E queste processioni - prosegue l'Aquinate - sono due sole: una secondo l'azione dell'intelletto, ed è la processione del Verbo; l'altra secondo l'azione della volontà, ed è la processione dell'Amore. Secondo poi ciascuna processione si hanno due relazioni opposte; una di chi procede dal Principio, l'altra dello stesso Principio. La processione del Verbo si dice generazione, secondo la ragione propria che compete alle cose viventi. La relazione poi del principio di generazione, nei viventi perfetti, si dice paternità; la relazione del procedente (o essere generato) dal principio stesso si dice filiazione. La processione invece dell'Amore non ha nome proprio, e perciò neppure le relazioni che secondo essa si hanno. Ma la relazione del principio di questa processione si chiama spirazione, comune al Padre e al Figlio; la relazione del procedente o d'essere spirato, processione, sebbene questi due termini spettino alle stesse processioni e origini, non alle relazioni".
Di più, dalla ragione già accennata che in Dio non si dà nulla di accidentale, ma tutto ciò che è in Dio è essenza divina, consegue che per quella parte onde la relazione nelle cose create ha l'essere accidentale nel soggetto, la relazione realmente esistente in Dio ha l'essere dall'essenza divina, come cosa identica esistente in lei, è dunque sussistente, come sussiste la stessa divina essenza (Summa theol., p. 1, q. 28, a. 2; q. 29, a. 4).
A quel modo perciò che la Deità è Dio - non distinguendosi in Dio l'astratto dal concreto - così la Paternità divina è Dio Padre che è divina Persona, giacché la Persona divina significa la Relazione come sussistente; la Filiazione è la Persona del Figlio; la Processione è la Persona dello Spirito Santo procedente. E queste tre Relazioni sussistenti, opposte (relativamente) come proprietà personali, ma identificate (nell'Assoluto) con una stessa sostanza o natura - le tre Persone divine, cioè - "sono un solo Iddio, fra loro distinte solo per le relazioni: il Padre dal Figlio per la relazione di paternità e l'innascibilità; il Figlio dal Padre per la relazione della filiazione; il Padre e il Figlio dallo Spirito Santo per la spirazione, a così chiamarla; lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio per la processione dell'Amore, per cui dall'uno e dall'altro procede" (Contra Gent., l. IV, a. 26).
Questa analisi metafisica e spiegazione teologica fu poi accolta e continuata, anche dopo l'età scolastica, da tutte le susseguenti scuole cattoliche, siccome la più fondata nella tradizione scritturale e patristica e confermata dalla definizione del già menzionato Concilio Lateranense IV.
Ma la spiegazione teologica, se intende rimuovere l'apparente contraddizione e le obiezioni che da essa sorgono, non presume scandagliare il fondo del mistero, né attenuare la fecondità religiosa della sua rivelazione e della fede in essa.
La teologia cattolica infine, come la Chiesa stessa, si fa eco del Divino Rivelatore, il quale vuole iniziate le creature ragionevoli al mistero arcano, ma insieme attratte ad assimilarne i beni ineffabili nella società intima di questa Triade augusta che pone una sua misteriosa dimora nelle anime fedeli (Giovanni, XIV, 23); e le conforta altresì a imitarne l'unità d' identità nella natura con l'unione della carità nella grazia (Giov., XVII, 22) come un ideale inarrivabile a cui tendere, non meno di quanto sia la perfezione stessa del Padre celeste, proposta dallo stesso Cristo all'imitazione dei suoi discepoli (Matt., V, c. 48). Così la Trinità divina è insieme oggetto della fede del cristiano, e modello della sua vita, come sarà termine della sua visione o cognizione soprannaturale, e centro della sua felicità eterna.
Bibl.: Ai molti scritti e autori, sopra menzionati, si debbono aggiungere le molte Somme teologiche e i commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo, o alla prima parte della Summa theologica di S. Tommaso fra i teologi antichi, e i molti trattati De Deo uno et trino, o De Trinitate, fra i moderni: alcuni di questi più scolastici, come quelli di L. Billot, De Deo uno et trino, Roma 1893, e di Fr. Franzelin, De Deo trino, ivi 1874, altri più positivi, come quelli di D. Petau (Petavius), De Trinitate, Venezia 1721, e di L. Thomassin (Thomassinus), Dogmata theologica. De Trin., Parigi 1865. In particolare, cfr. J. Lebreton, Les origines du dogme de la Trinité, ivi 1919; Histoire du dogme de la Trinité, II, Le deuxième siècle, ivi 1928; e lo studio riassuntivo, Trinité, in Dictionnaire apologétique de la foi catholique, IV, ivi 1922; J. Ginoulhac, Histoire du dogme catholique, ivi 1866; T. De Regnon, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, ivi 1892-93.
Iconografia.
Già Paolino da Nola, epistola XXXII, descrive nella basilica di San Felice una Trinità espressa da una mano (l'Eterno), un agnello (Cristo) e una colomba (Spirito Santo). Nel musaico del battistero d'Albenga (sec. VI) è rappresentata con tre cerchi concentrici crocesignati. Nel sec. X appare la rappresentazione di tre figure uguali e sedute (manoscritto di S. Dunstano, arcivescovo di Canterbury, morto nel 908). Verso il 1200 ad evitare una figurazione triteistica, la Trinità si trova in forma di figura umana con un solo corpo e tre teste. Questo tipo d'origine francese, in Italia è modificato: presenta una sola testa dove però nelle gote si profilano altri due nasi, bocche e menti, immagini in genere abrase dopo il Concilio di Trento che le proibì (Perugia: affresco del secolo XV nella facciata antica della chiesa di S. Pietro; Firenze: quadro di Mariotto di Nardo (1416) nell'altar maggiore in S. Trinita; affresco di A. del Sarto nel Cenacolo di S. Salvi). Suger, abate di Saint-Denis, nel sec. XII fece eseguire nella sua chiesa una vetrata con l'Eterno che sostiene Cristo in croce. Questo tipo ebbe gran voga in Italia (Città di Castello, Stendardino di Raffaello). Variante ne è la Pietà, con l'Eterno e il Cristo morto nel suo grembo. La Trinità è rappresentata in varî episodî della leggenda mariana (Annunciazione, Maria nel roseto, Incoronazione).
Bibl.: A. Didron, Iconographie chrétienne. Histoire de Dieu, Parigi 1843; Van Robays, Les Symboles de la Trinité, Bruxelles 1876; Zöckler, Trinitätssymbole: Beweis des Glaubens, 1881; G. Portig, Zur Geschichte des Gottesideals in der bildenden Kunst, Amburgo 1887; Carnescu, Iconografia del Padre, del Figlio e dello spirito Santo nell'arte cristiana (in romeno), Bucarest 1903; L. Heilmaier, Die Gottheit in der christlichen Kunst, Monaco 1922; K. Künstle, Ikonographie der christlichen Kunst, Friburgo 1928.